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Quale filosofia per l’Europa?
D. Ferrante e M. Piasienter intervistano Roberto Esposito
A che punto si trova lo sviluppo della “biopolitica affermativa” di Roberto Esposito? Per comprenderlo occorre prendere in considerazione il suo ultimo libro, "Da fuori. Una filosofia per l'Europa", uscito recentemente per Einaudi. In questa intervista, che l'autore ha gentilmente concesso alla nostra rubrica, se ne mette a tema il nucleo centrale e le sue più importanti implicazioni
1. Il tuo libro Da Fuori. Una filosofia per l’Europa sembra situarsi nel punto di incrocio tra due diversi assi: da un lato lo sguardo sulle filosofie dell’Europa, dall’altro uno sguardo sulla filosofia per l’Europa. Il punto di incontro tra questi due vettori potrebbe essere la domanda su che cosa la filosofia possa dire oggi all’Europa. Vorremmo aprire questa intervista proprio ponendole questo quesito, quale ruolo la filosofia dovrebbe giocare nel dibattito attuale sull’Europa?
RE. Se ci si pensa, nei momenti più drammatici della sua storia, l’Europa si è sempre rivolta alla filosofia e, a sua volta, la filosofia si è interrogata sui destini dell’Europa come qualcosa che toccava il suo stesso modo essere. Perché? Quale nodo stringe in maniera indissolubile filosofia ed Europa? Una prima risposta a questa domanda attiene alla nascita europea – in particolare greca – della filosofia. Anche quando si è nutrita di altre tradizioni di pensiero, la connotazione europea ha segnato la filosofia in forma incancellabile. Anche la linea di pensiero che ha assunto il nome di “filosofia analitica”, da alcuni curiosamente opposta alla filosofia “continentale”, è nata nel nostro continente e solo successivamente trasmigrata altrove, in fuga dal nazismo. Ma c’è qualcosa di più, che attiene al carattere filosofico della stessa costituzione dell’Europa. Non avendo confini geografici certi, almeno a est – la sua distinzione dall’Asia è problematica, visto che due grandi Paesi, la Russia e la Turchia sono a cavallo dei due continenti –, l’Europa si è fin dall’inizio pensata tale a partire dalla specificità costitutiva dei suoi principi filosofici: la libertà delle città greche rispetto al regime assoluto asiatico. Benché tali principi siano stati spesso contraddetti e rovesciati nel loro contrario, l’idea di Europa fa tutt’uno con essi.
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Lenin e l'ombra lunga del militarismo
Unione Sovietica, partito bolscevico, Gramsci in alcuni recenti contributi storiografici
di Tommaso Baris
In seguito all’incontro seminariale di martedì 1 marzo tenuto presso il circolo Rosa Luxemburg, pubblichiamo una riflessione sulla storia dell’Unione Sovietica scritta da Tommaso Baris, docente di storia contemporanea presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Palermo
La storiografia italiana si è arricchita recentemente di alcuni importanti contributi sulla storia dell’Unione Sovietica, permettendoci di rendere estremamente più articolata l’immagine dell’Urss costruita nel nostro paese. In particolare punto di partenza di questa riflessione sono i lavori di Silvio Pons e di Andrea Graziosi, che hanno condensato in due importanti volumi sul movimento comunista internazionale e sulla storia dell’Urss un pluriennale lavoro di ricerca[1].
Tra le tante questioni segnalate dai due volumi vale la pena soffermarsi su quella che mi pare cruciale: la forte correlazione esistente tra Grande Guerra e forma politica assunta dal partito bolscevico nel corso della sua presa del potere. Pons insiste molto su questo aspetto cruciale, sul fatto cioè che il bolscevismo, dinanzi al massacro della Prima guerra mondiale, abbia adottato un modello organizzativo strettamente militare, introiettando fortemente nella sua cultura politica le categorie e le forme organizzative tipiche di un moderno esercito di massa in vista del suo diventare il “partito della guerra civile”. L’idea di Pons è che questo tratto burocratico-militare costituisca l’essenza dell’approccio alla politica del bolscevismo e che caratterizzi quindi le scelte politiche non solo nel corso della guerra civile russa scoppiata dopo la presa del Palazzo d’Inverno a Pietroburgo, ma che continui ad operare anche dopo la stabilizzazione dello Stato sovietico, tanto nelle sue relazioni interne che in quelle esterne.
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Ricostruire dal basso un sistema monetario internazionale in Europa e nel mondo
Bruno Amoroso
Il mio amico e collega Jesper Jespersen mi sollecita da tempo a riprendere insieme il progetto di Keynes sulla riforma del sistema monetario internazionale, noto come Bretton Wood. Questo nella convinzione che oggi, come allora (1944), c’è bisogno di una ricostruzione del sistema economico e monetario in Europa e nel mondo, e gli strumenti e le conoscenze necessarie per farlo sono a disposizione. Si è scelta invece la strada della moneta unica e dell’euro, imponendo un processo di integrazione economica a scapito della solidarietà sociale e del co-sviluppo tra paesi, europei e no.
Questo non vale solo per il sistema monetario. Gli squilibri economici e sociali tra l’Europa e il Mediterraneo sono noti da tempo e nel Primo Rapporto sul Mediterraneo elaborato per il CNEL nel 1991 avevamo scritto con chiarezza che l’andamento demografico dei paesi euro-mediterranei e il divario economico segnalavano con chiarezza che di li a venti anni, in assenza di nuove politiche di cooperazione (le chiamammo di co-sviluppo) tra le due sponde saremmo andati incontro al disastro attuale, di una emigrazione selvaggia da quei paesi e una ripresa generale della conflittualità tra stati europei. Fummo accusati (dalla sinistra e sindacati) di allarmismo economico.
