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1977, una storia appena iniziata
Marvi Maggio
“La nostra lotta è anche una lotta per la
memoria contro l’oblio… una politicizzazione
della memoria che distingue la nostalgia,
che vorrebbe che qualcosa fosse come era,
un tipo di atto senza utilità, da quel
ricordare che serve ad illuminare e
trasformare il presente” (bell hooks,
Yearning: race, gender and cultural politics,
Turnaround, London, 1991)
Costruire subito relazioni sociali senza sessismo, leaderismo, sfruttamento, nei luoghi di lavoro, nella famiglia, nella società, nella vita di ogni giorno. Difendere l’autonomia dei movimenti dalle istituzioni, superare il mito operaista del lavoro ma anche l’idea di sviluppo fondata sullo sfruttamento e sulla moltiplicazione delle merci. C’è bisogno di rimettere al centro l’eredità del ’77: di certo quel movimento non aveva l’obiettivo di prendere il potere. Per questo le classi dominanti non sapevano che pesci prendere. Per questo è ancora indigesto a tanti.
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Un paese senza futuro?
di Renato Caputo
La netta affermazione del No fra i lavoratori dell’Alitalia mostra che siamo necessariamente un paese senza futuro solo se accettiamo il pensiero dominante neoliberista
A riaffermare che un altro paese è possibile e che non è necessario seguire il modo di produzione capitalistico nel suo grigio viale del tramonto, ci hanno pensato ancora una volta i lavoratori salariati, questa volta di Alitalia. Nonostante la campagna a tamburo battente dei mezzi di comunicazione di massa, del governo e degli stessi sindacati neocorporativi, tutti pronti a riaffermare che l’unico futuro possibile è la logica nefasta di difendere il posto di lavoro sacrificando ulteriormente i salari, accrescendo disoccupazione e sfruttamento, i lavoratori hanno risposto con un sonoro No. Nonostante il governo avesse affermato, il giorno stesso delle elezioni, che non esisteva alternativa alla logica liberista imposta dal management italo-arabo di Alitalia, che la prospettiva di una nazionalizzazione della compagnia era impensabile, i lavoratori hanno rivendicato la loro dignità recandosi in massa alle urne – oltre il 90% di votanti – e affermando con quasi il 70% dei voti il rifiuto della perversa logica del pensiero unico dominante.
Il fondamento materiale dell’ideologia dominante, a dimostrazione che anch’essa ne ha bisogno per apparire credibile, è che non ci sarebbero le risorse economiche necessarie in una fase di crisi.
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Amazon, nuova occupazione o distruzione di posti di lavoro?
di Sergio Bellucci
- In queste ore, un caro amico, Attilio Romita, conoscendo le mie riflessioni sulla tecnologia mi scrive, in maniera larvatamente polemica, per segnalarmi che la robotizzazione, ne caso di Amazon, produce occupazione e non la riduce.
- Mentre sto pubblicando viene lanciata la notizia che la Guardia di Finanza accusa Amazon di aver evaso 130 milioni di Euro di tasse solo nel nostro paese. Cioè, fanno occupazione con i nostri soldi? Quelli che avremmo potuto spendere per migliori servizi sociali, sanità pubblica, scuole e ricerca?
Il casus belli viene fornito dalla notizia, riportata da alcuni quotidiani come La Stampa, La Repubblica, Il Messaggero dell’apertura di un magazzino di Amazon nel nostro paese. Da questa notizia si farebbe discendere, automaticamente, una “nuova” narrazione sull’impatto della robotizzazione sul lavoro umano. Il solito meccanismo lineare che porta a perdere la complessità dei fenomeni, come spesso accade nelle discussioni economiche che fermano le analisi sulla porta della loro fabbrica. Impatti generali, implicazioni ambientali, risvolti sui cicli di vita, umani e non, restano espunti perché non contabilizzati dalle trimestrali delle aziende su cui si calcola il valore nelle borse. Ma pesano sulla storia di tutti noi e su quella del pianeta.
In particolare, in queste ore la nostra attenzione viene richiamata da un’ottima strategia di marketing comunicativo. Personalmente, devo confessare, che l’operazione ricorda molto l’ossimoro della “guerra umanitaria”, uno dei casi di più efficace ingarbugliamento dei sensi percettivi dell’opinione pubblica che la comunicazione militare abbia mai prodotto.
