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Ancora con queste favole sul Recovery Fund?
di Dante Barontini
Messe da parte le elezioni regionali, metabolizzato il referendum taglia-rappresentanza, con un gigantesco sospiro di sollievo dei complici di governo (ed anche dell’opposizione fascioleghista), il chiacchiericcio politico è tornato sui vecchi tormentoni: cosa fare col Recovery Fund e prendere una decisione definitiva sull’utilizzo del Mes.
Il copione non è cambiato: la narrazione ufficiale parla di una vagonata di miliardi che “stanno per arrivare dall’Europa” e tutti i battibecchi vertono sul che farci.
I nostri lettori abituali dovrebbero ormai sapere che le cose non stanno affatto così, ma repetita juvant, anche perché se il chiacchiericcio resta fermo su questo tema non è che si possa far finta che tutti sappiano e abbiano capito. Anche perché la materia è tecnicamente ostica (non a caso) e anche i nostri sforzi di “divulgazione” non sempre risultano di facile lettura.
Ci aiutiamo, questa volta, con un tombale editoriale di Teleborsa, a firma dell’implacabile Guido Salerno Aletta, dal titolo A Bruxelles piace il passo dell’Oca.
Parte subito col piede sull’acceleratore:
“Con il Recovery Fund si prepara un nuovo manicomio burocratico che ci farà impazzire. E’ più di una camicia di forza, un vero e proprio letto di contenzione. Il calcolo astruso dell’output gap o del NAWRU, previsti per rientrare nei parametri del Fiscal Compact, era solo un gioco da ragazzi.”
Due spiegazioni ci vogliono, con le sigle oscure. L’output gap è un criterio di valutazione della capacità di produrre ricchiezza di un Paese, adottato dall’Unione Europea come uno dei tanti “parametri divini”. Anche se si base su un’unità di misura arbitraria. L’output reale di un Paese (il suo Pil effettivamente prodotto) viene messo a confronto con quello “potenziale”, e la differenza (gap) che ne risulta viene considerata positivamente (se è bassa) o negativamente (se è alta)-
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Un commento a Nancy Fraser
di Laura Pennacchi
Sul volume “Cosa vuol dire socialismo nel XXI secolo?” (Castelvecchi, 2020)
Condivido largamente la riproposizione che Nancy Fraser fa del “socialismo” per il XXI secolo basata su una “prospettiva allargata” con cui guardare tanto al capitalismo quanto al socialismo, lavorando sulla loro intrinseca multidimensionalità e pertanto ridimensionando visioni “ristrette”, sostanzialmente economiciste e deterministe. L’allargamento della visione del capitalismo compiuta da Fraser, fino a concepirlo come “ordine sociale istituzionalizzato”, comprende la critica dell’idea di meccanismi automatici che presiederebbero al suo funzionamento da cui scaturirebbe la tendenza naturale al “crollo” (prendendo invece pienamente atto della incredibile capacità di adattamento e di metamorfosi che il capitalismo storicamente ha manifestato), la presa di distanza dalla presupposizione di una linearità tra “crisi capitalistica” e conflitto sociale emancipante (linearità smentita tante volte dai fatti, che non di rado hanno portato ad esiti regressivi e pericolosi per la democrazia), la denunzia dell’errore di attribuire il primato alla sfera economica (e dunque alla produzione e alla lotta di classe) attribuendo un valore non primario alla storia, alla cultura, alla geografia, alla politica, all’ecologia, alle istituzioni, così sottovalutando come “contraddizioni secondarie” la distruzione ambientale, il razzismo, il sessismo, l’imperialismo, la divisione tra “economico” e “politico” (che in realtà spesso copre l’assoggettamento del “politico” e del “pubblico” – a cui Fraser attribuisce una grande importanza all’“economico”).
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L’economia moderna come teologia
di Bollettino Culturale
In tanti anni gli storici del pensiero economico, ad eccezione di Lunghini, si sono limitati a sottolineare gli errori di Gramsci in ambito economico e la sua sostanziale inutilità per questa disciplina.
Tuttavia, in tempi più recenti questa tendenza si è invertita: anche grazie alla pubblicazione dei manoscritti inediti di Piero Sraffa, si è approfondito lo studio della critica gramsciana dell'economia.
In particolare, come la critica sugli aspetti filosofici, la questione dell'ideologia in Gramsci ci fornisce anche alcuni elementi per mettere in discussione le trasformazioni teoriche della scienza economica.
In termini generali, per Gramsci il capitalismo è il primo modo di produzione caratterizzato dalla netta separazione tra sfera politica ed economica. Dalla celebre rappresentazione del Tableau Économique, l'attività economica diventa fine a se stessa. Questa separazione dà origine all'economia come disciplina scientifica, data la necessità di avere una scienza del capitalismo.
Fin dall'inizio, quindi, l'economia si caratterizza per il suo tentativo di imitare le scienze naturali, adottando un metodo astratto (il metodo del "presupposto che", nelle parole di Gramsci) e la logica deduttiva.
Per Gramsci, David Ricardo è il vero padre dell'economia e, attraverso la critica di Marx all'economia politica, la sua filosofia della prassi ha una certa relazione con essa. Sorprendentemente, secondo Gramsci, l'influenza ricardiana non è dovuta tanto agli sviluppi della teoria del valore ma al suo approccio astratto, per Gramsci: "il metodo 'dato che' della premessa, che segue una certa conseguenza sembra che sia da identificare come uno dei punti di partenza (degli stimoli intellettuali) delle esperienze filosofiche della filosofia della prassi ”.
