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Rettilario uccidentale, verminaio jihadista,
sciacalli della stampa: a tutto gas!
di Fulvio Grimaldi
Quel pazzo di Assad…
I siriani sono un popolo di inebetiti che si fanno governare da un mentecatto sadomasochista che utilizza un esercito di deficienti. Così, nella provincia di Ghouta, da cui terrroristi jihadisti al soldo di Usa, Israele, Turchia e Arabia Saudita facevano il tiro al piccione sui civili di Damasco, liberata al 90% a costo di interrabili sacrifici e costi, con decine di migliaia fuggiti dai jihadisti che rientravano alle loro case, cosa fanno Assad, esercito e siriani plaudenti? Cosa fanno dopo che Usa, UK e Francia, notoriamente in fregola di massacri, avevano promesso castighi spaventosi in caso di attacco chimico di Assad? Cosa fanno dopo che l’avevano sfangata nel 2013 dalla stessa identica accusa di aver ucciso qualche centinaio di bimbetti siriani con i gas nervini, sfangata grazie alla smentita dei satelliti russi, grazie alla scoperta di alcuni genitori che quei cadaverini appartenevano a loro figli rapiti da Al Nusra settimane prima nella zona di Latakia e grazie alla consegna e totale distruzione sotto controllo ONU (cioè Usa) dell’INTERO arsenale di armi chimiche siriano? Cosa fanno?
Manco fosse l’idra trumpiana composta da un Bolton (Sicurezza Nazionale Usa), o un Pompeo (Dipartimento di Stato), o una Gina Hagel (CIA), invasati di eccidi, guerre e torture, Assad ordina un’apocalisse chimica su donne e bambini a Douma, ultimo fortilizio in cui sono asserragliati i mercenari israelo-saudi-Nato che si fanno forti dello scudo umano imposto alla popolazione. Un esercito di fratelli, sorelle, padri e figli di quelle donne e di quei bambini, esegue con la coscienza umana e civile di un cyborg alimentato a bile nera di cobra. E il popolo? Plaude, in attesa che ad Assad gli giri di prendersela chimicamente con un altro dei loro quartieri o villaggi.
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Marx e la Storia Mondiale
di Michael R. Krätke*
Negli anni 1881 - 1882, Marx intraprese degli ampi studi storici che coprivano gran parte di quella che era allora nota col nome di "storia mondiale". I quattro grossi quaderni in cui erano riportati estratti dalle opere (principalmente) di due storici di punta di quel tempo, Schlosser e Botta, sono rimasti quasi del tutto inediti. Qui si cerca di contestualizzare quelli che sono gli ultimi studi di Marx relativamente al corso della storia mondiale, rispetto agli studi storici precedenti, ma incompiuti, riguardo la critica dell'economia politica
«Tutta la storia dev'essere studiata nuovamente!»
(Lettera di Engels a Conrad Schmidt, 5 Agosto 1890)
Sia la portata che lo scopo di queste sue note sono sorprendentemente ampie, e vanno ben al di là della storia europea, coprendo in realtà molte altre parti del mondo. L'interpretazione che ne viene qui data si basa sull'attenzione espressa dallo stesso Marx: l'autore del "Capitale" era affascinato dal lungo processo di costruzione degli Stati moderni e del sistema statale europeo, uno dei prerequisiti fondamentali dell'ascesa del capitalismo moderno in Europa.
Marx viene considerato il (co-)fondatore della cosiddetta "concezione materialista della storia"; ma egli non ha mai usato il termine «materialismo storico». È impossibile delineare una simile "teoria della storia" - o, per essere più precisi, una teoria del "processo storico mondiale" - senza uno studio dettagliato della storia, senza una conoscenza precisa dell'immensa, caotica massa dei "fatti", dei documenti, di ogni genere di materiali perduti e poi riscoperti, delle tradizioni, dei testi (e quindi che sono già delle interpretazioni) della storia scritta.
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Tra globalizzazione e protezionismo
di Enrico Grazzini
Il pensiero di J. M. Keynes, Susan Strange e Dani Rodrik su interesse nazionale e democrazia
Il presidente degli Stati Uniti d'America Donald Trump sta chiudendo le frontiere del suo paese applicando pesanti dazi alla Cina e a tutto il mondo, e si sta scontrando apertamente con il presidente cinese Xi Jinping che invece è diventato il maggiore alfiere del libero commercio internazionale (anche se Xi Jinping si guarda bene dal liberalizzare completamente la moneta e la finanza nel suo paese).
Lo scontro tra protezionismo e globalismo non si limita certo al conflitto tra Trump e Xi Jinping. Uno scontro analogo, anche se ovviamente non identico, si svolge da tempo in Europa, tra i cosiddetti “sovranisti” che non vogliono subordinarsi all'euro e alla “tecnocrazia” di Bruxelles, e, dall'altra parte, gli europeisti ad oltranza: questi ultimi sono schierati a favore della maggiore integrazione europea, e quindi a favore della libera circolazione dei capitali (che, insieme alla libera circolazione delle merci e delle persone, è il sacro principio fondante di questa Unione Europea). Gli europeisti ad oltranza condannano a priori ogni forma di resistenza nazionale con l'accusa di populismo e di sciovinismo retrogrado e reazionario.
