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L'intera strategia del salvataggio è inadeguata?
Un articolo di J. Stiglitz e la risposta di R. Cook di Globalresearch
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Ripensiamoci prima che sia troppo tardi
di Joseph Stiglitz
La recessione americana sta entrando nel suo secondo anno, e la situazione sta solamente peggiorando. La speranza che il Presidente Obama sia in grado di tirarci fuori dai guai è affievolita dal fatto che la distribuzione di centinaia di miliardi di dollari alle banche non è riuscita a rimetterle in sesto, e nemmeno a ridare vita al flusso dell’erogazione dei prestiti.
Ogni giorno ci fornisce una prova ulteriore che le perdite sono superiori a quanto ci si aspettasse e che ci sarà bisogno di sempre più denaro.
Alla fine viene posta la domanda: forse tutta l’intera strategia è inadeguata? Forse quello di cui c’è bisogno è un ripensamento sostanziale. La strategia Paulson-Bernanke-Geithner era basata sulla constatazione che il mantenimento del flusso del credito fosse essenziale per l’economia. Ma era anche basata sull’incapacità di comprendere alcuni dei mutamenti fondamentali nel nostro settore finanziario avvenuti dalla Grande Depressione, addirittura negli ultimi vent’anni.
Per qualche tempo c’è stata la speranza sarebbe bastato abbassare a sufficienza i tassi di interesse, inondando l’economia di denaro; ma settantacinque anni fa, Keynes spiegava perché, in una flessione analoga a questa, la politica monetaria è probabilmente inefficace, un’azione di scarsissimo effetto.
Poi c’è stata la speranza che se il governo fosse stato pronto ad aiutare le banche con sufficiente denaro – e per sufficiente s’intende molto – la fiducia sarebbe stata ristabilita, e con il ristabilimento della fiducia i prezzi dei beni sarebbero aumentati e si sarebbe ristabilita l’erogazione dei prestiti.
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Se il Re dollaro non fosse più moneta di riserva
Marcello De Cecco
Nel panorama della crisi mondiale sembrano riprodursi le condizioni che esistevano immediatamente prima della fine del sistema di Bretton Woods, nel 1971. Le aspettative sul cambio del dollaro, in particolare, assumono un rilievo e un ruolo che non è possibile sottovalutare. Il cambio del dollaro appare, come allora, la chiave di volta dell’intero sistema. Ma il contesto attuale è assai diverso da quello del 1971. Non foss’altro perché allora si chiudeva un’era di cambi fissi mentre oggi siamo, da decenni, in regime di cambi flessibili, anche se alcuni ancoraggi da parte di monete al dollaro o ad altre valute chiave come euro e yen, resistono da parecchi anni.
Non si tratta quindi, oggi, di aspettarsi o meno una svalutazione o rivalutazione del dollaro, ma di stabilire se siamo alla vigilia di un cambio di regime. Se, ad esempio, ci apprestiamo a vedere la fine del ruolo del dollaro come principale moneta di riserva.
Rispetto al 1971, altre differenze importanti esistono. Allora l’inflazione indotta dalla politica monetaria americana era aperta ed elevatissima, sia negli Stati Uniti che nella gran parte degli altri paesi. Oggi, al contrario, veniamo dagli anni della "great moderation" sul fronte dell’inflazione e invece che sull’indice generale dei prezzi la politica monetaria e fiscale espansiva degli Stati Uniti ha determinato, negli anni scorsi, solo l’inflazione dei beni patrimoniali, e quindi una fondamentale rivoluzione nei prezzi relativi, mentre l’indice generale è cresciuto modestamente.
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Animal spirits
Matteo Pasquinelli, Animal spirits: a bestiary of the commons, Rotterdam, Nai Publishers/Institut of Network Cultures, pp. 240, euro 23,50
Se nel passato il dominio mondiale si giocava nel controllo dei mari e del commercio internazionale, oggi la chiave dei rapporti di potere ruota attorno al controllo dello spazio e del yberspazio, ovvero dei commons globali: questa è una delle tesi del Project for the New American Century del 2000. I neocon non hanno compreso, però, che nessuna linea di continuità può essere istituita: il «capitalismo 3.0», per citare il volume dell'uomo d'affari Peter Barnes recentemente tradotto dalla casa editrice Egea, si alimenta non dell'organizzazione, bensì della cattura della produzione del comune. Qui prende corpo il parassita, una delle «bestie» cui allude il sottotitolo del prezioso libro di Matteo Pasquinelli.
Spostare il focus della critica alla knowledge economy dalla proprietà intellettuale ai rapporti di produzione: questa è la riuscita scommessa dall'autore. Muovendosi agilmente tra Bataille e Serres, tra le distopie di Ballard e Agamben, Pasquinelli passa al filo di un'analisi intelligentemente acuminata vari obiettivi polemici, tra cui Baudrillard, Zizek o Florida, nonché i troppo facili entusiasmi che suscitano nei movimenti concetti come «classe creativa» o le retoriche della rete. Tra queste spiccano il movimento Free Culture e il «digitalismo», che dipingono la comunicazione come uno spazio per natura orizzontale, libero dallo sfruttamento e dai rapporti capitalistici.
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Obama: Rotazione di regime
di Nafeez Mosaddeq Ahmed
L'avvento dell’amministrazione Obama non modificherà sostanzialmente il corso dell’espansione militare acceleratosi durante l’era Bush. Le origini di queste politiche non si basano unicamente sull’ideologia neoconservatrice. Mentre l'elezione del presidente Obama potrebbe offrire nuove opportunità alle forze progressiste per circoscrivere i danni, il loro spazio di manovra alla fine sarà ridotto da radicate pressioni strutturali che cercheranno di sfruttare Obama al fine di ristabilire l’egemonia imperiale americana, anziché trasformarla.