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La storia è una severa maestra
di Roberto Artoni
Un sintetico viaggio nell’ultimo secolo della politica economica italiana, iniziato brillantemente da Giolitti e Nitti e concluso con l’adesione alle politiche neoliberiste, che dopo quasi trent’anni di applicazione mostrano tutta la loro disastrosa inadeguatezza, aggravata dalle incongruenze della costruzione europea. E’ ormai ora di prenderne atto, sia nel nostro paese che nella Ue
Può essere utile rileggere la storia economica italiana in termini delle teorie che hanno guidato le scelte concretamente effettuate dalle autorità di politica economica. Se si vuole, si tratta di elaborare il noto passaggio della Teoria Generale in cui Keynes afferma che “Practical men who believe themselves to be quite exempt from any intellectual influence, are usually the slaves of some defunct economist”. In questa sede i “practical men” sono i responsabili delle scelte e dell’attuazione degli interventi nella sfera economica e sociale. Gli economisti sono gli ispiratori del ceto politico e amministrativo; non sono necessariamente defunti, ma possono essere perfettamente attivi.
Nitti e il periodo giolittiano
Conviene partire dal primo decennio del secolo scorso per l’influenza che gli indirizzi seguiti in quegli anni ebbero nei decenni successivi. Ispiratore dell’impostazione di politica economica in numerosi scritti e responsabile dell’attuazione per gli incarichi ministeriali via via ricoperti fu Francesco Saverio Nitti. Alla base della sua visione sta l’enunciazione di tre principi essenziali per il buon funzionamento di una società moderna: responsabilità sociale, giustizia sociale e arbitrato sociale, di cui vedremo poi i contenuti nella descrizione di Einaudi. Questi principi si contrapponevano drasticamente ai caratteri di una società ispirata a criteri liberisti che per Nitti si riassumevano nella responsabilità puramente individuale non integrata da meccanismi di protezione sociale, nella concorrenza sfrenata e nella lotta fra individui e classi sociali [Artoni, R., Nitti in “il contributo italiano alla storia del Pensiero, Treccani, 2012].
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Pandemia e microbiologia del potere
di Borne
Un articolo su governo e pandemia
Governo
Un evento imprevisto, imprevedibile e per di più continuato, come una pandemia, espone allo stesso tempo i limiti e la parte più essenziale dell'arte di governo: la (in)capacità di far aderire il corso degli eventi a un racconto compatibile con l'insieme degli apparati di potere; nel caso degli Stati moderni, quindi, fare in modo che gli aspetti spettacolari-economici che regolano le vite, continuino ad avere senso.
Partiamo con una verità controintuitiva: da quando il virus è tra noi, nessuna particolare facoltà decisionale unitaria ha operato dall'alto, hanno funzionato (e spesso non funzionato) centri di raccolta dati, ospedali, protezione civile e croce rossa, reti di connessione internet, giornali, aziende a cui collegarsi da remoto, sistemi di trasporti merci, attività in delivery, divulgatori mediatici e sistemi di monitoraggio. Questi dispositivi hanno una propria logica, un proprio modus operandi e una maniera codificata di rispondere alle emergenze. Allo stesso tempo la loro coerenza, la coordinazione dei vari dispositivi, sono state garantite da una narrazione tecnica, centralizzata in una o più figure di governo.
I Governi propriamente detti – cioè quegli organi incaricati di rappresentare la decisionalità di Stato – hanno dovuto considerare i vincoli strutturali diversi da stato a stato, da regione a regione, con lo scopo di evitare che la situazione imprevista spezzasse l'adesione popolare alla governamentalità.
Di fronte alle carenze intrinseche degli apparati sanitari, era necessario descrivere le lacune come errori contingenti, come eccezioni, e quindi comunicare una situazione mantenuta (o tornata) sotto controllo.
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Della dolce vita, l’incerta sorte
di Gianfranco Marelli
Raffaele Alberto Ventura, Radical choc. Ascesa e caduta dei competenti, Einaudi, Torino 2020, pp. 236, euro 14,00
Ricordate dove eravate e cosa vi apprestavate a compiere venerdì 13 marzo 2020 alle ore 18? Qual è il vostro alibi che potrebbe scagionarvi dall’aver partecipato al flash mob tutto italiano lanciato e diffuso attraverso l’hashtag “#cantachetipassa”, in cui si invitava a esporre dai balconi e dalle finestre il tricolore, nonché a esibirvi in un afflato canoro/musicale con strumenti, sirene, tamburelli e stoviglie prese a colpi per far rumore, ma anche con telefonini, tablet e casse audio accesi ad alto volume e rivolti verso la strada, ascoltando e facendo ascoltare la vostra hit parade anti-pandemia? E se anche obtorto collo vi siete sentiti costretti a partecipare alla kermesse nazional popolare, ma senza per questo intonare l’inno di Mameli, preferendo l’allegria, la nostalgia, la spensieratezza di “Azzurro”, “Abbracciame”, “Ma il cielo è sempre più blu”, perché non scegliere la canzone “Un senso” di Vasco Rossi, di certo più opportuna per rimarcare la progressiva e ineluttabile ricerca di un senso a quanto era accaduto, stava accadendo e sarebbe accaduto1?
Forse perché il Senso, la Causa, il Fondamento, l’Ordine, l’Origine in grado di comprendere e spiegare il diffondersi della pandemia da Covid-19 ci si aspettava fossero gli ‘esperti’ a comunicarlo; gli stessi esperti utilizzati come paravento dai politici per giustificare provvedimenti eccezionali tali da imbrigliare le normative procedurali di una democrazia, da intravvedervi il compiersi di una dittatura invisibile che sorregge un’apparente libertà di scelta: la democratura. Tant’è che il rimedio contro il terrore provocato dall’imprevedibilità del virus a non pochi è sembrato peggiore del male da curare, soprattutto perché chi avrebbe dovuto capirci qualcosa stentava a farlo, dimostrando di non saper utilizzare al meglio la propria competenza così da generare maggiore insicurezza, al punto da suscitare più dubbi che certezze sul come comportarsi, su cosa e a chi credere.
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Il paradigma neoclassico e le risposte del costituzionalismo democratico-sociale
di Paolo Piluso e Pasquale Noschese
Questa è la storia di idee semplici con percorsi complessi. In particolare, si vuole qui riesumare le problematiche e le contraddizioni storiche e pratiche che una certa macroarea culturale, quella neoclassica-liberale, ha gettato o tentato di gettare in un colpevole oblio tramite un lavoro prettamente teorico, concettuale. Il nostro tempo e le lezioni del passato ci richiamano ad una liberazione culturale che consista nell’individuare il problema laddove viene indicata la soluzione, la contraddittorietà laddove viene indicata la linearità, il conflitto laddove viene indicata la pacificazione.
