Il masochismo geoeconomico dell’Unione europea
di Francesco Cappello
Il recente accordo commerciale tra l’Unione Europea e gli Stati Uniti, lungi dall’essere una paritaria stretta di mano, rappresenta la totale capitolazione europea nei confronti delle pretese statunitensi avanzate da Trump, dettata più da logiche geopolitiche che da interessi economici. Presentato dal mainstream con toni vaghi e concilianti, questo patto nasconde una serie di concessioni unilaterali che sollevano molti interrogativi sul futuro geoeconomico e politico del continente.
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Un Accordo Commerciale o un totale asservimento dell’Unione? Non Commercio, ma Geopolitica
L’obiettivo dichiarato dell’Unione Europea di utilizzare il proprio peso negoziale collettivo per ottenere accordi commerciali più favorevoli e stabilire una simmetria con gli Stati Uniti, pilastro dell’Occidente, si è rivelato pura finzione. L’intesa siglata è stata il frutto di una negoziazione condotta quasi esclusivamente dalla presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, il cui obiettivo primario non è il benessere commerciale dei paesi dell’Unione, ma l’alimentazione della guerra fredda con la Russia. L’Ucrainizzazione dell’Europa avanza senza ostacoli bruciando le sue risorse a favore della finanza di guerra e per continuare a ingraziarsi masochisticamente gli USA. La Ue continua a sostenere una guerra di cui l’America si rifiuta ormai di pagare i costi, mentre intende riscuoterne i “benefici”.
I termini sono impietosi: i dazi statunitensi sui prodotti europei sono triplicati, passando da una media del 4,8% al 15%, con punte fino al 30% sulle auto e al 50% sui metalli industriali. In cambio, l’Europa ha abbandonato i suoi contro-dazi per oltre 90 miliardi di euro. Ma non è tutto.
L’UE si è impegnata a investire 600 miliardi di euro negli Stati Uniti, ad acquistare gas naturale liquefatto e altre fonti energetiche americane per 750 miliardi di dollari entro il 2028, in pratica 250 miliardi ogni anno, circa il triplo della spesa energetica sostenuta dall’Unione nel 2024 (75 miliardi) – una mossa che renderà l’Europa il maggiore sbocco per l’energia statunitense, nonostante i costi elevatissimi rispetto al gas russo. La spesa complessiva per energia dell’Unione si attesta, infatti, sui 400 miliardi di dollari, alla faccia della sicurezza energetica fondata sulla diversificazione delle fonti.
Inoltre, gli europei si sono vincolati all’acquisto di armamenti statunitensi, destinando alla spesa militare fino al 5% del PIL, come previsto dagli impegni NATO. Nel loro complesso si tratta di accordi impossibili da realizzare, del tutto insostenibili dal punto di vista economico. Essi rappresentano un tentativo disperato di mantenere gli Stati Uniti come alleato, concedendo a Trump di manipolare l’Europa per estrarne tributi.
Rafforzamento del dollaro – euro in calo
L’intesa che ha avrebbe “solamente” triplicato i dazi sulle importazioni statunitensi in cambio di investimenti massicci in energia e tecnologie statunitensi, ha rassicurato i mercati, spingendo capitali verso il dollaro come valuta rifugio. L’annuncio ha rafforzato la fiducia nella percepita stabilità economica USA, supportando l’idea che la Fed potesse ritardare il taglio dei tassi, rendendo il dollaro più appetibile. In pratica un processo di dollarizzazione a spese dell’Unione europea.
Queste scelte suicide stanno creando vincitori e vinti. Le aziende energetiche statunitensi, come Venture Global, hanno visto impennarsi le loro azioni, mentre i produttori automobilistici europei, come Mercedes, hanno registrato vistosi cali. Le piccole e medie imprese europee sono destinate a subire ulteriori pesanti perdite.
Viceversa, le grandi imprese rappresentate da Confindustria, di fronte alla minaccia dei dazi di Trump, insieme ad altre associazioni di categoria, tramite il presidente Orsini, dichiarando un danno che stimano in 22-23 miliardi di euro, nonostante un surplus commerciale complessivo di 42 miliardi, utilizzano questa retorica per chiedere aiuti e un piano industriale da parte dello Stato [2] con allegate minacce di licenziamenti di massa e delocalizzazioni (sia verso paesi a basso costo di manodopera che negli Stati Uniti), sostenendo che le imprese italiane stanno trattenendo personale nonostante un forte calo di produttività. Ne approfittano, quindi, per chiedere che lo Stato eroghi sussidi significativi senza alcun tipo di politica industriale vincolante (si tenga presente che hanno ricevuto 55 miliardi di euro nel 2023), rivitalizzando programmi come Industria 4.0 e destinando risorse del PNRR a progetti decisi autonomamente dalle imprese. L’obiettivo sarebbe quello di mantenere il modello basato sulle esportazioni, intensificando la contrazione del costo del lavoro e le retribuzioni, minacciando delocalizzazioni in caso contrario. Oltretutto molte delle grandi imprese rappresentate da Confindustria come Barilla International (ha sede fiscale ad Amsterdam), Luxottica che versa gran parte dei profitti attraverso Delfin (Lussemburgo), Ferrero (sede fiscale in Lussemburgo), San Faustin (registrata in Paesi con “giurisdizione fiscale agevolata” non UE) , De Longhi (controllata per la maggioranza da una società lussemburghese, la De ’Longhi Soparfi S.A.), Stellantis (sede legale nei Paesi Bassi), San Pellegrino (sede fiscale in Svizzera) e gran parte del settore del lusso, che chiedono questi aiuti, hanno la sede fiscale all’estero, non in Italia.
