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Fake wars
di Alberto Bagnai
E così è accaduto l'evitabile.
Non che ci fossero molti dubbi. Non mi soffermo sulla cronaca: siete più informati di me, e a me informarmi interessa poco, per il semplice motivo che ogni giorno di più ho riprova di quanto desolante sia il panorama dell'informazione. Il casus belli resta dubbio, come lo fu in decine di occasioni precedenti, e quello che permetterebbe ex ante di capire quanto poi tutti capiscono ex post è una virtù apparentemente rara: un minimo di orecchio musicale.
Fa anche sorridere questo modo di fare la guerra: ci si mette d'accordo prima su quale obiettivo colpire e su quali missili tirare giù, si spendono un po' di soldi così, for the sake of show, o per quello sport tipicamente maschile che consiste nel misurarselo. Naturalmente per riparare le strade i soldi non si possono spendere: però per tirare qualche fischiabbotto sì. Si chiama keynesismo bellico, e in fondo è sempre esistito. Fare la guerra per finta con le armi vere è stato a lungo considerato una pratica nobile, e aveva anche allora un certo indotto economico, anche se, ogni tanto, le cose andavano storte, creando problemi veri. In questo caso, per esempio, se a qualcuno saltassero i nervi (ma non salteranno), potremmo morire. Ora, questa, mi rendo conto, è una prospettiva poco piacevole per il weekend, ma mi preoccupa poco, non tanto perché è anche poco probabile, ma soprattutto perché quello che mi sbigottisce, più che la prospettiva eventuale di una fine prematura, è la constatazione desolante di quanto siano imbecilli i nostri cosiddetti simili!
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Bombardata Damasco. Stop the War! Prime mobilitazioni
di Unione Sindacale di Base
Di fronte ai bombardamenti sulla Siria, crescono le proteste contro la guerra. Questa mattina a Roma gli statunitensi per la pace e la giustizia hanno convocato un sit in davanti l’ambasciata Usa in via Veneto. La Questura ha imposto però un assudo divieto a superare le 50 persone nella manifestazione. Potere al Popolo ha convocato per venerdi 20 aprile una giornata nazionale di mobilitazione contro la guerra in tutte le città (a Roma anticipata al 19 per andare a manifestare sotto Montecitorio). Non è escluso che vista la precipitazione gli appuntamenti possano essere modificati. Oggi a Milano è già stato convocato un presidio in piazza San Babila dal Comitato contro la guerra.
Il sindacato Usb ha invitato i propri iscritti a partecipare alle mobilitazioni: “Trump, Macron e May hanno bombardato Damasco, mettendo a rischio la pace nel mondo. L’intera area è divenuta il teatro di una guerra infinita. La Palestina continua a soffrire l’occupazione israeliana, mentre l’Arabia Saudita continua massacrare la popolazione yemenita. L’USB invita i suoi militanti ad aderire e promuovere le manifestazioni contro questa ennesima folle aggressione.
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Attacco Usa alla Siria, ma col freno tirato
di Redazione Contropiano
Hanno evitato per scaramanzia il venerdì 13 – che nella tradizione anglosassone è il vertice della jella – ma appena passata la mezzanotte Usa, Francia e Gran Bretagna sono partiti all’attacco della Siria.
Come Contropiano aveva anticipato già ieri, i segnali di un incremento anomalo delle attività radar del Muos di Niscemi rivelava che l’attacco era ormai questione di ore.
Il via era stato dato dallo stesso Trump in diretta tv, alle 21 di ieri sera (le 3 in Italia), limitando però fortemente la portata dell’attacco rispetto alle sue stesse dichiarazioni della vigilia: “Il nostro obiettivo è distruggere le capacità di lanciare armi chimiche del regime siriano… andremo avanti il tempo necessario per distruggere le loro capacità”.
Una conferma indiretta di questa “autocensura” è arrivata da Damasco: “sono stati lanciati circa 30 missili, un terzo dei quali sono stati abbattuti”. Secondo fonti ufficiali russe, invece, si è trattato di 103 missili da crociera e aria-terra su obiettivi militari e civili in Siria. Il ministero della Difesa russo, però, aggiunge che 71 di questi missili missili è stato “intercettato e abbattuto” dai sistemi di difesa siriani.
I russi sono stati avvertiti in anticipo e gli attacchi hanno evitato con molta cura anche solo di sfiorare truppe o installazioni con personale russo.
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La Germania propone una via d’uscita dall’euro
...per proteggere se stessa
di Marcello Minenna*
Nonostante un’economia che va a pieni giri, con la crescita del PIL al 3%, la disoccupazione al 3,6% ai minimi da 40 anni ed un surplus commerciale record che sfiora i 300 miliardi di €, i maggiori economisti tedeschi sono assai preoccupati per le sue sorti. La minaccia più immediata? Che il dibattito sulle riforme dell’Unione monetaria prenda una piega concreta verso la condivisione dei rischi, grazie soprattutto alle (timide) pressioni francesi e data l’inspiegabile assenza dell’Italia. Infatti, una riforma dell’Eurozona anche solo debolmente risk-shared che aumentasse (di poco) i trasferimenti di risorse verso i Paesi periferici vorrebbe dire rinunciare al comodo status quo attuale, nel quale l’industria tedesca può sfruttare la robusta ripresa del mercato europeo interno per le proprie esportazioni a prezzi ultra-competitivi.