Tuttavia quelle elaborazioni contribuirono a dar vita ad alcune spinte positive con il progetto euro-mediterraneo di Barcellona (1995) (“un’area di benessere condiviso”) interrotto poi bruscamente con l’invenzione prodiana delle “politiche di vicinato” (2004), che scambiarono il welfare condiviso con la difesa comune, trasformando una strategia di cooperazione e stabilizzazione in quella di destabilizzazione e di guerra voluta dalla NATO.
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I terminator del lavoro
Giuseppe Nicolosi e Fabrizio Fassio
Nel futuro la disoccupazione sarà generalizzata. È la previsione che segue le analisi sull’automazione delle attività produttive. Una tesi che ritorna ciclicamente, da oltre cinquant’anni, ogni volta che viene annunciata qualche innovazione tecnologica
Lo scorso anno ha provocato un certo scalpore in Italia un articolo del saggista britannico John Lanchester pubblicato dalla London Review of Books e tradotto in italiano da Internazionale intitolato Il capitalismo dei Robot. Il testo di Lanchester consta di una documentata analisi della situazione planetaria del lavoro sotto la pressione dello sviluppo tecnologico e dell’automazione. Tra i dati più spettacolari presentati da Lanchester spiccano la netta vittoria di Watson, ultimo software Ibm in materia di intelligenza artificiale, al gioco a quiz televisivo Jeopardy!, i successi del traduttore di Google e l’annuncio di Terry Gou, fondatore di Foxconn, della sua intenzione di sostituire il milione di dipendenti della celebre azienda elettronica con dei robot. Come scrive Lanchester: «Se mettiamo insieme tutte queste cose, possiamo iniziare a capire perché molte persone pensano che sia in arrivo un grande cambiamento basato sull’influenza dell’informatica e della tecnologia sulla nostra vita quotidiana».
Che molte persone pensino qualcosa del genere è senz’altro vero, basti citare titoli di grande successo come Postcapitalismo di Paul Mason (Il Saggiatore) o altri importanti lavori pubblicati recentemente come Rise of robots di Martin Ford. Sul palco delle Ted Conference, seguite da centinaia di migliaia di persone sui canali video di Youtube, si susseguono giovani e brillanti pensatori che, nel nome del reddito di cittadinanza, snocciolano grafici e tabelle che rivelano impietosamente il trend progressivo e inesorabile della fine del lavoro sotto la pressione dell’automazione.
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Europa, “TINA” e altre illusioni della Sinistra*
Perché DiEM2025 di Varoufakis sta combattendo la battaglia sbagliata
di Will Denayer
La globalizzazione è diventata un’ossessione –denuncia Will Denayer su Flassbeck-economics– che impedisce alle forze progressiste il raggiungimento di qualsiasi obiettivo a qualsiasi livello. Nel voler diventare a tutti i costi “europea” e transnazionale, la Sinistra ha perso di vista che le battaglie si possono e devono ancora combattere quasi interamente a livello nazionale, con le proprie politiche, le proprie scelte e la propria moneta. Nell’avere accettato la leggenda di un Capitale internazionale totalmente libero e onnipotente, al quale bisogna per forza adeguarsi (al limite con qualche correzione), perché “non c’è alternativa”, si è dimenticato che è (ancora e solo) all’interno dei singoli paesi che si possono perseguire concretamente i grandi obiettivi di progresso sociale. Il Capitale è quello che è sempre stato. È il Lavoro che ha smesso di difendersi (per inseguire un’allucinazione)
1. Varoufakis
Questo articolo parla di strategia, ma la strategia non può essere considerata indipendentemente dalle persone, dalle loro storie e dalle loro azioni. Syriza è sempre stato un complicato conglomerato di gruppi con convinzioni politiche eterogenee, ma da quando è salito al potere nel gennaio 2015 fino alla sua resa sette mesi più tardi, sono emerse due fazioni principali che combattevano una fiera lotta. Da una parte c’era una sinistra composita ma determinata a mantenere le promesse elettorali (il programma di Tessalonica): non ci doveva più essere alcuna austerità, la Grecia avrebbe dovuto negoziare una cancellazione del debito, e se la Troika avesse proseguito per la sua strada portando il paese al limite, questo gruppo avrebbe preferito sostenere l’uscita dall’eurozona. La dirigenza di Syriza, dalla parte opposta, voleva ugualmente mettere fine all’austerità, ma non voleva a nessun costo uscire dall’eurozona.
Come spiega Lapavitsas, la dirigenza di Syriza si era convinta che se avesse rifiutato un nuovo salvataggio, i creditori europei si sarebbero piegati di fronte al rischio di un nuovo tumulto finanziario e politico.
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Lavoro digitale e imperialismo
di Christian Fuchs
È trascorso ormai un secolo dalla pubblicazione di L’imperialismo, fase suprema del capitalismo (1916) di Lenin e L’economia mondiale e l’imperialismo (1915) di Bucharin, i quali, insieme a L’accumulazione del capitale (1913) di Rosa Luxemburg, identificavano l’imperialismo come una forza e uno strumento del capitalismo. Era l’epoca della guerra mondiale, dei monopoli, delle leggi antitrust, degli scioperi per gli aumenti salariali, dello sviluppo da parte di Ford della linea di assemblaggio, della Rivoluzione d’Ottobre, di quella messicana e di quella, fallita, tedesca, e tanto altro ancora. Un momento storico che ha registrato la diffusione e l’approfondirsi della sfida globale al capitalismo.