Infatti, la radicalizzazione dell’ideologia politica angloamericana rappresentata dall’ascesa dei principi neoconservatori e dai processi di militarizzazione della 'Guerra al Terrore', ha costituito una risposta strategica alle crisi sistemiche globali, sostenuta dalle classi imprenditoriali americane. Le stesse classi, riconoscendo la misura in cui Bush ha screditato questa risposta, si sono mobilitate in favore di Obama. Pertanto, all’intensificarsi della crisi globale, questa risposta in termini di militarizzazione è suscettibile di subire un'ulteriore radicalizzazione, invece che un significativo cambiamento di rotta. Le principali differenze saranno nel linguaggio e nel metodo, non nella sostanza.
Obama e la sicurezza nazionale: "È il petrolio, stupido!"
Questo è diventato sempre più chiaro via via che divenivano note le nomine dell’amministrazione di Barack Obama: persone le cui posizioni politiche e ideologiche sono in gran parte corrispettive con gli ideali neoconservatori, specialmente in materia di sicurezza, e le cui connessioni sociali e intellettuali le allacciano ai think-tank e ai responsabili politici neoconservatori.
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Tettamanzi, Stigliz e la terapia per la crisi
Valerio Selan
E' singolare che sulla diagnosi concordino personaggi anche molto diversi. Il governo annaspa e ribatte alle critiche affermando che nessuno ha proposte alternative. Non è vero: ne facciamo qui una breve rassegna
La maggioranza, alle critiche dell'opposizione per quanto concerne le scelte (o le non scelte) del governo di fronte alla crisi economica, replica che la minoranza non offre indicazioni alternative né per quanto concerne la diagnosi né le terapie da applicare. Ciò è inesatto. Il PD ha presentato alle Camere - nel silenzio tombale dei media - proposte articolate; altre indicazioni significative sono state delineate su questa rivista (Lettieri, 23/12/2008; Rossi, 19/01/2009).
E' singolare il fatto che sulla diagnosi della crisi - che condiziona, com'è intuitivo, la terapia - concordino il Cardinale Tettamanz, il Nobel Stiglitz e l'economista obamiano Paul Krugman. Essi ritengono che le cause profonde di questa crisi risiedano in un forte squilibrio nella distribuzione dei redditi, che la finanza facile ha offuscato, accentuandolo fino alle più estreme conseguenze.
Può essere comunque utile tentare di individuare, a livello esplorativo - non avendo il supporto tecnico dei centri studi della banca centrale e (speriamo.....) del governo - alcune linee strategiche di intervento. Anche perché la nostra classe dirigente sembra impegnata in una fuga dalla realtà: si occupa infatti di una riforma federale da attuare in sette anni; del Ponte di Messina realizzabile nel 2016; di piani nucleari entro il prossimo decennio e, più recentemente, della costruzione di "new towns" intorno a centri di provincia...; e un piano carceri per detenzioni "soft" (una precauzione per il futuro?).
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L'errore di puntare sui Fondi pensione
Felice Roberto Pizzuti
La crisi economica e finanziaria, più che rattoppi alle politiche previdenziali affermatesi negli ultimi decenni, dominati dall’eccessiva fiducia nei mercati e dall’illusionismo finanziario, ne impone un profondo ripensamento. Il ruolo essenziale va lasciato alla previdenza pubblica: quella complementare può essere, appunto, solo accessoria
Come era inevitabile, la profonda crisi finanziaria in atto in tutto il mondo sta manifestando i suoi effetti distruttivi di risparmio anche sui bilanci dei Fondi pensione privati.
In Italia, oramai da diversi mesi, i dati progressivamente resi noti dai Fondi, dalle associazioni di categoria e dalla Covip segnalano che il confronto tra i rendimenti offerti dalla previdenza complementare e quelli maturati dal Tfr lasciato in azienda volge a favore di questi ultimi. Nel corso del 2008, la media ponderata dei rendimenti maturati da tutti i comparti operanti nell’insieme dei Fondi negoziali (gestiti da rappresentanti delle imprese e dei lavoratori) è stata negativa; e stato annullato il 5,9% del risparmio previdenziale ad essi affidato. I risultati dei Fondi aperti (gestiti da istituti finanziari), che si affidano maggiormente agli investimenti azionari e comunque più rischiosi, registrano una perdita superiore, pari all’8,6%. Il Tfr lasciato nelle aziende si è invece rivalutato del 3,1% (2,7% al netto del prelievo fiscale). Se dai dati medi si passa a quelli dei singoli comparti di ciascun Fondo, mentre i più prudenti registrano risultati positivi (ma solo quelli “garantiti” e non tutti), le linee che includono investimenti azionari hanno raggiunto perdite massime del 28% tra i Fondi negoziali e del 39% tra i Fondi aperti.
A fronte di questi dati, diversi commentatori e operatori del settore della previdenza complementare si soffermano sulla considerazione che, nonostante i terribili andamenti dei mercati finanziari, l’adesione ai Fondi pensione risulta ancora conveniente perché consente ai lavoratori di acquisire i contributi aziendali e i vantaggi fiscali che invece non avrebbero lasciando il Tfr in azienda.
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Cu cu ... e il denaro non c'è più!