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Per un patriottismo costituzionale
di Ugo Boghetta
Quella che segue è la relazione sviluppata nella tavola rotonda pomeridiana sul tema: per un patriottismo costituzionale all’assemblea della Confederazione per la Liberazione Nazionale; Roma; 25 aprile 2017(nelle note alcuni temi sviluppati in sede di replica)
1) Come vediamo partiti vecchi muoiono, movimenti nuovi esplodono anche in poco tempo. Quindi si può tentare.
Qualsiasi movimento che nasce ha bisogno di un punto di riferimento ideologico, ideale, almeno culturale. Ha bisogno di un catalizzatore a cui riferire tutte le azioni per ottenere un effetto accumulo, per dare un senso generale ad azioni specifiche e parziali che da sole svanirebbero, sarebbero scarsamente efficaci o finirebbero in quadri di riferimento altrui.
Si ha bisogno di un frame, direbbe Lakoff.
Dobbiamo, dunque, creare un quadro di riferimento.
Non solo. Forse dobbiamo “inventare una tradizione” fra vecchio e nuovo, fra passato e futuro.
2) Abbiamo scelto la Costituzione del ’48. Non è, nonostante il risultato del 4 dicembre, una scelta scontata. La storia della Costituzione è tanto travagliata quanto la storia del nostro paese.
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Gratificazione o sfruttamento?
Dal lavoro gratuito alle nuove forme di organizzazione e mutualismo
di Sergio Bologna
Un testo importante di Sergio Bologna che analizza tre libri collettanei pubblicati di recente, all’interno dei quali, nelle differenze di taglio e di configurazioni, è centrale il tema della gratuità del lavoro contemporaneo, cioè la crisi del “valore” del lavoro (“merce per eccellenza, la madre di tutte le merci”). Si tratta di: Salari rubati, a cura di Francesca Coin, Ombre Corte, 2017; Le reti del lavoro gratuito, a cura di Emiliana Armano e Annalisa Murgia, Ombre Corte, 2016; Platform capitalism e confini del lavoro negli spazi digitali, a cura di Emiliana Armano, Annalisa Murgia e Maurizio Teli, Mimesis, 2017
*****
Il gruppo di ricercatrici e ricercatori che in Italia indaga sulla distruzione del lavoro salariato, la precarizzazione, il lavoro gratuito, l’estrazione di plusvalore dalle capacità relazionali e dagli stati emozionali, ha raggiunto ormai un grado di approfondimento analitico e di ampiezza di sguardo, che hanno permesso d’illuminare anche i lati più nascosti di questo universo del lavoro in costante decomposizione. E’ un segmento della sociologia del lavoro che ha raggiunto risultati eccellenti, in buon parte realizzati da ricercatori precari.
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Potenzialità e limiti del reddito di base
Risposte al questionario di Etica & Politica
Christian Marazzi*
Quesito 1
In Italia, nonostante l’assenza di misure universali di sostegno al reddito abbia per molti anni tenuto fuori il paese dal dibattito europeo, ultimamente si sono moltiplicate iniziative regionali (per esempio il reddito di dignità pugliese o il reddito di autonomia piemontese) o amministrative, proposte di legge (quella del Movimento 5 Stelle e quella di SEL, per esempio), iniziative popolari. Anche il ministro Poletti ha recentemente annunciato l’introduzione di un “reddito di inclusione” a livello nazionale. In molti casi la discussione ha riguardato dispositivi molto distanti, nell’impianto e nella filosofia, dal reddito di base incondizionato, presentando caratteri di familismo ed eccessiva condizionalità. In Svizzera, invece, si è recentemente svolto un referendum per l’introduzione di un reddito di base incondizionato su scala nazionale. A cosa è dovuto, a suo parere, il ritardo italiano – ammesso e non concesso che di “ritardo” effettivamente si tratti? Come è possibile tradurre politicamente un dibattito teorico che dura ormai da decenni?
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Il blocco centrista emerge dalle elezioni francesi
di Lorenzo Battisti
Queste elezioni presidenziali rimarranno nella memoria degli elettori francesi a lungo. Il paesaggio politico, definito dal 1970 in poi, è stato stravolto e i nuovi equilibri restano ancora nell'ombra. Quello che è certo è che il padronato francese è il vero vincitore politico e sociale.