Questo articolo si pone l’obiettivo di esaminare la divisione internazionale del lavoro attraverso le classiche concezioni marxiste dell’imperialismo, estendendo tali idee alla divisione internazionale del lavoro nell’ambito della produzione di informazioni e tecnologie dell’informazione odierne. Argomenterò la tesi secondo la quale il lavoro digitale, in quanto nuova frontiera dell’innovazione e dello sfruttamento capitalisti, ha un ruolo centrale nelle strutture dell’imperialismo contemporaneo. Attingendo a questi concetti classici la mia analisi mostra come, nel nuovo imperialismo, le industrie dell’informazione formino uno dei settori economici più concentrati; come iper-industrializzazione, finanza e informazionalismo vadano di pari passo; come le società multinazionali dell’informazione siano radicate negli stati-nazione ma operino globalmente; e infine, quanto le tecnologie dell’informazione siano divenute uno strumento di guerra.(1)
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Mitologie e deficit antropologici nel pensiero di Marx e dei marxismi
Roberto Finelli
1. E’ la questione dell’individuazione, della messa in valore della soggettività, rispetto ad una più tradizionale questione sociale, che costituisce oggi, io credo, la linea più durevole e feconda dei movimenti di emancipazione dell’ultimo cinquantennio e la linea di apertura di un possibile futuro in cui le relazioni umane non debbano continuare ad essere mediate e consentite dalla sola mondializzazione delle merci e del capitale. Sulla questione della soggettività, delle sue istanze più esistenziali ed emozionali che non sociali, molto ha avuto a dire e pensare la tradizione più illuminata e rigorosa del femminismo, del pensiero di genere e della differenza, malgrado la resistenza all’ascolto e al confronto praticata al riguardo da molti ambiti dell’emancipazione intellettuale e sociale. Ma, a mio avviso, è soprattutto alle scienze della psicoanalisi nel loro complesso, guardando con maggiore attenzione al freudismo e allo junghismo e con molto maggiore sospetto verso il lacanismo, che siamo debitori di acquisizioni nuove e ulteriori rispetto al tema della costituzione della soggettività personale, in una linea di debito che anche qui spesso non è riconosciuta quanto invece combattuta e marginalizzata. Le scienze psicoanalitiche ci consegnano infatti un arricchimento e una complicazione del concetto di libertà come di quello di società che arricchiscono e nello stesso tempo complicano la già ricca tradizione moderna su questi temi. Libertà ora viene a significare, più che assenza o riduzione da vincoli esterni, limitazione o affrancamento da vincoli interni.
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Brexit o no?
Sogni di una notte d'inizio estate
di Pierluigi Fagan
Il riepilogo del sondaggio dei sondaggi del Financial times (qui), dà la Brexit al 43% vs l’opzione del rimanere in EU, data al 45%, ad oggi. E’ una media di vari sondaggi e ce ne sono di molto sbilanciati in un senso (ORB) o in quello opposto (ICM). Non ho approfondito le metodologie, posso solo dire che quelli a base intervistati più ampia (su i 2/3000 casi ) sono preferibili, in linea di principio. I sondaggi non sempre possono fotografare le reali intenzioni, manca ancora del tempo e comunque sembra che la questione sia in bilico. Ma non è del come andrà che vorremmo parlare ma capire il cosa potrebbe succedere nell’un caso o nell’altro e cosa possiamo noi augurarci che accada.
La ragione più forte per la Brexit è geopolitica a riprova del fatto che è questo il gioco che ordina e dà le condizioni di possibilità a tutti gli altri. Il valore geopolitico della Brexit è la libertà, l’autonomia di sviluppare qualsiasi strategia tra quelle più convenienti, attività nella quale i britannici hanno sviluppato -da qualche secolo- uno storico attaccamento e preferenza. Ad esempio, dal trattare o non trattare e se trattare farlo alle proprie condizioni, gli eventuali trattati di libero scambio, soprattutto scegliendo il “chi”. Non è un mistero che i britannici ritengano strategicamente gli USA una potenza in declino e sanno che una potenza declinante può diventare molto ingombrante da avere come partner, ancorpiù se dominante nella reciproca relazione.
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Precarity save the Queen! Il salario minimo della Corona
Il regime europeo del salario 1
di Lavoro Insubordinato
Quando si tratta di lavoro Buckingham Palace è come McDonald’s. Entrambi i palazzi, quello della regina e quello del fast food più globale del mondo, assumono con «contratti a zero-ore». Insomma, «che mangino brioche!», o meglio, hamburger. È noto infatti che il Big Mac Index inventato dall’Economist a metà degli anni ’80 è diventato uno strumento per misurare non solo il potere d’acquisto, ma anche il salario minimo, o meglio quello che il Regno Unito chiama ormai living wage, un modo di tagliare indiscriminatamente i servizi di welfare in cambio della mera sopravvivenza. La Burgernomics è il segno dei tempi, la nuova Realpolitik del lavoro che riduce il benessere al rapporto tra il lavoratore e il suo hamburger.
Un salario di sopravvivenza
Il contratto a zero ore non è una novità e già nel 2013 se ne contavano più di un milione. Ѐ il cavallo di troia con cui nel 1998 la Gran Bretagna ha introdotto, con il National Minimum Wage Act, la precarietà: si tratta di lavoro a chiamata, senza garanzie, senza orari di lavoro prefissati, senza malattie, senza ferie, un po’ come i voucher nostrani.
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Tornare sui propri passi, ovvero storia e memoria degli anni 70
di Sergio Bologna
“L’autunno caldo è un periodo della storia d’Italia segnato da lotte sindacali operaie che si sviluppa a partire dall’autunno del 1969 in Italia, ritenuto il preludio del periodo storico conosciuto come anni di piombo… I sindacati ufficiali furono condizionati dai Comitati unitari di base (CUB), mentre i governi democristiani che si alternarono in quel periodo (Rumor I e Rumor II) non riuscivano a distinguere le richieste ragionevoli da quelle demagogiche, piegandosi a entrambe pur di arrivare a una pacificazione sociale: i CUB esigevano salari uguali per tutti gli operai in base al principio che «tutti gli stomachi sono uguali», senza differenze di merito e di compenso, concependo il profitto come una truffa, la produttività un servaggio e l’efficienza un complotto, sostenendo invece che la negligenza diventava un merito e il sabotaggio era un giusto colpo inferto alla logica capitalistica”. Ecco alcuni stralci dalla pagina italiana di Wikipedia dedicata all’Autunno caldo. Analisi tratte da libri “astorici” di Montanelli e Cervi ( L’Italia degli anni di piombo, 1991). Una revisione della storia che oggi rischia di diventare dominante.