La proposta ufficiale del gruppo di influenti economisti tedeschi, tra cui Hans-Werner Sinn e Karl Konrad del Planck-Institut e niente meno che il Presidente del Consiglio dei Saggi Economici (Sachverständigenrat), Christoph Schmidt è radicale ma non sorprendente: la legislazione comunitaria dovrebbe prevedere espressamente una procedura di uscita dall’Eurozona, sulla falsariga dell’Articolo 50 del Trattato di Lisbona recentemente invocato dal Regno Unito.
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Una lunga e sofferta meditazione sulla sconfitta
di Giuseppe Guida
«C’è un’intesa segreta fra le generazioni passate e la nostra», ha scritto Walter Benjamin: «A noi, come ad ogni generazione che ci ha preceduto, è stata data in dote una debole forza messianica, su cui il passato ha un diritto»1. In altre parole: il tempo non è necessariamente entropico; non è solo il cumulo di rovine contemplato dall’Angelus novus. È possibile che la generazione precedente possa orientare la nuova generazione verso il futuro, non già, però, ove si consideri quest’ultimo come suscettibile di essere generato spontaneamente e meccanicamente dal passato, secondo le tradizionali mitologie del progresso, ma come luogo in cui possono essere proiettate le aspirazioni irredente degli sconfitti. E’ così che, secondo Benjamin, dal passato si riaccende «la favilla della speranza»: nel buio può ritornare, sia pure debole e discontinua, la coscienza della luce. L’opera dello storico può risultare utile a questo scopo, ove riesca a far esplodere alla superficie della coscienza momenti dimenticati del nostro passato, a recuperare frammenti di parole all’interno di vite ormai ridotte al silenzio.
La nuova biografia di Gramsci scritta da Angelo D’Orsi sembra muoversi esattamente in questa direzione. Gramsci non è qui presentato come il creatore di un patrimonio di idee che altri hanno poi provveduto a custodire ed incrementare. Ci appare piuttosto come uno sconfitto la cui esistenza chiede ancora riscatto. I Quaderni, scrive D’Orsi, costituiscono «una lunga e sofferta meditazione sulla sconfitta»2.
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Introduzione a "In cammino, verso una nuova epoca"
di Gianni Petrosillo
1. Questo saggio di Gianfranco La Grassa si divide in due scritti che possono essere letti uno indipendentemente dall’altro. Tuttavia, gli elaborati in questione non sono slegati tra loro, anzi, costituiscono un solo corpo che sta insieme logicamente, in quanto la parte teorica iniziale è la chiave analitica per comprendere quella storica successiva.
La teoria, nella speculazione lagrassiana, costituisce il faro che illumina gli eventi, penetrando nella profondità degli stessi, oltre le apparenze e le ricostruzioni comunemente accettate. Dunque, benché egli non sia uno storico di professione, riesce ugualmente a fornire un’interpretazione originale degli avvenimenti sociali del secolo scorso (e di quelli più recenti), con un taglio di visuale particolare, ignoto ai professionisti della storiografia, ormai meri banalizzatori del passato, ad uso dei gruppi dominanti del tempo presente.
L’opera lagrassiana percorre la strada di un doppio revisionismo, teorico e storico, contrario alle vulgate in auge (i “revisionismi” ufficiali presentati come sola versione autorizzata degli accadimenti), che gli costa, ovviamente, isolamento intellettuale ed esclusione dai canali editoriali più potenti. In primo luogo, è bene precisare, come il Nostro afferma nel libro, che «la teoria è il massimo livello della pratica giacché serve in definitiva a guidare l’agire degli esseri umani», nelle loro iniziative intellettuali e sociali. Ma la teoria serve anche a setacciare nella Storia quelle concatenazioni evenemenziali, quei rapporti conflittuali tra soggetti “assoggettati” alle dinamiche oggettive, innervanti la società, che svelano meglio l’indirizzo di un’epoca e i suoi risvolti, visibili e meno visibili.
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Siria, la guerra non deve finire
di Tommaso Di Francesco
Medio Oriente. Chi guadagna dall'accusare Damasco di un presunto attacco al gas nervino o al cloro? Per rispondere bisogna sottolineare tre elementi: i due cosiddetti attacchi precedenti; l’attuale crisi di legittimità di Trump, lo scatenatore di dazi sotto tiro ancora per il Russiagate; il ruolo di Israele mentre gioca con prepotenza criminale e altrettanta impunità al tiro al piccione con le vite dei civili palestinesi a Gaza
La guerra in Siria non deve finire. Sembra questo l’assunto degli avvenimenti precipitosi in corso e sotto l’influsso dei racconti massmediatici che sparano la certezza, tutt’altro che verificata da fonti indipendenti, di un bombardamento al «gas nervino» o al «cloro», con cento vittime e gli occhi dei bambini – vivi fortunatamente – sbattuti in prima pagina.
Ci risiamo.
Temiamo che ancora una volta la verità torni ad essere la prima vittima della guerra.
Soprattutto di quella siriana, una guerra per procura, che ha visto insieme a 400mila vittime e un Paese ridotto in rovine, i mille coinvolgimenti dell’Occidente, delle potenze regionali a cominciare dalla Turchia baluardo sud della Nato, il ruolo dei jihadisti dell’Isis, di al-Qaeda e galassie collegate, che se fanno attentati in Europa e negli States sono «terroristi», mentre in Siria sono «opposizione».