Come accennato, obiettivo polemico del presente scritto è il pensiero neoclassico, in particolare i suoi più fondamentali, sotterranei presupposti, quei concetti generalissimi che non appartengono in senso stretto alla disciplina di cui sono fondamento, in quanto ne sono, piuttosto, la condizione di esistenza. Ernesto Screpanti e Stefano Zamagni forniscono, nel loro “Profilo di storia del pensiero economico”, una brillante esposizione dei suddetti presupposti: “Una quarta caratteristica distintiva dell’approccio neoclassico riguarda i soggetti economici. Se devono essere soggetti capaci di effettuare scelte razionali in vista della massimizzazione di un obiettivo individuale, quale l’utilità o il profitto, devono essere degli individui [corsivo nostro] […] Così scompaiono dalla scena i soggetti collettivi, le classi sociali, i corpi “politici”, che invece i mercantilisti, i fisiocratici, i classici e Marx avevano posto al centro dei loro sistemi teorici. È con il pensiero neoclassico che il principio dell’individualismo metodologico entrerà definitivamente nella scienza economica […] Ma insieme a questo principio si tende spesso a farne passare un altro che è un po’ meno innocente, quello di individualismo ontologico: solo gli individui sono soggetti delle azioni economiche”.
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Dopo queste elezioni: superare l’irrilevanza con una vera costituente comunista
di Alessandro Mustillo
Ha ragione chi tra gli osservatori politici, analisti, giornalisti ha commentato che a vincere queste elezioni è stata la stabilità. Una sorta di conferma, in alcuni casi quasi plebiscitaria, del potere costituito tanto a livello nazionale quanto locale, il cui vero significato va ben al di là di una semplice consultazione elettorale. Un dato quindi che dovrebbe farci riflettere come preludio di una potenziale via d’uscita dalla crisi in atto, a tutto vantaggio del capitale.
Ma procediamo per passi. Ad uscire rafforzato dal voto è certamente l’asse di governo. La spallata annunciata da parte del centrodestra fallisce in Puglia e Toscana. La vittoria del Sì al referendum cementa l’asse della maggioranza PD con i Cinque Stelle, blindando il Governo fino alla fine della legislatura, salvo macroscopici imprevisti, e tramutando definitivamente i cinque stelle in parte del campo di centrosinistra che si contrappone alla destra Salvini-Meloni. Difficile pensare ad elezioni politiche data la situazione generale, la pandemia, le scadenze istituzionali tra cui l’elezione del Presidente della Repubblica. Difficile pensarci anche a causa di quella forza centripeta rappresentata dalla consapevolezza della futura diminuzione del numero dei Parlamentari che trasforma i deputati di Cinque Stelle, Italia Viva, e di Forza Italia, nei più feroci avversari di ogni scioglimento delle Camere.
L’Italia si avvia così a discutere l’ennesima legge elettorale, risultando pressoché l’unico Paese al mondo a modificare il sistema elettorale quasi ad ogni legislatura da trent’anni a questa parte, sintomo evidente della crisi latente che però trova sempre una sua stabilizzazione. Il PD incassa la modifica degli equilibri interni alla maggioranza e passerà all’attacco sul MES/Recovery Fund e sulle riforme, rompendo l’ormai inesistente resistenza grillina.
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Perchè il PD non ha perso
di Leonardo Mazzei
«Il voto dà respiro al governo», questo il titolone del Corriere della Sera di ieri. Una sintesi ineccepibile dell’ennesimo paradosso italiano. Le forze di governo tracollano in voti rispetto alle precedenti elezioni regionali, ma siccome l’attesa era per una disfatta ancor più grande, il generale arretramento diventa una vittoria.
In realtà questo paradosso ne contiene altri due. Il primo è che, salvo la Liguria, i due principali alleati di governo erano invece avversari nelle regioni. Il secondo è che l’illusione ottica del grande successo governativo è esattamente il frutto della stupidità degli avversari, quelli che prevedevano la famosa “spallata”, il “cappotto” del sei a zero ed altre amenità.
Simbolo di questa inarrestabile avanzata delle truppe salvinian-meloniane avrebbe dovuto essere la Toscana. Chi scrive aveva segnalato per tempo quanto fosse improbabile un simile scenario. (Tra parentesi: le quattro previsioni finali lì avanzate si sono realizzate al gran completo, peccato che la Snai non quoti certe cose…).
Alcuni dati
Non intendiamo qui perderci nei mille dati da decifrare di ogni elezione, ma qualche numero può essere utile. In termini di regioni “conquistate”, al posto del sei a zero salviniano c’è stato un tre a tre che in realtà non era difficile prevedere. Della Toscana si è detto, ma scontato (e alla grande) era il risultato in Campania, mentre più incerto appariva quello in Puglia. Ma se si comprendono le nobili ragioni del successo di De Luca e delle sue 15 (quindici) liste campane (nulla a che fare col clientelismo, ci mancherebbe!), non sarà difficile capire quelle del De Luca light pugliese, al secolo Michele Emiliano, anche lui accompagnato da 15 liste.
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Il grande reset dopo la pandemia
di Aldo Zanchetta
«Cari compagni e compagne: siamo nel pieno di un naufragio della civiltà.
Dobbiamo organizzare il salvataggio -non solo delle persone,
ma anche delle idee e dei valori».
Jorge Riechmann
Preambolo
Mi sento come nel mezzo del guado di un torrente impetuoso qual è la transizione epocale che stiamo vivendo, nella quale è difficile fare pronostici: “Io speriamo che me la cavo” fu il titolo di una gustosa raccolta di elaborati scolastici di bambini napoletani di alcuni anni addietro. Dicendo “Io” però intendo la mia specie, quella dell’homo sapiens, perché queste acque impetuose o si attraversano tenendosi forte per mano o si affoga. Insistendo con le metafore, di fronte alla realtà presente mi sento come di fronte ad una scatola contenente le tessere di un immenso puzzle, che da solo non riuscirò certamente a ricomporre per intero, ma del quale posso ricomporre alcuni pezzi, ed è quello che vorrei tentare di fare. Per intuire almeno a grandi linee il disegno complessivo. Le 3 grandi tessere sono:
– La Pandemia causata da un virus inopportuno (ma forse non tanto, anche senza pensare a complotti: di necessità talora si fa virtù, e nel male esso può a qualcuno può essere servito).