A partire proprio da questa citazione e dunque da una amara constatazione, martedì 7 giugno 2016, Sergio Bologna ha tenuto alla Casa della Cultura di Milano una bellissima e ricca relazione intitolata “Il lungo autunno: il conflitto sociale degli anni Settanta” – all’interno di un ciclo di incontri curato da Franco Amadori, “L’approdo mancato”.
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Chi sono i veri populisti?
di Piotr
Vediamo in sette punti la questione del populismo e la situazione italiana. Con un occhio rivolto alla grande Crisi sistemica
1. Carlo Formenti ha recentemente pubblicato un post in cui parla di populismo, riferendosi innanzitutto allo scontro tra Trump (populismo di destra) e Sanders (populismo di sinistra).
La seconda parte del breve pezzo riguarda invece la possibilità che De Magistris si metta prossimamente alla testa di un movimento populista di sinistra ora che il M5Stelle avrebbe "dismesso ogni velleità antisistema".
Formenti non è isolato in quest'ultimo giudizio e quindi occorre cercare di capire se è corretto, visto che il M5Stelle si sta profilando come l'unica forza politica in grado di contrastare il PD.
Non basta rispondere sì o no, fare il tifo per o contro. Occorrono argomenti e gli argomenti che occorrono non sono semplici anche se bisogna essere sintetici.
Per iniziare, bisogna proprio che ci domandiamo perché Trump e Sanders sarebbero populisti e la Clinton no e perché De Magistris e il M5Stelle lo sarebbero e Renzi no.
Non è una domanda che rivolgo al solo Formenti, o ad altri, ma anche a me stesso, dato che non provengo da una scuola di pensiero diversa.
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Ciao, ciao Keynes
di Alessandro Chiavacci
Parte I
Gli amici Moreno Pasquinelli e Leonardo Mazzei, e il gruppo Mpl/Sinista contro l’ Euro/P 101, da anni lavorano per coalizzare le forze sociali e intellettuali per creare una alternativa al presente, con gli occhi puntati su quella che è la questione centrale oggi per l’ Italia, cioè l’uscita dai vincoli dell’euro e dell’Unione europea. Nel fare questo però a mio avviso guardano con troppa condiscendenza a forze sociali e a teorie che mentre sembrano possibili alleati di un progetto di trasformazione del mondo, hanno anche limiti di fondo che ne inficiano l’utilità dal punto di vista di quella stessa prospettiva.
Una di queste teorie, sulla quale vorrei soffermarmi, è il keynesismo.
Dovendo fare una sintesi ultra semplificata e ingiusta del contributo pratico del keynesismo, potremmo dire che il suo significato è che, poiché il reddito non si traduce sempre in spesa è possibile che la domanda effettiva sia minore di quella che serve a generare piena occupazione, che perciò, in molti casi, è necessario integrare la domanda con la spesa pubblica realizzata in deficit.
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Linux o barbarie!
di ubu re
"Care compagne e cari compagni", venticinque anni fa nasceva Gnu/Linux (auguri!), un “adorabile”, efficiente e stabile sistema operativo “libero”, che io utilizzo con grande soddisfazione, su una vecchia, obsoleta ma gloriosa macchina. Una macchina che ad un certo punto, quattro anni fa, decise autonomamente e contro la mia ferma volontà di disfarsi di Windows 7. Ero a letto per un malanno di stagione e dopo inutili, reiterati quanto disperati tentativi di resuscitare la creatura di Bill Gates, ho provato, in un gesto di forsennata visionarietà, forse causata dai cattivi farmaci, ad installare Ubuntu "Precise Pangoline": e magicamente ha funzionato! Ancora oggi, guarito, osservo con stupore questa macchina che continua egregiamente e un po' rumorosamente a lavorare (è quella con cui sto scrivendo).
Linux d'altronde si comporta bene: fa “quasi sempre” ciò che gli viene detto di fare, anche se, naturalmente, ha il carattere deciso che ci si aspetta e che in alcune circostanze può sfociare in una parziale scontrosità. Ma in genere, alla fin fine, oltre che affidabile, Linux sa essere anche più che affabile: frugale!... e quando serve, luminosamente ed eminentemente sontuoso.
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Il «sogno cinese» alla prova della classe. Un’intervista a Pun Ngai
di Giorgio Grappi e Devi Sacchetto
Il Parlamento Europeo discute se la Cina debba essere considerata o no un’economia di mercato, moltiplicando le critiche all’interventismo dello Stato cinese negli affari economici. Sono tuttavia molte le imprese anche europee che in questi anni hanno approfittato dei rigidi regimi del lavoro imposti da Pechino. Altrettante sono quelle che sperano nell’imminente arrivo di investimenti cinesi per rilanciare il loro fatturato. Dopo aver ricoperto il ruolo di «fabbrica del mondo» per mansioni a basso valore aggiunto, oggi il ruolo della Cina sta drasticamente cambiando. Il protagonismo delle aziende cinesi, insieme alla strategia nota come Nuova via della Seta, che promette ingenti investimenti nel settore delle infrastrutture, fa gola a molti attori in ogni angolo del globo. Nell’epicentro dell’Europa colpita dalla crisi, la vicenda del porto del Pireo, oggi controllato dalla cinese Cosco grazie ad una concessione trentennale che ne ha rilanciata la posizione globale, è solo il più importante esempio di come la Cina sia più che mai vicina. Sappiamo però poco delle trasformazioni in atto nel paese.
Nel corso degli ultimi anni lo sviluppo economico cinese pare aver imboccato una nuova strada, con delocalizzazioni verso l’interno del paese e all’estero, mentre alcuni commentatori hanno sottolineato l’emergere di un’ampia classe media.
