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machina

Operaismo e composizione di classe

di Sergio Bologna

0e99dc 076efc4942a94af687fe6edc5d2de251mv2Il concetto di composizione di classe è l’architrave della rivoluzione copernicana operaista, uno dei principali punti di rottura con la tradizione marxista e le sue ossificazioni. Attraverso questo concetto si infrange l’icona universale della classe operaia, mitologia disincarnata funzionale alle esigenze del socialismo reale, per comprendere materialmente il suo essere parziale, con le sue contraddizioni, differenze, gerarchie interne. Questo testo di Sergio Bologna, tra le figure principali nell’elaborazione di questo concetto e delle sue trasformazioni, è decisivo per comprendere origine, significato e attualità di tale categoria, del rapporto tra composizione tecnica e composizione politica. Frutto di una lezione tenuta nel 2012 all’interno di un ciclo seminariale a Bologna di Commonware-UniNomade, il testo è stato pubblicato l’anno successivo nel volume Genealogie del futuro. Sette lezioni per sovvertire il presente (a cura di G. Roggero e A. Zanini, ombre corte). L’input metodologico con cui Bologna conclude, «guardate che prima di parlare dovete veramente conoscere tante cose», è la bussola per la formazione politica e militante. 

Per ulteriori approfondimenti, consigliamo i volumi della Biblioteca dell’operaismo (https://www.deriveapprodi.com/edizioni/catalogo/collane/biblioteca-delloperaismo/) e L’operaismo politico italiano (collana Input di DeriveApprodi, 2019); inoltre, per analizzare gli sviluppi del concetto di composizione di classe nel percorso di Sergio Bologna, è utile la lettura di Ceti medi senza futuro? (DeriveApprodi, 2007). 

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Mi ero chiesto effettivamente se un termine come composizione di classe potesse essere capito nel vero significato che gli abbiamo attribuito, stando con il sedere appoggiato a una poltrona o a dei banchi di un’aula universitaria. Perché se c’è qualcosa di specifico o particolare nell’esperienza dei cosiddetti operaisti credo sia stata proprio questa voglia di capire, prima di tutto, la complessità del presente. Diciamo che il termine classe operaia veniva usato con estrema disinvoltura dai militanti dei partiti e dei sindacati, come un termine che spiegava tutto. Personalmente ho sempre avuto l’impressione che la marcia in più che abbiamo avuto noi consisteva nel fatto di dire che il termine classe operaia, di per sé, non vuol dire molto. Infatti questo concetto presuppone un’enorme complessità che dobbiamo capire. Quindi il concetto di composizione di classe nasce dalla necessità di affrontare questa complessità. Questo termine, composizione di classe, apparentemente onnicomprensivo, è stato uno degli strumenti che abbiamo utilizzato per cominciare a vedere cosa si nascondeva dentro la categoria di classe operaia, un’idea di complessità, cioè un mondo pieno di contraddizioni, un mondo diverso da zona a zona, diverso da settore a settore, diverso all’interno dei settori stessi. Quindi ritengo che questo sia stato il vero momento che ha determinato il distacco dell’operaismo dalla tradizione precedente che si era ossificata anche dopo gli anni Cinquanta e Sessanta; molto probabilmente fin all’origine del movimento comunista, del movimento rivoluzionario questa consapevolezza della complessità del termine classe operaia era già presente. Noi eravamo un gruppo di intellettuali probabilmente ambiziosi e in parte generosi che doveva trovare non soltanto elementi di comprensione della realtà, ma doveva anche raffigurarsi il proprio campo di azione: che cosa volevamo e con che cosa ci dovevamo rapportare. 