La guerra è anche di parole.
Tra i dubbi che emergono, c’è un fatto concreto, un déjà vu: il raid dei jet israeliani inviati dall’«umanitario» Netanyahu a colpire una base aerea siriana, con altre vittime, civili e non.
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Guerre spaziali
di Mario Pezzella
1. Nei saggi raccolti in Spazio e politica. Il diritto alla città II (Ombre corte 2018)[1], Henri Lefebvre descrive lo spazio come prodotto sociale. Esso non è una forma a priori neutrale o un trascendentale sempre uguale a se stesso: si incurva secondo le linee divisorie della lotta di classe e dei rapporti di potere dominanti, che ne determinano la relatività e la mutevolezza. Non si producono “cose nello spazio”, ma lo spazio stesso, entro cui esse poi assumono configurazione concreta. Il capitalismo novecentesco ha interamente colonizzato lo spazio esistente, in funzione della produzione, circolazione e fantasmagoria delle merci. Anche il tempo acquisisce un valore, dipendente dalla rapidità con cui le distanze sono percorse, che determina la percezione della sua durata rapida o lenta. L’esaltazione della velocità si esaspera fino alla virtuale cancellazione della differenza dei luoghi in una ideale simultaneità sincronica. La distanza tende a divenire un algoritmo mentale ed astratto.
Lo spazio costruito dal capitale negli ultimi decenni del Novecento cancella la distinzione fra tempo di lavoro e tempo di vita, uniformati in un unico tempo produttivo. Non si tratta più solo di riprodurre i mezzi, ma anche i rapporti di produzione: questa “si realizza nella quotidianità, nel tempo libero e nella cultura… attraverso l’intero spazio” (46).
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Il pluralismo di piattaforma
Un modello “conviviale” di economia politica delle piattaforme?
di Tiziano Bonini
Per un po’ di giorni, grazie al lavoro di decine di giornalisti investigativi del Guardian, la storia dei dati degli utenti di Facebook finiti nelle mani di Cambridge Analytica ha occupato l’agenda dei media internazionali.
Ma ora che ne sappiamo un po’ di più, dovremmo chiederci qual è il cuore di questa storia. Per cosa, come cittadini e utenti di Facebook, dovremmo indignarci e protestare? Qual è il punto della vicenda?
Non ci piace che un governo straniero abbia avuto accesso ai dati di milioni di utenti americani di Facebook? Non ci piace che gli spin doctor di Trump (Bannon) abbiano avuto accesso a questi dati? Non ci piace che Facebook non sia stata capace di proteggere la privacy dei propri utenti, come scritto nella sua licenza d’uso? Il problema è chi ha fatto uso di questi dati, o il fatto che questi dati siano stati utilizzati per fini di propaganda?
Perché nel primo caso, anche Obama ha fatto uso di questi dati. Come riporta un bell’articolo di Slate, “la campagna di Obama del 2012 ha utilizzato gli stessi tipi di dati ai quali Cambridge Analytica ha avuto accesso. Obama è stato capace di “targetizzare” gli elettori e i potenziali sostenitori utilizzando software che funzionavano al di fuori di Facebook e che si nutrivano di dati Facebook. Era un problema allora. È un problema ora.
Ma nel 2012, la storia di Obama era una storia di speranza, e i modi tecnologicamente avanzati della sua campagna erano oggetto di ammirazione”.
Se Obama usa questi dati va bene e se invece lo fanno Bannon, Trump o Putin non va bene?
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Conflitto e potere
L’inquieta persistenza del classico: Machiavelli tra filosofia e politica
di Antonio De Simone
Perché Machiavelli?
Perché quando tutto cambia, quando «solo la continuità consente, per contrasto, di misurare la discontinuità»1, come nelle epoche di crisi schiacciate e oscurate dalle urgenze del presente, i classici registrano una loro straordinaria persistenza? Quale legame sussiste tra i classici, la crisi e il mutamento sociale e politico? Per potersi affermare, ogni classico non può che scompaginare i canoni della vecchia tradizione e decostruire l’ordine del discorso che lo precede. Il classico autentico è colui che «avverte e traduce nella propria scrittura» le contraddizioni del proprio tempo storico: egli è consapevole della «friabilità della propria costruzione», perché sa che essa «poggia su una faglia fragilissima, sempre sul punto di spezzarsi»2. Il classico, e non potrebbe essere altrimenti, «non è fuori dal tempo, al riparo dal vento della distruzione», egli sa che «la distruzione è più forte di ogni costruzione», poiché «eterna è solo la finitezza che scava dall’interno le nostre opere e i nostri giorni»3.
Come ho già osservato altrove4, ogni esercizio di lettura dei ‘classici’5 non è solo un esercizio di scrittura che ci sospinge a rileggerli ma anche a scrivere su quanto scritto da altri e, quindi, a riflettere (e scrivere) su scritti altrui per tentare di comprendere quanto di inalterato sia rimasto della loro «attualità» o meno e cercare di capire, nella scansione epocale che ci separa da loro, ciò che della loro luce o della loro ombra possa ancora riflettersi nella condizione umana contemporanea.