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Sul divenire culturale del general intellect
Danilo Mariscalco
Pubblichiamo qui un saggio tratto da Vita, politica, rappresentazione. A partire dall’Italian Theory (a cura di P. Maltese e D. Mariscalco), volume appena arrivato in libreria per le edizioni ombre corte
C’è almeno un segmento della cosiddetta Italian Theory, quello che va dalle prime (con)ricerche sulla informazione valorizzante sino alle più recenti esplorazioni del paradigma bioeconomico o capitalismo cognitivo, che ha alimentato e metabolizzato la prassi politica antagonista. È nota, almeno dopo le genealogie offerte da Roberto Esposito e da Dario Gentili, la specificità conflittuale della differenza italiana, la sua capacità – che ne spiegherebbe, almeno in parte, la fortuna internazionale – di indagare i piani della vita, della storia, della politica1 e di fornire, contestualmente, una «ontologia dell’attualità»2. È altresì riconosciuto, come nel caso di Michael Hardt3, o del Negri che ritorna, dopo un ventennio, sul suo Marx oltre Marx4, il debito del pensiero radicale italiano nei confronti delle lotte politiche degli anni Sessanta e Settanta. Ciò che si intende focalizzare in questa occasione argomentativa è, in particolare, la collocazione teorico-pratica del movimento del ’77, sul piano specifico delle sue emergenze culturali e comunicative, all’interno del Radical Thought, dunque nel suo rapporto con la lettura già operaista del general intellect marxiano, in quel caso sostanziata dal fecondo incontro con alcune categorie del post-strutturalismo francese e da una rinnovata analisi critica delle esperienze delle avanguardie artistiche del Novecento, e successivamente posta a fondamento delle ipotesi, formulate dal post-operaismo, sui dispositivi di sussunzione biopolitica, e sulle linee di fragilità, del vigente regime di produzione post-fordista.
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Elezioni comunali e necessità di chiarezza
Proposte per un'analisi del voto
di Fabio Nobile e Domenico Moro
I. Con i risultati dei primi turni elettorali delle amministrative è possibile individuare alcuni elementi che ci restituiscano il quadro della situazione politica italiana. In primo luogo si consolida l’astensionismo come segno di distacco di larghi strati popolari dal sistema politico. Circa il 40% di potenziali elettori tende a non partecipare evidenziando la completa sfiducia nel sistema politico dominante: il Movimento cinque stelle non risulta un freno a tale tendenza, se non in maniera limitata. In secondo luogo, non esistono posizioni consolidate. La mobilità del voto riflette l’espressione di una difficoltà di tenuta del sistema politico dominante che, all’interno della crisi del capitale ormai strutturale, deve fare i conti con una crisi di egemonia latente. Ne è testimonianza il PD, che subisce in diverse città perdite rilevanti. Tuttavia, il Pd sul piano elettorale complessivamente tiene, anche se a fatica, andando al ballottaggio in 83 comuni sui 111 dove si dovrà ricorrere al secondo turno. La tenuta elettorale del Pd dipende, oltre che dal forte astensionismo e dal sistema elettorale fortemente maggioritario, anche dal declino di Forza Italia e dalle divisioni del centro-destra come si è riscontrato a Roma. In questa città, se il centro-destra fosse stato unito, sarebbe certamente andato al ballottaggio.
Il risultato del Movimento cinque stelle è ambivalente. Raggiunge un ottimo risultato a Torino e Roma, ma non ottiene comparabili affermazioni nelle altre grandi città come Milano, Bologna e Napoli dove va sottolineata l’affermazione della giunta De Magistris che ha espresso una netta alternatività al PD ed una forte radicalità nelle scelte amministrative. I risultati del Movimento cinque stelle stanno dentro la dinamica di grande mobilità dei consensi.
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Palmiro Togliatti e la lotta per la pace ieri e oggi
di Domenico Losurdo
Con la relazione di Domenico Losurdo – filosofo, presidente dell’Associazione Marx XXI, membro del Comitato scientifico di “Marxismo Oggi” – avviamo la pubblicazione dei materiali relativi al convegno Palmiro Togliatti, la via italiana: passato e futuro del comunismo, promosso dalla Scuola di formazione politica “Gramsci-Togliatti” e svoltosi presso la sede della Scuola, a Campoleone (Roma), il 28 maggio 2016. Oltre ai testi delle relazioni, pubblicheremo anche i video integrali dei lavori del convegno, che intendiamo come un contributo alla rigenerazione di una cultura politica, quella del comunismo italiano, che costituisce una base essenziale del processo di ricostruzione del Partito comunista nel nostro paese.
* * *
«Una delle qualità fondamentali dei bolscevichi […] uno dei punti fondamentali della nostra strategia rivoluzionaria è la capacità di comprendere ad ogni istante quale è il nemico principale e di saper concentrare tutte le forze contro questo nemico». (P. Togliatti, Rapporto al VII Congresso dell’Internazionale Comunista)
Democrazia e pace?
Conviene prendere le mosse dalla guerra fredda. Per chiarire di quali tempi si trattasse mi limito ad alcuni particolari.
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Ancora sull'«Effetto di sdoppiamento»
di Roberto Sidoli, Massimo Leoni, Daniele Burgio
Qui di seguito una lettera del compagno Enrico Galavotti con la nostra risposta sulle discussione aperta con tema l'Effetto di sdoppiamento:
«Per me resta esagerato far risalire la civiltà a 9000 anni fa (singole città, come p.es. Gerico, non fanno testo perché rappresentano delle eccezioni). La nascita dell’agricoltura e dell’allevamento di per sé non implica la nascita delle classi. Diciamo che i problemi insorgono quando gli allevatori si contrappongono agli agricoltori, ma questo, su ampia scala, in varie parti del pianeta, ha cominciato ad avvenire 6000 anni fa. Una specializzazione in una mansione lavorativa di per sé non implica un antagonismo sociale.