Nella realtà come campo d’azione avevamo la fabbrica, in cui c’erano dei mondi, delle città dentro le quali vivevano e lavoravano migliaia di persone. Sicuramente penso che la nostra ambizione primordiale, quella più semplice, chiamiamola apolitica, era quella di volere che questa istituzione esplodesse, noi volevamo che tutto questo sistema, che è un sistema di disciplinamento, oltre che un sistema di produzione, diventasse una sede di insorgenza sociale, una sede insomma di un movimento sociale o un sommovimento; non avevamo bisogno di inventarla questa cosa, ci si basava su una serie di storie precedenti. Direi che una in particolare, secondo me, ha svolto un ruolo non indifferente in questo processo e di cui molto spesso non si parla: lo sciopero degli elettromeccanici milanesi del 1960. Questo episodio non viene ricordato molto, nemmeno nella nostra letteratura operaista, la quale ha sempre attribuito alle lotte e agli scioperi della Lancia del 1961 a Torino l’inizio del ciclo di lotte che sarebbe durato vent’anni. Invece questo ciclo partì con l’impressionante sciopero degli elettromeccanici, in una città dove non si vedevano lotte operaie di quelle dimensioni da parecchio tempo, e che coinvolse 70.000 persone tra operai, tecnici e così via. Torino era la città dell’auto, Milano era la città dell’elettromeccanica pesante e leggera; ciò significa che era in parte la città della componentistica, basti ricordare la Marelli e la Pirelli, ma era soprattutto la città dell’elettromeccanica pesante: si producevano locomotive, parti di materiale ferroviario e anche materiale delle centrali nucleari. Possiamo dire che la classe operaia di questo settore imponente si sveglia in concomitanza con la scadenza del contratto di lavoro del 1960. Alcuni anni fa avevo cominciato insieme a una compagna che era stata una dirigente dei Giovani Comunisti di allora a raccogliere le testimonianze di alcuni sopravissuti di questa lotta: dai racconti emerge un altissimo livello di perfezione della lotta, la quale era costruita per durare un minuto di più del padrone, costruita in modo da recare il minimo danno in termini salariali a chi la conduceva. Le forme di espressione e di manifestazione di quel periodo storico diventeranno successivamente forme generalizzate di lotta: ad esempio l’uso dei fischietti si diffuse in tutti i cortei operai degli anni Settanta, diventandone un po’ il simbolo. Ancora, la grande trovata della marcia silenziosa: in molte di queste fabbriche gli operai avevano degli zoccoli di legno e hanno inventato una marcia silenziosa in cui l’unico rumore erano questi zoccoli di legno che battevano il selciato, una cosa da far rabbrividire. 

Mi ricordo che questo sciopero di Milano è stato il mio primo contatto con le lotte operaie di massa, ed è durato più di un anno con tutte le forme possibili. Questa lotta era stata condotta ancora dalla vecchia avanguardia antifascista, in un certo senso da persone, da operai che avevano fatto gli ultimi anni della Resistenza e che avevano diciassette anni nel ’44; conseguentemente questi conoscevano qualunque tipo di lotta, ma soprattutto conoscevano alla perfezione il ciclo produttivo e quindi erano in grado di sapere quali punti bloccare per fermare l’intero ciclo produttivo; in particolare la figura professionale maggiormente coinvolta era quella degli attrezzisti, cioè coloro che preparano la macchina utensile, erano quelli addetti ai torni, quindi il vecchio operaio specializzato, non ancora il cosiddetto operaio massa. La cosa più impressionante è che irrompono per la prima volta in maniera preponderante nella scena delle lotte le donne. Le donne allora erano addette alla catena di montaggio, cioè rappresentavano l’operaio massa, allora era essenzialmente una figura femminile. Soprattutto alla Siemens, grandi fabbriche che avevano già una forte produzione in serie, gli uomini erano gli operai specializzati, erano se vogliamo la cosiddetta aristocrazia operaia, mentre le donne erano addette proprio ai montaggi, alle operazioni di serie. C’è una bellissima intervista con un sindacalista di allora su questa lotta che abbiamo riprodotto nel libretto che accompagnava il nostro documentario Oltre il ponte. Storie di lavoro; era un sindacalista di quelli di base, cioè coloro che stavano davanti alla porta della fabbrica tutto il giorno ad aspettare gli operai. Rappresenta una testimonianza bellissima anche sul ruolo delle donne in questa fabbrica. 