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Le riforme del Fondo Monetario Internazionale sono l’ennesimo attacco al lavoro
di coniarerivolta
Mentre continuano le consultazioni per la formazione del nuovo Governo, il Fondo Monetario Internazionale (FMI) fa sentire la sua voce con una serie di studi che disegnano l’Italia di domani. Per chi non lo sapesse, il FMI è uno degli attori che di fatto determinano gli indirizzi di governo delle economie mondiali. Recentemente è tornato a raccomandare per l’Italia dosi abbondanti di austerità, abbinate a provvedimenti fiscali iniqui e vergognosamente a favore delle classi dominanti. Purtroppo non finisce qui.
Per espiare le nostre presunte colpe, apparentemente ci sono altri compiti a casa da fare. Come si può leggere in due recenti contributi (questo e questo) del FMI, l’Italia avrebbe “ulteriori” benefici da una radicale riforma del sistema di contrattazione collettiva vigente, che riduca la portata della medesima dal livello settoriale nazionale a quello aziendale.
Che cos’è la contrattazione collettiva? È quello strumento attraverso il quale le parti sociali (sindacati dei lavoratori ed associazioni padronali) negoziano dei contratti collettivi che coprono gli aspetti retributivi e regolamentari del rapporto di lavoro. Una volta firmato, il contratto collettivo garantisce e si applica in generale a tutti i lavoratori ai quali si riferisce, anche al lavoratore non iscritto ad alcun sindacato o che lavora in un’azienda che non aderisce a nessuna organizzazione dei datori di lavoro. Allo stato attuale, la negoziazione avviene a livello di settore produttivo (per esempio l’industria chimica, l’industria metalmeccanica etc.).
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Il cespuglio inestricabile: la questione delle migrazioni
di Alessandro Visalli
Un urbanista americano attivo dagli anni cinquanta ai primi ottanta, Kevin Lynch, in “Good city form” del 1981 descriveva i processi decisionali, ad esempio quelli coinvolti nelle dinamiche territoriali, come un intreccio di catene, o sequenze, di inferenze e atti che mettono in connessione situazioni, valori e obiettivi; ma “le parti inferiori di tali catene sono sommerse nell’abitudine, mentre quelle superiori si perdono tra le nuvole, per essere rivelate solo in occasioni retoriche”, inoltre e quel che più conta, “catene differenti si mescolano e si separano in modi confusi, sicché le singole azioni derivano da molti valori e hanno conseguenze molteplici, che a loro volta sono collegabili ad altre fonti di valore. Il risultato è un cespuglio [thicklet] piuttosto che una catena, o più esattamente un cespuglio le cui radici e i cui rami si intersecano e si innestano gli uni negli altri” (cit, in. V. Andriello, La Forma dell’esperienza, 1997, p.74).
Premessa
Questo cespuglio inestricabile di questioni, tra le abitudini e le nuvole degli alti principi, che mobilita contemporaneamente tanti piani diversi e porta in campo problemi enormi, lo affronteremo qui in quattro passi: in primo luogo conviene fare mente locale ad alcuni sfondi ed alcuni dibattiti, almeno per situare le posizioni, si renderà necessario aprire qualche inciso sulla logica imperiale della costruzione europea a guida nordica e sulla “tecnica dei capponi”; in secondo luogo proveremo a riconfigurare il problema delle migrazioni in un quadro più ampio; in terzo luogo verrà proposto uno schema analitico che scompone il fenomeno delle migrazioni negli effetti di due “economie politiche” reciprocamente interconnesse; nelle conclusioni si prova ad indicare il campo di battaglia vasto nel quale si dovrebbe combattere.
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La Cina dopo la crisi globale: il “New Normal” di Xi Jinping
di Lorenzo Termine
Secondo i dati[1] del Fondo Monetario Internazionale (FMI), la Repubblica Popolare Cinese (RPC) nel 2017 ha fatto registrare un PIL di quasi 11,94 trilioni di dollari, con un tasso di crescita del 6,8 %. Per capire meglio i dati basti pensare che gli Stati Uniti, primo paese al mondo per Prodotto Interno, hanno raggiunto nello stesso anno 19,36 trilioni di dollari ma con un tasso di crescita di 2,2 punti percentuali. Secondo molti analisti, il differenziale di tassi di crescita farà sì che nel prossimo decennio la Cina potrebbe diventare la prima potenza economica al mondo superando gli USA. La crescita media tra il 1980 e il 2016 del PIL cinese ammonterebbe al 9,64 %, con un picco storico del 15,2 % (1984) e un minimo storico del 3,9 % (1990). Se si guarda invece al PIL secondo la parità di potere di acquisto (PPA), la Cina avrebbe già superato gli Stati Uniti con un valore di 23,12 trilioni di dollari (2017). Per quanto riguarda l’Indice di Sviluppo Umano (ISU)[2] sviluppato originariamente da ul Haq e Sen, Pechino è passata da un valore di 0,43 nel 1980 ad un valore di 0,728 nel 2015, una delle variazioni più marcate verificatesi nel mondo durante questo intervallo.
In questo quarantennio di crescita intensiva (1978-2018), la Cina ha adottato un modello di crescita basato principalmente sull’esportazione di prodotti maturi (cioè prodotti a basso contenuto innovativo, frutto di tecnologie mature e dunque legati a processi produttivi situati a un basso livello della catena del valore), sull’alta produttività fattoriale e sulla bassa remunerazione del lavoro.