Che poi una città come Gerico appartenesse allo stile collettivistico, quello stile tipico del paleolitico, per me è un controsenso. Una qualunque città esprime uno stile di vita non conforme a natura, quindi anticollettivistico per definizione. La città tende inevitabilmente a schiavizzare la campagna circostante, proprio perché non può pretendere l’autonomia alimentare. Essa implica già una sorta di stratificazione sociale e la comparsa della religione, che le è sempre correlata.
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Lotta alla deflazione? Il compito della BCE è un altro
di Danilo Carullo
Un’analisi empirica di Brancaccio, Fontana, Lopreite e Realfonzo appena pubblicata sul Journal of Post-Keynesian Economics evidenzia che la BCE non è in grado di governare l’andamento del reddito nominale e quindi nemmeno dell’inflazione. Lo studio risulta in linea con la tesi alternativa, secondo cui il vero compito della banca centrale consiste nella regolazione del ritmo delle insolvenze all’interno del sistema economico
Lo spettro della deflazione, il più temuto indicatore di crisi economica, continua ad aggirarsi per l’Europa. In più occasioni il presidente della BCE Mario Draghi ha riconosciuto che le politiche monetarie espansive attuate nei mesi scorsi non sono riuscite a frenare la tendenza dell’eurozona verso la deflazione. Egli tuttavia ha insistito sull’efficacia delle manovre attuate dalla banca centrale e si è detto fiducioso sulla possibilità che la tendenza al calo dei prezzi si interrompa entro la fine di quest’anno e che l’anno prossimo l’inflazione torni stabilmente in territorio positivo. L’obiettivo, per la BCE, resta dunque quello di sempre: raggiungere e mantenere un tasso d’inflazione annuo prossimo al due percento.
Questo modello di comportamento si chiama “inflation targeting”. Esso è contemplato negli statuti di varie banche centrali ed è alla base della cosiddetta “regola di Taylor”, una delle più comuni interpretazioni del funzionamento della politica monetaria. Tale linea di condotta, tuttavia, è oggi fortemente criticata da vari studiosi. Cristina Romer, sul New York Times, ha sostenuto che in fasi storiche come l’attuale, caratterizzate da grave instabilità macroeconomica, le autorità monetarie non dovrebbero fissarsi sul solo andamento dell’inflazione ma dovrebbero guardare anche all’andamento della produzione, dell’occupazione e del reddito.
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Prefazione a “Come ci siamo allontanati”
di Ennio Abate
«Ricordiamo che Croce, per esempio, la struttura teologica della Divina Commedia la considerava non poetica, pressoché inutile al suo senso poetico. Noi sappiamo assolutamente che non è così; questo non significa che noi dobbiamo necessariamente condividere fino in fondo il pensiero cattolico dell’Alighieri. Un celebre studioso americano, Singleton diceva: "il lettore non dimentichi mai che il poeta Dante Alighieri è un poeta cattolico", ed effettivamente l’aspetto in questo caso teologico, di verità teologica, come anche le affermazioni di verità materialistiche in Leopardi, non sono elementi soltanto accessori, sono elementi integranti e integrali della poesia». (Franco Fortini Che cos'è la poesia? Intervista a RAI Educational dell'8 maggio 1993)
«Che cosa sia poi quell’uomo, quell’essere umano di cui parlate, quando a quello sia tolta la dimensione dell’azione comune per la solidarietà, la giustizia, la libertà e l’eguaglianza, io non riesco davvero a immaginarmelo. Che cosa è un uomo ridotto alla mera dimensione della interiorità morale? Ho dalla mia, per non nominare i massimi cristiani, Marx, Nietzsche, Freud e Sartre. Essi mi rassicurano: deve trattarsi di una canaglia. O di una vittima». ( F. Fortini, Non è solo a voi che sto parlando, in Disobbedienze II, pag. 38, manifesto libri, Roma 1996)
Se confrontassimo le iniziative per ricordare Fortini in occasione del ventennale della sua morte con le precedenti,[1] noteremmo tre fatti significativi: il ridimensionamento della pattuglia di studiosi e amici della vecchia guardia, essendo mancati Cesare Cases, Giovanni Raboni, Michele Ranchetti, Edoarda Masi e Tito Perlini; il silenzio nel ventennale di diverse voci, spesso tra le più autorevoli e qualificate, che lo commemorarono a Siena nel decennale; e l’affacciarsi presso studiosi giovani o meno anziani di due immagini di Fortini più mosse rispetto alle precedenti e consolidate: quella di un Fortini fuori tempo (e fuori dal Novecento) o, si potrebbe dire, di un Fortini oltre Fortini (come si parlò in passato di un Marx oltre Marx); e quella di un giovane Fortini, staccato se non amputato dal Fortini maturo o ideologo.[2]
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Il romanzo dello sciame
di Damiano Palano
Nota su: Franco Berardi e Massimiliano Geraci, Morte ai vecchi, Baldini e Castoldi, Milano 2016
«Morte ai vecchi», il libro scritto a quatto mani con Massimiliano Geraci, non può essere considerato forse il «primo romanzo» di Franco Berardi Bifo. Ma senza dubbio questa singolare distopia, che immagina un futuro non poi così lontano dal nostro presente,condensa molte delle riflessioni dedicate da Bifo alla «mutazione» contemporanea. E proprio per questo il vero protagonista del romanzo diventa uno sciame omicida di ragazzini, perennemente intrappolati in un onnipresente alveare digitale.
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Fantasmi erotici
Al fortunato amante di piccole curiosità letterarie che si trovi a frugare tra i polverosi scaffali di qualche rigattiere, potrebbe forse capitare di imbattersi nel nome di Loris Aletti, misterioso autore di alcuni romanzetti erotici pubblicati al principio degli anni Settanta, che ben pochi oggi ricordano. Ospitate nella collana «I libri della notte» dall’editrice milanese Kermesse, le opere di Aletti sono infatti le sbiadite testimonianze di un genere dimenticato della letteratura di consumo, che fiorì improvvisamente sul finire degli anni Sessanta del secolo scorso e che tramontò altrettanto rapidamente solo pochi anni dopo – quando la diffusione della pornografia di fatto chiuse ogni spazio di mercato a una produzione che allora si definiva «erotica» – senza lasciare traccia nelle biblioteche, nei repertori bibliografici e forse anche nella memoria collettiva.