Questo primo esempio, una lotta che era partita dalla direzione della Fiom, e che quindi era quasi in contrasto con la direzione della Cgil, e sicuramente in contrasto con il Pci, portò anche a dei momenti complessi. Questa prima grande manifestazione ci ha fatto capire sostanzialmente che queste fabbriche possono effettivamente «esplodere» e soprattutto cosa significa esplodere, abbiamo capito che quella era una strada percorribile; non la dovevamo certamente percorrere noi, ma la dovevamo favorire. Il primo passo di questo percorso è stato conoscere perfettamente il ciclo produttivo per poter comunicare, tra l’altro, con la classe operaia. Direi che questo è stato forse il primo passo nella nostra formazione operaista, cioè quello di cominciare a capire come funzionano le fabbriche, qual è la logica tecnica che regge il ciclo all’interno di questi enormi aggeggi, di queste enormi fabbriche, che tipo di rapporto c’era tra un’officina e un’altra, e così via. 

Allora a Mirafiori c’erano alcune funzioni fondamentali: quella delle officine meccaniche, quella delle fonderie, le presse e, la parte maggiore, le cosiddette carrozzerie. Quindi questa struttura coincideva col ciclo produttivo elementare: la fonderia, dove si preparavano le lamiere; il reparto presse dove queste lamiere venivano pressate e poi uscivano le portiere e venivano preparate la scocca e le fiancate; parallelamente venivano preparate le parti meccaniche, cioè il motore, e tutto confluiva nel grande reparto chiamato carrozzeria ma che sarebbe stato più giusto chiamare assemblaggio. Quindi noi avevamo cominciato a capire come funzionava il ciclo dell’auto: c’è prima questa cosa qua, poi viene questa cosa qua, e da lì abbiamo capito che se si fermava il ciclo in un dato punto si fermava tutto. Iniziavamo cioè a comprendere alcune piccole logiche che per gli operai erano ovvie, scontate, ma che per te dovevano diventare familiari. Questa è la raffigurazione delle componenti di un’automobile; quindi chiaramente durante quel ciclo dovevano essere preparati questi pezzi e montati, insomma era un ciclo di una certa complessità. 

Quindi pian piano bisognava riuscire a capire cosa c’era dentro la fabbrica, quali erano le tecnologie impiegate, perché sostanzialmente la definizione della composizione di classe, come vedremo dopo, era strettamente legata non solo al ciclo ma anche alla tecnologia. Perché era importantissimo capire questo? Perché il contatto che potevi avere con la classe operaia avveniva sempre all’uscita e all’ingresso dello stabilimento, quindi i portoni, le porte delle varie sezioni, della sezione meccanica, della sezione pressa ecc., erano il momento in cui tu potevi avvicinare queste persone. Quindi non solo era necessario avere chiara la nozione di ciclo, di sequenza del ciclo produttivo, ma occorreva avere un minimo di nozione di come erano disposti i portoni d’ingresso, per sapere che da quella porta di Mirafiori entravano quelli dell’officina di assemblaggio, dall’altra quelli delle altre officine e così via. Dovevi praticamente cominciare a conoscere i luoghi dei tuoi interlocutori perché il cancello era veramente un punto strategico. Infatti molto spesso gli scioperi improvvisi, gli scioperi spontanei o avvenivano all’interno dell’officina (la gente entrava e a un certo punto si fermava), oppure veniva sbarrato il cancello; a volte le commissioni interne usavano questa forma di lotta e poteva durare anche solo un’ora, uno entrava con un’ora di ritardo. Comunque il cancello era il punto di contatto chiave. 

Quindi, cominciamo a entrare finalmente in questa idea di composizione di classe, perché conoscendo il ciclo si poteva sapere, tanto per fare la prima grande fondamentale distinzione, che nelle officine meccaniche, che ad esempio in particolare nelle presse e poi sicuramente anche nelle fonderie, c’erano degli operai specializzati perché lavoravano sulla macchina, quindi dovevano conoscere le macchine utensili, dovevano essere degli attrezzisti, dovevano cioè conoscere tutta una serie di elementi che l’addetto al montaggio non conosceva; nell’assemblaggio, invece, c’erano gli operai di catena, i manovali, e si imparava che questi due mondi erano due mondi molto diversi, addirittura certe volte incomunicabili. Questo era il primo elemento della composizione di classe; cioè composizione di classe vuol dire che abbiamo differenti categorie all’interno della classe operaia, che se le consideriamo semplicemente come categorie sindacali non riusciamo a capirne la complessità, se dietro queste categorie non vediamo soltanto la mansione, il rapporto con la busta paga, ma tutta una serie di elementi profondamente radicati e culturali, incominciamo a entrare veramente in questa complessità. Infatti parlavamo di due forme di composizione: la composizione politica e la composizione tecnica. Nella composizione politica entravano come fattori determinanti ovviamente i fattori culturali: 