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L’Unione europea come progetto di classe e strategia imperialista
di Panagiotis Sotiris e Spyros Sakellaropoulos
Gli interrogativi circa il carattere dell’Unione europea, intesa come progetto di classe, non hanno ricevuto la dovuta attenzione nei dibatti marxisti, e ciò malgrado alcuni importanti interventi, proprio da parte parte marxista, miranti a una teorizzazione dell'”integrazione europea” [1]. In contrasto rispetto alla tendenza a concepire teoricamente tale processo quale evoluzione di una federazione o confederazione, ci concentreremo sulle strategie di classe in esso inscritte. Un simile approccio dimostrerà come non ci si trovi di fronte ad una forma statale sovranazionale, bensì ad un’avanzata forma assunta dalla coordinazione e integrazione gerarchiche (e necessariamente contraddittorie) del progetto delle classi e stati capitalisti europei, in cui la riduzione della sovranità statale consente una strategia di intensificato sfruttamento capitalistico. Un approccio dal quale scaturiscono conseguenze di natura non solo analitica, ma anche politica, additando la continua rilevanza, per le classi subalterne, di una strategia finalizzata alla rottura del processo di integrazione europea.
Tenteremo dunque di analizzare il carattere di classe dell’Unione europea nella sua evoluzione storica, e le modalità della sua incorporazione all’interno del sistema imperialista. Su queste basi, cercheremo di valutare le dinamiche di integrazione e l’attuale crisi del “progetto europeo”.
I primi passi dell’integrazione europea
Le ricostruzioni storiche ufficiali dell’integrazione europea tendono a presentarla come un processo emergente dal desiderio di cooperazione pacifica dei popoli europei. Tuttavia, l’integrazione ha costituito un processo ben più complesso.
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Europa, mercato e sovranità popolare
di Alessandro Somma
Che l’epoca attuale sia caratterizzata dal trionfo della logica del profitto è oramai un dato di fatto, le cui conseguenze sono state indagate dai punti di vista più disparati. Un recente volume – "Lo impone il mercato. Come i nostri governanti hanno stravolto i principi costituzionali" di Daniele Perotti (Imprimatur) – ha ripercorso quelle che interessano il piano dei principi fondamentali enunciati dalla Costituzione italiana nei suoi primi articoli[1]. Il risultato è un atto di accusa duro e articolato contro l’Europa unita, ritenuta il catalizzatore di quanto possiamo oramai definire in termini di dittatura del mercato. Al lettore si offre così un contributo riconducibile a un genere letterario che sta finalmente prendendo piede: quello relativo all’incompatibilità conclamata, sebbene troppo a lungo occultata, tra Costituzione italiana e Trattati europei.
Costituzione vs Trattati europei
Da un simile punto di vista sono centrali le pagine in cui si sottolinea il ruolo che per la Carta fondamentale assume il lavoro: il perno del patto di cittadinanza per cui il diritto ai beni e servizi erogati dallo Stato sociale costituisce il corrispettivo del dovere di concorrere al progresso materiale e spirituale della società (art. 4). Il tutto collegato a un vero e proprio obbligo dei pubblici poteri di creare le condizioni affinché il diritto al lavoro sia effettivo, e soprattutto sia produttivo di emancipazione e dignità per sé e per la propria famiglia.
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Per Moishe Postone
di Jacob Blumenfeld
Ho incontrato per la prima volta il libro di Moishe Postone sull'antisemitismo all'inizio degli anni 2000, ma è stato solo intorno al 2008-2009, quando gli Stati Uniti erano preda della crisi finanziaria, che il suo pensiero su Marx, sul capitalismo, e sul valore mi hanno davvero cominciato a colpire. Ricordo di aver fatto delle fanzine in cui pubblicavo pezzi dal suo libro "Critica e Trasformazione Storica", e le distribuivo a New York City agli studenti, agli attivisti, e agli amici, nella speranza di riuscire a dare l'avvio ad un dibattito sulla crisi che fosse più critico . Il punto era quello di riuscire ad andare oltre le superficiali analisi del "capitalismo clientelare" e vedere la totalità del capitale come una dinamica del valore auto-mediante soggetta alla crisi che non può essere semplicemente contrapposta al valore. Inoltre, la teoria critica di Postone sfidava quelli di noi che si erano politicizzati nel movimento "anti-globalizzazione" e nel movimento contro la guerra della fine degli anni '90 e dei primi anni 2000.
Per prendere seriamente la critica del capitale che proponeva Postone, si richiedeva un nuovo orientamento nei confronti della politica e della lotta di classe che avrebbe superato i limiti dell'identità del consumatore, delle agende nazionaliste, dei sogni keynesiani, e le opposizioni semplicistiche fra wall street e main street, fra il capitale finanziario ed il capitale industriale. Per alcuni di noi, Postone non era andato abbastanza lontano nell'inseguire le proprie intuizioni teoriche. Nessuno dei "nuovi movimenti sociali" ci avrebbe salvato - come qualche volta lui aveva detto - ma lo avrebbe fatto solo una rottura radicale nella riproduzione della relazione di valore, avevamo affermato. Una tale rottura non sarebbe provenuta da dei partiti politici o dalle agende dei movimenti, ma solo dalle stesse lotte nel momento in cui sarebbero andate a cozzare contro i propri limiti e l'appartenenza di classe.