Giovanni Mazzetti
Il fondo-sermone di Sartori, «L'idea dei soldi come manna», pubblicato qualche tempo fa dal Corriere della sera sembra essere la ripetizione dell'anatema di Brunetta: «Sgobbate gente, sgobbate ... perché solo la fatica e la sottomissione vi salveranno dal castigo economico». A voler essere benevoli, si può invece individuare un maldestro tentativo di abbozzare una morale. La tesi è semplice: siamo «peccaminosamente incappati nella crisi» perché, invece di confrontarci col problema di come si produce la ricchezza, abbiamo coltivato l'illusione che «i soldi cadessero come manna dal cielo». «L'economia come scienza avrebbe infatti cominciato a deragliare con la sua politicizzazione di sinistra che l'avrebbe indotta a anteporre il problema della distribuzione della ricchezza al problema della creazione della ricchezza, e a confondere i due». Ora, nessuno può negare che ci sia stata una sinistra (ma anche un centro e una destra!) che ha fatto del problema della redistribuzione del reddito il suo cavallo di battaglia. Ma era una frangia minoritaria, mentre la stragrande maggioranza di coloro che si dichiaravano di sinistra si è scervellata su un problema diverso: quello dei limiti propri del modo di produrre capitalistico e di come spingersi al di là di essi. E per esplorare questo spazio ha dovuto riflettere sul ruolo che il denaro ha avuto e ha nel favorire o nell'ostacolare il processo di soddisfazione dei bisogni. E' vero che, con il profilarsi della crisi del keynesismo, negli anni '80, e col crollo dei paesi comunisti nei '90, la maggior parte di quelle riflessioni sono finite su un binario morto; ma non è la prima volta nella storia che, per procedere sulla via dello sviluppo, si deve recuperare un sapere del quale si credeva di poter fare a meno.
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Il valore reale del lavoro non c'è più
Massimo Roccella*
Il modello contrattuale doveva essere riformato per affrontare una situazione che, da più parti, veniva definita in termini di «emergenza salariale», ma evidentemente l'obiettivo, strada facendo, dev'essere stato perso di vista o forse i firmatari dell'accordo hanno ritenuto opportuno mutarlo senza darsi la pena di avvertire esplicitamente del cambiamento di rotta. Alla fine, tuttavia, non si può dire che essi non siano stati sinceri, se è vero che l'accordo quadro siglato a Palazzo Chigi sancisce che «obiettivo dell'intesa è il rilancio della crescita economica, lo sviluppo occupazionale e l'aumento della produttività», senza neanche un cenno all'esigenza di difendere (non diciamo di incrementare) il valore reale dei salari. Vero è che sviluppo economico e crescita occupazionale dovrebbero essere sostenuti da una «efficiente dinamica retributiva»: che però è concetto ambiguo, sicuramente non omologabile a quello di difesa del potere d'acquisto dei salari. Dal punto di vista delle imprese, ad esempio, la dinamica retributiva potrebbe apparire efficiente quanto più contribuisca a mantenere basso il costo del lavoro; altri potrebbe aggiungere che la compressione salariale è una necessità ineludibile se si vuol sperare in un incremento dell'occupazione.
Andiamo al merito. Al contratto collettivo nazionale si attribuisce la «funzione di garantire la certezza dei trattamenti economici e normativi comuni per tutti i lavoratori del settore». Non si dice però quale sia il livello del trattamento certo o, per meglio dire, non si esplicita con la dovuta chiarezza che d'ora in avanti si firmeranno contratti nazionali che non garantiranno neppure l'obiettivo minimo della salvaguardia del potere d'acquisto. I salari, anzi, a livello nazionale dovranno essere negoziati sulla base di un parametro previsionale (elaborato da un fantomatico soggetto terzo, che l'accordo neppure ha individuato) depurato della cosiddetta inflazione importata, legata alle variazioni dei prezzi dei beni energetici, e dunque a priori non coincidente con il tasso d'inflazione effettiva; perché l'indice previsionale sarà applicato non sull'intera retribuzione, ma su un valore convenzionale da individuarsi, a quanto pare, nei singoli settori.
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La destra "fa società" con la paura. La sinistra non c'è
di Massimo Ilardi
«Saremo inflessibili nei confronti di chi non rispetta le regole»: lo hanno gridato continuamente sia Rutelli che Alemanno duranta la campagna elettorale dello scorso anno per l'elezione del nuovo sindaco di Roma. Su questo l'inciucio è stato perfetto. E seguita ad esserlo. Divieti, controlli, ossessione sulla sicurezza, demonizzazione del conflitto: oggi è solo così che si tenta di ricreare quei legami sociali spezzati da una società del consumo e da un paese diviso atavicamente in fazioni e che ha nel suo Dna l'assenza di senso dello Stato. Eppure il vecchio sistema dei partiti e la sua classe dirigente, nati dentro una guerra civile, avevano trovato gli antidoti per combattere la frantumazione sociale: producevano politica, organizzavano opposizioni reali, sapevano rappresentare il conflitto.
Il fatto è che all'avvento del primato del mercato non ha corrisposto una generazione politica all'altezza della prova: mantenere la politica al suo posto di comando. Qui e solo qui sta il declino italiano. Il "fare società" attraverso la scorciatoia del proibizionismo delle norme, che si pretende tra l'altro di erigere a comportamento morale, è l'ultimo ritrovato di una classe politica che ha drammaticamente fallito nel suo compito di governare il paese perché non possiede né autorità, né prestigio. Da qui il primato dell'economia e del diritto sulla politica che tende a scomparire: dove tutto è normalizzabile tutto è governabile. E così mentre, a livello nazionale, si cerca il modo di tornare a proibire o a ridimensionare la legalità dell'aborto, a fare ancora qualche pensierino sulla cancellazione del divorzio, a ripristinare nelle scuole il primato del voto di condotta, a prendere le impronte digitali alla popolazione Rom, a organizzare ronde militari per la città e a vietare di fumare, andare liberamente allo stadio, farsi gli spinelli, prendere la residenza senza un lavoro, praticare il nomadismo e il commercio di strada; a Roma, oltre a tutto questo, si impedisce agli immigrati di lavare i vetri delle macchina, si nega di vendere la sera alcolici da asporto, si propone di mettere telecamere nelle scuole e sui mezzi pubblici, si studia come organizzare una centrale di vigilanza e di controllo su tutta la città.