Ormai però le forze della destra nazionalista (purtroppo) dilagano: in alcuni stati già governano, come nell'est Europa e in Austria, in altri stati i nazionalisti di destra sono diventati la principale forza di opposizione, come in Germania l'AFD (Alternative für Deutschland) e in Francia il Front National. Il nazionalismo ha attualmente quasi sempre una caratterizzazione di destra estrema e para-fascista. La Gran Bretagna è uscita nonostante che laburisti fossero contrari alla Brexit. L'onda della destra nazionalista avanza ormai in tutta Europa, Italia compresa.
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Lavoro produttivo e lavoro improduttivo
Un ostacolo da superare per le politiche di spesa?
di Dino Raiteri
Nel Capitale il lavoro produttivo viene così descritto:
"La produzione capitalistica non é soltanto produzione di merce, é essenzialmente produzione di plusvalore. E' produttivo solo quell'operaio che produce plusvalore per il capitalista, ossia che serve all'autovalorizzazione del capitale. Se ci é permesso scegliere un esempio fuori della sfera della produzione materiale, un maestro di scuola é lavoratore produttivo se non si limita a lavorare le teste dei bambini, ma se si logora dal lavoro per arricchire l'imprenditore della scuola. Che questi abbia investito il suo danaro in una fabbrica di istruzione invece che in una fabbrica di salsicce, non cambia nulla nella relazione. Il concetto di operaio produttivo non implica dunque affatto soltanto una relazione fra attività ed effetto utile, fra operaio e produzione del lavoro, ma implica anche un rapporto di produzione specificamente sociale di origine storica che imprime all'operaio il marchio di mezzo diretto di valorizzazione del capitale". (Il Capitale, libro I, sezione 5°, capitolo 14°,pag.222; Editori riuniti, 7° ediz.).
Un' altra descrizione la si può trovare, ad es., in Mandel, Trattato di economia marxista, 1962, pag.302:
" In generale si può dire che ogni lavoro che crei, modifichi o conservi valori d'uso o che sia tecnicamente indispensabile alla loro realizzazione, é un lavoro produttivo, cioè aumenta i loro valore di scambio. In questa categoria rientrerà ... [quindi anche] il lavoro d'immagazzinamento, di manutenzione e di trasporto, senza cui i valori d'uso non possono essere consumati".
Una descrizione invece del lavoro improduttivo la si può trovare, nel Capitale, descritta in modo indiretto, ad es. per quanto riguarda la circolazione del capitale:
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Oltre Cambridge Analytica
di I Diavoli
Pillola blu (pt. 1)
Cambridge Analytica è solo la punta dell’iceberg di un sistema ben più complesso. È un problema politico. Non è solo Google. O Cambridge Analytica, o Facebook. È Amazon. È Uber. È Angry Birds. È il surveillance capitalism, fondato sull’estrazione dei dati personali
“Information is power. But like all power,
there are those who want to keep it for themselves”.
Aaron Swartz
Kuala Lumpur, San Paolo, Reykjavík, Pechino, Washington, Abuja, Riad.
Le antiche ley line psicogeografiche, i sentieri viventi della terra che collegavano Stonehenge, le piramidi egizie, le ziqqurat precolombiane dell’America Latina, l’Isola di Pasqua e la Grande Muraglia cinese, sono sostituite da immensi cavi di fibra ottica.
Una quantità incalcolabile di dati viaggia sulla rete che attraversa il globo terrestre alla velocità di centinaia di megabyte per secondo.
Il pianeta si surriscalda. Tonnellate di acqua sono utilizzate in ogni istante per raffreddare gli immensi server che immagazzinano dati a ciclo continuo.
Tutto si crea. Nulla si distrugge.
Ogni dato personale è conservato e catalogato in maniera certosina.
La storia di ogni singolo individuo nel tardo capitalismo è racchiusa in una manciata di gigabyte, gelosamente custoditi da compagnie private con ramificazioni negli apparati governativi, negli eserciti e nei contractor privati. Ben oltre Cambridge Analytica.
Tornato prepotentemente sulle prime pagine dopo l’intervista rilasciata dal presunto whistleblower Christopher Wylie su The Guardian del 18 marzo, il suo nome è il velo di Maya che cela il paesaggio del reale a tinte ancor più fosche.
È la pillola blu di Matrix.
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Attacco contro la Siria, sei cose da sapere
di Alberto Bellotto
Oltre un centinaio di missili è piovuto sulla Siria come risposta a quanto successo a Douma qualche settimana fa. Washington, Parigi e Londra, nella notte tra il 13 e 14 aprile, hanno condotto una serie di bombardamenti contro quelle che vengono ritenute strutture per la produzione e lo stoccaggio di armi chimiche. Sia Trump che Macron e May hanno messo l’accento sulla straordinarietà dell’attacco, evidenziando che si tratta di una risposta all’attacco chimico del regime del 7 aprile. Attacco che l’Occidente attribuisce ad Assad ma sul quale rimangono ancora molti interrogativi. Intanto però la rappresaglia è iniziata. Queste sono le cose che sappiamo sul raid.
1 – I tre Paesi coinvolti: l’offensiva di Usa, Francia e Regno Unito
Alle 21:00 del 13 aprile Donald Trump ha tenuto un discorso alla nazione in cui ha confermato l’intenzione di colpire la Siria. «Ho ordinato all’esercito degli Stati Uniti di lanciare attacchi di precisione contro obiettivi associati al potenziale di armi chimiche del dittatore siriano Bashar al Assad». Negli stessi attimi in cui parlava il presidente una pioggia di fuoco ha colpito la Siria. Gli attacchi, ha detto ancora il presidente, continueranno fino a quando il regime siriano non cesserà di utilizzare armi chimiche: «Siamo pronti a sostenere questa risposta fino a quando il regime siriano non cesserà l’uso di agenti chimici proibiti».