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La radice quadrata della transizione
Riflessioni sull’Italia del 4 marzo
di Luca Cangemi
Il contributo del compagno Luca Cangemi alla discussione aperta in Marx21.it sul risultato delle elezioni del 4 marzo
Problemi di stile e di metodo.
C’è una sola cosa peggiore dei risultati elettorali delle forze comuniste ed anticapitalistiche di quest’ultimo decennio: il dibattito sui risultati stessi. Credo che ci sia una questione preliminare di stile e di metodo. È necessario uno stile caratterizzato dall’umiltà e dalla problematicità. La sconfitta politica, sociale, organizzativa si accompagna in tutta evidenza e naturalmente ad una inadeguatezza teorica. Una inadeguatezza teorica che non attiene tanto alle categorie che ci consegna la tradizione comunista (che anzi restano, su molti versanti, di straordinaria utilità) quanto all’uso che di esse viene fatto.
Questa inadeguatezza va superata ma avendo piena coscienza del fatto che sarà compito né breve né facile. In questa condizione giudizi troppo assertivi o peggio liquidatori non fanno fare alcun passo avanti. Dobbiamo lavorare per approssimazioni, valorizzando il nucleo di verità interna che vi è in ogni punto di vista, anche il più lontano. E dircelo.
Sul piano del metodo dobbiamo recuperare le essenziali coordinate spazio-temporali. C’è un problema con il passato, anche quello più recente. La presentificazione della realtà e il culto dell’evento sono tenaci quanto disastrose eredità della globalizzazione capitalistica e del pensiero postmoderno, caratteristiche non solo del senso comune ma anche di tanti interventi nel dibattito della sinistra comunista.
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Lavorare a cottimo
di Clemente Lepore*
Consegne a domicilio, corrieri in bicicletta, diritti e rischio d’impresa: le ombre della gig economy
Sono le 18, inizia il turno (sembra che non si debba chiamarlo così, scopriremo più tardi perché). Torino, Piazza Castello e poi San Salvario e poi Vanchiglia e poi Porta Palazzo e poi San Donato e ancora San Salvario e poi Piazza Vittorio Veneto fino all’ultimo chilometro, fino all’ultimo minuto. Pedala, pedala, corri veloce, su e giù per la città, devi fare più consegne possibili, bisogna scalare il ranking, prendere i feedback migliori. E allora pedala, pedala ancora. Anche con la pioggia, anche con lo smog che diventa nebbia. Paga oraria o cottimo, non importa, è irrilevante, devi comunque essere tra i migliori. Pedala, pedala più forte.
È impossibile non farci caso. Sono tanti, in sella alle loro biciclette o ai loro motorini. I colori variano ma sono sempre gli stessi: rosa, giallo, verde-azzurro. Truppe diverse a contendersi il mercato delle consegne a domicilio. Loro sono i rider, i corrieri all’epoca degli algoritmi.
Sono ormai parte del tessuto urbano delle medie e grandi città. C’è chi parla di imprenditorializzazione della condizione urbana. Diventare imprenditori di se stessi, gestire il proprio tempo compatibilmente con altre occupazioni, afferrare pezzi di libertà. C’è qualcosa di sottilmente seducente in questa narrazione. “Teoricamente ci sono alcuni aspetti positivi come la flessibilità in situazioni in cui una persona ha bisogno di organizzare le sue giornate. E sicuramente ci sono rider che sono contenti di lavorare in questo modo e di percepire una fonte di reddito.
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Da "La Stampa" a "Internazionale"
La manipolazione mediatica sulla Palestina
di Patrizia Cecconi
“Se non state attenti i media vi faranno odiare le persone oppresse e amare i loro oppressori.” Lo diceva Malcom X e non era poesia ma estrema sintesi di ciò che può il potere mediatico. Lo verifichiamo continuamente anche ora che l’avvento dei social e della stampa on line riesce a ridimensionare il potere di creare e sopprimere verità da parte dei media main stream. Solo a ridimensionare però! Ultimo caso esemplare è quanto successo tre giorni fa in Medio Oriente, esattamente nella Striscia di Gaza.
Un passo indietro è d’obbligo ed è la dichiarazione di Israele che minacciava di fare strage di palestinesi nel caso in cui la manifestazione del 30 marzo, benché pacifica, avesse sfiorato il confine dell’assedio. Non si è levata neanche una parola dalle Istituzioni internazionali per condannare una simile dichiarazione dando così a Israele il consenso tacito a rendere operativa l’azione criminale minacciata, lasciando sul campo 17 cadaveri e oltre 1500 feriti in un’operazione durata solo poche ore.
I pochissimi internazionali presenti nei vari punti di concentramento della “grande marcia del ritorno”, questo il nome dato dagli organizzatori alla manifestazione indetta per rivendicare il rispetto delle Risoluzioni Onu da parte di Israele, hanno visto e testimoniato, anche con documentazioni video e fotografiche, l’andamento della grande manifestazione e gli omicidi immotivati commessi dai 100 tiratori scelti posizionati da Israele lungo il border.