– la provenienza: operai meridionali, operai che provenivano dalla campagna, operai che prima erano andati all’estero; 

– il genere; 

– l’esperienza lavorativa: questo era un fattore fondamentale, ad esempio tra i leader delle lotte operaie alla Fiat in quegli anni erano operai meridionali o veneti emigrati in Germania o in Belgio cinque o dieci anni prima, che avevano lavorato nelle fabbriche modernissime e quindi avevano un’esperienza industriale, una cultura industriale molto maggiore dei loro colleghi, che erano tornati in Italia perché avevano avuto la possibilità quando la Fiat aveva riaperto le assunzioni nel ’57; ma era gente coi fiocchi che aveva avuto anche esperienza sindacale. Quindi erano veramente persone che conoscevano bene la tecnologia, facevano il paragone, com’era il reparto presse presso la Volkswagen, com’era il reparto presse qua, quindi ti davano tutta una serie di elementi culturali che diventavano fondamentali poi nell’elaborazione delle piattaforme rivendicative. Mentalità e ideologie professionali, appunto, ad esempio l’attrezzista, un classico operaio dell’aristocrazia operaia, era uno che certe volte guardava dall’alto in basso l’operaio di montaggio; 

– la composizione familiare: certamente, chi era single aveva probabilmente, non dico più coraggio, ma più disponibilità alla lotta di uno che aveva la famiglia dietro; 

– la residenza: stava in città, stava in campagna, aveva un podere che lavorava, stava in periferia, quali erano i problemi che viveva nella sua periferia, quindi qual era la comunità di appartenenza. 

– la composizione politica e poi soprattutto formazione sindacale e politica: che esperienza hanno avuto nel partito, che esperienza hanno avuto nel sindacato. 

Quindi bisognava tenere presente che la persona era estremamente complessa, che aveva dietro di sé un bagaglio di conoscenze e di esperienze dal quale tu avevi semplicemente da imparare, bisognava stare ad ascoltare e imparare qualche cosa; avevi delle persone con le quali non potevi scrivere un volantino come scrivevano allora quasi tutti i gruppi politici e non politici, pensato in una sezione di partito o in qualche gruppetto: «la classe operaia deve lottare...», poi vai lì e lo dai in mano a uno che, come dire, ne sa più di Bertoldo su qualunque aspetto tecnologico. Insomma, avevi a che fare con persone che avevano una cultura politica e una cultura tecnica assolutamente straordinarie. 

Invece la composizione tecnica era tutto quello che era legato strettamente al luogo di lavoro e alla tecnologia lavorativa. Cioè se uno lavorava in verniciatura era chiaro che doveva avere certe caratteristiche o aveva comunque delle caratteristiche derivanti dal fatto che stava in un reparto estremamente nocivo rispetto al quale doveva avere tutta una serie di sue capacità di autotutela, se la tutela non era data dall’azienda, a cominciare dalle maschere, dagli occhiali, dai guanti e così via. Perciò lo stesso valeva per l’operaio qualificato, quello specializzato, l’attrezzista, l’addetto macchina. 