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Smart and nice: dopo l’attacco alla Siria nulla sarà come prima
di Augusto Illuminati
I missili vispi, nuovi e astuti di Trump sono partiti contro obbiettivi selezionati della Siria e per ora l’attacco sembra essere più intimidatorio e simbolico che devastante. E neppure tanto efficace, se un terzo degli ordigni è stato intercettato. Ma potrebbe essere solo l’inizio
Esultiamo, insieme a destra e sinistra sono pure sparite le aggressioni imperialistiche, sostituite da “avvertimenti” simbolici con generazioni di missili intelligenti (certo più di chi li ha armati e tuittati), sempre al nobile fine di salvare la pace e impedire l’orrido uso di armi chimiche. Sul fatto che ci fossero, le opinioni poi divergono: i pragmatici inglesi si limitano a ritenerlo “probabile”, sulla scia del precedente e non proprio trasparente caso Skripal, i cartesiani francesi affermano di averne prove certe, di carattere ontologico più che empirico, gli americani applicano su scala internazionale il metodo che usano con neri e ispanici: prima spari e poi accerti se era pericoloso. Il nostro governo prende per buone le prove dell’attacco chimico, ma si dissocia dalle risposte armate e cerca di sottrarre le basi italiane da ogni coinvolgimento attivo, limitandolo ai voli di ricognizione da Sigonella. Di Maio giura sul Trattato Atlantico, Salvini sulle dichiarazioni di Putin, gli aventiniani del fu Pd, complessivamente filo-atlantici, si dividono in varie posizioni studiando i contraccolpi che il bombardamento potrebbe avere sull’assemblea del 21 aprile. Ci lamentavamo dello scarso peso che la dimensione internazionale aveva avuto nella campagna elettorale e nelle vicende immediatamente successive, Ahinoi, quando se ne occupano i nostri partiti è ancora peggio.
Sul piano internazionale non ci sono più destra e sinistra, cioè rimane solo la destra, coloniale e bombardiera, bugiarda e razzista. Per uscire dai loro problemi interni alcuni leader occidentali, di cui almeno uno visibilmente alterato, in combutta con Turchia, Israele e sauditi, attaccano Russia, Cina e asse sciita (che NON sono la sinistra, ma seri concorrenti imperialistici regionali o globali degli Usa), per fortuna incontrando resistenze ben maggiori che nelle precedenti avventure irakena e libica.
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Guerra criminale
di Giorgio Cremaschi (Potere al Popolo)
L’orrore e l’angoscia che suscitano i missili e le bombe, il ribrezzo che sale quando quegli strumenti di morte vengono definiti intelligenti, non deve far passare in secondo piano l’aspetto più grave dei bombardamenti in Siria di Trump, May e Macron. Essi sono una sfacciata, totale e violenta rottura della legalità internazionale.
Naturalmente sono solo l’ultimo atto di una storia iniziata 27 anni fa con la prima guerra contro l’Iraq. Da allora un gruppo di paesi guidati dagli Stati Uniti e impegnati reciprocamente dai vincoli della NATO si sono autonominati polizia militare mondiale.
Con lo spirito dei giustizieri e dei linciaggi del Far West, hanno deciso di ignorare il principio guida della legalità internazionale: uno Stato non può fare guerra ad un altro Stato sovrano se non per difendersi da esso. Il principio sulla base del quale era stata fondata l’ONU dopo la sconfitta del nazifascismo.
Stati Uniti e compagnia hanno così scatenato una lunga trafila di guerre, rivendicate nel nome della democrazia e dei diritti umani, in Europa, Africa, Medio Oriente, Asia. Con queste guerre hanno aggredito e devastato Stati sovrani accusati di essere guidati da dittatori.
Guarda caso però tanti altri dittatori venivano nello stesso tempo sostenuti ed armati. Lo Stato in assoluto oggi più colpevole nella violazione del diritto dei popoli e e di quello internazionale, Israele, veniva protetto e fornito di una impunità assoluta per ogni suo crimine.
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Guerra in Siria, ecco perché l'Italia non deve cascarci di nuovo (almeno stavolta)
di Fulvio Scaglione
Il nuovo Governo nascerà, forse, a causa dell’urgenza bellica. Ma la nostra eventuale partecipazione alla guerra siriana è sintomo che non sappiamo stare nelle alleanze. Vedi i precedenti disastrosi di Iraq e Libia, e non solo
Adesso forse sì che avremo un Governo, visto che ci dobbiamo attrezzare alla guerra di Usa-Francia-Regno Unito alla Russia per interposta Siria. Un Governo del Presidente, magari, con tutti dentro, perché l'ora è solenne, il Paese non può restare senza guida, il funzionamento delle Camere e bla bla bla. Il che, naturalmente, equivale ad ammettere che l'Italia la governano altri e che l'agenda di Washington ci mette in riga anche quando siamo divisi su tutto. Ma pazienza. Così va spesso il mondo... voglio dire, così andava nel secolo decimo settimo, com'era scritto nelle pagine dei Promessi sposi che lo stesso Manzoni aveva definito “la notte degli imbrogli e dei sotterfugi”.