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Dopo il 4 marzo: in cammino verso l’ignoto. Purché a destra
di Il cuneo rosso
“Noi non siamo anti-sistema. È il sistema che
è venuto giù da solo. Noi gli abbiamo dato
soltanto una piccola spinta.” (Beppe Grillo)
In molti hanno definito il 4 marzo un passaggio d’epoca. È un’esagerazione. Le epoche storiche non cominciano né finiscono a mezzo schede elettorali. Ma un fatto è certo: le recenti elezioni segnano la meritatissima fine della seconda repubblica. Meno ovvie sono le cause di questo terremoto politico-elettorale, e soprattutto le sue conseguenze.
Le cause interne
La causa principale dei risultati del voto, e del non voto, del 4 marzo sta nel vasto e acuto malessere sociale che si è espresso omogeneamente da nord a sud contro Pd e FI, le forze politiche prime responsabili dei duri sacrifici imposti negli ultimi 25 anni sia ai proletari che a parte dei ceti medi.
Partiamo dal non voto, che è stato in genere oscurato. Va invece rimarcato che l’astensione è, nel complesso, cresciuta di altre centinaia di migliaia di unità, raggiungendo il 27% (poco meno di 14 milioni). La Lega e il M5S hanno riportato ai seggi, con la loro propaganda, milioni di astenuti. La Lega deve quasi il 30% del suo voto a questo richiamo, il M5S il 19,5% – a conferma del carattere mobile di parte almeno delle astensioni. Tuttavia il totale degli astenuti è ulteriormente aumentato, soprattutto per il passaggio al non voto degli elettori del Pd, anzitutto operai.
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Israele, UK, Usa, UE; gas nervini e partite di caccia
Stati canaglia all’assalto.Colpi di coda o offensiva finale?
di Fulvio Grimaldi
Che il mostro sia ferito è indubbio, che abbia la forza per menare colpi di coda, o allestire una soluzione finale è da vedere. La resa dei conti, in ogni caso, ha per obiettivo Putin e la sua Russia, nonché i popoli europei a metà strada tra est e ovest. Quella Russia che, sottratta al magliaro Eltsin e agli avvoltoi interni ed esterni che lo sbronzone aveva invitato alla tavola apparecchiata con le membra mozzate dei popoli sovietici, rimessasi in piedi e in cammino, ha dato l’altolà al processo della mondializzazione imperialista, ha asserito e concretizzato il suo diritto ad avere una parola in merito a se stessa e al pianeta, si è mossa in sostegno di tale diritto e a difesa di chi dalla mondializzazione imperialista doveva essere spianato.
Siamo alle provocazioni che dovrebbero avvicinare quel confronto risolutivo da cui soltanto degli invasati mentecatti, manovrati al potere dalla storica cupola finanzcapitalista, possono aspettarsi una sistemazione dell’ordine mondiale che mantenga in vita l’umanità. Ci stiamo avvicinando a quel confronto, inevitabilmente nucleare, o vi siamo già dentro? That is the question. Vediamo.
Il Quarto Reich
La palma degli affossatori di ogni diritto, decenza, morale, umanità, spetta a Israele, ai superatori dei nazisti che dirigono il paese e proclamano il “più morale del mondo” un esercito che va alla partita di caccia contro donne uomini e bambini inermi e, dispiace dirlo, caccia condivisa dall’incirca 80% della sua popolazione che con tale banda di licantropi si schiera nell’occasione di ogni bagno di sangue, da 70 anni a questa parte.
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Post-verità
di Salvo Vaccaro
Chi rinuncia a monopolizzare la verità
rinuncia a comandare.
Fernando Savater
1. Il potere della post-verità
Nel novembre del 2016, Oxford Dictionaries ha eletto parola dell’anno Post-verità. Il lemma esprime una «relazione con o una connotazione di eventi in cui i fatti oggettivi sono meno decisivi per formare una opinione pubblica, rispetto al ricorso ad emozioni e credenze personali» (Relating to or denoting circumstances in which objective facts are less influential in shaping public opinion than appeals to emotion and personal belief)1. Si era appena usciti dalla sorpresa generale dell’esito referendario sulla Brexit nel Regno Unito, nonché dalla sorpresa ancora più imprevista, e a dispetto di tutti i sondaggi, della vittoria di Donald Trump alla carica di presidente degli Stati Uniti d’America. Due fatti di natura prettamente politica che fanno immediatamente evocare una Post-Truth Politics, ossia una nuova era politica segnata dalla post-verità. Ad onor del vero, questo lemma circolava almeno da una decina d’anni in letteratura, a partire per esempio da un (solitario) libro di Ralph Keys uscito negli Usa nel 2004, The Post-Truth Era, oppure da una parola simile usata l’anno successivo dallo scrittore americano Stephen Colbert, Truthiness, nel I episodio del suo programma di satira politica The Colbert Report, che significava sempre per Oxford Dictionaries «la caratteristica di apparire o di considerarsi essere ritenuta vera, anche se non necessariamente vera» (the quality of seeming or being felt to be true, even if not necessarily true)2. Nell’arco di una dozzina d’anni, il termine post-verità esorbita da una dimensione occasionale o marginale alla pubblica discussione, per piombare prepotentemente nel cuore dell’opinione pubblica, del dibattito politico contemporaneo.
