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 materiali resistenti

Il ritorno della politica

Intervista a Toni Negri

di Marianna Canavese e Bruno Fornillo

morte di socrateIl saggista italiano annuncia la fine della postmodernità, almeno nel suo aspetto politico di indifferenza innanzitutto del bene comune. Dice che ricomincia la narrazione di un processo di liberazione. In questa chiacchierata analizza la situazione attuale del capitalismo e le sue derivazioni nel lavoro. Le sue posizioni hanno conosciuto le obiezioni di Laclau, Dri e Boròn, tra gli altri, che lo accusano di un eccesso di utopismo e di non tener conto delle dimensioni nazionali della lotta politica.
 
Suole dire che l'Italia della fine degli anni '60 e gran parte degli anni '70 era immersa in un grado di mobilitazione collettiva che operò come una sorta di laboratorio della politica di emancipazione. In Argentina, dopo aver visitato la Bolivia e il Venezuela, il filosofo Toni Negri - uno degli animatori di quel ciclo della rinnovazione di quel discorso - annuncia il tempo di una nuova narrazione delle pratiche politiche. Soggetto a multiple letture, interpreta che la ricezione locale della suo opera è stata "negativa e limitata" rispetto alle discussioni che determinò in altre regioni del continente.


Hai un grado di vitalità che si esprime fortemente e che contrasta solamente con la discontinuità della politica. In che si fonda questo ottimismo ?
 
Toni Negri: non ho ottimismo tanto quanto vitalità. Si usa dire che nella filosofia contemporanea è una posizione mortuaria nel giro dei vitalisti, direi che sono i fondamentali. Basta pensare ad Heidegger, che è la filosofia della morte. La attitudine represiva solo può organizzarsi sopra la morte e la paura. D'altra parte, è sempre ciò che ha insegnato la cura: la morte come fine della vita e il peccato come organizzazione della vita. Vediamo, invece, qual è la passione fondamentale che sta alla base...Io considero che l'esere, questa questione della quale tanto la filosofia che la politica debbono occuparsi, è un essere produttivo. E' una posizione che ha una storicità, da Machiavelli a Spinoza, Marx e il poststrutturalismo. In linea di rispetto della quale  scomettiamo come scommettiamo  sempre nella vita. Penso che la vita e una cosa maledettamente pesante, dura, però che è costruita. Pensiamo a un bimbo che nasce, se non saremo un po' ottimisti non lo ameremo, morirà immediatamente, e, in generale, dobbiamo prendere esempio per tutto quello che accade nella vita. E' solo l'amore,  la solidarietà, la reciprocità, che permette che la vita si riproduca e passerà dalle fasi più elementari - la assistenza a un bimbo - a quelle nelle quali sta l'opera di aiutarsi, di insegnargli il linguaggio, di lavorare - cosa che non facciamo da soli - e così succesivamente. E' amore, in senso ontologico - non ha nulla a che vedere con Freud ne con la pornografia - , amore vero, solido, che costruisce la vita. E ciò lo puoi chiamare ottimismo ? Chiamiamolo ottimismo. Certamente, se non esisterà questo ottimismo - che non è ottimismo bensì semplice realismo - la vita non esisterà.
 

Rispetto delle passioni, qual è l'influenza di Spinoza sul tuo pensiero ?