Cinque anni di presidenza socialista
Il 2012, anno delle ultime elezioni nazionali, sembra appartenere ad un'altra epoca storica[1]. Quelle elezioni erano state vissute da molti come una liberazione da un presidente, Sarkozy, che era il più impopolare e filo americano di tutta la storia della Francia. Il risultato di Hollande e della sinistra francese, che andava al governo per la seconda volta durante la Quinta Repubblica dopo l'esperienza di Mitterand, era il risultato di cinque anni di mobilitazioni che erano culminate con il lungo ciclo di scioperi contro la riforma pensionistica che faceva aumentare l'età pensionabile dai 60 ai 63 anni (e duramente repressa dal governo).
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Tutto l’onore di un “economista defunto”
Parte I
di Giorgio Gattei
Proprio nell’ultima pagina della sua Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta (si noti l’ordine decrescente d’importanza) John Maynard Keynes ha rimproverato gli «uomini della pratica», che si credono «affatto liberi da qualsiasi influenza intellettuale», di non essere invece altro che «usualmente schiavi di qualche economista defunto». Va però detto che il rimprovero vale anche per tanti “uomini della teoria” che, incapaci di pensare da sé (che è qualità di pochissime “eccellenze” che non a caso chiamiamo i grandi del pensiero) non possono che affidarsi al verbo di qualche loro predecessore deceduto. E’ così che nascono le scuole, che so?, dei neoclassici, dei neoricardiani, degli sraffiani, dei neokeynesiani, dei neomarxisti e chi più ne ha più ne metta.
Si tratta comunque di una nemesi necessaria: essendo poche le “teste pensanti” capaci di aprire nuovi percorsi nella mente, mentre tanti sono quelli che praticano il sapere, è giocoforza che i secondi si appoggino ai primi, accontentandosi di ripercorrerne le orme in qualità di seguaci o discepoli.
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La precarizzazione del lavoro e la recessione italiana
di Guglielmo Forges Davanzati* e Lucia Mongelli**
La lunga recessione dell’economia italiana – che può datarsi almeno a partire dai primi anni novanta – si manifesta con una rilevante caduta della produttività del lavoro e dunque del tasso di crescita, le cui cause sono molteplici, una delle quali è rintracciabile nell’accelerazione data, nell’ultimo ventennio, alle politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro – anche definite di flessibilità del lavoro o di precarizzazione[1]. Politiche che sono state attuate in Italia con relativo ritardo rispetto ai principali Paesi OCSE (soprattutto anglosassoni) e, tuttavia, sono state attuate con la massima intensità, rispetto a tali Paesi, nel corso degli ultimi anni, a partire in particolare dalla c.d. Legge Biagi (L.30/2003).
Il dibattito accademico è stato dominato dalla convinzione secondo la quale la deregolamentazione del mercato del lavoro è uno strumento di policy necessario per accrescere l’occupazione in un contesto dominato da crescente volatilità della domanda che le imprese fronteggiano. Solo in anni più recenti, si è fatta strada la convinzione che le misure di deregolamentazione del mercato del lavoro possono avere effetti di segno negativo sull’andamento del tasso di occupazione e costituire un fattore di freno alla crescita economica. Ciò fondamentalmente per due ragioni.
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Sulla produzione di soggettività: Negri e Tronti a confronto
di Mimmo Sersante
Ontologia: pensiero, sapere, scienza ma anche un discorso, un dire, un parlare dell’essere che, lo sappiamo da Aristotele, può essere nominato in tanti modi, con i nomi più disparati per via della sua indifferenza e indistinzione (Hegel).
Insomma, per capire cosa o chi è in questione nell’ontologia, è al suo nome – proprio o comune non importa – che dobbiamo prestare attenzione. Il nome prescelto ci indica anche il terreno entro cui siamo costretti a muoverci. Così, se questo nome è quello di Dio – si tratta solo di un esempio –, capiamo subito con quale problematica dobbiamo misurarci. Il nome scelto da Negri è invece quello comune di «operaio sociale» o «moltitudine». Se il primo rinvia alla versione operaista del nostro marxismo (il primo ad averlo usato è stato Romano Alquati), il secondo ci porta direttamente a Spinoza, il filosofo olandese che nel ’600 secondo Negri avrebbe prospettato una storia diversa per il nostro Occidente.
A questi due nomi collego le due fasi che secondo me caratterizzano l’ontologia negriana; chiamo debole la prima fase, quella che copre gli anni Settanta e forte la seconda, maturata negli anni Ottanta, tra la galera (’79- ’83) e i primi anni dell’esilio francese. Gli anni Novanta la renderanno per così dire definitiva e compiuta.