I sindacati non sembrano avere nessuna intenzione di opporsi a queste richieste che consolidano un modello di capitalismo italiano caratterizzato da finanziarizzazione, contenimento del costo del lavoro ed evasione fiscale tramite sedi estere. La retorica bellicista e quella dei dazi servono a confezionare un ulteriore peggioramento di questo modello, con costi a carico della collettività.
La giustificazione di Trump, basata su un presunto deficit commerciale statunitense con l’Europa, si rivela infondata quando si considerano anche i servizi, dove gli Stati Uniti godono di un notevole surplus sulla Ue che secondo le stime dell’Unione ammonta a 148 miliardi di euro, pari a quasi il 60% delle esportazioni dei servizi USA nel mondo, eppure l’Unione sta evitando di ricorrere a ritorsioni sotto forma di imposizioni fiscali alle Big Tech (BT) statunitensi [1]. I fatturati delle BT nei paesi dell’Unione sono spesso miliardari a fronte di utili assai modesti dell’ordine di qualche milione di euro. Le grosse società, infatti, spostano i profitti all’estero (nei paradisi fiscali di Lussemburgo e Irlanda) prima di tassarli in Italia. Pagano all’Italia solo gli utili residui, perché gran parte viene destinata a entità con tassazione molto bassa. Questo meccanismo permette di ridurre drasticamente le tasse nazionali, ma fa apparire gli utili italiani ben inferiori al reale valore dell’attività svolta. Per capire meglio immaginiamo che una società “big tech” in Italia, come Google o Apple, venda un servizio (tipo pubblicità o app). Tuttavia, ogni volta che guadagna 100 euro, deve “pagare” 90 euro a un’azienda del gruppo situata in Irlanda o Lussemburgo. Questo pagamento si chiama royalty o licenza per usare il marchio, il software o gli algoritmi. Si tratta di costi deducibili che abbassano l’imponibile. Con questa strategia in Italia resta quindi solo un utile di €10 su cui si paga l’imposta…
La mancata negoziazione e la fragilità europea
Se il mercato americano si fosse chiuso, l’Europa avrebbe potuto, infatti, minacciare di riorientare il proprio commercio verso i mercati in crescita della Russia e della Cina e in generale verso il complesso dei paesi BRICS che non impone vassallaggio e rinuncia all’esercizio della sovranità.
La Ue avrebbe potuto imporre tasse minime globali sulle aziende internet americane o bloccare le esportazioni statunitensi. Invece, c’è stata una resa quasi totale, con una sottovalutazione del potere negoziale proprio e una scarsa attitudine a contrattare.
Lo stile di negoziazione del presidente Trump, che impone prezzi inizialmente esorbitanti per poi ridurli leggermente, creando l’illusione di una vittoria, si è rivelato in parte efficace. Egli vede la diplomazia come un gioco a somma zero, dove c’è sempre un vincitore e un perdente, e l’America deve sempre vincere. La stabilità e l’affidabilità, promesse dai vertici europei, sono illusorie in un contesto dove gli accordi possono essere modificati unilateralmente.
L’Illusione della sicurezza e la militarizzazione
La Commissione Europea, una propaggine della NATO, ha subordinato gli interessi economici dei paesi membri e dei loro elettori alla nuova guerra fredda contro la Russia. In questa logica, la dipendenza europea dalla sicurezza statunitense viene sfruttata per imporre fedeltà politiche ed economiche. L’idea di una garanzia di sicurezza incondizionata dagli Stati Uniti è pura illusione. Le nazioni hanno solo interessi permanenti. Se l’Europa dovesse attaccare la Russia con missili a lungo raggio, la risposta russa sarebbe diretta contro il paese fornitore, non solo l’Ucraina, e nessuno sa se gli Stati Uniti interverrebbero militarmente per “difendere” l’Europa, a meno che non vengano colpite direttamente le forze USA sul territorio europeo.
Il racconto della minaccia di una potenziale invasione russa dell’Europa, che richiederebbe milioni di soldati è un concetto bellico obsoleto di pura propaganda, un tentativo di creare una psicosi di guerra per giustificare la crescente militarizzazione del continente. Questa retorica è funzionale a spingere l’Europa a spendere ingenti somme in armamenti, spesso inefficaci (come i sistemi missilistici Patriot o i carri armati contro i droni), a beneficio dell’industria militare statunitense ed europea. La Germania sta discutendo il ritorno alla leva obbligatoria, la Francia e il Regno Unito firmano patti nucleari, e la NATO rafforza la sua postura digitale: tutti segnali di una spirale militarista.