Una notte come questa, in cui quei tre grandi Paesi impugnano la bandiera della civiltà, ormai logora e sfrangiata, per insegnare a suon di missili la modestia al Cremlino, che a sua volta accarezza l'idea di accettare il confronto per mostrare al mondo che la Russia è tornata, c'è. Da noi, invece, l'imbroglio sta nel ragionamento che la derelitta sinistra moderata italiana, in fase reattiva contro Matteo Salvini, avanza in queste ore, desiderosa forse di chiuderla con l'agonia e compiere il harakiri finale. Il leader della Lega Nord aveva detto: «Chiedo al presidente Gentiloni una presa di posizione netta dell’Italia contro ogni ulteriore e disastroso intervento militare in Siria».
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Siria: bombe poco intelligenti
di Piccole Note
Il raid in Siria è avvenuto prima che gli ispettori dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche iniziassero l’inchiesta su quanto accaduto a Douma. Il 12 aprile, infatti, un comunicato ufficiale dell’Agenzia dava la data di sabato 14 come inizio della missione .
Siria: il pretesto dei gas
Ciò a fronte del fatto che il ministro della Difesa americano James Mattis aveva dichiarato che gli Stati Uniti non avevano prove dell’uso del gas a Douma, motivo dei raid punitivi di Francia, Gran Bretagna e Usa contro Damasco.
Così la missione dell’Agenzia internazionale è stata la prima vittima delle bombe. E la tempistica del bombardamento fa nascere il legittimo sospetto che si sia voluto evitare l’accertamento dei fatti.
La caduta di Ghouta e la vittoria di Assad (e dell’Iran)
La possibile, più che probabile, smentita delle accuse contro Assad non sarebbe stata solo una debacle dei governi occidentali che hanno affermato di avere prove dell’accaduto.
Avrebbe vanificato tutta l’operazione politico-militare occidentale avviata dopo la riconquista di Ghouta da parte del governo siriano.
La riconquista del quartiere di Damasco, infatti, sancisce la vittoria di Assad nella guerra siriana, ma anche dell’Iran nella lunga guerra iniziata con l’intervento militare statunitense in Iraq.
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Fake wars
di Militant
Proprio stamane sul Corriere un “anonimo” ufficiale militare italiano smentiva definitivamente la fake news sulle armi chimiche: «Dire che siamo preoccupati non rende bene l’idea. In verità siamo sconcertati da quello che sta succedendo in Siria. […] Prima di proseguire vorrei sottolineare una cosa: l’attacco dovrebbe essere una rappresaglia per l’uso di armi chimiche da parte della Siria. Ma francamente non si sono mai viste armi chimiche che colpiscono solo donne e bambini e che poi vengono lavate via con l’acqua». Fatta questa premessa, sempre l’ufficiale ricorda la situazione paradossale che sta vivendo la Siria, paese “sovrano” – nel senso di formalmente indipendente da altri Stati – invaso da anni da un paese Nato: «Nel caos siriano la Turchia ci sguazza. Non vede l’ora che la tensione salga in modo che possa continuare a fare i suoi comodi senza che nessuno fiati. In pratica la Turchia è un paese invasore della Siria del nord e adesso anche del nord dell’Iraq, e nessuno dice nulla».
Di fronte all’invasione conclamata, si decide oggi di bombardare il paese invaso e non l’invasore. Questa la legalità internazionale che tutti i paesi europei stanno avallando, chi direttamente – come Francia e Gran Bretagna – chi indirettamente, come Germania e Italia. Che, ripetendo il consueto schema, evitano la diretta implicazione nei bombardamenti salvo poi presentarsi con lo stuolo di medici, intelligence e imprese petrolifere a raccogliere i frutti dell’ennesimo paese invaso. Grazie al cielo (per la Siria), c’è la Russia.
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L'ora più buia
di Pierluigi Fagan
[Rompo momentaneamente il format del blog che in questa pagina principale ospita -in genere- solo articoli e studi mediamente approfonditi. Pubblico invece un post delle 8.00 di stamane sulla mia pagina fb, scaturito dalla notizia del giorno. Trattandosi di fatto geopolitico che è non l’unica ma una delle principali questioni intorno a cui articolo le mie riflessioni, corre l’obbligo data la rilevanza degli eventi.]
L’ORA PIU’ BUIA (h. 03.00). “Allora capo, facciamo che prendiamo tre palazzine vuote di periferia e ci picchiamo sopra un centinaio di missili che fanno BUM! BUM! BUM! dicendo che sono centri di ricerca su i gas venefici. Facciamo tipo alle 3 ora locale così è buio, la gente sta a casa e non corriamo rischi, i fotografi immortalano le scie dei missili perché una immagine vale più di mille parole. Lei va in televisione e fa il pezzo da padre severo ma giusto, io chiamo russi ed iraniani e gli do le coordinate dei lanci pregandoli di star calmi che se manteniamo tutti le palle ferme, nessuno si fa male e ne usciamo tutti alla grande, ok?”
Così, alla fine, deve esser andata e meno male. Avrebbero potuto farlo già due giorni dopo il presunto attacco quando è arrivato il cacciatorpediniere D. Cook ed avrebbero dimostrato la stessa cosa ed in più anche di esser svegli e sempre sul pezzo. Lo hanno invece fatto quando la faccenda s’era intricata assai e si rischiava di non saper più come uscirne senza perdere la faccia. Vedremo nei prossimi giorni ma l’impressione, anche leggendo i pezzi dei giornali mattutini, è che qualcuno voleva il colpo grosso, qualcuno voleva trascinare gli USA al first strike per iniziare una escalation da manovrare in un senso ben più ampio, rischioso e drammatico. Invece del first strike hanno avuto l’one shot, Armageddon è rinviato, anche questa volta la terza guerra mondiale non è iniziata, delusione.