– Il Panottico digitale, iniziato con un lock-down, giustificato da ragioni di sicurezza rese necessarie di fronte a tale imprevisto, accompagna da un perentorio “Restate in casa”.[1]
– Il Grande Riaggiustamento, The Great Reset, annunciato nel giugno scorso dal World Economic Forum (WEF) e subito riecheggiato dal Fondo Monetario Internazionale (FMI). In realtà più che di un “riaggiustamento” si tratta, parole loro, di una vera e propria Grande Trasformazione.
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Le tecnologie dell'industria 4.0 e l'assorbimento del lavoro improduttivo
di Barbara Ambrogio*
Industria 4.0, Smart factory, Advanced manufacturing, Internet industriale, sono tutti sinonimi per descrivere il modello produttivo che poggia sull’integrazione di strumenti digitali e di intelligenza artificiale nei sistemi di automazione dei processi produttivi di merci e servizi. Può essere definita come parte del processo di approfondimento dell’automazione industriale attraverso le tecnologie digitali.
Nel dibattito politico e accademico viene per lo più presentata come uno sviluppo autopoietico delle trasformazioni tecnologiche, progresso ineluttabile e sostanzialmente positivo, rispetto al quale i sistemi politici possono intervenire a posteriori per raccogliere il massimo dei vantaggi possibili. In questo modo si tralascia di affrontare i conflitti sottesi a questa ondata di innovazione tecnologica, e le tensioni che l’hanno stimolata.Dall’analisi preliminare di una mole di informazioni sulle modalità di funzionamento delle tecnologie dell’industria 4.0, emerge l’ipotesi che i costi del lavoro improduttivo sono quelli su cui si prova a intervenire in modo sostanziale verso una loro riduzione e sostituzione. Si tratta di una problematica assente nella letteratura politica e scientifica.
L’impatto di tali tecnologie sul lavoro improduttivo può essere colto ai tre livelli in cui nel capitalismo si sono storicamente configurate le relazioni tra attività produttive e non produttive di valore: l’organizzazione del processo produttivo industriale, il settore terziario e le supply chains.
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Un’economia vulnerabile: i risultati economici della prima presidenza Trump
di John Komlos, Salvatore Perri
La crisi economica legata al Covid-19, come tutti gli eventi negativi di carattere globale, tende ad essere classificata come imprevedibile e sganciata da ogni possibilità di prevenzione. In realtà, anche se l’evento è di per sé impronosticabile, le condizioni dei sistemi economici in termini di vulnerabilità agli shocks dovrebbero essere maggiormente tenuti in considerazione nei periodi così detti “normali”. Nel 21esimo secolo, eventi economici di portata catastrofica come la “bolla informatica”, l’11 settembre e la crisi finanziaria globale del 2008, si sono verificati in media ogni 5 anni se consideriamo anche le gravi crisi internazionali a carattere regionale. Pertanto, l’obiettivo di rendere le società moderne più “robuste” in termini di fondamentali economici, e meno vulnerabili agli shocks (Taleb 2009), dovrebbe essere comunque prioritario anche rispetto ai risultati economici di breve termine. La domanda da porsi, per valutare correttamente l’operato dell’amministrazione Trump, è se la sua politica economica prima della crisi pandemica abbia reso l’economia statunitense più forte strutturalmente oppure no.
Donald Trump ha affermato pubblicamente più volte che la sua amministrazione ha raggiunto risultati economici eccezionali, mai ottenuti prima, e tali risultati sarebbero ascrivibili ai provvedimenti di politica economica intrapresi da quando è stato eletto.
Questa opinione, rilanciata anche da altre autorevoli fonti[1], ha fatto breccia nell’opinione pubblica, nazionale ed internazionale, tanto da essere ripresa anche in Italia per corroborare alcune proposte di politica economica allo stato prive di evidenze empiriche favorevoli[2]. Al netto della propaganda elettorale, i dati raccontano un’altra realtà, molto più problematica, che getta pesanti ombre sul futuro economico degli Stati Uniti.
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Settembre 1920. L'occupazione delle fabbriche e i suoi insegnamenti
di Concetto Solano
«Ogni discussione è inutile», affermò il capo della delegazione padronale, avvocato Rotigliani. «Gli industriali sono contrari alla concessione di qualunque miglioramento. Da quando la guerra è finita essi hanno continuato a calare i pantaloni. Ora basta, cominciamo da voi».
Era il 13 agosto 1920. Davanti i padroni avevano una delegazione dei sindacati metallurgici. Questa risposta chiudeva ogni possibilità di dialogo, auspicato dalla Fiom, e apriva il fronte di uno scontro durissimo tra padroni e lavoratori.
Tutto iniziò qualche mese prima, in uno scenario che sembrava destinato a restare limitato ad un ambito strettamente rivendicativo e sindacale.
Il memoriale varato dai dirigenti riformisti della Fiom, nel mese di maggio, puntava, infatti, a mantenere le relazioni con la Federazione industriale sul piano del confronto, evitando di inasprire la contrapposizione e di dare spazio alle spinte più radicali.
Le richieste presentate erano tutte attinenti rigorosamente a questioni sindacali, inserite entro il sistema di relazioni della contrattazione nazionale. I dirigenti sindacali si erano detti disposti ad attendere «sereni e fiduciosi, senza impazienze e senza movimenti impulsivi l’esito delle trattative»,1 in modo da arrivare ad una soluzione pacifica.
