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La Cina può essere il nostro modello?
di Salvatore Bravo
L’occidente, termine con cui si indica un’area geografica che si estende dagli Stati Uniti a Israele, sta mostrando in modo inequivocabile la “verità” del suo sistema. Si tratta di un’area geografica, in cui le differenze sociali e culturali sono quasi scomparse, al loro posto vige l’americanismo. Quest’ultimo si caratterizza per l’economicismo fanatico che tutto pone in vendita pur di incassare plusvalore. L’individualismo è il modello che impera e divora la storia e l’essere con la sua gerarchia valoriale. Il multi-nullismo è l’essenza dell’americanismo.
Il genocidio dei palestinesi si consuma in mondovisione e, e mentre tutto questo accade la chiacchiera domina e impera. Israele non è oggetto di sanzioni reali, anzi alla potenza che difende gli interessi occidentali in Medio Oriente si chiede “moderazione” con le tregue e la si invita a far passare gli aiuti umanitari. Estetica funebre che vorrebbe mascherare la sostanziale complicità dell’occidente. In questo clima di marcescente mostruosità divenuta banale e ordinaria porsi il problema dell’alternativa a un sistema che sembra invincibile ed eterno, ma in realtà è assediato da un mondo che muta velocemente, è fondamentale per riportare la speranza nel deserto della disperazione. Ci si avvia verso una rivoluzione anche in occidente, poiché le tecnologie e le risorse minerarie sono ormai in pieno possesso dei popoli non occidentali. I secoli del parassitismo e del saccheggio sono terminati o stanno terminando. La popolazione in occidente è in forte contrazione e invecchiamento; la cultura dei soli diritti individuali sta mostrando il suo vero volto, ovvero la famiglia si dilegua e con essa il futuro, restano solo individualità consumanti che dietro di sé non lasciano nessuna traccia. Non vi è cura dell’altro (famiglia in senso proprio ed esteso), per cui l’occidentale medio termina i suoi giorni depauperando ciò che lo umanizza. In questo contesto cercare e fondare l’alternativa è inevitabile.
I colonizzati sono coloro che difendono il modello americano. Sono gli atei devoti che per rafforzare il sistema si impegnano a sostenere riforme puramente estetiche che possano legittimarlo fortemente.
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Cosa ci dice l’incontro Putin Trump
di Nico Maccentelli
Come comunista, se devo analizzare gli esiti dell’incontro in Alaska tra Trump e Putin, ovviamente parto da due dati di fatto.
Un dato è sovrastrutturale: entrambi sono rappresentanti di oligarchie capitalistiche dentro un quadro di democrazia parlamentare borghese.
Un altro è politico, poiché tra potenze capitalistiche c’è differenza. Mentre Trump esprime gli interessi di un imperialismo unipolare in declino e per questo più aggressivo nelle sua frazioni di potere (oggi concentrate come deep state nella roccaforte europea, e ciò pone contraddizioni interne col MAGA non da poco…), Putin, ossia la Federazione Russa è di fatto il braccio militare delle potenze emergenti che si sono coagulate attorno ai BRICS e che hanno attratto altre potenze regionali che sono ancora oggi alleate dell’atlantismo a dominanza USA.
In questo incontro aleggia la presenza della Cina, mentre è out la cordata di volonterosi UE e GB in testa, il che dimostra una frattura non da poco nel fronte atlantista stesso e dall’altra una coesione attorno all’asse Russia-Cina.
Non sappiamo cosa si siano dette le due delegazioni in Alaska e certamente la questione ucraina è ancora lontana dal risolversi. Tuttavia si può pensare a due aspetti: uno tattico e uno strategico.
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L'”Europa” deve ora decidere come perdere
di Dante Barontini
Zelenskij si prepara al viaggio per Washington dove dovrà scegliere tra due sconfitte: aderire al canovaccio individuato in Alaska tra Trump e Putin (fare un accordo accettando molte, se non tutte, delle condizioni poste da Mosca), oppure rifiutare la proposta e restare in guerra con il solo appoggio dell’Unione Europea, manifestamente non in grado di “compensare” l’apporto statunitense (copertura satellitare, comunicazioni, droni, missili a medio raggio, ecc).
Scavando un po’ tra le indiscrezioni lasciate trapelare a valle del vertice, si può dire con una certa sicurezza che il principale risultato sia stata la convergenza tra due superpotenze nucleari – ma ce ne sono oggi anche altre… – nel definire un quadro di relazioni non apertamente conflittuale.
Detto in parole semplici, gli Usa di Trump vogliono svincolarsi dal conflitto in Ucraina per una lunga serie di ragioni.
Si sono impegnati in una guerra dei dazi con tutto il mondo, senza distinguere troppo tra avversari storici e “alleati-vassalli”, allo scopo esplicito di scaricare il costo del proprio debito (sia pubblico che commerciale) sugli altri.
Devono provare a favorire la re-industrializzazione del proprio paese, desertificato da 30 e più anni di delocalizzazioni produttive che hanno creato nuovi e potenti concorrenti. Ma è un obiettivo che appare praticamente impossibile, nonostante gli investimenti imposti ai vassalli nippo-europei, e proprio mentre le preoccupazioni per l’occupazione sono al livello della crisi del 1929, accompagnate da quelle per l’inflazione che dovrebbe scaturire dal peso dei dazi sulle importazioni.
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L’asse Putin-Trump e la svolta nei negoziati di pace che molti fingono di non vedere
di Gianandrea Gaiani
I caccia F-35 Lightning II dell’USAF che scortano l’Ilyushin Il-96-300PU presidenziale sul quale viaggia il presidente russo Vladimir Putin di rientro in patria dopo il vertice con Donald Trump in Alaska, rappresentano pienamente, con la sua simbologia, il successo del summit tra i due presidenti.