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Idealismo vs. materialismo nella fisica quantistica
di Ana Pato[1]
Cosa c'è dell'idealismo nell'interpretazione ortodossa della meccanica quantistica? La necessaria considerazione del materialismo dialettico nella scienza
Il tema che tratterò è lo studio di un caso particolare. E per questo, soprattutto per chi si dedica allo studio di altre aree del sapere, l'esposizione correrà il rischio di risultare noiosa.
Ciò detto - pur senza essere in grado di ovviare a questo rischio -, la sua finalità è di attirare l'attenzione sull'importanza del pensiero materialista dialettico nella scienza a cui Marx, Engels e Lenin hanno dato un contributo fondamentale
La scienza e la filosofia sono legate indissolubilmente. In altre parole, non vi è dubbio che anche gli scienziati siano immersi in un dato sistema di rappresentazioni. Come affermava Engels nella sua Dialettica della Natura, la questione sta nel sapere se gli scienziati "vogliono essere dominati da una cattiva filosofia di moda o da una forma di pensare teorico che si basa sulla conoscenza della storia del pensiero e delle sue realizzazioni” [2].
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Gli errori fatali del fondamentalismo finanziario spiegati da un premio Nobel
di William Vickrey
Nel mese di ottobre 1996, il premio Nobel per l’Economia William Vickrey pubblicò un articolo che illustrava “I 15 errori fatali del fondamentalismo finanziario”: per esempio il sacro terrore del deficit e del debito pubblico, legato a erronee analogie tra comportamento economico del singolo e azione dello Stato. Queste fallacie sono rimaste ben vive – o meglio, sempre più vive – nel dibattito pubblico, e lo hanno anzi permeato, trovando un’applicazione concreta, dai risultati disastrosi, nelle regole di Maastricht. Per questo oggi abbiamo scelto di ripresentarne alcune, con la spiegazione del perché si tratta di ragionamenti sbagliati e – se tradotti in pratica – forieri di inutili sofferenze. Quelle che in un’eurozona intrappolata in questi errori, purtroppo, sono ormai evidenti agli occhi di tutti.
* * * *
In campo economico, una grande parte delle teorie convenzionali oggi prevalenti negli ambienti finanziari, ampiamente utilizzate come base per le politiche governative, nonché pienamente accettate dai media e dall’opinione pubblica, si basa su analisi parziali, su ipotesi smentite dalla realtà e su false analogie.
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La La Land, o l’eutanasia dell’amore
di Filippo Bruschi
Ora che ha quasi esaurito il suo corso nei cinema europei, due parole su La La Land.
La La Land non è un film sull’amore; La La Land è un film sul successo. Lo scintillio che emana non è quello dell’amore ma quello della brillantezza-denaro, e del suo potere di trasformare la vita in una fluida opera d’arte. A dirla tutta La La Land celebra piuttosto l’eutanasia dell’amore, il suo superamento, ne veicola ideologicamente la fine. Ideologicamente perché questa finis amoris è instillata sotto pelle, resa apparentemente naturale, come pare accada con le visioni ideologiche[1]. E non sarebbe d’altronde assurdo che un film che doveva “rendervi felici” lo faccia raccontando un amore inconcluso? Non spezzato, no, inconcluso. Perché? Molti se lo stanno ancora chiedendo: “Perché si lasciano?”. Tutto accade nella scena in cui Mia e Sebastian, sono seduti sulla collina dell’osservatorio Griffith che domina Los Angeles. Mia ha appena ottenuto, anche grazie alla dedizione di Sebastian, la parte per un film da girare a Parigi. Mia ce l’ha fatta: partirà per Parigi, per il set, sarà un’attrice. Guardando il crepuscolo, serena come dopo un orgasmo a lungo cercato, chiede a Sebastian:
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Contro il falso antifascismo delle élites
Perché sostenere Macron “da sinistra” sarebbe un errore madornale
di Enea Boria e Thomas Fazi
Il primo atto delle elezioni presidenziali francesi si è ormai consumato e abbiamo sotto gli occhi l’esito da incubo di questa partita politica: il secondo turno che si celebrerà a breve sarà una contesa tra l’opzione capofila delle montanti destre radicali europee, il Front National di Marine Le Pen, e un esponente della destra economica filo-finanziaria più estrema, che con il suo programma di assoluta continuità con le politiche di austerità e di privatizzazione di questi anni ha immediatamente raccolto il sostegno delle istituzioni europee, di buona parte dei governi nazionali – da Renzi a Tsipras, passando per la Merkel – e ovviamente dei mercati finanziari, che hanno espresso la loro approvazione attraverso un immediato rialzo delle borse e dell’euro.