Le aspettative riformiste – come anticipato all’inizio – vennero smentite dalla reazione dei padroni. Secondo loro «sia per la portata sia per la forma delle richieste, queste vulnerano talmente gli attuali patti di lavoro da costituire una sostanziale denuncia» e ignorano «una valutazione reale delle condizioni delle industrie».2
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Come fare la storia della filosofia contemporanea?
di Lucio Cortella
È il confronto/scontro con la filosofia hegeliana che ha governato lo sviluppo della filosofia contemporanea: a sostenerlo è Lucio Cortella nell'appena pubblicato “La filosofia contemporanea. Dal paradigma soggettivista a quello linguistico” (Laterza, 2020). Ne pubblichiamo la presentazione, per gentile concessione dell'editore e dell'autore, che ringraziamo
Il problema con cui si scontra ogni esposizione del pensiero contemporaneo è la mancanza di uno standard condiviso in grado di stabilire priorità e gerarchie fra i vari pensatori e fra le scuole filosofiche. Le epoche precedenti non soffrono di questa assenza, dato che si sa – più o meno – quali sono i filosofi maggiori e le linee di sviluppo che conducono dalla filosofia antica fino alla stagione dell’idealismo tedesco. Con il pensiero contemporaneo non disponiamo ancora di un “canone” analogo, il che produce quella percezione diffusa, spesso disorientante, di un panorama filosofico attraversato da una pluralità di concezioni e proposte teoriche non solo assai differenziate ma apparentemente prive di relazioni e di coerenza. Sembra perciò realizzarsi anche sul piano storico-oggettivo quello che molti fra i protagonisti del pensiero contemporaneo hanno poi perseguito nel loro modo di concepire la pratica filosofica, vale a dire il rifiuto dell’idea di sistema e di ordine razionale. In realtà un tratto fondamentale della storia della filosofia, cui neppure quella contemporanea si sottrae, è quello per cui ogni proposta teorica è sempre una reazione a problemi irrisolti di precedenti teorie, l’aggiunta di un argomento mancante, la conclusione di un ragionamento rimasto interrotto. Proprio per questi motivi la storia del pensiero manifesta una coerenza sotterranea ben più sostanziale di quanto non appaia in superficie.
Il tentativo che ho voluto perseguire con questo volume è stato quello di dare contorni un po’ più definiti a quell’immagine sfocata, imprecisa e a volte contraddittoria del pensiero contemporaneo cui non sanno sottrarsi neppure i manuali migliori. È un’esigenza maturata nel corso della mia lunga esperienza didattica con gli studenti universitari, ai quali volevo fornire una mappa e un quadro coerente all’interno del quale collocare le più importanti teorie filosofiche contemporanee.
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Rossanda ci ha lasciati, Hillary c'è ancora. “Il manifesto”, dal 1969 al 2020: daje ai nemici delli americani!
di Fulvio Grimaldi
Referendum: un sì contro la democrazia e per Mario Draghi (miei interventi video)
https://www.youtube.com/c/VOXITALIA intervista sulle votazioni fattami da Francesco Toscano di Vox Italia TV. Il mio intervento parte da 1h 13’ 22”
https://www.youtube.com/watch?v=BbKu7NQYDY4 mio intervento alla Maratona sulle votazioni di Byoblu, da 21’15”
Per restare nell’attualità più bruciante metto in testa al pezzo sulla scomparsa di Rossana Rossanda e sulla natura del “manifesto”, due miei interventi su webtv relativi all’esito del voto per il referendum sul taglio dei parlamentari e alle prospettive che si evidenziano.
Il “quotidiano comunista” che piace ai padroni
Il Manifesto, un giornale la cui esistenza è assicurata da una curia con papessa, da una congrega di amici del giaguaro e da una zoccolante processione di utili idioti, non ha la benchè minima giustificazione per occupare quella sua striminzita. ma vociferante e citatissima presenza sul mercato. I suoi redattori fanno lì lo stage per potersi iscrivere, dopo 18 mesi, all’albo dei pubblicisti o, addirittura a quello dei giornalisti. Ma soprattutto per guadagnarsi subito la fiducia dei Poteri che si solevano chiamare occulti, ma che con il turbocapitalismo finnziario, la globalizzazione, le piattaforme, il digitale, il Covid, Davos e Bilderberg, sono usciti allo scoperto col botto. Questo apprendistato serve ai meno impediti linguisticamente, una volta conquistata quella fiducia, a fare il salto nelle case di piacere dei media di massa.
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L’ultima Metamorfosi di Proteo
di Raffaele Picarelli
I fondi europei per la ripresa post Covid-19 sono destinati quasi esclusivamente a creare un ambiente favorevole all’aumento dei profitti. Ne fanno la spesa i contratti nazionali di lavoro, il lavoro stabile, la legalità e il carattere dell’istruzione pubblica
La marcia di avvicinamento
Nel maggio scorso la Commissione europea propose al Consiglio l’adozione di un «bilancio rafforzato dell’UE per contribuire a riparare i danni economici e sociali immediati causati dalla pandemia da coronavirus, dare avvio alla ripresa e preparare un futuro migliore per la prossima generazione».
La Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen così si espresse al termine dei lavori: «Con il piano per la ripresa [Next Generation EU] trasformiamo l’immane sfida di oggi in possibilità, non soltanto aiutando l’economia a ripartire, ma anche investendo nel nostro futuro: il Green Deal europeo e la digitalizzazione stimoleranno l’occupazione e la crescita. La risposta UE alla crisi si protrarrà fino al 2027 concentrandosi nei primi anni cruciali della ripresa. Next Generation EU [Recovery Fund] si articolerà su tre pilastri [per] mobilitare investimenti in un’Europa verde, digitale, resiliente [...]. Gli investimenti pubblici rivestono un ruolo fondamentale per una ripresa equi-librata e sostenibile. La maggior parte dei finanziamenti NGEU, oltre l’80%, sarà pertanto destinata a sostenere investimenti pubblici e riforme strutturali fondamentali negli Stati membri».1
Occorre poi «un’azione urgente per una ripresa guidata degli investimenti privati in settori e tecnologie fondamentali. Tali investimenti sono imprescindibili per il successo delle transizioni verde e digitale. La Commissione stima che nel periodo 2020-2021 il fabbisogno di investimenti ammonterà ad almeno 1500 miliardi di euro. Gli investimenti in settori e tecnologie fondamentali, dal 5G all’intelligenza artificiale, dall’idrogeno pulito alle energie rinnovabili [...], rappresentano la chiave del futuro dell’Europa».