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Distribuzione del reddito e diseguaglianza: l’Italia e gli altri
Stefano Perri*
Scriveva Keynes, nelle Conseguenze economiche della pace, che il processo di formazione del capitalismo industriale si è fondato su un “doppio inganno”. Da una parte i lavoratori si appropriavano di una piccola parte della torta che avevano contribuito a produrre, mentre i capitalisti ne ricevevano “la miglior parte”, con la tacita condizione di non consumarla, ma di destinarla prevalentemente all’accumulazione del capitale.
Dopo la crisi del ’29 e la seconda guerra mondiale, il processo di sviluppo è sembrato invece basarsi su una graduale diminuzione delle diseguaglianze che ha stimolato la domanda aggregata. Tuttavia, dagli anni settanta, le diseguaglianze sono tornate a crescere, con l’aggravante che nei paesi sviluppati la “miglior parte della torta” ha alimentato prevalentemente la speculazione piuttosto che gli investimenti reali. In molti hanno scambiato questa restaurazione del “doppio inganno”, che con la crisi attuale mostra tutte le sue contraddizioni, con la via maestra della modernizzazione.
In questo quadro il governo italiano ha varato una manovra del tutto inadeguata. Avendo appreso l’idea che le aspettative si auto-realizzano dalle storielle che è uso raccontare, Berlusconi sembra ritenere che bastino le sue esortazioni a consumare per ristabilire la fiducia. Soprattutto non sembra rendersi conto che la spesa per il consumo dipende dal reddito delle famiglie e che l’ insufficienza della domanda aggregata è il risultato del mutamento nella distribuzione del reddito che ha caratterizzato in modo fondamentale l’ultima fase economica nei paesi sviluppati.
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Non scherziamo col default
Mario Rossi
I dati sul fabbisogno 2008, doppio rispetto al 2007, hanno fatto cadere le inibizioni a parlare apertamente di un argomento fino ad ora tabù, con fantasiose ipotesi di ripudio del debito e uscita dall'euro per essere liberi di stampare carta moneta. Coronando così con una catastrofe la disastrosa politica fiscale del governo
In un intervento ospitato su questo sito qualche mese fa (L'Europa e la deriva secessionista della destra, del 09/07/08, prima della grande crisi di autunno) azzardavo qualche previsione sugli effetti che sarebbero potuti derivare dal progressivo ampliarsi della distanza – in politica ed in economia – tra Italia e Europa con Berlusconi alla guida del paese (e Tremonti alla guida del governo). In definitiva, esprimevo il timore che la campagna anti-europea che in quei mesi si stava orchestrando (non tanto quella sguaiata di parte leghista, quanto quella colta e boriosa di Tremonti e co.) servisse a precostituire gli argomenti e gli alibi, sul piano politico-ideologico, per preparare il terreno alla ben più clamorosa e dirompente rottura con l’Europa che il paese sarebbe stato costretto a gestire sul piano economico, nel giro di un biennio, per la allegra (e dissennata) politica economica che il governo avrebbe portato avanti, in linea con i disastri del quinquennio 2001-2006.
La tempesta finanziaria e la recessione economica hanno mutato non poco il contesto: è cambiato tutto, così nell’economia come nella politica. In che misura le analisi di metà 2008 restano attuali all’inizio del 2009?
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Senza conflitto dalla crisi si esce a destra
di Emiliano Brancaccio
Da un secolo e mezzo ad oggi, questa è la prima crisi del capitalismo che esplode nel pressoché totale silenzio politico del lavoro e nell’assenza del conflitto di classe di cui un tempo le organizzazioni operaie si facevano portatrici. Nelle epoche passate lo scontro di classe suscitato dal movimento operaio agiva profondamente sul corso degli eventi storici, ed interveniva in modo più o meno diretto su quelle fondamentali emergenze rappresentate dalle crisi economiche. Non solo la minaccia sovietica ma la stessa morsa dei fascismi costituivano gli estremi riflessi del protagonismo politico del lavoro e delle istanze di emancipazione di cui esso si faceva portatore, soprattutto nei momenti di crisi. Un fantasma insomma si aggirava davvero per l’Europa e per il mondo. E quel fantasma, soprattutto durante i terremoti economici, aveva molte carte decisive da giocare.
Oggi invece viviamo l’esperienza inedita di una crisi che si dispiega nel silenzio del lavoro e nella conseguente assenza del conflitto di classe. Quali sono allora le implicazioni principali di questa crisi senza conflitto? La prima implicazione è che in mancanza del contrappeso rivendicativo del lavoro lo stato è lasciato in balia degli interessi del capitale, e tende quindi a scimmiottarne anche i comportamenti più destabilizzanti e autodistruttivi. A questo riguardo sappiamo che un’azione razionale dal punto di vista del singolo capitale può risultare disastrosa a livello di sistema.
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Yehoshua: un insulto a sei milioni di martiri
di Paolo Barnard
(commento alla lettera di Abrham B. Yehoshua, pubblicato dalla Stampa del 18/01/2009)
Abrham. B. Yehoshua. “Caro Gideon,
negli ultimi anni ... Quando ti pregai di spiegarmi perché Hamas continuava a spararci addosso anche dopo il nostro ritiro tu rispondesti che lo faceva perché voleva la riapertura dei valichi di frontiera..."