Mentre nelle sinistre istituzionali e di movimento dell’intero continente – in particolare in Italia – è scattata subito la rincorsa a sostegno di una posizione neofrontista, da fronte popolare/repubblicano attualizzato ai tempi, costruita sull’idea che sia giusto sostenere e votare qualsiasi cosa pur di arginare “il fascismo”, sta facendo molto discutere la decisione di Mélenchon di non dare ai suoi elettori una esplicita indicazione di voto, lasciando loro libertà di coscienza al secondo turno.
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Una selvaggia e incontenibile voglia di libertà
di Sandro Moiso
Silvio Borione – Giaka, Una fame instancabile. Partigiani a Torino, Red Star Press 2017, pp. 204, € 14,00
Nonostante la straordinaria lezione di Gianni Bosio e Danilo Montaldi e l’opera di Cesare Bermani, si può dire che la storia orale non ha mai avuto molto successo nella storiografia italiana. Né in quella passata né in quella presente, compresa quella che dovrebbe bazzicare gli ambienti antagonisti. Sarà forse per questo motivo che diversi ricercatori attenti all’evolversi dei movimenti sociali, nel corso degli ultimi anni, hanno preferito rivolgersi agli strumenti dell’antropologia.
Negare la storia orale significa, sostanzialmente, togliere la parola agli ultimi e negare, troppo spesso e nei fatti, il diritto alle classi oppresse di ricostruire la loro storia oppure la Storia tout court.
Negare la lingua con cui gli oppressi si esprimono, negare la visione dal basso della storia grande e piccola per consegnare la ricostruzione del passato agli specialisti e agli accademici significa, ancora, lasciare che siano i vincitori, oppure i promotori di accordi fortemente marcati dalla rinuncia alla difesa degli interessi della maggioranza della società a definire ex-post quale sia e quale debba essere l’unica verità storica accettabile.
Che questo conduca poi all’apprezzamento di specialisti farlocchi, come sta avvenendo in questo quarantesimo anniversario del Movimento del ’77, oppure alla ritrattazione e revisione continua della memoria storica, come avviene in occasione di ogni 25 aprile, non costituisce altro che un corollario del precedente assunto. Poiché, semplificando al massimo, è soltanto la memoria dal basso che può vegliare sulla Memoria.
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Oltre il municipalismo
La sfida all’Europa dell’alcaldessa Ada Colau
di Steven Forti
Figlio del movimento degli Indignados in Spagna si sta affermando il neomunicipalismo, ovvero l’idea di ripartire dalla città, tramite processi popolari e di confluencia, per rompere lo storico bipartitismo Pp-Psoe. Barcellona è l’esempio più grande. Ma l’obiettivo è spingersi oltre per affrontare le grandi sfide globali: il cambio climatico, la mobilità, il problema della casa, la disuguaglianza, le migrazioni. Per questo si prova a far nascere una rete europea delle città ribelli.
Il 24 maggio del 2015 in diverse città spagnole delle liste civiche nate dal basso vincono le elezioni comunali. A Madrid, Barcellona, Saragozza, Cadice, Pamplona, Santiago de Compostela, La Coruña, Badalona i cittadini entrano per davvero nelle istituzioni con progetti di rottura rispetto al passato. Esperienze diverse in contesti urbani diversi. Grandi metropoli e piccoli capoluoghi di provincia. Ma con un punto in comune: cambiare la Spagna e chiudere con i quarant’anni di bipartitismo PP-PSOE, partendo dalla partecipazione della cittadinanza e dallo strettissimo legame con i movimenti sociali presenti sul territorio. Sono passati quasi due anni da quel giorno e la scommessa neomunicipalista, che ha ottenuto importanti risultati nelle città in cui governa, guarda già oltre il municipalismo.
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L’uso della robotica e le sue contraddizioni
di Marco Paciotti
In regime capitalistico, l’utilizzo delle macchine causa, oltre al calo dell’occupazione, la caduta tendenziale del saggio di profitto
Il presente articolo è una riflessione che trae spunto dal materiale didattico preparato dal compagno Domenico Laise, docente dell’Università La Sapienza di Roma e presentato ad un seminario “Sull’attualità del pensiero economico di Marx”, tenuto presso l’Università Popolare A. Gramsci, nell’anno accademico 2016-2017.