Quindi composizione politica e composizione tecnica erano due cose distinte: ad esempio i turnisti notturni, cioè uno che faceva sempre i turni di notte, avevano chiaramente delle caratteristiche diverse da uno che faceva il giornaliero. La struttura retributiva è uno degli elementi fondamentali nel rapporto, pensate al ruolo che ha giocato il cottimo. La gente era pagata a cottimo, quindi nella busta paga pian piano si riduceva la parte fissa mentre aumentava sempre più la parte variabile, per aumentare e incentivare la produttività e quindi lo sfruttamento. Infatti una delle grandi dinamiche di lotta di quegli anni è stata la lotta contro il cottimo: il cottimo individuale, il cottimo collettivo, la contingenza, i premi di produzione erano tutti oggetti di lotte. Leggere una busta paga era una cosa estremamente complessa e bisognava saperlo fare altrimenti non parlavi a questa gente, facevi la figura del cretino che va a vendere un’ideologia consunta e non riesce a parlare lo stesso linguaggio. Tuttora io sono dell’opinione che se noi siamo riusciti probabilmente a fare qualche cosa di più di quello che sono riusciti a fare altri gruppi era dovuto proprio a questo: abbiamo studiato e approfondito, abbiamo avuto rispetto per queste persone considerandole di enorme complessità e non semplicemente il mitico operaio che tiene in mano la falce e il martello, quello dell’insopportabile retorica gruppettara. Quindi, quando parliamo di composizione di classe parliamo di un processo di apprendimento, lungo e difficile; non erano cose che potevi imparare in un giorno, e non erano cose che le leggevi su un libro. Io non ricordo di aver letto da qualche parte molte di queste cose, le ho imparate un po’ alla volta, alzandomi alle cinque del mattino e andando davanti a queste fabbriche: ti sembrava di essere l’ultimo imbecille del mondo, ma che cacchio sto a fare qui? Io che sono laureato che ci sto a fare con questi, che devo dire erano simpatici e non ti trattavano male. Poi però quando hai cominciato a creare un minimo di organizzazione, a coinvolgere alcuni di questi quadri operai dentro il tuo gruppo, com’è stato in particolare a Marghera, la cosa ha acquistato un’altra dimensione. Ecco, io sono convinto che questa è stata l’arma vincente, cioè capire che esisteva un’enorme complessità dentro la quale tu dovevi avere degli strumenti di riconoscimento, analisi, che ti consentivano di avere quegli elementi di dialogo, quegli elementi con cui potevi capire come poteva andare. Infatti non è un caso che c’erano alcune volte, particolarmente fortunate, in cui l’azzeccavi (me ne ricordo una nel ’64 all’Innocenti di Milano). Tu che eri fuori dalla fabbrica, che non avevi l’articolazione del Partito comunista, conoscendo tutte queste cose riuscivi certe volte a fare un intervento azzeccato nel momento in cui stava nascendo una tensione interna di cui avevi avuto sentore, e con un intervento riuscivi veramente a mettere in moto uno sciopero improvviso. Ricordo quella volta all’Innocenti in cui sicuramente c’era qualcosa di latente che si era preparato da tempo e che noi in parte avevamo colto, abbiamo deciso di scrivere un volantino calibrato in un certo modo, che tra l’altro conteneva delle informazioni che soltanto uno all’interno poteva darci, risultato: ci siamo trovati con 6000 operai che di colpo sono usciti e hanno invaso il centro di Milano. Certe volte avevi l’impressione di contare più di quello che contavi. Questa è stata, credo, la carta vincente che, con l’idea di composizione di classe, un termine inventato da Romano Alquati che io poi ho utilizzato spesso, è stato l’elemento importante. 

In Italia abbiamo avuto, dopo le sconfitte elettorali del 1948 e soprattutto del 1953, un periodo pesantissimo di repressione all’interno delle fabbriche, dove i quadri comunisti di commissione interna sono stati fatti fuori. Perciò dal 1953 al 1960, quando è scoppiata questa lotta degli elettromeccanici, c’è stato un periodo di grave arretramento delle lotte operaie, veramente una repressione fortissima. Lo sciopero degli elettromeccanici si è ripetuto nel ’63, quando c’è stato il rinnovo del contratto degli elettromeccanici e di nuovo una grande lotta; nel frattempo ci sono stati anche lo sciopero del ’61 e del ’62 alla Fiat. A cambiare la situazione c’è stata una fase molto negativa dello sviluppo economico, con un nuovo periodo di congiuntura negativa che va dal ’63 al ’67. Nel ’67 c’è stata una ripresa, ma nel frattempo si era creato un enorme movimento contro la guerra del Vietnam. D’ora in poi le fabbriche non saranno più sole, mentre prima erano «gli operai senza alleati» (era un titolo di «classe operaia»). Nel frattempo era nato questo movimento anti-imperialista, sulla guerra d’Algeria, su Cuba e così via. Nel ’67 veniva ammazzato Che Guevara, ci sono stati i bombardamenti su Hanoi, insomma si forma un grande movimento anti-imperialista che sicuramente crea una situazione di mobilitazione esterna ai rapporti di produzione. A Berkeley nel ’67 iniziano le lotte universitarie e dopo scoppia il ’68. 