La degna conclusione di un evento caratterizzato, come sottolineano i media russi, da una “accoglienza storica” riservata al presidente russo dal tappeto rosso al sorvolo d’onore di un “flight” militare composto da un bombardiere B-2 Spirit e alcuni F-35 fino al trasferimento dei due presidenti a bordo della limousine presidenziale americana, “The Beast”.
Particolari che suggellano e ostentano il rilancio dell’amicizia, non solo delle relazioni, russo-americane. Un successo solo per Russia e Stati Uniti però, come avevamo previsto ieri nell’editoriale in cui a quanto pare abbiamo ipotizzato correttamente i possibili sviluppi dell’incontro.
Cooperazione a tutto campo
Pochi i dettagli emersi finora ma nelle dichiarazioni rese alla stampa (otto minuti e mezzo ha parlato Putin, meno di 4 minuti Trump) l’aspetto più rilevante è sembrato quello del rilancio delle relazioni bilaterali sul piano strategico (Artico e nucleare), economico (sanzioni e dazi) e politico.
Il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov ha detto ieri di aspettarsi che gli USA revochino alcune sanzioni alla Russia. “Ne toglieranno qualcuna, questo è certo“, ha detto Lavrov. Ne sapremo presto di più circa questo rilancio che aveva preso il via già negli incontri in Arabia Saudita tra Marco Rubio e Sergei Lavrov e che si era concretizzato in luglio nel rilancio della cooperazione spaziale.
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L’incontro di Ferragosto disegna un mondo nuovo?
di Paolo Arigotti
Negli ultimi anni ci hanno riempito la testa (o provato a farlo), con la parola, scritto e ogni altro mezzo di diffusione, con una serie di slogan all’insegna di una “Russia isolata”, di un “Putin malato”, di una “sconfitta strategica di Mosca”, e vi risparmiamo, per carità di patria, quelli riferiti alle sanzioni. Ora come allora, per lo meno nel cosiddetto Occidente libero, chiunque si azzardasseanche solo a esprimere dubbi o riserve riguardo a questa narrazione si trovavaimmediatamente esposto al pubblico ludibrio, vedendosi attribuite etichette, inventate di sana pianta, di “filo russo” o “filo putiniano”.
Il vertice di Ferragosto fra il presidente statunitense Donald Trump e quello russo Vladimir Putin, fortemente voluto e promosso dal primo, potrebbe spazzare via, in tempi assai rapidi, questo clima da caccia alle streghe, che ha spadroneggiato nel mondo dei conformisti i quali per convinzione o per interesse, hanno sposato una versione quantomeno parziale delle origini e fattori scatenanti del conflitto in Ucraina, cancellando proditoriamente tutto quel che aveva preceduto la data del 24 febbraio 2022.
L’incontro ha avuto come cornice la base militare di Elmendorf-Richardson, organizzato in tempi molto rapidi, ma preceduto da diversi contatti preliminari, a cominciare dalla prima telefonata tra i due presidenti del novembre scorso: il suo significato, per ora, risiede forse più negli aspetti formali, che sostanziali.
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Anchorage: accordi di Pace in arrivo sulla testa degli europei
di Alex Marsaglia
Da Anchorage ripartono le relazioni bilaterali tra Russia e Stati Uniti dopo 4 lunghi anni di interruzione forzata. La presidenza Biden si era sempre rifiutata di incontrare ufficialmente Vladimir Putin dopo l'inizio dell’Operazione militare speciale, in quanto nell’attribuzione unilaterale dell'etichetta di legittimo presidente di qualsiasi altro paese estero, veniva considerato come un dittatore non riconosciuto dal popolo russo e invasore di uno Stato straniero, l’Ucraina, con un Presidente in quel caso considerato perfettamente legittimo dagli Stati Uniti.
Le relazioni ripartono dunque con un Trump che tenterà, come in passato, di sganciarsi dal caos globale creato dalla strategia del Partito Democratico statunitense portata avanti prima da Obama e poi dal suo ex vice.
Non bisogna però nutrire particolari illusioni, l’impresa è molto ardua per le resistenze che l’Occidente continua a esercitare verso la Russia da ben prima del 2022. È dai referendum per l'indipendenza della Crimea del 2014 che la Russia è stata cacciata dal G7 e in Occidente è stato solo Trump nel 2018 a cercare di farla reintegrare nel gruppo, senza alcun successo. Parlare di Russia nei principali summit internazionali dell'Occidente equivale a evocare Belzebù in persona ed è evidente dalle varie ondate di russofobia come la razionalità sia stata messa al bando in merito.
Il dato di fatto che per ora sembra emergere dal vertice in Alaska è la volontà reciproca di Stati Uniti e Russia di considerarsi buoni vicini di casa, proprio prendendo in considerazione la loro prossimità territoriale sullo stretto di Bering che li separa per soli 83km di oceano.
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Anchorage: avviato il disgelo Usa-Russia
di Piccole Note
Ad Anchorage non si è tenuto solo un incontro tra Trump e Putin, che certo è stato il momento più simbolico, ma tra la Russia e l’America. Infatti, insieme a Putin sono sbarcati in Alaska il ministro degli Esteri Sergej Lavrov, il Ceo del fondo sovrano russo Kirill Dmitriev, il Consigliere di Putin Jurij Ušakov, il ministro della Difesa Andrei Belousov e il ministro delle finanze Anton Siluanov.
Ad accoglierli, oltre a Trump, il Segretario di Stato Marco Rubio, l’inviato di Trump Steve Witkoff, il Segretario del Commercio Howard Lutnick, il Segretario del Tesoro Scott Bessent, il Segretario della Difesa Pete Hegseth, il direttore della CIA John Ratcliffe.
