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manifesto

La passione del fare politico

Rossana Rossanda

Rigore e semplicità. Le qualità de «Principia Iuris». Un'opera che interroga il secolo breve senza ritrarsi di fronte ai nodi che ha lasciato in eredità

principiajurisColoro che hanno seguito sia pur da lontano Luigi Ferrajoli nella stesura dei Principia Iuris sanno quanta fatica gli sia costato non l'impianto dell'opera, così radicato nella sua formazione intellettuale, quanto la determinazione a renderla come un pane da spezzare per qualsiasi cittadino che si interroghi sulle relazioni interindividuali e fra individui e società. Come darsi un sistema di regole al fine di garantire la reciproca libertà e sicurezza dei diritti? Antico problema, ma rivisto alla fine di un secolo che ha messo in causa sia le forme della democrazia, sia quello che si voleva un suo superamento in senso comunista. Ne è venuto un lavoro imponente e semplice, rigoroso e comunicante senza nulla togliere allo spessore dell'argomentazione, ai riscontri del e nel sistema, e alla genesi storica e teorica dei concetti.

Sembra impossibile che un titolo così severo e la mole delle pagine costituiscano un'opera che chiunque può prendere in mano senza sentirsi allontanato. Si deve certo all'eleganza della scrittura, ma soprattutto, credo, alla convinzione morale e politica di Ferrajoli che urge ricostruire un sistema di rapporti umani ormai a rischio di imbarbarimento. Bisogna e si può. È poi il fondamento del politico, una posta alta, il contrario d'un esercizio accademico. In questo Luigi Ferrajoli è proprio un illuminista, ne possiede (è posseduto da) quella passione di capire, dirimere e spiegare che si fonda sulla convinzione che la specie umana ha la capacità di darsi un senso e delle regole che ne consentano una terrena sopravvivenza.

Si potranno fare altre accuse all'illuminismo, non quello di non averci restituito la possibilità di quella salvezza, nei limiti della vita, che le religioni negano, rimettendo il nostro destino nelle nostre mani. Filo d'Arianna l'uso della ragione, strumento da usare e verificare nella sua struttura logica e fin matematica. Questa non è una fede, è una scelta. Controcorrente, a stare agli ormai trentennali assalti alla ragione tacciata di imperialismo occidentalista, astrazione, pretesa universalistica, misconoscenza delle differenze. E' proprio la sigla di Ferrajoli - si ricorderà Diritto e ragione - e non perché ignori quanto l'irrazionalità sia costituente dell'umano, ma per la persuasione che non è possibile fondare sull'irrazionale una rete di rapporti che garantisca la libertà. Libertà «di» e libertà «da».

 

Ne viene - sembrerà un paradosso - una lezione di rigore e di senso del limite. Ferrajoli insiste sul carattere di convenzione nel tempo e nello spazio d'una teoria assiomatica del diritto che considera decisiva per una moderna democrazia concreta. Convenzione, che esclude dunque il sacro e l'indicibile, non sconfina dal suo territorio, non si concede divisioni di tempi e settori, non si presta a un'eterogenesi dei fini. Non è mortifera. La domanda è, se mai, dove trascenda altri tempi e altre culture, ma già questo è uno sconfinare. È dal suo interno - il da noi e oggi - che va interrogata. Ma soprattutto utilizzata. Chi legge si sente raccomandare dall'autore di non spaventarsi per la mole del lavoro, di saltare questa e quella parte, di andare senz'altro al secondo volume perché questo libro non è stato pensato soltanto per sperimentare fino in fondo un percorso di metodo, ma per essere agito. Per il fare politico, arendtiano. Come se la completezza della ricerca, la politura dell'opera fosse una sfida prima di tutto per chi l'ha stesa, bisogno di non lasciarsi zone non controllate. Gli altri, gente non addetta ai lavori, non si annoino, non si stanchino, vadano al dunque, il nocciolo utile, necessario che è il come della democrazia. La scommessa è stata anche nello scrivere un'argomentazione inattaccabile in quel che Ferrajoli chiama «il linguaggio comune», per quel che di comune sta nel definire i nostri rapporti con l'altro e gli altri.

È una scrittura densa e senza trappole. A me, confesso, è capitato di farne un uso irrispettoso; avevo il manoscritto e più volte sono andata a cercare - indici irreprensibili - com'era impostato o risolto un problema che le cose del mondo mi ponevano. E di lì poi vagavo per richiami, perché in questa idea del diritto come convenzione compatta, articolata, logico-matematica, tutto si tiene. E tutto serve. Invitata a guardarmi dal primo volume, vi ho pescato invece alcuni passi per me decisivi, e quindi mi sono messa a leggerlo a cavalletta, saltando le verifiche logico-matematiche, con la voglia di riflettere, tornarvi, discutere, qualche volta litigare.

Per chi viene dal Novecento, Principia iuris impatta sui nodi dell'esperienza e li riproblematizza. Mi sia permesso, da profana, di evocarne due. Il primo riguarda il rapporto tra quel che Marx chiama materiale reale e il diritto. Lasciamo pure da parte la vulgata su struttura e sovrastruttura, chi viene prima e chi viene dopo, dalla quale sono venuti molti guai. È un fatto che l'attuale prepotere dell'economico sul politico non deriva da un errore di diritto, da una incomprensione del pubblico o da una miopia del privato - c'è un rapporto di forza che appare oggi del tutto asimmetrico, tale che infatti obbliga Ferrajoli a interrogarsi sulla globalizzazione. Ma non ci rinvia a un problema troppo rapidamente affrontato nell'affermazione che, certo, la difesa della libertà «dalla» proprietà andrebbe regolata non meno che la difesa dell'individuo dallo stato? Perché questa regolazione non si è mai data e sempre meno si da'?
L'altra domanda riguarda il femminismo. Ci sono, a me sembra, molti equivoci tra le donne e Ferrajoli sul tema eguaglianza e differenza. Per farla breve, io sono dalla sua parte. La questione è un'altra: è possibile che un codice, i suoi lemmi e le sue gerarchie, scritti da uno dei due sessi valga in assoluto anche per l'altro e si tratta soltanto di applicarlo con quella coerenza che finora non avrebbe avuto? Le donne possono essere silenziose, puramente riflesse, nella formazione del diritto e dei suoi assiomatici fondamenti? L'insignificanza del femminile come soggetto non comporta qualche problema per una teoria della libertà?

Ma di questo e di altro avremo occasione di discutere.

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