Vari studiosi del modo di produzione capitalistico hanno teorizzato la “fine del lavoro”. Essi sostengono che la disoccupazione sia il risultato dell’innovazione tecnologica e dell’introduzione di macchine sempre più avanzate (automazione). In questa narrazione il macchinario assolve la funzione di capro espiatorio su cui spostare l’attenzione delle classi subalterne, in modo tale che esse guardino al robot come il colpevole della miseria in cui esse sono in realtà gettate dai meccanismi di funzionamento immanenti al sistema di produzione capitalistico. Al contrario, la teoria elaborata da Marx ci aiuta a capire che non è il robot a determinare la crescente disoccupazione, ma il suo uso capitalistico. Anzi, attraverso le contraddizioni insiste nell’uso capitalistico delle macchine, che saranno approfondite in seguito, il robot contribuisce alla dissoluzione del modo di produzione capitalistico.
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Neoliberalismo, l'ideologia alla radice di tutti i nostri problemi
di George Monbiot
Un grande articolo di George Monbiot sul Guardian rintraccia le origini e lo sviluppo di quella teoria neoliberale che dagli anni ’80 ha pervaso le nostre società, ma i cui presupposti sono stati preparati con sorprendente cura e determinazione già da molti decenni prima. Monbiot sottolinea in particolare lo strano carattere “anonimo” di questa ideologia: pur profondamente penetrata nella coscienza collettiva, non ha nemmeno un nome ben definito, e così coperta da un vago anonimato risuona quasi come un sistema naturale, rendendo ancora più difficile identificarla e contrapporvisi. In questo sta il fallimento storico della sinistra, che nel momento peggiore della crisi del sistema neoliberale si ritrova senza aver elaborato alcuna proposta alternativa.
* * * *
Immaginate se il popolo dell’Unione Sovietica non avesse mai sentito parlare del comunismo. L’ideologia che domina le nostre vite, per la maggior parte di noi non ha un nome. Menzionatela nelle vostre conversazioni e avrete in risposta una scrollata di spalle.
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Perché Trump non attaccherà la Corea del Nord
di Federico Pieraccini
Dalla vittoria di Donald Trump, le tensioni nella penisola Coreana hanno raggiunto picchi, quasi, senza precedenti. L’impostazione aggressiva del nuovo presidente degli Stati Uniti, sin dalla campagna elettorale, ha accentuato le tensioni nella regione
Durante la campagna elettorale, Trump ha spesso preso posizioni ambigue e per certi versi isolazioniste in merito alle zone calde sparse per il globo. L’eccezione alla regola ha spesso riguardato la Corea del Nord. Business Insider cita l’attuale presidente degli Stati Uniti riferire nel Gennaio del 2016 le seguenti parole in merito al programma atomico della RDPC: "Dobbiamo chiuderlo [Lo sviluppo del nucleare] perchè sta [Kim Jong-Un] per fare qualcosa. Al momento, ha le armi, ma non ha i mezzi per il lancio. Una volta che avrà i sistemi di lancio, è abbastanza malato da usarlo. Quindi è meglio che ce ne occupiamo”.
Appena nominato presidente, le parole di Trump sono diventate ancor più nette ed esplicite, con tweet diventati famosi in cui afferma: “La Corea del Nord ha appena iniziato la sua fase finale nello sviluppo di un’arma nucleare capace di raggiungere gli Stati Uniti. Non succederà!”. Poche settimane dopo e le parole sono state tramutate in azioni: tra Marzo ed Aprile 2017, gli Stati Uniti e i suoi alleati (Corea del Sud e Giappone) hanno eseguito due gigantesche esercitazioni.
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«Perché io, di sinistra, non voterei Macron per fermare la Le Pen»
Giacomo Russo Spena intervista Emiliano Brancaccio
«È il "meno peggio" a creare il peggio. Scegliere uno per contrastare l’altro è un controsenso. I cui unici esiti stanno nello spostamento sempre più a destra del quadro politico». La posizione controcorrente dell'economista Emiliano Brancaccio
Ha festeggiato il 25 aprile, da convinto antifascista. Eppure l'economista Emiliano Brancaccio, una delle voci più autorevoli nella sinistra italiana, ideatore della proposta di "standard retributivo europeo", se stesse in Francia non voterebbe per Emmanuel Macron: «L’avanzata del Fronte nazionale è una pessima notizia, l’ennesimo segno funesto di un’epoca dominata dall’irrazionalismo politico. Ma...»