Se si tiene presente questo, si comprende bene che il summit aveva un respiro ben più ampio del conflitto ucraino, tema comunque necessitato, ed era diretto più che a chiudere nell’immediato quello, cosa impossibile a meno di un miracolo, a ripristinare le relazioni tra le due potenze, collassate definitivamente dal 2022.
Abbiamo usato l’avverbio definitivamente perché i rapporti tra Mosca e Washington non si sono rotti all’inizio della guerra ucraina, ma da prima dell’invasione russa. Incrinati dal golpe di Maidan, che ha innescato la prima e seconda guerra ucraina, sono affondati a seguito di due campagne mediatico-politiche travolgenti: il russiagate e l’ucrainagate.
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L’Alaska gela i guerrafondai
di Il Simplicissimus
Come si poteva immaginare l’incontro in Alaska fra Trump e Putin non ha sortito effetti miracolosi, è stato solo il primo dei vertici in cui verrà discusso l’insieme delle relazioni fra Russia e America e di conseguenza tra i Brics e l’Occidente. Questo risultato era ampiamente prevedibile ma è stato comunque un disastro per il partito della guerra che si attendeva o un consenso della Russia a un cessate il fuoco incondizionato, tale da dare un po’ di respiro e rifornimento all’esercito ucraino ormai esausto, oppure un inasprimento delle relazioni che portasse di nuovo fiumi di armi verso il regime di Kiev e l’ometto che recita la parte di gestore della strage in conto terzi. Per i signori e per gli straccioni della guerra, il vertice nelle remote vicinanze dell’Artico, ha sortito l’effetto peggiore possibile, ovvero quello di mettere tra parentesi il conflitto ucraino per ristabilire relazioni con la Russia che Obama, il nobel per la pace, aveva a suo tempo chiuso. Per giunta il dipartimento di Stato ha annunciato la prossima uscita di un rapporto sulle violazioni dei diritti umani da parte di Zelensky. Magari qualcuno a Londra, Berlino o Parigi comincia a tremare riguardo alle varie stragi organizzate ad arte per dare la colpa ai russi.
È ovviamente impossibile in questo momento sapere cosa nel complesso si siano detti Trump e Putin, quali siano stati gli argomenti affrontati, ma quando il leader russo è comparso serio e rilassato a fare le sue dichiarazioni senza citare il cessate il fuoco e quando nemmeno The Donald ne ha parlato, il mondo di cartapesta dei media mainstream accorso come un fiume di salmoni alle acque natie, si è accartocciato su se stesso come una foglia morta.
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Il Summit Putin-Trump in Alaska certifica le gerarchie mondiali
di Giuseppe Masala
Probabilmente il vertice russo-americano al quale abbiamo assistito ieri ad Anchorage in Alaska è uno dei più spettacolari e significativi dell'ultimo mezzo secolo.
Certamente il più importante dal 2000 in avanti.
Un summit quello tra Putin e Trump che segnerà la storia dei prossimi anni e questo lo si intuisce anche dall'enorme portato simbolico che è stato racchiuso nel cerimoniale. I simboli sono sostanza, soprattutto quando si parla di vertici internazionali di questa portata.
Oltre ai simboli, naturalmente, ad Anchorage si sono verificate una serie di eventi e situazioni che chiariscono benissimo l'attuale stato dei rapporti internazionali, non solo tra i leader di Russia e USA, ma anche tra gli “stati profondi” dei due paesi e, più in generale, sulla base di quanto accaduto, possono essere visti in controluce anche i reali rapporti tra i due grandi blocchi esistenti in questa fase storica: quello “occidentale” e quello del cosiddetto “sud globale”. Al lettore una importante avvertenza: non tutto ciò che è appare e non tutto ciò che appare è.
*Cerimoniale e aspetto simbolico del Summit*
Raramente nella storia, come è avvenuto in questo vertice l'aspetto cerimoniale e simbolico ha assunto una valenza fondamentale per chiarire lo stato dell'arte delle relazioni internazionali, non solo tra le due superpotenze, ma più in generale tra i due blocchi fondamentali che stanno emergendo in questa fase storica, quello dei BRICS e quello occidentale.
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Vertice in Alaska: Mosca e Washington ridisegnano i confini senza Bruxelles e Londra
di Mohamed Lamine Kaba - journal-neo.su
Sotto l’aurora boreale dell’Alaska, Russia e Stati Uniti hanno delineato i contorni di un mondo riorganizzato, senza l’Europa al tavolo delle trattative, posizionando la Russia come un attore importante nella sicurezza europea
Il 15 agosto 2025, Donald Trump e Vladimir Putin si sono incontrati presso la base aerea di Elmendorf-Richardson in Alaska per uno storico vertice sulla guerra in Ucraina. Questo incontro, il primo di persona tra i due leader dal 2019, si è svolto in un contesto diplomatico meticolosamente preparato, dimostrando la volontà della Russia di partecipare pienamente a un dialogo strategico di alto livello, con compostezza e responsabilità, in un contesto geopolitico complesso e polarizzato. Le richieste russe hanno strutturato l’agenda: il riconoscimento delle realtà territoriali in Ucraina, la neutralità di Kiev nei confronti della NATO, la riduzione degli schieramenti militari occidentali ai confini russi e garanzie per le popolazioni russofone. A ciò si sono aggiunte chiare richieste economiche, come la reintegrazione nel sistema SWIFT e la revoca delle sanzioni. Putin, definendo i colloqui “costruttivi”, ha sottolineato l’urgenza di risolvere una crisi che ha descritto come un “profondo dolore” per la Russia, avvertendo al contempo che la pace dipenderà dalla flessibilità di Kiev e dei suoi sostenitori.