Hamas continua a sparare razzi anche e soprattutto perché Gaza è la più grande prigione a cielo aperto del mondo, definita nel 2007 dal sudafricano John Dugard, Special Rapporteur per i Diritti Umani in Palestina dell'ONU, "Apartheid... da sottoporre al giudizio della Corte Internazionale di Giustizia dell'Aja". Perché nell'agosto del 2006 la Banca Mondiale dichiarava che "la povertà a Gaza colpisce i due terzi della popolazione", con povertà definita come un reddito di 2 dollari al giorno pro capite, che è il livello africano ufficialmente registrato. Perché appena dopo le regolari e democratiche elezioni del gennaio 2006 con Hamas vittoriosa, Israele inflisse 1 miliardo e 800 milioni di dollari di danni bombardando la rete elettrica di Gaza e lasciando più di un milione di civili senza acqua potabile. Perché nel 2007 l'ex ministro inglese per lo Sviluppo Internazionale, Clare Short, dichiarò alla Camera dei Comuni di Londra "sono scioccata dalla chiara creazione da parte di Israele di un sistema di Apartheid, per cui i palestinesi sono rinchiusi in quattro Bantustan, circondati da un muro, e posti di blocco che ne controllano i movimenti dentro e fuori dai ghetti (sic)". Ecco perché. Perché sono 60 anni che Israele strazia i palestinesi con politiche sanguinarie, razziste e fin neonaziste.
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Marx, il gran ritorno
Regolare la finanza o superare il capitalismo?
di Lucien Sève*
Trascurati dai partiti socialisti europei in quanto «vecchie teorie semplicistiche» che sarebbe bene abbandonare, detronizzati nelle università dove furono a lungo insegnati come base dell'analisi economica, i lavori di Karl Marx suscitano di nuovo grande interesse. Del resto, è stato proprio il filosofo tedesco ad analizzare a fondo la meccanica del capitalismo, i cui soprassalti disorientano gli esperti. Mentre gli illusionisti pretendono di «moralizzare» la finanza, Marx ha cercato di mettere a nudo i rapporti sociali
Erano quasi riusciti a farcelo credere: la storia era finita, il capitalismo, con generale soddisfazione, costituiva la forma definitiva dell'organizzazione sociale; la «vittoria ideologica della destra», parola di primo ministro, si era ormai compiuta, solo alcuni incurabili sognatori agitavano ancora lo spettro di non si sa quale diverso futuro. Lo spettacolare terremoto finanziario dell'ottobre 2008 ha spazzato via di colpo questo castello di carte. A Londra, il Daily Telegraph scrive: «Il 13 ottobre 2008 resterà nella storia come il giorno in cui il sistema capitalistico britannico ha riconosciuto il suo fallimento (1).» A New York, davanti a Wall Street, i manifestanti brandiscono cartelli con la scritta: «Marx aveva ragione!». A Francoforte, un editore annuncia che la vendita del Capitale è triplicata. A Parigi, una nota rivista, in un dossier di trenta pagine, analizza, a proposito di colui che si diceva definitivamente morto, «i motivi di una rinascita» (2). La storia si riapre...
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Neoliberismo, interventismo, keynesismo
Duccio Cavalieri*
La crisi economica globale del sistema capitalistico, oggi in atto, deve indurre gli economisti teorici ad interrogarsi su quanto sta accadendo e a cercare di prevederne i prossimi sviluppi e gli esiti. Uno dei compiti storici della scienza economica è infatti la spiegazione e la previsione di quanto avviene nella realtà.
Un primo punto sembra sufficientemente chiaro. Si tratta di una crisi che ha avuto inizio nel mondo della finanza e che ha poi contagiato l’economia reale. E’ emersa la forte instabilità di un sistema di intermediazione finanziaria che anziché incoraggiare il risparmio delle famiglie e assicurare che esso affluisse senza ostacoli agli investimenti delle imprese e agli impieghi delle amministrazioni pubbliche, è stato utilizzato per finanziare pericolose operazioni speculative compiute sul mercato dei capitali e su quello dei cambi. Questo è avvenuto in un contesto di bassi livelli dei salari reali e in presenza di una politica dell’amministrazione repubblicana degli Stati Uniti che ha alimentato nei lavoratori una forma inedita e sottile di illusione monetaria, consentendo alle banche e ad altre istituzioni finanziarie di concedere loro ampio credito e mutui ipotecari a condizioni molto facili (i subprime mortgages a tassi variabili) per indurli ad acquistare di più e consumare di più, nonostante i bassi salari.
Una situazione di questo tipo non può durare indefinitamente. Quando le banche cominciano a incontrare delle difficoltà nel rientro dei capitali prestati e vengono a trovarsi a corto di liquidità per l’insolvenza dei debitori, il flusso del finanziamento bancario alle imprese di produzione tende necessariamente ad interrompersi. Per allontanare nel tempo questa evenienza, le banche hanno fatto ricorso a strumenti innovativi di ingegneria finanziaria allo scopo di attuare una strategia finanziaria tutt’altro che nuova: quella della Ponzi finance, efficacemente descritta da Hyman Minsky. Hanno infatti cercato di trasformare i crediti in sofferenza in fonti di nuove rendite finanziarie, facendo ricorso a operazioni di cartolarizzazione (securitization) e successiva inclusione dei crediti frazionati in prodotti finanziari derivati, con l’intento di arrivare a disperdere il rischio individuale.
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L'uomo artigiano
Giuliano Battiston intervista Richard Sennett
Un'intervista con lo studioso statunitense, in Italia per presentare il suo libro su «L'uomo artigiano». La necessità di organizzare la vità politica in base alle virtù e al network di conoscenze e competenze maturate nello svolgere bene il proprio lavoro
Autore dalla mentalità filosofica radicata nel pragmatismo americano e dall'atteggiamento critico proprio degli etnografi - perché «un'idea deve confrontarsi con l'esperienza reale, altrimenti diventa una pura astrazione» -, Richard Sennett è il sociologo contemporaneo che ha offerto strumenti indispensabili per comprendere le conseguenze del capitalismo sulla vita quotidiana e i deficit sociali prodotti dall'erosione del «capitalismo sociale», dimostrando che il capitalismo flessibile conduce al disordine, dando vita a «forme culturali che celebrano il cambiamento personale ma non il progresso collettivo» e, allo stesso tempo, a forme di potere ancora più opache. Di fronte a questa opacità, suggerisce Sennett, non dovremmo mai stancarci di elaborare strategie per rendere leggibile e visibile la figura che incarna l'autorità pubblica, smascherando le sue illusioni attraverso l'uso dell'immaginazione. Dopo tutto, «il difficile, scomodo, e spesso amaro compito della democrazia» è proprio questo: introdurre un «disordine intenzionale dentro l'edificio del potere».