* * * *
Professore, veramente al ballottaggio in Francia non voterebbe Macron per impedire l’affermazione di Marine Le Pen? Dice sul serio?
«Certo, se fossi un elettore francese al ballottaggio non andrei a votare».
Nel giorno del 25 aprile la sua risposta sorprenderà molti lettori. In questi anni lei ha spesso paventato il rischio di nuovi fascismi in Europa, ed è stato tra i più irriducibili oppositori delle destre xenofobe….
«Io festeggio il 25 aprile non semplicemente per celebrare una ricorrenza, ma perché reputo l’ascesa di nuove forme surrettizie di fascismo la minaccia principale di questo tempo.
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In fondo al tunnel della crisi
di Renato Caputo
Le politiche volte a salvaguardare gli attuali rapporti di produzione impediscono lo sviluppo delle forze produttive e cancellano la sovranità popolare
L’irrazionalità e l’iniquità del modo di produzione capitalistico – già riconosciuta dallo stesso Adam Smith, quando osservava che lo sviluppo della ricchezza in tale sistema avviene in funzione dell’impoverimento di una fascia crescente della popolazione – è ancora una volta confermata, per quanto concerne il nostro paese, dal più recente rapporto Istat. Quest’ultimo attesta una continua crescita della povertà nella penisola, al punto che, in termini relativi, ci avviciniamo pericolosamente alla soglia dei 10 milioni di poveri, mentre in termini assoluti, in riferimento alle persone con redditi al di sotto della soglia di sussistenza, siamo ormai prossimi ai 5 milioni, una quota praticamente raddoppiata rispetto al 2007, con una spaventosa crescita del numero dei giovani, sempre più disoccupati o precari. Ciò che davvero inquieta è che tale massiccio impoverimento e il conseguente aumento del divario fra le classi sociali non ha consentito al paese neanche di iniziare a uscire dal tunnel della crisi. Anzi, le luci in fondo al tunnel, che gli apologeti degli attuali rapporti di produzione affermano costantemente di scorgere, assumono sempre più le sinistre sembianze di un treno che ci viene addosso a una velocità sempre più elevata. Viene, così, da domandarsi: quanto ancora i ceti subalterni dovranno pagare i costi sociali della crisi per consentire una ripresa economica, che non metta in discussione quei rapporti di proprietà che ne costituiscono il fondamento?
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Populismo e contro-populismo nello specchio americano
di Étienne Balibar
Negli Stati Uniti, dopo l’elezione di Trump, i miei amici e i miei studenti avevano sempre la stessa domanda sulle labbra: chi è il prossimo? Crede che Le Pen vincerà le elezioni francesi? Sullo sfondo della rovina delle politiche redistributive cancellate dal neoliberalismo, gli scenari evocati richiamavano alternativamente una sorta di effetto domino – ogni “democrazia liberale” che cade trascina con sé la seguente – e il principio di contagio. La Brexit gli appariva come un segno premonitore di nuove “cattive sorprese” a venire. Lo scacco di Renzi al “suo” referendum costituzionale e la rinuncia di Hollande a candidarsi alla propria successione facevano eco alla disfatta di Hilary Clinton e segnalavano la decomposizione del “centro-sinistra”. Le elezioni presidenziali austriache non risultavano altro che una tregua momentanea, mentre le manifestazioni dei cittadini e delle cittadine di Polonia contro il sistema Kaczynski incarnavano una fragile speranza di resistenza. La questione di sapere se Merkel avrebbe “tenuto” di fronte alla sua estrema destra, ostile all’accoglienza dei rifugiati, fungeva da variabile strategica (si era prima degli attentati di Natale a Berlino).
Ora scopro che le stesse questioni agitano l’opinione e la stampa europea. E da una parte all’altra dell’Atlantico è la categoria di “populismo” che, malgrado la temibile confusione a cui dà luogo, continua a polarizzare analisi e speculazioni.