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Fake wars
di Alberto Bagnai
E così è accaduto l'evitabile.
Non che ci fossero molti dubbi. Non mi soffermo sulla cronaca: siete più informati di me, e a me informarmi interessa poco, per il semplice motivo che ogni giorno di più ho riprova di quanto desolante sia il panorama dell'informazione. Il casus belli resta dubbio, come lo fu in decine di occasioni precedenti, e quello che permetterebbe ex ante di capire quanto poi tutti capiscono ex post è una virtù apparentemente rara: un minimo di orecchio musicale.
Fa anche sorridere questo modo di fare la guerra: ci si mette d'accordo prima su quale obiettivo colpire e su quali missili tirare giù, si spendono un po' di soldi così, for the sake of show, o per quello sport tipicamente maschile che consiste nel misurarselo. Naturalmente per riparare le strade i soldi non si possono spendere: però per tirare qualche fischiabbotto sì. Si chiama keynesismo bellico, e in fondo è sempre esistito. Fare la guerra per finta con le armi vere è stato a lungo considerato una pratica nobile, e aveva anche allora un certo indotto economico, anche se, ogni tanto, le cose andavano storte, creando problemi veri. In questo caso, per esempio, se a qualcuno saltassero i nervi (ma non salteranno), potremmo morire. Ora, questa, mi rendo conto, è una prospettiva poco piacevole per il weekend, ma mi preoccupa poco, non tanto perché è anche poco probabile, ma soprattutto perché quello che mi sbigottisce, più che la prospettiva eventuale di una fine prematura, è la constatazione desolante di quanto siano imbecilli i nostri cosiddetti simili!
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Bombardata Damasco. Stop the War! Prime mobilitazioni
di Unione Sindacale di Base
Di fronte ai bombardamenti sulla Siria, crescono le proteste contro la guerra. Questa mattina a Roma gli statunitensi per la pace e la giustizia hanno convocato un sit in davanti l’ambasciata Usa in via Veneto. La Questura ha imposto però un assudo divieto a superare le 50 persone nella manifestazione. Potere al Popolo ha convocato per venerdi 20 aprile una giornata nazionale di mobilitazione contro la guerra in tutte le città (a Roma anticipata al 19 per andare a manifestare sotto Montecitorio). Non è escluso che vista la precipitazione gli appuntamenti possano essere modificati. Oggi a Milano è già stato convocato un presidio in piazza San Babila dal Comitato contro la guerra.
Il sindacato Usb ha invitato i propri iscritti a partecipare alle mobilitazioni: “Trump, Macron e May hanno bombardato Damasco, mettendo a rischio la pace nel mondo. L’intera area è divenuta il teatro di una guerra infinita. La Palestina continua a soffrire l’occupazione israeliana, mentre l’Arabia Saudita continua massacrare la popolazione yemenita. L’USB invita i suoi militanti ad aderire e promuovere le manifestazioni contro questa ennesima folle aggressione.
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Attacco Usa alla Siria, ma col freno tirato
di Redazione Contropiano
Hanno evitato per scaramanzia il venerdì 13 – che nella tradizione anglosassone è il vertice della jella – ma appena passata la mezzanotte Usa, Francia e Gran Bretagna sono partiti all’attacco della Siria.
Come Contropiano aveva anticipato già ieri, i segnali di un incremento anomalo delle attività radar del Muos di Niscemi rivelava che l’attacco era ormai questione di ore.
Il via era stato dato dallo stesso Trump in diretta tv, alle 21 di ieri sera (le 3 in Italia), limitando però fortemente la portata dell’attacco rispetto alle sue stesse dichiarazioni della vigilia: “Il nostro obiettivo è distruggere le capacità di lanciare armi chimiche del regime siriano… andremo avanti il tempo necessario per distruggere le loro capacità”.
Una conferma indiretta di questa “autocensura” è arrivata da Damasco: “sono stati lanciati circa 30 missili, un terzo dei quali sono stati abbattuti”. Secondo fonti ufficiali russe, invece, si è trattato di 103 missili da crociera e aria-terra su obiettivi militari e civili in Siria. Il ministero della Difesa russo, però, aggiunge che 71 di questi missili missili è stato “intercettato e abbattuto” dai sistemi di difesa siriani.
I russi sono stati avvertiti in anticipo e gli attacchi hanno evitato con molta cura anche solo di sfiorare truppe o installazioni con personale russo.
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La Germania propone una via d’uscita dall’euro
...per proteggere se stessa
di Marcello Minenna*
Nonostante un’economia che va a pieni giri, con la crescita del PIL al 3%, la disoccupazione al 3,6% ai minimi da 40 anni ed un surplus commerciale record che sfiora i 300 miliardi di €, i maggiori economisti tedeschi sono assai preoccupati per le sue sorti. La minaccia più immediata? Che il dibattito sulle riforme dell’Unione monetaria prenda una piega concreta verso la condivisione dei rischi, grazie soprattutto alle (timide) pressioni francesi e data l’inspiegabile assenza dell’Italia. Infatti, una riforma dell’Eurozona anche solo debolmente risk-shared che aumentasse (di poco) i trasferimenti di risorse verso i Paesi periferici vorrebbe dire rinunciare al comodo status quo attuale, nel quale l’industria tedesca può sfruttare la robusta ripresa del mercato europeo interno per le proprie esportazioni a prezzi ultra-competitivi.