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Un altro finale di partito
di Paolo Gerbaudo
C'è bisogno di ripensare una forma organizzativa adatta alle mutate condizioni del presente, ragionando sui limiti ma anche sulle opportunità delle pratiche adottate dai «partiti digitali» in questi ultimi anni
Parlare della necessità di un partito politico oggi a sinistra in Italia sembra da nostalgici: un tema che si addice più ai vecchi reduci del partito comunista e delle sue tante litigiose diaspore che alle nuove generazioni. Del resto il cadavere mal seppellito del Partito comunista italiano, quello che nell’immaginario della sinistra italiana è ancora oggigiorno il «partito» per antonomasia, e la sconfitta storica del movimento operaio, continuano a pesare come un incubo sul cervello dei vivi, facendo sembrare ogni tentativo di riorganizzazione politica nel tempo presente un’operazione di piccolo cabotaggio, farsesca e fuori tempo.
Eppure per dare rappresentanza alle classi popolari che oggi si affidano di volta in volta al meno peggio, e sempre più spesso non vanno a votare, è necessario tornare a confrontarsi con questa questione. Non per un feticismo del partito come risposta a tutti i mali. Ma per un dato di realtà: il partito è stato, a partire dall’inizio della modernità, il mezzo attraverso cui le classi popolari hanno riunito le loro energie altrimenti disperse, e trasformato la loro debolezza individuale in forza collettiva, per sfidare il potere concentrato delle oligarchie economiche e politiche.
Questa necessità organizzativa, che come sosteneva Robert Michels è alla base del partito politico come «aggregato strutturale», è oggigiorno forse più evidente di quanto fosse a fine Ottocento e inizio Novecento, agli albori dei partiti di massa della sinistra europea. Viviamo in un mondo in cui la disuguaglianza ha toccato punte inedite, sia a livello globale che nazionale.
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La critica dell'economia politica in Étienne Balibar
di Bollettino Culturale
Nell'opera di Étienne Balibar, Cinq études du matérialisme historique, del 1974, ci troviamo di fronte a un contributo alla critica dell'economia politica che mira a riprendere la specificità della teoria scientifica marxista, a rettificare le sue deviazioni nell'ambito della teoria sociale e i suoi rispettivi sviluppi politici. Questo era uno sforzo comune della cosiddetta scuola althusseriana, di cui faceva parte il filosofo francese in questione. Per quanto riguarda l'economia politica (critica) marxista, questa scuola ha enfatizzato la dimensione politica del processo produttivo, ha privilegiato i rapporti di produzione rispetto alle forze produttive e ha cercato, così, di costruire un concetto ampio di modo di produzione capitalistico, comprese le dimensioni dello sfruttamento e il dominio di classe. In questo senso, Althusser ha detto:
"La lotta di classe è l’''anello decisivo” per la comprensione del Capitale ... Spieghiamo in poche parole il principio essenziale della tesi di Marx. Non c'è produzione economica "pura", non c'è circolazione (scambio) "pura", né c'è una distribuzione "pura". Tutti questi fenomeni economici sono processi che avvengono nell'ambito di relazioni sociali che sono, in ultima analisi, sotto le loro apparenze, relazioni di classe e relazioni di classe antagonistiche, cioè relazioni di lotta di classe."
Il ricorso alla scuola althusseriana, che si dice sia morta intorno agli anni '70 e per decenni oggetto di vile diffamazione, non è un movimento aleatorio, ma fa parte di una significativa ripresa di questo campo di riflessione marxista. In concreto, sottolineiamo come Balibar, attraverso i classici del marxismo e la “problematica althusseriana”, colleghi il processo di produzione alla valorizzazione del capitale e alle classi sociali (in lotta) come chiave per comprendere il marxismo.
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“L’Europa non è cambiata: il ritorno dell’austerità renderà inutile il recovery fund”
Daniele Nalbone intervista Antonella Stirati
A partire dalla crisi economica, “aggravata e non scatenata dalla pandemia”, intervista ad Antonella Stirati, professoressa ordinaria di Economia politica presso la Facoltà di Economia dell'Università Roma Tre e autrice del libro “Lavoro e salari - un punto di vista alternativo sulla crisi”.
* * * *
La prima domanda è diretta e, diciamo così, generale: che autunno ci aspetta?
Partiamo da una considerazione: la pandemia non è finita e occorre prudenza nella nostra quotidianità. Questa estate, per la stanchezza dei difficili mesi che ci siamo lasciati alle spalle, ci siamo sentiti tutti un po’ più liberi. Ora dobbiamo fare più attenzione. Parto da una considerazione non economica perché credo che questa sia comunque una priorità Sul fronte economico è necessario fare un passo indietro: l’economia italiana aveva gravi problemi ben prima della pandemia. O meglio, i veri problemi li avevano i cittadini italiani. L’Italia non si è mai ripresa veramente dal doppio shock della crisi del 2008 seguita al crollo finanziario americano e della successiva crisi ‘degli spreads’ della zona euro. Dopo la crisi finanziaria, le politiche di austerità hanno causato un’ulteriore profonda caduta della nostra economia, basta guardare al pil e ai dati dell’occupazione per rendersene conto. In ogni caso, da una grande recessione come è stata quella del 2008 non si esce se non ci sono politiche finalizzate alla ripresa. Politiche che i paesi della “periferia europea”, con gravi problemi di debito di bilancio pubblico sulle spalle, non hanno potuto attuare. Anzi sono stati spinti dalle scelte di politica economica nell’Eurozona a fare politiche che hanno prima molto accentuato la recessione e poi ostacolato la ripresa.