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Le fondamenta perverse dell’Unione monetaria europea
Uso e abuso della teoria economica
di Jacques Sapir
In questa lunga nota, Sapir ripercorre le tappe fondamentali della creazione istituzionale europea più ambiziosa di questi ultimi anni, l’unione monetaria europea, soffermandosi sui numerosi dubbi espressi sin dalle origini da diversi importanti economisti statunitensi, ma anche sulle critiche più recenti diffusesi in Europa e sulle incoerenze stesse della teoria di Mundell, considerato il “padre intellettuale” dell’euro. Da questa lunga disamina appare evidente come la teoria economica sia stata strumentalizzata a scopi politici e come molti economisti si siano prestati a distorcere le loro teorie per dimostrare a tutti i costi la necessità e la superiorità dell’euro, coprendo i politici con la credibilità della loro reputazione
L’euro è la creatura istituzionale più ambiziosa dell’Europa degli anni recenti (1) (2). E la stessa storia della creazione (e della disintegrazione) di molte aree monetarie comuni è stata probabilmente ignorata per giustificare il progetto (3) [2]. Non è sicuro che tutte le implicazioni della creazione di una moneta comune siano state comprese chiaramente quando è stata presa la decisione di lanciare l’Unione monetaria europea (EMU) e l’euro. Le considerazioni politiche hanno preso il sopravvento sulle considerazioni economiche. L’idea dell’unione monetaria è così diventata ostaggio di una fuga in avanti dei cosiddetti “europeisti” [3]. In questo processo la teoria economica è stata strumentalizzata al fine di raggiungere un obiettivo politico.
L’idea di una moneta comune in sé non è priva di meriti. Il presidente Vladimir Putin è noto per aver provato a promuovere questa idea anche per i paesi appartenenti all’ “Eurasian Union” [4]. Ma un progetto del genere necessariamente presuppone una valutazione approfondita della situazione economica di tutti i suoi potenziali membri.
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Siete pronti? Questi sono i vostri dati che i giornali online vendono sul mercato digitale
di Tommaso Tani
I fatti a cui abbiamo assistito ultimamente suonano – almeno nei titoli delle grandi testate - con toni apocalittici, raggiungendo un livello di distopia da far sembrare 1984 un libro per bambini. Non serve riportare né i fatti né tanto meno le successive analisi – un link all'articolo di Fabio Chiusi è sufficiente per aggiornarvi su tutto. Lo scopo di questo altro pezzo invece è capire se davvero Facebook e Cambridge Analytica abbiano rappresentato l’alleanza malvagia che dal 2014 ci spia e ci manipola. In altre parole, il problema di tutto ciò è il social network di Zuckeberg? Se non ne abbiamo mai fatto parte, possiamo essere al sicuro?
La risposta, per almeno due motivi, è ovviamente no. In primis, perché, con la complicità di chiunque gestisca un sito internet, Facebook ci segue e ci studia anche se non ne facciamo parte. Ogni volta che infatti vedete un bottone blu con “Like”, potete stare certi che siete, in diversa misura ovviamente di volta in volta, tracciati dal colosso americano. Quel pulsante infatti carica del codice all’interno della pagina che gli permette di studiare i vostri dati navigazione e il vostro profilo. Da giugno 2014 infatti, Facebook raccoglie informazioni tramite quel piccolo pulsante, che ci facciate click sopra, che siate loggati o meno, poco conta.
Il secondo motivo per il quale escludendo Facebook dal gioco non potete vivere a pieno la vostra privacy è che quasi tutti i siti web più grandi su cui navigate replicano, su scala diversa ma non troppo, la facilità con cui il social network, fino al 2015, faceva fluire i dati verso soggetti terzi. E, ironia della sorte, uno dei business che più trae giovamento da questa fluidità e spensieratezza di condivisione è il settore editoriale.
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Note sul rapporto base-sovrastrutture-prassi
di Eros Barone
Molte cose sa la volpe,
Ma una sola e grande il riccio.
Archiloco1
In queste note mi propongo di individuare la radice teorica di molteplici divergenze politico-ideologiche, il cui punto cruciale è costituito da altrettante concezioni dell’insieme base-sovrastrutture-prassi. Cercherò pertanto di definire congiuntamente i tratti distintivi della base, delle sovrastrutture e della prassi, nonché il loro rapporto secondo un “verso”.
Marx ed Engels hanno distinto, nell’àmbito di ogni società concreta, la base, incardinata sul binomio forze produttive-rapporti di produzione, dalle sovrastrutture (Stato, diritto, politica, filosofia, arte, religione ecc.) e dalla prassi, a sua volta articolata in un ventaglio di pratiche sociali,2 correlative ai diversi livelli della base e delle sovrastrutture (pratica giuridica, politica, economica, religiosa ecc.); inoltre, Marx ed Engels hanno definito tra questi tre livelli della società connessioni specifiche, ossia un “verso”, tali da consentire di cogliere sul piano teorico le dinamiche di essa società.
Sostanzialmente, tali connessioni consistono nel ruolo di determinazione in ultima istanza giocato dalla base nei confronti degli altri due livelli (sovrastrutture e prassi), nella funzione di ritorno (o feed-back), svolta dalla prassi e dalle sovrastrutture sulla base, e nell’azione di rivoluzionamento sia sulla base sia sulle sovrastrutture, che è capace di esercitare una pratica, differente da tutte le altre: la pratica politica di classe.
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