La proposta ufficiale del gruppo di influenti economisti tedeschi, tra cui Hans-Werner Sinn e Karl Konrad del Planck-Institut e niente meno che il Presidente del Consiglio dei Saggi Economici (Sachverständigenrat), Christoph Schmidt è radicale ma non sorprendente: la legislazione comunitaria dovrebbe prevedere espressamente una procedura di uscita dall’Eurozona, sulla falsariga dell’Articolo 50 del Trattato di Lisbona recentemente invocato dal Regno Unito.
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Una lunga e sofferta meditazione sulla sconfitta
di Giuseppe Guida
«C’è un’intesa segreta fra le generazioni passate e la nostra», ha scritto Walter Benjamin: «A noi, come ad ogni generazione che ci ha preceduto, è stata data in dote una debole forza messianica, su cui il passato ha un diritto»1. In altre parole: il tempo non è necessariamente entropico; non è solo il cumulo di rovine contemplato dall’Angelus novus. È possibile che la generazione precedente possa orientare la nuova generazione verso il futuro, non già, però, ove si consideri quest’ultimo come suscettibile di essere generato spontaneamente e meccanicamente dal passato, secondo le tradizionali mitologie del progresso, ma come luogo in cui possono essere proiettate le aspirazioni irredente degli sconfitti. E’ così che, secondo Benjamin, dal passato si riaccende «la favilla della speranza»: nel buio può ritornare, sia pure debole e discontinua, la coscienza della luce. L’opera dello storico può risultare utile a questo scopo, ove riesca a far esplodere alla superficie della coscienza momenti dimenticati del nostro passato, a recuperare frammenti di parole all’interno di vite ormai ridotte al silenzio.
La nuova biografia di Gramsci scritta da Angelo D’Orsi sembra muoversi esattamente in questa direzione. Gramsci non è qui presentato come il creatore di un patrimonio di idee che altri hanno poi provveduto a custodire ed incrementare. Ci appare piuttosto come uno sconfitto la cui esistenza chiede ancora riscatto. I Quaderni, scrive D’Orsi, costituiscono «una lunga e sofferta meditazione sulla sconfitta»2.
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Introduzione a "In cammino, verso una nuova epoca"
di Gianni Petrosillo
1. Questo saggio di Gianfranco La Grassa si divide in due scritti che possono essere letti uno indipendentemente dall’altro. Tuttavia, gli elaborati in questione non sono slegati tra loro, anzi, costituiscono un solo corpo che sta insieme logicamente, in quanto la parte teorica iniziale è la chiave analitica per comprendere quella storica successiva.
La teoria, nella speculazione lagrassiana, costituisce il faro che illumina gli eventi, penetrando nella profondità degli stessi, oltre le apparenze e le ricostruzioni comunemente accettate. Dunque, benché egli non sia uno storico di professione, riesce ugualmente a fornire un’interpretazione originale degli avvenimenti sociali del secolo scorso (e di quelli più recenti), con un taglio di visuale particolare, ignoto ai professionisti della storiografia, ormai meri banalizzatori del passato, ad uso dei gruppi dominanti del tempo presente.
L’opera lagrassiana percorre la strada di un doppio revisionismo, teorico e storico, contrario alle vulgate in auge (i “revisionismi” ufficiali presentati come sola versione autorizzata degli accadimenti), che gli costa, ovviamente, isolamento intellettuale ed esclusione dai canali editoriali più potenti. In primo luogo, è bene precisare, come il Nostro afferma nel libro, che «la teoria è il massimo livello della pratica giacché serve in definitiva a guidare l’agire degli esseri umani», nelle loro iniziative intellettuali e sociali. Ma la teoria serve anche a setacciare nella Storia quelle concatenazioni evenemenziali, quei rapporti conflittuali tra soggetti “assoggettati” alle dinamiche oggettive, innervanti la società, che svelano meglio l’indirizzo di un’epoca e i suoi risvolti, visibili e meno visibili.
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Siria, la guerra non deve finire
di Tommaso Di Francesco
Medio Oriente. Chi guadagna dall'accusare Damasco di un presunto attacco al gas nervino o al cloro? Per rispondere bisogna sottolineare tre elementi: i due cosiddetti attacchi precedenti; l’attuale crisi di legittimità di Trump, lo scatenatore di dazi sotto tiro ancora per il Russiagate; il ruolo di Israele mentre gioca con prepotenza criminale e altrettanta impunità al tiro al piccione con le vite dei civili palestinesi a Gaza
La guerra in Siria non deve finire. Sembra questo l’assunto degli avvenimenti precipitosi in corso e sotto l’influsso dei racconti massmediatici che sparano la certezza, tutt’altro che verificata da fonti indipendenti, di un bombardamento al «gas nervino» o al «cloro», con cento vittime e gli occhi dei bambini – vivi fortunatamente – sbattuti in prima pagina.
Ci risiamo.
Temiamo che ancora una volta la verità torni ad essere la prima vittima della guerra.