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Qanon, su fenomeni e mentalità oggi emergenti
di Pierluigi Fagan
Allego l’inchiesta sul fenomeno QAnon fatta dal collettivo bolognese Wu Ming. Lo stesso, con nome collettivo di Luther Blisset, pubblicò nel 1999 il romanzo storico Q (Einaudi), poi tradotto in ben 14 lingue. Vi sono parecchi indizi sul fatto che il fenomeno QAnon possa esser nato proprio su ispirazione del romanzo in questione, non è certo ma tra il possibile ed il probabile. L’inchiesta mi pare molto interessante.
La prima parte è sul corpo delle teorie che compongono questa strana narrazione americana della destra alternativa radicale, oggi divenute molto popolari e non solo negli USA. La seconda è più riflessiva ed attinente al titolo del post. Si tratta di una riflessione sul funzionamento mentale secondo quanto ormai indagato a fondo dalle scienze cognitive e quindi patrimonio culturale a cui attingono anche gli esperti del (neuro) marketing, commerciale e politico. Ma ci sono anche spunti culturali interessanti su modelli di interpretazione della realtà che hanno longeva storia risalendo al Medioevo ed alla formazione del canone occidentale, anche se quello alternativo all’ufficialità.
Tale alternatività, se è stata maltrattata del potere culturale ufficiale, è sempre però stata molto più popolare dei suoi giudici, il che ha rilievo politico. Si giunge infine anche all’Italia, inclusa una precisa parte delle galassia dell’informazione alternativa, molto frequentata ed amplificata anche qui su facebook. Non è una lettura veloce, consiglio di archiviare a prendersi in seguito il tempo necessario alla lettura ed alla riflessione. Vi sono anche molti link per ulteriori ricerche ad albero. Consiglio di farlo perché ne vale la pena. Il tono dell’indagine, infatti, è problematico nel senso che s’immerge nel fenomeno che sembra conoscere molto bene, per indagarne i meccanismi prima di sparare scomuniche, giudizi definitivi e confortanti ostracismi.
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La meccanica quantistica, la realtà fisica, la mente umana
All’esplorazione di Helgoland, l’ultimo libro di Carlo Rovelli.
di Paolo Pecere*
Con Helgoland (Adelphi) Carlo Rovelli ritorna agli albori eroici della meccanica quantistica: all’isola di Helgoland, dove il giovanissimo Werner Heisenberg gettò i fondamenti della nuova teoria. Rovelli ne racconta, col suo stile accattivante, le prime formulazioni, mette a fuoco le sorprendenti novità teoriche e i problemi – senza entrare in troppi dettagli tecnici –, per poi dar conto delle strategie principali con cui gli scienziati hanno provato a trarne una teoria pienamente soddisfacente. Ma il libro è solo in piccola parte un racconto delle discussioni del passato. Rovelli vuole indicare una soluzione: presenta la sua “interpretazione relazionale” della meccanica quantistica, sostenendo che essa permette di sfuggire ai paradossi e alle difficoltà della teoria meglio delle strategie alternative, e riflette sulle implicazioni di ampio respiro che questa interpretazione può avere per la nostra comprensione della realtà fisica e della mente umana, addentrandosi sempre più decisamente nel campo delle ipotesi filosofiche.
La storia della meccanica quantistica è stata raccontata molte volte, e continua ad esserlo – da storici, filosofi e scienziati – per buone ragioni: non soltanto perché è fatta di idee geniali e scoperte rivoluzionarie, una saga della fisica contemporanea che non ha più avuto eguali, ma anche perché il finale della storia sembra ancora aperto. La meccanica quantistica fa previsioni di una esattezza senza precedenti, finora mai smentite dagli esperimenti, e ha avuto fondamentali applicazioni tecnologiche. Nello stesso tempo, fin dall’inizio, è stata una teoria controversa: per alcuni, come lo stesso Einstein che introdusse l’ipotesi dei quanti di luce (i fotoni), si trattava di una teoria efficace come strumento matematico per descrivere i fenomeni, ma fondamentalmente incomprensibile e sbagliata, destinata a farsi sostituire da una teoria migliore; per altri, come Werner Heisenberg e Niels Bohr, era invece portatrice di una verità che poteva essere compresa e accettata soltanto con l’abbandono di intuizioni e pregiudizi molto radicati.
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Riaprire le università?
di Tommaso Gazzolo
1. Sembra che, tra i professori, sia unanime la convinzione che riaprire le università, ricominciare lo svolgimento regolare delle lezioni in presenza, costituisca una necessità imprescindibile. Giorgio Agamben ha avuto il merito di porre la questione al livello cui merita di essere pensata. E con la radicalità che merita: «i professori che accettano – come stanno facendo in massa – di sottoporsi alla nuova dittatura telematica e di tenere i loro corsi solamente on line sono il perfetto equivalente dei docenti universitari che nel 1931 giurarono fedeltà al regime fascista». Ma, allo stesso tempo, egli è costretto ad ammettere che «di ogni fenomeno sociale che muore si può affermare che in un certo senso meritava la sua fine ed è certo che le nostre università erano giunte a tal punto di corruzione e di ignoranza specialistica che non è possibile rimpiangerle». Si può, si deve, convenire con Agamben su due punti essenziali. Il fatto che le università siano state, in Italia, le prime a chiudere e le ultime – forse – a riaprire, che si vi sia stata l’introduzione della “didattica a distanza” o del cd. blended learning, è indicativo della funzione che, oggi, è ad essa riconosciuta da parte del potere politico.
Ma se l’università ha potuto essere “digitalizzata”, se per un semestre la didattica on line ha sostituito quella in presenza – senza che sostanzialmente ne abbiano risentito gli obiettivi “aziendali” delle università: produzione di “crediti”, lauree, etc. – è solo perché essa aveva già raggiunto, aveva già in sé le condizioni che hanno reso possibile questa sostituzione. Non occorre ripercorrere, ora, la storia dell’università moderna, il conflitto che l’attraversa dall’interno, il suo costante essere in “crisi”. È sufficiente mettere in rilievo un aspetto: che se la “didattica a distanza” può essere adottata, è solo perché l’insegnamento è già pensato come “trasmissione” di un sapere codificato, comunicazione di informazioni.