Come si arriva a questa scadenza? E che ruolo abbiamo avuto noi in questa storia? Queste cose erano maturate da sole all’interno della fabbrica, certamente non hanno avuto bisogno di noi; credo però che un ruolo importante lo abbiamo avuto quando siamo riusciti a intervenire nel movimento studentesco che era nato nel ’68 come un movimento anti-autoritario; quindi, tutta l’idea della complessità che stava dietro il mondo della produzione, dietro la classe operaia, semplicemente veniva cancellata. Nel movimento anti-autoritario, che comunque ha avuto un grande ruolo nel ’68, il rapporto era tra il soggetto studentesco e il sistema dell’istruzione come sistema di disciplinamento, come modello di un sistema gerarchico, quindi il sistema gerarchico della fabbrica veniva offuscato, o semplicemente non veniva preso in considerazione. Noi che continuavamo a dire che la classe operaia era il soggetto decisivo venivamo un po’ presi in giro: «sì, voi delegate ad altri, cioè i poveri operai, quello che voi dovete fare come soggetto». Questa fase è durata poco perché a mettere le cose a posto c’è stato il maggio francese; qui l’impronta l’hanno data non soltanto gli studenti ma anche gli operai che hanno occupato le fabbriche e hanno tenuto bloccato il paese per circa un mese e noi, nella lettura che abbiamo fornito di questo fenomeno, abbiamo contribuito a spostare di nuovo l’attenzione del movimento. Sicché quando veramente comincia il ’68 operaio, quello caldo, quello vero, alla Pirelli di Milano, coi comitati di base, siamo più o meno in grado di rispondere e di capire. Poi dalla Pirelli si arriva all’estate, maggio-giugno ’69, alla Fiat degli scioperi selvaggi e poi all’autunno caldo. 

Secondo me c’erano tre strati di militanti che hanno determinato questo cambiamento: il primo era ancora quello dei vecchi militanti operai dell’antifascismo, quelli avevano sempre qualcosa da dire, cioè avevano una grande esperienza politica, era gente che aveva fatto politica quando si crepava, quando c’era il sangue, insomma quando c’erano i campi di concentramento, era gente che non potete neanche avvicinarli a quelli che sono i politici di oggi, anche il miglior politico. Il secondo strato era quello della generazione dell’operaio di base, dell’operaio di reparto. È importante notare che questi militanti operai, venuti su dai reparti, spesso avevano una grande esperienza ed erano stati in Belgio o in Germania a lavorare; sono stati l’elemento chiave di tutto quello che è avvenuto, perché erano dentro la fabbrica e quindi più che la lotta generale avevano come loro campo di battaglia il reparto; erano quelli che conoscevano a memoria ogni reparto e sapevano che se tu fermavi quell’officina lì si fermava tutto. Sono stati l’elemento determinante e sono quelli che si sono andati formando durante tutti gli anni Settanta, poi sono stati espulsi dalle fabbriche quasi del tutto: circa 10 mila persone di questo livello sono state cacciate dopo il 1980. Sicuramente queste persone che stavano dentro la fabbrica, che erano legate a noi, che hanno vissuto quindi questa esperienza, hanno avuto un ruolo notevole; erano persone che molto spesso avevano una precedente esperienza nel Partito comunista o nella Cgil e poi entrando in contatto con il nostro gruppetto operaista ci avevano dato un vantaggio determinante. 

Questa, detto in parole povere, è la composizione di classe, non entrerò nei particolari, insomma la sostanza è questa: capire che c’è un’enorme complessità dietro a questo termine, a questa parola «classe operaia», cominciare a capire e ad analizzarla, a decomporre questa complessità dal punto di vista tecnico, culturale e politico e farla diventare fattore di conflitto, rovesciarla in elemento di conflitto. Perché la tentazione che secondo me ha avuto questa generazione di operaisti è quella di diventare semplicemente dei sociologi, e non a caso sono stati prodotti alcuni dei principali sociologi italiani: Massimo Paci, Vittorio Rieser, Givanni Mottura, abbiamo riempito di illustri baroni e meno baroni l’università italiana, dei sociologi veramente di altissimo livello. Altri però più che sociologi volevano diventare qualcos’altro, e questo termine «composizione di classe» è stato il modo con cui esprimevamo il desiderio di capire questa complessità, che poi si trasformava sempre. 