Soprattutto di quella siriana, una guerra per procura, che ha visto insieme a 400mila vittime e un Paese ridotto in rovine, i mille coinvolgimenti dell’Occidente, delle potenze regionali a cominciare dalla Turchia baluardo sud della Nato, il ruolo dei jihadisti dell’Isis, di al-Qaeda e galassie collegate, che se fanno attentati in Europa e negli States sono «terroristi», mentre in Siria sono «opposizione».
La guerra è anche di parole.
Tra i dubbi che emergono, c’è un fatto concreto, un déjà vu: il raid dei jet israeliani inviati dall’«umanitario» Netanyahu a colpire una base aerea siriana, con altre vittime, civili e non.
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Guerre spaziali
di Mario Pezzella
1. Nei saggi raccolti in Spazio e politica. Il diritto alla città II (Ombre corte 2018)[1], Henri Lefebvre descrive lo spazio come prodotto sociale. Esso non è una forma a priori neutrale o un trascendentale sempre uguale a se stesso: si incurva secondo le linee divisorie della lotta di classe e dei rapporti di potere dominanti, che ne determinano la relatività e la mutevolezza. Non si producono “cose nello spazio”, ma lo spazio stesso, entro cui esse poi assumono configurazione concreta. Il capitalismo novecentesco ha interamente colonizzato lo spazio esistente, in funzione della produzione, circolazione e fantasmagoria delle merci. Anche il tempo acquisisce un valore, dipendente dalla rapidità con cui le distanze sono percorse, che determina la percezione della sua durata rapida o lenta. L’esaltazione della velocità si esaspera fino alla virtuale cancellazione della differenza dei luoghi in una ideale simultaneità sincronica. La distanza tende a divenire un algoritmo mentale ed astratto.
Lo spazio costruito dal capitale negli ultimi decenni del Novecento cancella la distinzione fra tempo di lavoro e tempo di vita, uniformati in un unico tempo produttivo. Non si tratta più solo di riprodurre i mezzi, ma anche i rapporti di produzione: questa “si realizza nella quotidianità, nel tempo libero e nella cultura… attraverso l’intero spazio” (46).
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Il pluralismo di piattaforma
Un modello “conviviale” di economia politica delle piattaforme?
di Tiziano Bonini
Per un po’ di giorni, grazie al lavoro di decine di giornalisti investigativi del Guardian, la storia dei dati degli utenti di Facebook finiti nelle mani di Cambridge Analytica ha occupato l’agenda dei media internazionali.
Ma ora che ne sappiamo un po’ di più, dovremmo chiederci qual è il cuore di questa storia. Per cosa, come cittadini e utenti di Facebook, dovremmo indignarci e protestare? Qual è il punto della vicenda?
Non ci piace che un governo straniero abbia avuto accesso ai dati di milioni di utenti americani di Facebook? Non ci piace che gli spin doctor di Trump (Bannon) abbiano avuto accesso a questi dati? Non ci piace che Facebook non sia stata capace di proteggere la privacy dei propri utenti, come scritto nella sua licenza d’uso? Il problema è chi ha fatto uso di questi dati, o il fatto che questi dati siano stati utilizzati per fini di propaganda?
Perché nel primo caso, anche Obama ha fatto uso di questi dati. Come riporta un bell’articolo di Slate, “la campagna di Obama del 2012 ha utilizzato gli stessi tipi di dati ai quali Cambridge Analytica ha avuto accesso. Obama è stato capace di “targetizzare” gli elettori e i potenziali sostenitori utilizzando software che funzionavano al di fuori di Facebook e che si nutrivano di dati Facebook. Era un problema allora. È un problema ora.
Ma nel 2012, la storia di Obama era una storia di speranza, e i modi tecnologicamente avanzati della sua campagna erano oggetto di ammirazione”.
Se Obama usa questi dati va bene e se invece lo fanno Bannon, Trump o Putin non va bene?
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Conflitto e potere
L’inquieta persistenza del classico: Machiavelli tra filosofia e politica
di Antonio De Simone
Perché Machiavelli?
Perché quando tutto cambia, quando «solo la continuità consente, per contrasto, di misurare la discontinuità»1, come nelle epoche di crisi schiacciate e oscurate dalle urgenze del presente, i classici registrano una loro straordinaria persistenza? Quale legame sussiste tra i classici, la crisi e il mutamento sociale e politico? Per potersi affermare, ogni classico non può che scompaginare i canoni della vecchia tradizione e decostruire l’ordine del discorso che lo precede. Il classico autentico è colui che «avverte e traduce nella propria scrittura» le contraddizioni del proprio tempo storico: egli è consapevole della «friabilità della propria costruzione», perché sa che essa «poggia su una faglia fragilissima, sempre sul punto di spezzarsi»2. Il classico, e non potrebbe essere altrimenti, «non è fuori dal tempo, al riparo dal vento della distruzione», egli sa che «la distruzione è più forte di ogni costruzione», poiché «eterna è solo la finitezza che scava dall’interno le nostre opere e i nostri giorni»3.
Come ho già osservato altrove4, ogni esercizio di lettura dei ‘classici’5 non è solo un esercizio di scrittura che ci sospinge a rileggerli ma anche a scrivere su quanto scritto da altri e, quindi, a riflettere (e scrivere) su scritti altrui per tentare di comprendere quanto di inalterato sia rimasto della loro «attualità» o meno e cercare di capire, nella scansione epocale che ci separa da loro, ciò che della loro luce o della loro ombra possa ancora riflettersi nella condizione umana contemporanea.