Nato a Chicago nel 1943, dopo aver abbandonato una promettente carriera di musicista Richard Sennett si è dedicato alla sociologia, formandosi nelle Università di Chicago e Harvard. Negli anni Settanta insieme a Susan Sontag ha fondato (e poi diretto) il «New York Institute for the Humanieties». Già consigliere dell'Unesco e presidente dell'«American Council on Work», si divide tra l'insegnamento alla New York University e alla London School of Economics. È autore di tre romanzi e di diversi testi. In Italia sono stati pubblicati L'uomo flessibile (Feltrinelli), Rispetto (il Mulino), La cultura del nuovo capitalismo (il Mulino), Autorità (Bruno Mondadori), Il declino dell'uomo pubblico (Bruno Mondadori). Lo abbiamo incontrato a Milano, dove ha presentato il suo ultimo libro, L'uomo artigiano (Feltrinelli, traduzione di Adriana Bottini, pp, 311, euro 25), di cui il manifesto ha già parlato il 27 novembre.
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Allora, compagni
Mario Tronti
Allora, compagni. Come tutti avete potuto vedere, il mondo, a far data dal 4 novembre, è cambiato. Il cielo è sempre più blu, la terra sorride aperta finalmente all'audacia della speranza, le nostre notti non sono più cupe, rivisitati come siamo dal sogno americano. Il messia è tornato, come aveva promesso, cammina non sulle acque, ma sull'etere, narrazione di parabola in parabolica, questa volta per messaggini. Vi ricordate l'11 settembre? Nulla sarà come prima. Tutto è stato come prima. Questo è un 11 settembre rovesciato. Di nuovo, «siamo tutti americani». E non cambierà niente. Niente di quello che ci interessa cambiare.
Avete capito che sto gettando acqua sul fuoco, non per spegnerlo, ma almeno per circoscriverlo. Poi, speriamo sempre che la scintilla infiammi la prateria. Non ci saranno dunque conseguenze? Altroché se ce ne saranno! La soluzione questa volta è stata trovata quasi all'altezza del problema. Quasi: perché la crisi di fase capitalistica è più grave, più tosta, dell'invenzione di immagine, della risorsa simbolica, che si è messa in campo. Ma comunque, questa conta, e come se conta! Lo vediamo in queste ore, in questi giorni. Gli Usa di ieri, frastornati, disorientati, depressi, sono «rinati», come i ridicoli cristiani delle loro sette. Il fatto macroscopico, quello su cui dobbiamo prendere a ragionare, quello dentro cui dobbiamo mettere anche il successo Obama, è la chiusura del ciclo neoliberista, il crollo della finanziarizzazione selvaggia del capitale, la rivincita dell'economia reale, che si fa di nuovo viva come crisi della produzione materiale, con tutte le paure, le incertezze, i bisogni di voltare pagina, che essa porta con sé. E' questo che ha reso possibile, perché necessaria, la vittoria della parola change. Non la spinta dal basso di una partecipazione popolare, con i suoi appassionati volontari, espressione spontanea della vitalità di una meravigliosa democrazia. Questa c'è stata, ma come un'onda provocata, raccolta e orientata verso un volto nuovo di «personalità democratica», che abbiamo già altre volte descritto come corrispettivo aggiornato della adorniana «personalità autoritaria».
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La fine del capitalismo? Non proprio ma quasi...
Nafeez Mosaddeq Ahmed
Il crollo del 2008
Nell'estate del 2008 la Banca dei regolamenti internazionali (BRI) aveva messo in guardia sul pericolo di un'altra Grande depressione, di portata tale da far impallidire il crollo economico degli anni '30. Il problema era nato con la crisi americana delle ipoteche subprime, che le banche statunitensi concedevano a condizioni sempre meno severe a consumatori non in grado di provare le loro capacità di rimborso. Non si trattava di un errore che una normativa insufficiente rendeva impossibile rilevare: le autorità sapevano quel che stava accadendo e avevano ampie possibilità di porre rimedio alla situazione. Ma la lobby delle istituzioni finanziarie si era battuta con successo per ottenere il diritto di prestare a chiunque e senza restrizioni. Secondo Elliot Spitzer, ex governatore di New York, quando era apparsa evidente l'ampiezza delle procedure fraudolente di finanziamento messe in atto dalle banche, gli Stati, all'incirca nel 2003, avevano tentato di intervenire per regolarizzare la situazione; mail Dipartimento del tesoro statunitense aveva bloccato unilateralmente ogni tentativo in tal senso.
Grazie alla proliferazione delle ipoteche subprime, le banche avevano potuto creare nuovi "prodotti finanziari", come derivati e valori contro rimborsi ipotecari previsti. Si tratta in sintesi di contratti che scommettono sui futuri ammontare dei beni patrimoniali, facendo quindi derivare il loro valore da beni patrimoniali primari (ad esempio valute, azioni e obbligazioni). Dal momento che sempre più gente a basso reddito riusciva ad ottenere ipoteche subprime, era aumentato il volume dei debiti di cattiva qualità "impacchettati" e venduti globalmente, operazione grazie alla quale ancora nuovi crediti, e quindi nuovi prestiti, avevano potuto invadere i mercati mondiali.