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Caffè e il primato della politica
di Giuseppe Amari
Interpretando lo spirito della Costituzione l’economista scriveva: “L'ideale è quello di costruire un mondo in cui lo sviluppo civile e sociale non sia il sottoprodotto dello sviluppo economico ma un obiettivo coscientemente perseguito”. L’opposto della teoria ordoliberista, secondo cui è la società che deve conformarsi al funzionamento del mercato
Come è noto, Federico Caffè svolse un ruolo fondamentale ai tempi della Costituente. Ricordo brevemente il suo impegno in Banca d'Italia, insieme a Paolo Baffi, con i Governatori Vincenzo Azzolini, Donato Menichella, Luigi Einaudi; come l' «economista più ferrato» (Leo Valiani) del gruppo dossettiano; come giovane economista diffusore della «nuova economia keynesiana» e a conoscenza dell'esperimento laburista di Attlee e Bevan che seguiva da Londra con «simpatia non scevra di adesione ideologica»[1]; come componente della Commissione economica per la Costituente; ma, soprattutto, accanto a Meuccio Ruini, il vero motore dei lavori costituenti e ministro prima dei Lavori pubblici con il secondo Governo Bonomi e poi della Ricostruzione con il Governo Parri. Ruini, era anche a capo del Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica a cui contribuivano, in diverse sezioni, i maggiori studiosi e operatori economici del tempo, a cominciare Luigi Einaudi, Costantino Bresciani Turroni, Gustavo Del Vecchio, Giovanni Demaria[2].
Dalla testimonianza diretta di un giovanissimo giornalista parlamentare, ancora attivo, sappiamo di Caffè che, quando poteva, ascoltava ammirato il grande dibattito costituente che si sviluppava in quell'aula[3]. Si considerava un economista «passionate» e in lui si può riconoscere lo spirito che animava le madri e i padri costituenti. Si capisce così meglio la sua frase, di fine anni settanta, che possiamo ancora, e a maggior ragione, ripetere oggi: «Si va alla ricerca nominalistica di un «nuovo modello di sviluppo» e si dimentica che nelle sue ispirazioni ideali si trova nella prima parte della Costituzione, nelle condizioni tecniche nei lavori della Commissione economica della Costituente»[4].
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Di monaci in battaglia e di comunismo orante
di Marcello Tarì
«…Voce del monaco nella battaglia. Voci di tutti gli oppressi del mondo: infinite voci qui raccolte nella voce di un orante attraversato da tutte le passioni.»
D.M. Turoldo
Nel suo testo Lontano da dove Fabio Milana ci dice cose di grande rilievo, alcune così profonde da scoraggiare qualsiasi considerazione frettolosa. A dispetto del suo titolo mi sento molto vicino allo spirito dello scritto, tuttavia c’è un passaggio nel suo ragionamento in cui riconosco una differenza di sensibilità che vorrei discutere, rischiando delle semplificazioni e consapevole di praticare un terreno non facile. Si tratta di qualcosa che forse rientra nelle difficili relazioni tra il campo della politica e la dimensione spirituale ma, nello specifico, vorrei parlare del modo di intendere il comunismo e del suo rapporto col cristianesimo. Quando si trattano queste questioni appaiano sovente differenze di prospettive e incomprensioni le quali, a loro volta, si riflettono in valutazioni discordanti circa le medesime realtà.
L’incomprensione quasi sempre deriva dalle diverse esperienze di vita, ma se si instaura un dialogo non è insormontabile. Si può infatti sperimentare la stessa cosa, la stessa verità, in tempi diversi con strumenti diversi e con disposizione d’animo diverso, ne risulterà spesso una disarmonia nel significato che gli si dà. Per provare a venire a capo di un’incomprensione di questo tipo bisogna dunque confrontarsi in amicizia, tenendo ben fermo il riferimento a quella stessa verità dalla quale si sono comunque generati i diversi cammini. La differenza di prospettiva la riferisco più in generale al nodo ingarbugliato di ciò che sta attorno ai ragionamenti su fede e politica, spiritualità e politica e così via, un nodo che credo affondi in un grande malinteso che caratterizza la storia d’Occidente e che, se un giorno venisse chiarito, potrebbe aiutare a illuminare le aporie che Milana segnala nel suo testo, pure se dubito possa essere mai sciolto.
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La lotta al razzismo negli Usa nel complicato rapporto col proletariato bianco
di Michele Castaldo
Prendiamo spunto da un corposo documento pubblicato da Ill Will Editions negli Usa, tradotto e pubblicato dai blog Noi non abbiamo patria e Il pungolo rosso, a seguito della lotta dei neri negli Usa provocata dall’assassinio di George Floyd, per tentare di mettere a fuoco la complicata storia del rapporto tra proletariato di colore e bianco negli Usa e in tutto l’Occidente in un momento cruciale di passaggio da una fase all’altra del modo di produzione capitalistico.
Lo scritto ospitato cerca di focalizzare la questione delle questioni che è emersa nel corso di mesi di scontri del proletariato di colore: il rapporto con i bianchi e più precisamente col proletariato bianco.
Gli autori scrivono: «Se la rivoluzione è all’orizzonte, la nostra strategia deve tenere conto dei bianchi». Perché e in che modo?
«La prima e più ovvia ragione è che essi», cioè i bianchi, «costituiscono una parte gigantesca della popolazione. Secondo lo US Census, questo paese è per il 60,1% composta da bianchi europei. Rendiamocene conto. Il secondo gruppo più numeroso è quello dei latinos, che costituiscono il 18,5%, seguiti dai neri e dagli afroamericani con il 13,4%. Seguono gli asiatici al 5,9% e gli indigeni all’1,3%. Per quanto l’idea che i bianchi siano immutabilmente razzisti sia comprensibile, rimane però senza risposta il problema di come fare i conti con questo enorme segmento della società – a meno che la risposta non sia quella delle guerre razziali o della balcanizzazione razziale che finirebbero solo per rafforzare il dominio bianco e il genocidio dei neri, degli indigeni e delle altre persone di colore».
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