I punti chiave della conferenza stampa al vertice russo-americano in Alaska
Il presidente russo ha elogiato il clima “costruttivo e rispettoso” dei negoziati, sottolineando la qualità degli scambi diretti con Donald Trump.
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Alaska, i due sogni e l’incubo Nato
di Barbara Spinelli
“Dormono nello stesso letto ma hanno sogni diversi”: l’antico proverbio cinese sembra adattarsi perfettamente al vertice fra Putin e Trump, oggi in Alaska.
Si adatta anche alle consultazioni preparatorie che il Presidente ha avuto mercoledì in video-conferenza con Zelensky e i Volonterosi europei (Francia, Germania, Inghilterra, Italia, Polonia, Finlandia, Commissione Ue). Trump sogna di essere beatificato come costruttore di pace. Gli europei e Zelensky sognano una tregua seguita da ritirata russa, e soldati occidentali in Ucraina che mantengano la pace. Putin sogna la fine dell’aggressività Nato ai propri confini. Dietro questo guazzabuglio di sogni la dura realtà dei fatti, indigesta per gli Occidentali: la Nato ha perduto questa guerra europea, e ora tocca gestire la disfatta fingendo che non sia tale.
Fino all’ultimo i governi europei hanno provato a sabotare l’incontro, anche se ieri si sono detti molto soddisfatti e rassicurati da Trump. Ma le idee che si fanno della fine della guerra sono incoerenti e non coincidono con le realtà militari. Nel comunicato del 9 agosto, la Coalizione dei Volonterosi afferma che il negoziato dovrà svolgersi “a partire dalla linea di contatto” fra i due eserciti. Dunque dovrà tener conto dell’avanzata russa nel Sud-Est ucraino, e del controllo di Mosca sulle quattro province annesse dalla Federazione russa.
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Dall’Alaska a piccoli passi
di Redazione Contropiano
Difficile dare un quadro realistico del vertice in Alaska quando i protagonisti restano blindati sul merito della discussione e chi dovrebbe resocontare – i media occidentali in genere, quelli europei in particolare – è impegnato in modo visibilissimo nell’avvolgere “l’evento” in impasto di allusioni, pettegolezzi, mistificazioni.
Se dovessimo stare alle cronache in stile “pensiero unico” – non ci sono differenze tra tv e media di estrema destra e tutti quelli che si dicono liberal o “democratici” – dovremmo parlare di un fallimento o quasi. Ma questa prognosi ha senso solo se si accettava, prima dell’incontro, uno schema bipolare secondo cui o si arrivava a un accordo completo e dettagliato subito, oppure se ne usciva con una corsa alla guerra più generale.
La linea guerrafondaia seguita dall’”Europa unita” ha conquistato facilmente le menti servili degli operatori della disinformazione mainstream, al punto da non lasciare più alcuno spazio neanche all’esperienza storica più disincantata.
E la storia dovrebbe insegnare che ogni decisione di pace – o di guerra – è arrivata al termine di un percorso né breve né semplice, in cui si cerca di stabilire un nuovo equilibrio accettabile insistendo su molti dettagli ma a partire da un quadro condiviso. Ci si possono mettere anni, se va bene diversi mesi, ma mai giorni o addirittura poche ore.
Come dovrebbe essere noto, se non altro perché i vertici russi lo ripetono da anni senza cambiare una virgola, “il quadro” per una pace duratura con l’area euro-atlantica deve fondarsi sulla cessazione dell’espansione a est della Nato (l’unica espansione reale che c’è stata negli ultimi 35 anni), sulla smilitarizzazione e “denazificazione” dell’Ucraina, la riscrittura di una serie di trattati che sono scaduti, stanno per scadere o sono stati disdettati dagli Stati Uniti.
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Gaza, ultimi 6 giornalisti ammazzati, 150.000 morti almeno…
Come la mettiamo tra Israele, Netanyahu, ebrei, sionisti, antisemitismo? E Hamas?
di Fulvio Grimaldi
https://www.youtube.com/watch?v=LwnygIhyC8I
https://youtu.be/LwnygIhyC8I
Sul Fatto Quotidiano, di cui mi sono occupato poco fa, ci sono due corrispondenti sulla questione Israele-Palestina, una da Tel Aviv, Manuela Dviri, e una, Aya Ashour, che era a Gaza e oggi è in Italia, ospite dell’Università di Siena.
Tutte e due brave e tuttavia, per me, discutibili in quanto emblema della società israelo-ebraica e di come questa vive tempi di vera e propria apocalisse sotto casa. Poi c’è Anas Al-Sharif, il giornalista di Al Jazeera trucidato insieme a cinque colleghi da un missile israeliano mirato alla tenda dove si sapeva lavorare la redazione dell’emittente qatariota. Nessuno più illustrerà cosa Israele fa a Gaza. Allo Stato sionista è costato già troppo. Forse tutto.
Manuela Dviri è la classica interprete dello spirito travagliano sulla questione Israele-Palestina. Nelle sue corrispondenze, animate da forte polemica anti-Netaniahu, si illustra con grande evidenza la protesta dei famigliari dei prigionieri israeliani in mano ad Hamas e si deplora l’atteggiamento rinunciatario del regime nei loro confronti. Ultimamente, alla denuncia della sorte degli “ostaggi”, si sono aggiunte quelle delle difficili, a volte disperate, condizioni dei soldati di un IDF, caduti, mutilati piscologicamente, suicidi, negli incessanti tentativi di conquista di Gaza. Su questo tema, trattato di fretta, gli approfondimenti migliori, però, sono quelli di Haaretz e di altri quotidiani israeliani.
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Scienza & Libertà
di Gaetano Colonna
Che la fede nella scienza sia oggi diventata tanto o addirittura più popolare di quella nella religione, è un fatto abbastanza evidente. Purtroppo però la scienza sta oggi assumendo due delle peggiori tendenze che le religioni hanno spesso manifestato, quelle che in epoca moderna hanno causato la loro perdita di credibilità: imporre dogmi e diventare centri di potere.