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Le riforme del Fondo Monetario Internazionale sono l’ennesimo attacco al lavoro
di coniarerivolta
Mentre continuano le consultazioni per la formazione del nuovo Governo, il Fondo Monetario Internazionale (FMI) fa sentire la sua voce con una serie di studi che disegnano l’Italia di domani. Per chi non lo sapesse, il FMI è uno degli attori che di fatto determinano gli indirizzi di governo delle economie mondiali. Recentemente è tornato a raccomandare per l’Italia dosi abbondanti di austerità, abbinate a provvedimenti fiscali iniqui e vergognosamente a favore delle classi dominanti. Purtroppo non finisce qui.
Per espiare le nostre presunte colpe, apparentemente ci sono altri compiti a casa da fare. Come si può leggere in due recenti contributi (questo e questo) del FMI, l’Italia avrebbe “ulteriori” benefici da una radicale riforma del sistema di contrattazione collettiva vigente, che riduca la portata della medesima dal livello settoriale nazionale a quello aziendale.
Che cos’è la contrattazione collettiva? È quello strumento attraverso il quale le parti sociali (sindacati dei lavoratori ed associazioni padronali) negoziano dei contratti collettivi che coprono gli aspetti retributivi e regolamentari del rapporto di lavoro. Una volta firmato, il contratto collettivo garantisce e si applica in generale a tutti i lavoratori ai quali si riferisce, anche al lavoratore non iscritto ad alcun sindacato o che lavora in un’azienda che non aderisce a nessuna organizzazione dei datori di lavoro. Allo stato attuale, la negoziazione avviene a livello di settore produttivo (per esempio l’industria chimica, l’industria metalmeccanica etc.).
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Il cespuglio inestricabile: la questione delle migrazioni
di Alessandro Visalli
Un urbanista americano attivo dagli anni cinquanta ai primi ottanta, Kevin Lynch, in “Good city form” del 1981 descriveva i processi decisionali, ad esempio quelli coinvolti nelle dinamiche territoriali, come un intreccio di catene, o sequenze, di inferenze e atti che mettono in connessione situazioni, valori e obiettivi; ma “le parti inferiori di tali catene sono sommerse nell’abitudine, mentre quelle superiori si perdono tra le nuvole, per essere rivelate solo in occasioni retoriche”, inoltre e quel che più conta, “catene differenti si mescolano e si separano in modi confusi, sicché le singole azioni derivano da molti valori e hanno conseguenze molteplici, che a loro volta sono collegabili ad altre fonti di valore. Il risultato è un cespuglio [thicklet] piuttosto che una catena, o più esattamente un cespuglio le cui radici e i cui rami si intersecano e si innestano gli uni negli altri” (cit, in. V. Andriello, La Forma dell’esperienza, 1997, p.74).
Premessa
Questo cespuglio inestricabile di questioni, tra le abitudini e le nuvole degli alti principi, che mobilita contemporaneamente tanti piani diversi e porta in campo problemi enormi, lo affronteremo qui in quattro passi: in primo luogo conviene fare mente locale ad alcuni sfondi ed alcuni dibattiti, almeno per situare le posizioni, si renderà necessario aprire qualche inciso sulla logica imperiale della costruzione europea a guida nordica e sulla “tecnica dei capponi”; in secondo luogo proveremo a riconfigurare il problema delle migrazioni in un quadro più ampio; in terzo luogo verrà proposto uno schema analitico che scompone il fenomeno delle migrazioni negli effetti di due “economie politiche” reciprocamente interconnesse; nelle conclusioni si prova ad indicare il campo di battaglia vasto nel quale si dovrebbe combattere.
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La Cina dopo la crisi globale: il “New Normal” di Xi Jinping
di Lorenzo Termine
Secondo i dati[1] del Fondo Monetario Internazionale (FMI), la Repubblica Popolare Cinese (RPC) nel 2017 ha fatto registrare un PIL di quasi 11,94 trilioni di dollari, con un tasso di crescita del 6,8 %. Per capire meglio i dati basti pensare che gli Stati Uniti, primo paese al mondo per Prodotto Interno, hanno raggiunto nello stesso anno 19,36 trilioni di dollari ma con un tasso di crescita di 2,2 punti percentuali. Secondo molti analisti, il differenziale di tassi di crescita farà sì che nel prossimo decennio la Cina potrebbe diventare la prima potenza economica al mondo superando gli USA. La crescita media tra il 1980 e il 2016 del PIL cinese ammonterebbe al 9,64 %, con un picco storico del 15,2 % (1984) e un minimo storico del 3,9 % (1990). Se si guarda invece al PIL secondo la parità di potere di acquisto (PPA), la Cina avrebbe già superato gli Stati Uniti con un valore di 23,12 trilioni di dollari (2017). Per quanto riguarda l’Indice di Sviluppo Umano (ISU)[2] sviluppato originariamente da ul Haq e Sen, Pechino è passata da un valore di 0,43 nel 1980 ad un valore di 0,728 nel 2015, una delle variazioni più marcate verificatesi nel mondo durante questo intervallo.
In questo quarantennio di crescita intensiva (1978-2018), la Cina ha adottato un modello di crescita basato principalmente sull’esportazione di prodotti maturi (cioè prodotti a basso contenuto innovativo, frutto di tecnologie mature e dunque legati a processi produttivi situati a un basso livello della catena del valore), sull’alta produttività fattoriale e sulla bassa remunerazione del lavoro.
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