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Commenti sulle elezioni amministrative
Elezioni Amministrative 2016
Vinti, vincitori e zimbellati
di Andrea Scanzi
Previsioni. Sabato, in un video, ho detto: “Il Pd vince a Cagliari con Zedda, a Milano al ballottaggio su Parisi, a Torino al ballottaggio su Appendino, a Bologna al ballottaggio sul centrodestra. A Napoli vince De Magistris al ballottaggio su Lettieri, con idolo Valente fuori. E a Roma Raggi e Giachetti al ballottaggio, con Raggi favorita. Se ne sbaglio 1 su 6 vado a lavorare al Foglio, se ne sbaglio 2 faccio un duetto coi Modà a San Siro”. Al momento le ho prese tutte, compresi i secondi arrivati: fenomeni si nasce, e io modestamente lo nacqui (cit). Il ballottaggio di Milano, decisivo per capire chi ha vinto e perso, è però molto aperto. Teoricamente potrebbero esserci ribaltoni anche a Torino e Bologna. Faccio comunque presente che Cerasa mi ha già detto che non mi vuole, avendo già messo sotto contrario Scaramacai, quindi resterò al Fatto. Fiuuuu. Il mio produttore teatrale mi ha poi fatto firmare uno strano contratto: “Se il Pd perderà a Milano e Torino, farai una data de Il sogno di un’Italia con Mariano Apicella al posto di Giulio Casale”. Altre considerazioni.
Affluenza. E’ calata di 5 punti rispetto al 2011, ma non è crollata. Il 62,14%, di questi tempi, non è poco. E a Roma si è votato più di tre anni fa, quando vinse Marino.
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Renzismo, è finita la luna di miele!
di Militant
Dicevano i vecchi comunisti che le analisi elettorali, quelle serie, si fanno basandosi sui voti assoluti. Fedeli a questo principio rimandiamo ogni ragionamento più complessivo a quando saranno termite le operazioni di scrutinio più lente del mondo e ci concentriamo su alcuni dati politici che ci sembrano particolarmente significativi, primo su tutti la crisi del renzismo. Al di là delle considerazioni sul numero di candidati sindaco arrivati al ballottaggio nei comuni più importanti, è infatti l’emorragia di voti che ha colpito il PD il dato su cui bisognerà aprire un ragionamento nelle settimane a venire, soprattutto nell’ottica del voto referendario di ottobre. Ma come direbbero alla neuro, visto che mancano una manciata di sezioni, diamo i numeri! A Milano il PD nel 2011 aveva preso 170.551 voti (28,64%), oggi si ferma a 144.329 (28,96%). A Torino è sceso da 138103 voti (34,5%) a 104.818 (29,81%). A Bologna da 72.335 voti (38,8) a 59.792 (35,43). A Napoli da 68.018 (16,59%) a 38.198 (11,77%). Nella capitale, dove si era votato nel 2013, il PD è invece passato da 267.605 (26,26%) a 190.737 (17,16%). Complessivamente parliamo di 178.738 voti in meno, non proprio bruscolini. Il dato però si fa più significativo se confrontiamo il voto di ieri con la performance renziana alle europee. Infatti, se è vero che le due tornate elettorali non sono propriamente sovrapponibili è anche vero che nel 2014 il premier si era appena insediato e le europee rappresentarono probabilmente l’apice della sua luna di miele con l’opinione pubblica nazionale.
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Qualcosa si è rotto, picchiamo lì
di Redazione Contropiano
Nel caos post-primo turno, alcuni cose diventano chiarissime.
a) Renzi prende molte bastonate sui denti, ovunque;
b) Napoli diventa ufficialmente la prima “città derenzizzata”;
c) il Movimento Cinque Stelle sfonda a Roma e Torino;
d) esistono molte Italie, ma la differenza primaria è tra metropoli e provincia;
e) il sistema di potere allineato lungo la filiera Troika-Unione Europea-Renzi-clientele locali non riesce più a convogliare il consenso di una “maggioranza silenziosa”;
f) vere alternative di sistema per ora non ci sono, o possono trovare progressivamente forma solo a partire da quelle alleanze sociali, per quanto disomogenee e vaghe, che si sono chiaramente coagulate in un voto antigovernativo e antidestra.
Al vertice della banda renziana hanno decisamente ragione ad essere fortemente preoccupati. Si è rotto il presunto incantesimo che doveva elevare Matteo Renzi assolutamente al di sopra della scena politica nazionale.
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Amministrative: il primo turno apre una transizione delicata
di Aldo Giannuli
Ora possiamo tentare una riflessione più meditata e complessiva sul voto di domenica, con una premessa. In primo luogo, è bene chiarire che queste sono state elezioni amministrative ma solo di nome: è stato un voto altamente politico. Certamente, le elezioni amministrative hanno un valore politico ridotto dall’incidenza dei fattori locali, dalle singole candidature eccetera, ma questo non è sempre vero, non sempre si vota per il sindaco e basta.
Ci sono tornate che possono avere effetti politici complessivi: le comunali spagnole del 1931 fecero cadere la monarchia e proclamare la Repubblica, le regionali italiane del 1975 preannunciarono l’avanzata comunista di un anno dopo, le elezioni provinciali francesi del 1956-7 aprirono la strada a De Gaulle ed al crollo della Quarta repubblica.
La politica non è solo matematica ma anche chimica: gli effetti dipendono da come si combinano gli elementi e se chiami la gente a votare per le comunali avendo già in prospettiva la riforma costituzionale del paese, non puoi pensare che il voto prescinda da questo.