L’ultimo episodio che conferma lo sviluppo di queste due tendenze verso una vera e propria dittatura scientifica, con tutto ciò che questo comporta in tema di libertà di opinione e di scelta, è dimostrato dalla levata di scudi contro la nomina da parte governativa di due scienziati reputati no-vax nell’ambito del Nitag (National immunization technical advisory group), il “Gruppo consultivo nazionale sulle vaccinazioni”, istituito nel 2021 allo scopo di «supportare, dietro specifica richiesta e su problematiche specifiche, il Ministero della Salute nella formulazione di raccomandazioni evidence-based1 sulle questioni relative alle vaccinazioni e alle politiche vaccinali, raccogliendo, analizzando e valutando prove scientifiche».
A chiedere la revoca dell’incarico al prof. Paolo Bellavite ed al pediatra dott. Eugenio Serravalle, sono stati alcuni organismi associativi, espressione politica della categoria medica e sanitaria: per “espressione politica” intendiamo, a scanso di equivoci, il fatto che questi organismi dichiarano di tutelare gli interessi di tali categorie, al tempo stesso definendo le regole cui i professionisti stessi devono a loro avviso attenersi.
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L’alternativa al ponte sullo Stretto esiste
di Domenico Gattuso
Il ponte sullo Stretto torna alla ribalta a seguito dell’approvazione del Progetto Definitivo da parte di un CIPESS telecomandato. E spopola sui media un ministro che è una caricatura, fiero di sé e della sua mediocre cultura politica. Sotto i riflettori di una stampa di servizio, egli si propone a suon di slogan da bar, di assicurare che ormai è fatta, che lui ha raggiunto il suo scopo, che ora tocca ai tecnici passare alla fase esecutiva.
In realtà l’omino è solo uno strumento nelle mani di potenti lobby finanziarie e del cemento che impongono ancora oggi strategie e politiche finalizzate a grandi opere di ingegneria, senza guardare troppo alle reali esigenze della collettività. Attraverso mirate campagne promozionali su gran parte dei giornali, delle Tv e dei social addomesticati, le lobby vogliono far passare l’idea che solo con tali opere sia possibile garantire progresso e sviluppo. Tali opere purtroppo fagocitano ingenti risorse finanziarie a scapito di infrastrutture e servizi diffusi che dovrebbero avere la priorità, provocano impatti negativi notevoli sui territori, offrono benefici solo per frange di privilegiati. Spesso si tratta di opere impegnative che comportano grandi rischi, senza imprimere reali forme di sviluppo nelle aree in cui sono collocate.
Ciò che impressiona è la visione miope delle classi dirigenti in questa fase storica; una visione liberista e affarista, scevra di attenzione all’equità sociale e territoriale, direi anche spendacciona e sprecona. Da tempo ormai si vanno affermando in molte regioni del mondo delle politiche di mobilità alternative improntate alla sostenibilità e al bene comune.
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Gaza, il genocidio suicidiario di Israele
di Luigi Alfieri
L’introduzione di Alfieri a "Il Male estremo". E un post scriptum sulla genealogia del genocidio dei palestinesi. Il genocidio è “democratico”. Non solo la maggioranza decide chi deve essere ucciso senza limiti, ma decide cos’è questo “chi”
Gli ebrei sono dei pervertiti, subdoli, avidi, usurai. Chi odia i “negri” ha già deciso che puzzano e violentano le donne. Così come chi odia gli “zingari” sa con certezza assoluta che gli “zingari” sono sporchi, rubano e rapiscono i bambini. Non si prende una differenza e la si perseguita, si crea una differenza per poterla perseguitare. Perché? Per proiettare fuori la paura. Per sentirsi sicuri dentro solidi e indiscutibili confini. Per sentirsi forti ed eroici trionfatori sul male. Per compiacersi di essere buoni e giusti. Per stringersi meglio insieme in una presunta “identità”. Per godersi una facile vittoria che fa sentire tanto, tanto potenti. Se di fronte a questo cerchiamo di opporci virtuosamente difendendo la libertà di religione degli ebrei, la dignità umana dei “negri” o le tradizioni culturali degli “zingari” abbiamo già sbagliato tutto. Abbiamo già dato ragione ai persecutori nel punto essenziale: ci sono ebrei, e negri, e zingari, e sono altri, diversi da noi, diversamente umani. E come si fa, a questo punto, a impedire che il “diversamente umani” significhi “non abbastanza umani”? Naturalmente questa è una semplificazione. Ci sono tante cose, troppe cose dentro la realtà del genocidio per poter pensare di costruirci sopra una teoria che spieghi tutto. Non si può costruire nessun discorso che possa pretendere di decifrare sino in fondo anche una minima parte dell’infinita complessità di ciò che è umano. Anche il male, nell’uomo, è infinitamente complicato (…). A partire, dice Alfieri, dal diritto di vita e di morte.
Ius vitae ac necis.
Da tempi remoti, questa è la definizione più netta e sintetica del potere supremo, di quel potere che dagli inizi dell’età moderna chiamiamo sovrano. Sovrano è la persona, o meglio l’istituzione (è un’istituzione anche quando è una persona) che può legittimamente decidere sulla vita e sulla morte di ciascuno. Dare la morte, dunque, è la più alta prerogativa sovrana. La decisione di morte va accettata con reverente e persino grato timore, come massima espressione della più alta concepibile grandezza umana. Nessuno, tranne Dio, è al di sopra di colui che ha il diritto di uccidere.