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La democrazia messa a nudo
di Carlo Donolo
1. Il populismo è la democrazia senza la costituzione. Senza diritti, regole, contrappesi e poteri divisi. Soggetti sociali, che accettano e apprezzano la propria minorità, delegano in bianco a “fare le cose” un decisore che “renda loro giustizia”. È una drastica semplificazione dei processi istituzionali e rappresentativi, una versione caricaturale della democrazia: domina il sorìte, il numero, la maggioranza. Non è la prima volta che succede, anzi nella storia della democrazia questa versione dimidiata e tendenzialmente autoritaria è ricorrente nelle fasi di crisi e di disorientamento. Ma dobbiamo accettare intanto un’implicazione di ciò che ha rivelato il risultato elettorale: la democrazia ha vinto con i numeri e tali numeri sono mossi in primo da un meccanismo di imitazione invidiosa (il rancore di cui parla A. Bonomi, senza peraltro spiegare quanto di illusorio, di autoinganno e di autoassolutorio esso contenga).
Quale popolo si esprime in questa maggioranza? Sebbene le componenti siano diverse, e non poche siano state le frustrazioni anche delle componenti moderate e progressiste indotte a scegliere la soluzione più semplicista e più drastica, l’elemento dirimente è il manifestarsi del popolo qual è. Ovvero quale risulta essere dopo essere stato plasmato da successive ondate di modernizzazione: nella dimensione del benessere materiale e acquisitivo e nell’esposizione alla cultura di massa. Nella sua cultura c’è una componente trash molto marcata, come risulta dal linguaggio che è stato sdoganato anche in politica, dalla rinuncia alle buone maniere, dalla preferenza per una volgarità ostentata, per lo stile da avanspettacolo o da convention. Il kitsch è l’elemento unificante tra rappresentati e rappresentanti. È scomparso l’elemento borghese nella classe dirigente e ciò ha legittimato il plebeismo di tutti.
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La "giusta furia" di Israele e le sue vittime a Gaza
di Ilan Pappé
La mia visita a casa in Galilea è coincisa con l’attacco genocida israeliano su Gaza. Lo Stato, attraverso i suoi mezzi di informazione e con l’aiuto del mondo accademico, ha diffuso un coro unanime – persino più forte di quello ascoltato durante il criminale attacco in Libano nell’estate del 2006. Israele è sommerso ancora una volta da una giusta furia che si traduce in delle operazioni di distruzione nella striscia di Gaza.
Questa sconvolgente autogiustificazione dell’inumanità e impunità non è solo fastidiosa, ma è materia su cui vale la pena soffermarsi, se si vuol capire l’immunità internazionale per il massacro che imperversa su Gaza.
È basata in primo luogo su semplici bugie trasmesse in un linguaggio giornalistico che ricorda i momenti più bui degli anni Trenta in Europa.
Ogni mezz’ora un notiziario alla radio e alla televisione descrive le vittime di Gaza come terroristi e il loro omicidio di massa ad opera di Israele come un atto di autodifesa.
Israele presenta se stesso alla propria gente come la giusta vittima che si difende da un grande male. Il mondo accademico è arruolato per spiegare quanto demoniaca e mostruosa sia la lotta palestinese, se guidata da Hamas. Questi sono gli stessi studiosi che in passato demonizzarono l’ultimo leader palestinese Yasser Arafat e delegittimarono il suo movimento, Fatah, durante la Seconda Intifada palestinese.
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La crisi che verrà
di Joseph Halevi
Il mondo alla vigilia di un anno di crisi. Quale ripresa, se tutti vogliono il rilancio della domanda ma nessuno - nè in Usa nè in Europa - è disposto ad aumentare i salari? Regina dello scacchiere, la Cina, ancora zona di produzione a basso costo
Quali prospettive si aprono per il sistema eonomico negli Stati Uniti e nei paesi ed aree più significative? Tutti vogliono il rilancio della domanda, stavolta reale, nessuno però contempla l'abbandono della deflazione salariale.
A Washington il Senato aveva bocciato i sussidi alle aziende automobilistiche Usa perchè queste si erano accordate con i sindacati per la riduzione dei salari ai livelli delle filiali delle aziende giapponesi e coreane a partire dal 2011 invece che dal 2009! La valanga di soldi catapultata, di fatto gratuitamente, verso le banche dal 2007 non ha rilanciato il credito. I soldi finiscono in titoli garantiti e in conti presso le banche centrali. Il perchè è ovvio: la bolla creditizia è scoppiata per via della sparizione dei valori dei titoli collaterali usati sia come garanzia che come indici di lucro futuro. Dietro di essi vi erano famiglie e persone insolventi, senza redditi sufficienti. Alla base di tale insufficienza sta la deflazione salariale.
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Lehman Brothers, contagio strategico
Rosario Patalano
Nel suo discorso di fine mandato come presidente di turno dell’Unione Europea, pronunciato il 16 dicembre scorso davanti al Parlamento di Strasburgo, con la solita franchezza, Nicolas Sarkosy ha affermato che: “La crisi non è nata ad agosto 2007, ma è iniziata quando gli Usa hanno preso la decisione gravissima di lasciare fallire Lehman Brothers” (fonte: Adnkronos).
Non possiamo dargli torto, la crisi finanziaria che si trascina ormai da più di un anno, ha avuto una netta accelerazione dopo il 14 settembre 2008, giorno in cui la Lehman Brothers ha ceduto alle pressioni che da qualche mese assediavano i suoi titoli a Wall Street, per annunciare l’intenzione di avvalersi della protezione in caso di bancarotta prevista dal Chapter 11 dell’U.S. Bankruptcy Code, gettando così nel panico le borse di tutto il mondo. Dopo l’annuncio del fallimento in un solo giorno tra le due sponde dell’Atlantico sono andati in fumo 825 miliardi di dollari. Secondo i dati della Federazione Mondiale delle Borse nei primi dieci giorni di ottobre sono stati persi dai listini azionari mondiali 4000 miliardi, portando a 25 miliardi di dollari la perdita complessiva rispetto all’ottobre 2007. Solo nei paesi Ocse dall’inizio dell’anno alla fine di ottobre le borse hanno bruciato 15.630 miliardi di dollari, circa il 30% del PIL mondiale.