Successivamente è venuto quello che sappiamo tutti: la grande rivoluzione tecnologica che è stata anche una rivoluzione organizzativa. È stato proprio il cervello del capitale produttivo che ha cominciato a ragionare in maniera diversa, molto raffinata, e quindi si è passati dal fordismo al toyotismo: l’installazione dei robot, ormai verso il 1980, cioè dopo dieci anni che la Fiat era stata messa sotto pressione e c’erano state le Brigate rosse, Prima linea. La Fiat era tra le prime aziende al mondo per livello tecnologico: i robot di saldatura che avevano installato alla Fiat, proprio nel 1980, erano all’avanguardia. Quindi dieci anni di lotte hanno fatto bene a questa maledetta azienda, venti anni di pace sociale l’hanno distrutta: la Fiat nel 2002 era una fabbrica fallita e lo è ancora, cioè non si tirerà mai su una fabbrica così; dopo ventidue anni di pace sociale assoluta è a terra, dopo dieci anni di lotte era veramente all’avanguardia della tecnologia. 

E quindi quando vedete una fabbrica di oggi e la paragonate a quella di allora, dovete ammettere che c’è stato nel frattempo un salto tecnologico di un certo livello e anche un salto organizzativo. Successivamente c’è stata la chiusura, proprio là dove non si è investito in innovazione tecnologica. La grande rivoluzione che è avvenuta negli anni Ottanta è quella dell’outsourcing, cioè si è trasformata l’azienda in un’azienda-rete. Quindi la fabbrica dell’auto che ha il marchio fa una serie di operazioni, come la progettazione, però altre operazioni di carattere produttivo vengono delegate all’esterno, ad esempio la scocca viene fatta da un’altra azienda. Quindi tutto quello che prima veniva fatto all’interno ora viene fatto all’esterno. Ad esempio se voi andate alla Volkswagen vedete che ha mantenuto certi elementi: sicuramente tutta la progettazione, ma ha anche mantenuto gli elementi del montaggio e dell’assemblaggio; ma altre operazioni sono state decentrate presso altri produttori specializzati che lavorano per altre aziende automobilistiche, quindi, ad esempio, fanno sempre la scocca sia per la Volkswagen che per la Renault. Pertanto la classe operaia si divide, si frammenta e a quel punto lì noi non c’eravamo più, né come gruppo, né come elaborazione teorica. Insomma, questa elaborazione teorica non aveva più influenza su questi movimenti e quindi il nostro ciclo, il ciclo dell’operaismo, si era chiuso col fordismo. Adesso abbiamo le nuove fabbriche in Cina che riproducono, se vogliamo, la vecchia fabbrica fordista. Parlo della Cina ma non soltanto della Cina, si potrebbe dire lo stesso di moltissimi paesi del Far East, dell’Africa, del Sud America e così via. Cristina Comencini ha fatto un documentario dal titolo In fabbrica, un collage di vecchi documentari della Rai sulle lotte degli anni Settanta; alla fine ci sono dieci minuti che lei gira dentro la Brembo, una delle poche cose in cui l’Italia è ancora leader mondiale. La Brembo è una fabbrica di freni per auto e per moto vicino a Brescia; quella fabbrica è molto cambiata rispetto a quelle che noi abbiamo visto, in cui siamo entrati perché eravamo a farci portare dentro dagli operai. 

Quindi adesso siamo alle prese con i no collar, e uno si chiede: questo concetto di composizione di classe può servire anche oggi nel lavoro disperso, frammentato e cognitivo soprattutto? Io tutto sommato penso che oggi non ci sia bisogno di dire che c’è un’enorme complessità, qualunque cretino lo capisce; non so adesso come riusciremo a farla diventare elemento di unificazione e ricomposizione, comunque penso che quell’input metodologico che abbiamo dato allora: «guardate che prima di parlare dovete veramente conoscere tante cose», questo vale ancora oggi. Voi lo chiamate moltitudine, ma bisogna lavorarci dentro a lungo per capirci qualcosa.

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