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Come è morta la democrazia occidentale
«Il vero cambiamento è un’illusione»
di Thomas Fazi
Krisis propone l’atto d’accusa di Thomas Fazi contro il disfacimento del sistema democratico in Occidente. Con una denuncia tagliente, l’analista evidenzia come censura, criminalizzazione del dissenso e manipolazione delle istituzioni siano diventati strumenti per mantenere il potere delle élite. Dalla Francia alla Romania, passando per l’Unione europea e gli Stati Uniti, secondo Fazi la democrazia sostanziale si è erosa, sostituita da un sistema che favorisce l’oligarchia. Le crisi economiche, sociali e geopolitiche hanno amplificato questa tendenza, mentre forme di repressione e manipolazione si giustificano come difesa della democrazia. Il breve periodo di democrazia sostanziale postbellica è ormai un ricordo. E il futuro si presenta cupo.
In Germania, la polizia ha recentemente perquisito le abitazioni di centinaia di cittadini accusati di aver insultato politici o di aver pubblicato online “messaggi d’odio”. In Francia, la procura ha aperto un’indagine penale contro X, la piattaforma di Elon Musk, accusandola di interferenze straniere attraverso la manipolazione degli algoritmi e la diffusione di contenuti “d’odio”. Ciò è avvenuto dopo una perquisizione della polizia nella sede del Rassemblement National, il principale partito d’opposizione francese, in seguito all’apertura di una nuova indagine sul finanziamento della campagna elettorale, solo pochi mesi dopo che Marine Le Pen, ex leader del partito, è stata condannata a cinque anni di ineleggibilità per uso improprio dei fondi UE.
Nel Regno Unito, oltre 100 persone sono state arrestate semplicemente per aver portato cartelli con la scritta «Mi oppongo al genocidio, sostengo Palestine Action», organizzazione recentemente messa al bando per terrorismo. Nel frattempo, negli Stati Uniti, l’amministrazione Trump sta attuando una vasta stretta sulla libertà di espressione, soprattutto relativamente alle critiche nei confronti di Israele.
Questi casi non sono eccezioni, ma sintomi di una deriva autoritaria più profonda e sistemica. In tutto l’Occidente, la censura è diventata prassi, il dissenso viene sempre più criminalizzato, la propaganda è sempre sfacciata e i sistemi giudiziari sono usati come armi per mettere a tacere l’opposizione. Negli ultimi mesi, questa tendenza è degenerata in attacchi diretti alle istituzioni democratiche di base: in Romania, per esempio, un’intera elezione è stata annullata perché aveva prodotto «l’esito sbagliato» e altri Paesi stanno valutando mosse analoghe.
Ufficialmente, tutto ciò viene fatto «per difendere la democrazia». In realtà, lo scopo è evidente: consentire alle classi dirigenti di mantenere il potere di fronte a un crollo storico della loro legittimità.
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Il neo imperialismo dell’Unione creditrice
di Emiliano Brancaccio
Dall’inizio della guerra, i paesi europei hanno speso più degli Stati uniti in appalti per la difesa militare dell’Ucraina. Fornito dall’Istituto Kiel, il dato stravolge la narrazione di Trump e dei suoi accoliti
Dall’inizio della guerra, i paesi europei hanno speso più degli Stati uniti in appalti per la difesa militare dell’Ucraina. Fornito dall’Istituto Kiel, il dato stravolge la narrazione di Trump e dei suoi accoliti. Questi avevano pubblicamente insultato l’Ue con vari epiteti.
«Vigliacca, scroccona, parassita, profittatrice della generosità militare americana». Ora scopriamo che le cose stanno diversamente. L’Europa è diventata leader mondiale nel finanziamento della guerra in Ucraina.
Gli stranamore nostrani accolgono la notizia con maschio entusiasmo. L’Europa comincia a mostrare quelli che il Corsera ha definito «gli attributi» della sovranità. Per adesso sotto forma di denaro, ma poi bisognerà aggiungere difesa integrata, ombrello atomico comune, tecnologia bellica di avanguardia, e soprattutto «una proiezione militare credibile». In breve: la scatola degli attrezzi di un inedito imperialismo europeo, intenzionato a farsi rispettare nel mondo.
A ben vedere, il nuovo dato risolve anche una vecchia contraddizione dell’Europa unita: la pretesa di dominare i rapporti commerciali evitando però di puntare direttamente le armi in faccia alla controparte.
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La vera posta in gioco del Vertice in Alaska
di Clara Statello
Il Summit cruciale in Alaska: partita a due tra Russia e USA. Ucraina e UE restano a guardare
Le trattative per la pace in Ucraina si rivelano essere una partita due tra gli Stati Uniti e la Federazione Russa, che venerdì 15 agosto in Alaska decideranno le sorti dei territori sotto controllo russo, oltre a questioni di cooperazione strategica e divisione delle zone di influenza. Unione Europea e Ucraina resteranno a guardare.
Mentre in Europa cresce la preoccupazione che la Casa Bianca e il Cremlino possano accordarsi per porre fine alla guerra prolungata, bypassando Kiev, Zelensky rifiuta il piano di Trump del riconoscimento del Donbass russo.
Accetta un cessate il fuoco con il congelamento dell'attuale linea del fronte, nell’ambito del piano europeo, che prevede il cessate il fuoco prima di ogni altra mossa, il ritiro delle truppe secondo il principio “territorio per territorio” e garanzie di sicurezza, inclusa l’adesione alla NATO.
Dunque Kiev dice no a un riconoscimento de iure ma apre a un riconoscimento de facto.
È pur sempre un progresso nei negoziati, un «ammorbidimento della posizione» ucraina scrive il Telegraph. Zelensky incassa il sostegno dei partner europei e della NATO, attraverso cui l’Ucraina acquisirà potere negoziale.