Un futuro incerto e la crisi democratica
Mentre l’Europa si lega sempre più a un mercato statunitense che si sta contraendo a causa dell’indebitamento dei consumatori (a eccezione del settore militare), le aziende europee, in particolare quelle automobilistiche in parte si orientano verso la conversione militare perché soffrono il crescente calo della produzione industriale delle vendite dovuto a costi energetici assai elevati e progressivo calo della competitività rispetto a quelle cinesi, in grado di offrire qualità alta e lowcost.
L’intera struttura degli accordi con gli Stati Uniti appare economicamente insostenibile e irrealizzabile.
La sottomissione dell’Europa al bullismo americano è in netto contrasto con la capacità di altri paesi come Canada, Messico, Brasile e Cina di riorientare i propri commerci e opporsi alle richieste di Washington. Questa incapacità europea di agire nel proprio interesse nazionale, subordinando la propria politica estera e commerciale agli Stati Uniti, sta portando a una deindustrializzazione e a una crescente instabilità politica.
Lo scollamento tra i governi europei attuali, la Commissione Von der Leyen, e le volontà dei cittadini si ingigantisce. Il dibattito è spesso ridotto a una dicotomia semplicistica “pro-russo o anti-russo”, impedendo una discussione reale sugli interessi nazionali. Questa situazione, unita alla percezione di una rinascita di vecchi sogni nazisti di smembrare la Russia, sta portando l’Europa verso un caos senza precedenti.
La realtà economica e geopolitica dell’Unione, nella sua configurazione di crescente subordinazione alla NATO e ai neoconservatori statunitensi, viene ignorata. A fronte dei crescenti problemi economici che si stanno già traducendo in instabilità politica, l’Unione Europea non sembra in grado di sopravvivere a lungo. I tentativi di marginalizzare l’opposizione politica potrebbero portare a derive autoritarie, spingendo il continente verso un futuro incerto e autodistruttivo.
[1] In Europa, le Big Tech statunitensi dominano i servizi digitali in quasi ogni ambito: dall’infrastruttura cloud alla produttività, alla presenza sulle app consumer, alla pubblicità digitale, fino ai pagamenti digitali. Viceversa l’orientamento verso alternative sovrane europee (ad es. Gaia‑X, ecosistemi SaaS locali), app store alternativi è per ora del tutto insufficiente e poco incentivata.
[2] Confindustria ha chiesto aiuti pubblici al governo (sussidi o incentivi fiscali) nella forma di un “pacchetto di sostegno economico urgente” per aiutare le imprese a gestire gli effetti potenziali di una guerra commerciale tra Stati Uniti e Unione europea in due occasioni ufficiali.
Presso la Assemblea annuale di Confindustria del 27 maggio 2025 a Bologna, il presidente Emanuele Orsini, intervenendo alla riunione, ha espresso un appello esplicito: servono 8 miliardi di euro in incentivi fiscali o finanziamenti pubblici agevolati da erogare in 3–5 anni, per contrasto ai dazi USA e ai costi energetici insostenibili. Ha indicato che le risorse potenziali potrebbero derivare dal PNRR, dai fondi di coesione o dalla dotazione inutilizzata della Transizione 5.0. L’idea era di riprendere meccanismi già utilizzati durante la fase Covid. L’obiettivo dichiarato era di «consentire alle imprese di aumentare gli investimenti e fronteggiare l’incertezza dovuta alla politica commerciale statunitense».
In un’intervista, apparsa su Il Corriere della Sera – 8 aprile 2025, concessa dopo il congresso della Lega, Orsini ha rilanciato la proposta di “sussidiare le imprese colpite dai dazi” con una misura simile a quella utilizzata durante la pandemia (bonus, credito d’imposta, prestiti agevolati). Ha suggerito di utilizzare risorse come il capitolo “Transizione 5.0” non ancora dispiegato, i fondi del PNRR e quelli di coesione, e ha citato il modello spagnolo, che nei giorni precedenti aveva stanziato oltre 14 miliardi per supportare le imprese, anche tramite incentivi al 30%. La sua dichiarazione era un chiaro invito a considerare l’impatto dei dazi come una “nuova emergenza economica” da affrontare tempestivamente.
Orsini ha ribadito la richiesta di sussidi presso il Forum italo‑francese Confindustria–Medef dello scorso 10 luglio e più recentemente a seguito dell’intesa USA–UE sui dazi al 15 % ha chiesto “sostegni e compensazioni“, e un vero “piano industriale straordinario” anche sforando il Patto di Stabilità e ha stimato perdite per l’export tra 8 e 22,6 miliardi di euro (tg24.sky).