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Le premonizioni della grande crisi
di Pino Cabras
Si sprecano le parole di sorpresa per la Grande Crisi in corso. Se ne parla il più delle volte come di un evento improvviso e imprevedibile.
In realtà c’era già chi riusciva a intravedere il tracollo, anche senza andare a spulciare le vecchie carte americane dei soliti ottimi Nouriel Roubini e Joseph Stiglitz. Prendiamo ad esempio il compianto Paolo Sylos Labini.
In un appassionato intervento a un convegno della Cgil nell’ormai lontano 2002 il grande economista italiano fece una lucida analisi sull'imminente indebolimento del dollaro e l’insostenibilità del debito pubblico e privato negli Stati Uniti. Una disamina ricca di dati precisi, cui corrispondevano analisi poi rivelatesi esatte. Un anno dopo, al momento di ripubblicare quell’opera, Sylos Labini scriveva: «esprimevo gravi preoccupazioni sulle prospettive dell’economia americana, che condiziona fortemente le economie degli altri paesi e, in particolare, quelle europee. La mia diagnosi fu giudicata da molti pessimista, ma i fatti, finora, mi hanno dato ragione. Oggi la mia diagnosi è ancora più pessimista, ma, giusta o sbagliata che sia, essa si fonda non su intuizioni o sul fiuto, bensì su un’analisi approfondita.» La chiave giusta di quello studio era proprio la profondità. Conviene leggerlo per intero, è una lettura veramente istruttiva: [QUI]
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A che cosa serve la finanziaria 2009
Luigi Cavallaro
Ha destato e desta molte perplessità l’atteggiamento governativo (e del ministro Tremonti in particolare) a proposito della Finanziaria 2009, che il Parlamento ha definitivamente varato lo scorso 19 dicembre. Molti commentatori hanno rimproverato all’esecutivo di aver sottovalutato le conseguenze della recessione in atto e molti altri hanno rimproverato al ministro dell’Economia di aver tenuto un approccio “creativo” ai conti pubblici quando non ce n’era (a loro avviso) bisogno e di perseverare, per contro, in un atteggiamento “draconiano” in un momento gravissimo come quello attuale, in cui tanti economisti ed editorialisti si stanno reinventando dispensatori di ricette pseudo-keynesiane.
Crediamo che si tratti di considerazioni errate. Non soltanto perché imputano a Tremonti una sottovalutazione della crisi, quando invece egli è stato tra i pochi a rappresentarsela come evento possibile e anzi imminente, ma soprattutto perché non colgono le reali ragioni dell’insistenza tremontiana sulla necessità di non deflettere dalla linea di rigore sui conti pubblici.
Spiegarlo non è semplice e implica la necessità di risalire un po’ indietro nelle vicende economiche e politiche del nostro Paese. Siamo tuttavia convinti che solo un approccio del genere possa dar conto delle difficoltà e dei rischi della fase di politica economica che stiamo vivendo.
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Per salvare la vita
28 tesi contro la barbarie*
di Marino Badiale e Massimo Bontempelli
Premessa: le tesi che seguono rappresentano idee di fondo sulle quali costruire un movimento politico che contrasti la barbarie verso la quale l’attuale organizzazione sociale ed economica ci sta portando. Trattandosi di tesi, l’argomentazione logica ed empirica a loro sostegno è lungi dall’essere completa. Precisazioni ed approfondimenti potranno emergere dalla discussione con le persone interessate.
1. Il modo di produzione capitalistico ha ormai storicamente svelato la sua natura spaventosamente distruttiva su molteplici piani. Esso ha creato ricchezza economica ad un livello mai raggiunto da alcun sistema precedente. Ma la creazione capitalistica di nuova ricchezza ha dimostrato di essere, allo stesso tempo, creazione di nuove povertà, distruzione della socialità degli esseri umani, della loro sanità psichica, dell’ambiente naturale adatto alla loro vita biologica, delle risorse per il loro futuro. Esso è ormai la maledizione del genere umano, che è condannato, per creare e distribuire ricchezza secondo i rapporti di produzione capitalistici, in maniera sufficiente a mantenere un minimo di equilibrio sociale, a vivere in modo sempre più distruttivo nei confronti della natura e di se stesso.
2. La critica più penetrante fino ad ora compiuta del modo di produzione capitalistico è stata quella di Marx. Egli ha indagato la logica dell’accumulazione capitalistica mostrandone il carattere autoreferenziale e illimitato. Marx ha creduto che la logica autoriproduttiva del capitalismo portasse in sé una contraddizione per la quale il proletariato sarebbe cresciuto al suo interno come classe antagonistica dell’intero sistema, fino a rovesciarlo e ad instaurare la società comunistica dei liberi ed eguali, in cui ciascuno avrebbe prodotto secondo le sue capacità e ricevuto secondo i suoi bisogni. Il comunismo novecentesco ha assunto questa idea come dogma condiviso. Ma la realtà della storia è stata sotto questo aspetto completamente diversa. Del comunismo nel senso marxiano del termine non si è mai vista traccia. Ciò che nel Novecento si è fregiato di questo nome è stato un impasto, in proporzioni diverse nei diversi tempi, luoghi ed individui, di lotte di liberazione e nuove oppressioni, orrori ed eroismi, aperture generose ed ottusità fideistiche.
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