Intanto, tra la stampa occidentale, inizia ad affermarsi l’idea che la posizione di Kiev di rifiutare concessioni territoriali sia irrealistica. Secondo il commentatore del The Financial Times, Gideon Rachman, il riconoscimento de facto dei territori sotto controllo russo potrebbe necessario se garantirà che “l’Ucraina riuscirà a mantenere la propria indipendenza e democrazia”.
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L’incontro tra Putin e Trump: il trionfo dell'illusione sulla realtà
di Paul Craig Roberts - paulcraigroberts.org
Un paio di giorni fa Trump ha affermato che non valeva la pena incontrare Putin, ma improvvisamente ha ordinato ai suoi collaboratori di organizzare entro una settimana un incontro con Putin. La spiegazione che ci è stata fornita è che Putin ha affermato che il negoziatore di Trump, Witcoff, aveva fatto una proposta accettabile. Il negoziatore di Putin, Kirill Dmitriev, ha dichiarato “un incontro storico in cui prevarrà il dialogo”. Un sognatore ha proclamato che Putin e Trump “potrebbero riconfigurare l’ordine mondiale”.
Queste premature dichiarazioni di accordo e successo hanno dato origine a ulteriori teorie romantiche. Un commentatore russo ha dichiarato che l’Alaska è stata scelta per lo storico incontro perché “incarna così chiaramente lo spirito di vicinato e di cooperazione reciprocamente vantaggiosa, perduto durante la Guerra Fredda”. Gli atlantisti-integrazionisti russi, i cui cuori e interessi sono rivolti all’Occidente, sperano che le loro dichiarazioni di felicità, anche se implicano la resa russa, prevalgano sul nazionalismo russo.
Ad esempio, il negoziatore di Putin è Kirill Dmitriev, nominalmente russo, ma in realtà laureato alla Stanford University e alla Harvard Business School – due porte d’ingresso nell’establishment americano – che ha iniziato la sua carriera presso Goldman Sachs, un membro dell’establishment.
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Ebrei, sionismo, Israele, antisemitismo… Caro Travaglio
di Fulvio Grimaldi
Caro Direttore,
A scopo di chiarezza e di onestà d’intenti premetto: meno male che esistono il Fatto Quotidiano, il suo direttore, e sue punte di diamante della categoria, quali Luttazzi, Ranieri, Robecchi, Basile, Palombi, Barbacetto e quasi tutti gli altri.
Ti rinnovo la stima e la riconoscenza per quello che tu e il tuo giornale fate per contrastare e battere il pianificato degrado dell’informazione nella nostra parte di mondo. Questo mio apprezzamento è condiviso dalla maggioranza dei miei interlocutori. Per evitare il rischio, umanamente comprensibile, dell’accettazione acritica di una tua clamorosa, ma non inedita, deviazione da quella che è una riconosciuta correttezza storico-professionale, tanto sorprendente quanto gravida di deformazioni cognitive, mi premetto di diffondere questa lettera. Serve per rimediare, con una divergenza dettata dalla realtà storica e attuale, alla sua eventuale mancata pubblicazione.
Nel tuo editoriale e in una tua risposta al lettore Giovanni Marini del 9 agosto, vanno rilevati errori e falsità di una portata inconciliabile con la precisione e onestà con la quale sei solito affrontare questioni politiche e storiche. E’ sorprendente come, in un giornalista di eccezionale correttezza e competenza, possa aver prevalso sulla realtà lapidaria dei fatti un approccio preconcetto, antiscientifico, determinato forse da trasporto sentimentale.
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Perché l’Occidente non guiderà più la storia del mondo
di Piero Bevilacqua
Non occorre possedere speciali virtù profetiche per predire ai paesi dell’occidente (vale a dire Europa e USA per come si sono configurati negli ultimi due secoli), un avvenire di disgregazione e di inarrestabile declino. Sarebbe sufficiente fermarsi ai dati macroeconomici e sociali più noti per farsi un’idea alquanto realistica del futuro che li attende. Gli USA sono chiusi nella trappola di un debito crescente e insostenibile, incapaci di limitare la loro dispendiosa postura di impero guerresco, privati da decenni della loro base manifatturiera, spinti a fare soldi con i soldi, costretti a governare un paese lacerato dalle disuguaglianze, in cui la classe media, base della stabilità politica americana, arretra ormai da decenni, mentre in tanti stati la condizione di povertà supera il 10% della popolazione. Un’economia di servizi che vuole vivere sul debito pubblico e sull’indebitamento privato dei cittadini, sul dominio del dollaro. Sotto questo profilo l’Europa non sta molto meglio anche a prescindere dallo scenario inquietante che si schiude per il Vecchio Continente dopo gli accordi con Trump del 27 luglio. Vent’anni di perdita di produttività delle industrie dell’Unione, ci ricorda il Rapporto sul futuro della competitività europea di Mario Draghi del 2024. Nel quale rapporto cogliamo la previsione più clamorosa del declino europeo, l’indicatore più indiscutibile del regresso delle nazioni: la perdita di popolazione. «Entro il 2040, si prevede che la forza lavoro dell’UE si ridurrà di circa 2 milioni di persone ogni anno, mentre il rapporto tra lavoratori e pensionati dovrebbe scendere da circa 3:1 a 2:1». Ricordiamo di passaggio quel che è successo nel cuore del Vecchio Continente. Con la guerra in Ucraina la rampante locomotiva d’Europa, la Germania, è andata a schiantarsi nelle secche di una classe dirigente nana, che ha ubbidito prontamente agli USA, ha accettato di buon grado il sabotaggio del gasdotto Nord Stream, rinunciando ai rapporti di scambio con la Russia su cui aveva fondato un modello di crescita di successo. Ora ha imboccato la strada, davvero ricca di potenzialità, per diventare la “più grande potenza militare dell’Europa”. Immaginiamo con entusiasmo quanta ricchezza e benessere apporterà al suo popolo e al resto d’Europa col patrimonio di carri armati, bombe e missili di cui si doterà…
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Il “cortile di casa degli Usa” guarda ai Brics per uscire dalla stretta del trumpismo
di Marco Consolo
In un mio articolo precedente avevo esaminato i risultati del vertice BRICS 2025 (Rio de Janeiro 6-7 luglio) [i]. Questa nota è invece dedicata al rapporto tra l’America Latina e i Brics.