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Alcune “leggi economiche universali” di Karl Marx
di Roberto Sidoli, Massimo Leoni e Daniele Burgio
Caro Moro*,
esiste una sorta di “giallo” teorico nel marxismo che avrebbe potuto attirare l’attenzione anche di Edgar Allan Poe: il mistero delle cosiddette leggi economiche universali (d’ora in poi LEU) scomparse o smarrite. Nell’AntiDühring, proprio all’inizio della sezione dedicata all’economia politica, il tuo grande amico Engels ha scritto che se questa scienza, di natura prettamente storica, deve necessariamente partire dall’analisi delle «leggi particolari di ogni singola fase di sviluppo della produzione e dello scambio», avrebbe però anche potuto «stabilire le poche leggi assolutamente generali valide per la produzione e lo scambio in genere». Quindi per Engels c’erano pure “leggi economiche universali”, sebbene egli non abbia quasi più fatto cenno a quali fossero. Ma scherzava e ci voleva prendere in giro? Niente affatto perché, sempre nell’AntiDühring e proprio poche righe prima, egli ne aveva indicata almeno una quando ha sottolineato che, sebbene produzione e scambio siano due funzioni diverse, non sono però equivalenti dato che si può dare «la produzione senza lo scambio, non invece lo scambio – che proprio per sua essenza è scambio di prodotti – senza la produzione». Insomma, la produzione sarebbe pratica economica universale, mentre lo scambio, storicamente determinato, non lo è!
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La "variante populista" di Formenti
di Alessandro Visalli
Il libro di Carlo Formenti del 2016 conclude per ora un ciclo breve sul populismo durante il quale sono stati letti: l’intervento di Nadia Urbinati, che tende a vedere il lato illiberale nel richiamo al “popolo” (termine che in senso proprio è invece sempre plurale), quello di Jurgen Habermas, e di Jan-Werner Muller, sulla stessa linea della Urbinati, il testo del 2009 di Ernesto Laclau “La ragione populista”, che è il più strutturato riferimento teorico della corrente in oggetto, e poi Nancy Fraser, Nicolao Merker, che inquadra il populismo di destra in chiave filosofica, infine la ricostruzione di Marco Revelli. Sarà necessario tornarvi, anche in funzione dei molti eventi che si susseguono in questo tempo accelerato della crisi terminale dell’assetto tardo novecentesco.
Come spesso è capitato, infatti, un secolo si è davvero chiuso solo dentro una fase di accelerata transizione che guarda ad entrambi i versanti: il settecento, età del primo scientismo e della dissoluzione sotto la sua spinta di blocchi egemonici secolari, transita nell’ottocento, età del positivismo, del macchinismo e della riorganizzazione secolare del mondo, attraverso il ventennio napoleonico che si conclude di fatto a Lipsia nel 1813; il novecento, età della società di massa, entra in scena davvero dopo la conclusione della fase di transizione aperta con la guerra franco-prussiana e conclusa con la sconfitta del reich tedesco e dei suoi alleati nel 1918.
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Dall’utopia al possibile
di Marc Augé
“La sola utopia valida per i secoli a venire e le cui fondamenta andrebbero urgentemente costruite o rinforzate è l’utopia dell’istruzione per tutti: l’unica via possibile per frenare una società mondiale ineguale e ignorante, condannata al consumo o all’esclusione e, alla fin fine, a rischio di suicidio planetario”. Proponiamo un capitolo da “Un altro mondo è possibile”, il nuovo saggio di Marc Augé – etnologo e scrittore francese di fama mondiale – in questi giorni in libreria per Codice edizioni
Le utopie del diciannovesimo secolo si sono infrante contro la dura realtà della storia del ventesimo. La globalizzazione oggi è sia economica sia tecnologica, e abitiamo in un mondo fatto di immagini e messaggi istantanei che ci dà la sensazione di vivere in un presente continuo. Anche l’ultima utopia, quella della “fine della Storia” e della società liberale, è messa alla prova. Per pensare alle possibilità di futuro c’è un modello, il pensiero scientifico, che promuove l’ipotesi come metodo, e si basa su due principi: pensare in rapporto agli scopi e comprendere che l’uomo, nella sua tripla dimensione, individuale, culturale e generale, è la sola priorità.
È il grande paradosso della nostra epoca: non osiamo più immaginare l’avvenire proprio nel momento in cui il progresso scientifico ci ha permesso di conoscere l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo. La scienza avanza con una rapidità tale che oggi non saremmo in grado di descrivere quale sarà lo stato delle nostre conoscenze di qui a cinquant’anni, eppure su scala storica non si tratta che di un’infima particella di tempo.
Questo paradosso è tanto più sconvolgente se si considera che i progressi scientifici vanno di pari passo con invenzioni e innovazioni tecnologiche non prive di conseguenze sulla vita sociale delle persone.
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