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Renzi stai sereno
di Fabrizio Casari
Il dato emerso dalle urne è che nonostante una partecipazione superiore alle attese, il PD ha subito una severa sconfitta, certificazione di un indubbio ridimensionamento politico. A Roma è passato dal 26% del 2013 al 17 di oggi. A Torino ha perso 32.000 voti, a Bologna ne ha persi 60.000 e a Napoli 27.000. Salerno, Rimini e Cagliari sono i soli tre comuni dove il centrosinistra ha vinto al primo turno, ma nel caso di Cagliari va specificato che Zedda è espressione di ciò che resta di SEL ed è stato eletto da una lista arcobaleno, con la sinistra unita e senza verdiniani di contorno. Il risultato del Movimento 5 Stelle e la crisi del berlusconismo sono invece le due buone notizie di questa tornata.
Renzi sostiene che il voto era amministrativo e che non riguardava il suo governo, ma mente sapendo di mentire. L’elezione di 1342 sindaci è politica “senza se e senza ma”, perché nonostante l’abbondanza di maquillage rappresentato dalle Liste Civiche, sono i partiti che candidano consiglieri e sindaci e i leader o capetti dei partiti s’impegnano pancia a terra per i rispettivi candidati. Inoltre, sono 13 milioni gli elettori coinvolti, più del 30% del totale degli elettori italiani. Alla scienza statistica basta meno per determinare in maniera pressocché scientifica trand e proiezioni a dimensione generale e alla politica serve ancora meno per indicare aspettative e ripercussioni di un voto così ampio.
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Salvare il capitalismo o uscire dal suo cadavere?
Franco Berardi Bifo
Pur di imporre la regola del mercato François Hollande è pronto a tutto. Mentre la prospettiva di una ripresa economica si dissolve, la sinistra si è assunta il compito di sferrare l’assalto finale contro i lavoratori. È difficile credere che costoro non si rendano conto della devastazione che producono, è difficile credere che i dirigenti di questa sinistra la cui dote principale è il servilismo non si rendano conto che stanno preparando il peggio. L’applicazione europea del neoliberismo sotto il pugno di ferro teutonico ha prodotto tali catastrofi che una sezione crescente dell’opinione pubblica occidentale si sta convertendo all’antiglobalismo di destra, al nazionalismo razzista.
I prossimi anni saranno segnati da una triplice guerra i cui fronti rimangono confusi.
Il fronte globalista finanziario avrà forse in Clinton il suo leader, sempre che riesca a superare l’odio popolare e il trionfante Trump, al quale perfettamente si attaglia il ruolo di rappresentante dell’ignoranza razzista. Il fronte anti-globalista guidato da Trump e Putin tiene insieme un coacervo di nazionalismi in conflitto tra loro ma uniti nel tentativo di riaffermare il dominio bianco sul pianeta. E per finire il fronte terrorista raggruppa fondamentalismo islamico e necro-imprese della Gomorra globale.
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L'implosione del "patto sociale" brasiliano
di Marcos Barreira e Maurílio Lima Botelho
La vittoria elettorale di Lula e del Partito dei Lavoratori nel 2002 è stata il prodotto del fallimento del modello neoliberista. La stabilizzazione monetaria, nel decennio 1990, non aveva inaugurato una ripresa della crescita; al contrario, aveva avuto come effetto la de-industrializzazione e la disoccupazione di massa. L'aggravarsi della crisi sociale esigeva cambiamenti ed il Partito dei Lavoratori, che aveva portato a termine la sua svolta programmatica, si poteva presentare come unica alternativa di potere realmente capace di attutire lo shock di un processo continuo di svuotamento economico. All'epoca del primo mandato di Lula, tuttavia, un cambiamento nella congiuntura economica mondiale - soprattutto per quel che riguardava i termini internazionali di scambio - aveva permesso una parziale ripresa della crescita. Era stato soprattutto l'aumento dei prezzi delle materie prime, in parte dovuto alla domanda cinese, che aveva consentito il cosiddetto "spettacolo della crescita" ed il "patto sociale" dell'era Lula. L'industrializzazione cinese assorbiva gran parte delle derrate agricole, cementizie e del minerale di ferro brasiliano. La Cina, a sua volta, rimaneva completamente dipendente dal potere di acquisto dei paesi centrali e, mentre il Brasile si era convertito in fornitore di materie prime, l'industrializzazione politicamente indotta del gigante orientale si era trasformata in esportazione unilaterale verso i mercati di consumo sempre più indebitati, in primo luogo gli Stati Uniti.
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Colonialismo, neocolonialismo e balcanizzazione. Le tre età di una dominazione
Saïd Bouamama
Iraq, Libia, Sudan, Somalia, etc., la lista di nazioni che sono andate a pezzi dopo un intervento militare statunitense e/o europeo non cessa di aumentare. Sembra che al colonialismo diretto di una "prima età" del capitalismo e al neocolonialismo di una "seconda età", succeda adesso la "terza età" della balcanizzazione. Parallelamente si può constatare una mutazione delle forme del razzismo. Dopo la Seconda guerra mondiale, il razzismo culturale prese il posto di quello biologico e da diversi decenni il primo tende a presentarsi a livello religioso, sotto la forma attualmente dominante dell'islamofobia. A nostro parere, siamo in presenza di tre storicità strettamente vincolate: quella del sistema economico, quella delle forme politiche della dominazione e quella delle ideologie di legittimazione.
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Ritorno a Cristoforo Colombo
La visione dominante dell'eurocentrismo spiega l'emergere e la successiva estensione del capitalismo a partire da fattori interni delle società europee. Da qui deriva la famosa tesi che alcune società (alcune culture, religioni, etc.) siano dotate di una storicità, mentre altre ne siano carenti. Quando Nikolas Sarkozy afferma nel 2007 che "il dramma dell'Africa è che l'uomo africano non è entrato sufficientemente nella storia" (1) non fa altro che riprendere un tema frequente delle ideologie di giustificazione della schiavitù e della colonizzazione:
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