Il commercio interno dell’America Latina beneficia di una lingua comune, di una cultura in gran parte condivisa e di legami storici. In particolare, nel continente sono intensi gli scambi commerciali tra Messico, Brasile, Cile e Argentina.
La regione è però caratterizzata da una debolezza politica intrinseca. Infatti, nonostante abbia legami culturali e storici molto più stretti di quelli condivisi dai BRICS tra loro, nella politica internazionale l’America Latina non forma un blocco unito.
Nel passato decennio “progressista”, la cosiddetta “decada ganada”, la regione aveva cercato di avere una sola voce e si era data un’architettura istituzionale in cui, per la prima volta, non c’era la presenza ingombrante degli Stati Uniti e del Canada. Attraverso le organizzazioni UNASUR, CELAC, ALBA i Paesi del continente hanno cercato una propria strada, autonoma dal gigante del nord. Da subito è iniziata una “offensiva conservatrice”, guidata dalla Casabianca, per soffocare i vagiti di una integrazione regionale autonoma e riconquistare i governi del “cortile di casa”. Un obiettivo parzialmente raggiunto, con le vittorie delle destre in Argentina, Ecuador, El Salvador, Panama, Paraguay, Perù.
Più in generale, la regione deve affrontare tre insidie dello sviluppo: una bassa capacità di crescita; un’elevata disuguaglianza con una scarsa mobilità sociale e una debole coesione sociale; una capacità istituzionale e di governo poco efficaci.
I Paesi della regione possono migliorare le proprie politiche di attrazione degli investimenti e coordinarle con le politiche di sviluppo produttivo, in modo da aumentare anche il loro impatto sulle economie destinatarie.
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Milano dall’elettronica alle aragoste
di Sergio Fontegher Bologna
Adesso che ho cominciato a dire la mia come faccio a tirarmi indietro?
L’altro giorno il “Corriere” ha intervistato mons. Delpini. Tra le tante cose sacrosante che ha detto, una mi è piaciuta particolarmente. Tanti dicono che Milano avrà la forza di risollevarsi dopo questa batosta. “Se queste persone ci sono, si facciano avanti!” dice Delpini.
Ma all’orizzonte non si vede anima viva, non si fa avanti nessuno. Qui l’aria che tira è: “ha da passà ‘a nuttata!”
I giornali poi sull’intervista di Delpini hanno chiesto il parere di Elena Buscemi, Presidente del Consiglio Comunale. Quando si occupava di città metropolitana ha dato una mano a noi di ACTA, perché potessimo avere più spazio nella tutela delle Partite Iva. La ricordo quindi con gratitudine. Oggi si trova in un’altra posizione e immagino che la poltrona che occupa non sia il massimo della comodità. Ovviamente non fa una difesa d’ufficio della Giunta, però dice una cosa che mi lascia perplesso: la bella Milano che tanti rimpiangono contrapponendola a quella di oggi, che tanti non sopportano, in realtà non è mai esistita, è il prodotto della fantasia di chi oggi critica la politica urbanistica.
Boh, sarà. Posso anche essere d’accordo: nella sequenza Mediobanca-Ligresti-Berlusconi- Catella-Sala-Tancredi c’è effettivamente una certa continuità, anzi mettiamoci dentro anche la “Milano da bere”, e abbiamo una storia che dura da quarant’anni (1985-2025). Elena ne ha 43 e capisco che non ha visto altro nella vita, quindi ha ragione a dire che “l’altra Milano” sta solo nella testa di anime belle.
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No al summit della guerra! L’11 settembre mobilitiamoci a Roma
di Coordinamento Disarmiamoli
È stato annunciato dal Sole 24 Ore il primo “Defence Summit”, appuntamento programmato dal giornale di Confindustria per l’11 settembre a Roma. La sala scelta è nelle disponibilità del Comune capitolino e della Regione Lazio, dimostrando ancora una volta come gli enti territoriali, amministrati da questo o da quello schieramento politico, si riempiono la bocca della parola “pace” per poi essere pienamente coinvolti nella promozione di iniziative che vanno in direzione opposta. Era già accaduto lo scorso 15 marzo, in occasione della piazza chiamata da Michele Serra e sostenuta con 270 mila euro di fondi pubblici tramite Zétema – società in house del Campidoglio che si dovrebbe occupare di eventi culturali – così come si verificò nuovamente ad aprile con l’iniziativa analoga promossa a Bologna dal sindaco felsineo e dalla collega fiorentina, e a maggio quando Comune di Napoli e Governo hanno ben pensato di sfruttare la cornice offerta dalle celebrazioni dell’anniversario dei natali della città partenopea per ospitare un vertice NATO.
L’evento in calendario per l’11 settembre, dal nome roboante, cade in un periodo in cui i venti di guerra soffiano sempre più forte. Lo sanno i palestinesi, il cui genocidio continua con il consenso statunitense e il silenzio complice degli apparati europei, e di fronte al quale risultano quantomeno tardive le prime contromisure indicate da alcune cancellerie continentali, mentre lo stato terrorista di Israele si prepara all’invasione di Gaza dopo aver portato il quadrante sull’orlo di una crisi generale con i recenti attacchi all’Iran.
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