 
Perdonami se svolgo un minimo di cronologia della mia vita. Nacqui sotto il fascismo e vissi i miei primi anni durante la guerra, fino a 12 o 13 anni. La guerra mi marchiò moltissimo, la guerra, la miseria, lo sforzo di vivere. Fui comunista prima di esere marxista. A 20 anni, lavorai in un kibutz in Israele, e lì divenni comunista, in virtù dell'esigenza di una vita in comune. Sperimentai questa fase di Israele che fu molto bella. Dopo mi misi a lavorare in politica e divenni marxista. Mi inserii soprattutto in un proceso di lotta, neigli anni '60 e '70, che fu creativo, realmente formidabile, e che mi permise di sviluppare una critica estremamente forte. In Italia, il '68 non fu un maggio, non fu un mese, furono 10 anni che ci permisero, a me, a mille, a milioni di compagni, di dispiegare una critica del capitalismo come critica, correttamente, del modo in cui il capitalismo maneggia le passioni. Durante tale lotte conobbi il carcere, e rilessi Spinoza interpretando, criticando, il mio vecchio marxismo, però recuperando allo stesso tempo questa capacità spinoziana di fondare sul meccanismo del conatus vivente il conatus della vita, il conatus sensibile, l'amore o la cupiditas, come il momento di associazione costruttiva e costituente. E dopo, l'amor razionale, ontologicamente costruttivo, che mi permise di riconquistare non solo il senso del lavoro, dell'attività, che il marxismo mi aveva insegnato, ma il senso della passione che deve ricoprire i concetti e permettergli di svilupparsi. Quando, per altri motivi, mi trovai difronte ad una analisi sotituzionale concreta, appresi da questo modo, per esempio, a valutare che dietro ad ogni formula giuridica esiste un legame di passioni che era coltivato. E quando, dopo, nella fase che segnò la prigione, mi trovai di fronte alla tematica della critica delle istituzioni, del globalismo, dello sviluppo della biopolitica, lo sviluppo foucaultiano, queste cose si unirono in una sintesi che fu più o meno corretta. Non credo che la storia della filosofia insegni di più, al contrario. Deleuze disse: " Spero di essere il primo che non sarà castrato per la storia della filosofia"
 
   
Perchè decidesti che la tua vita fosse segnata dalla politica ?

 
La politica, ossia, la scelta delle conoscenze e delle attività che abbiamo riguardo alla cosa comune, riguardo al Commonwealth, riguardo alla ricchezza comune, è fondamentale. In generale, la politica, è decidere, è conoscenza, è esperienza ampliata del sapere comune per la riproduzione del comune, della libertà, è la base di tutto il sapere.
 

Recentemente eri in Argentina a parlare di *Commonwealth*...

 
*Commonwealth* è il terzo volume, scritto con Michael Hardt, della serie che incomincò con *Impero* e che proseguì con *Moltitudine*. E' un testo probabilmente più filosofico e, perciò, più politico, nel senso che abbiamo domande essenziali: Che cos'è il politico ? Che cos'è il bene e il male ? Che cos'è l'odio o la guerra ? Il libro inizia con una rivendicazione della povertà come elemento fondamentale della caratterizzazione della multitudine: incontriamo  intorno al 1600, con la Rivoluzione inglese, il termine *multitud* disperso nel vocabolario politico e sostituito dal termine *popolo*. Esso si distingue dalla moltitudine in quanto è proprietario. Abbiamo, intanto, la esclusione dei poveri dal popolo, la moltitudine esclusa dal popolo, la povertà esclusa dalla costruzione del politico. La povertà è un elemento oscuro fondamentale che non può essere recuperato dentro le categorie del politico moderno; poco sempre fuori, e poco come resistente. Spesso ci hanno accusato di eurocentrismo e di avere abbandonato di lato, per esempio, il coloniale. A questo punto facciamo uno sforzo enorme per recuperare questo tipo di letteratura dentro la problematica attuale attraverso la categoria di povertà. A noi interesavano gli aspetti di antagonismo indigeno che organizzano e mantengono l'autonomia. Dopo, un terzo capitolo affronta il problema di ciò che è oggi il capitalismo. Una ipotesi centrale è che stiamo assistendo a una rottura del processo capitalistico: la accumulazione di queste resistenze - la povertà, l'anticolonialismo unido alla trasformazione della forza-lavoro nei paesi centrali, che si presenta nei termini sempre più cognitivi, immateriali, socialmente connessi e cooperanti, rappresentano una rottura nella storia del capitale. Questa spaccatura produce una forma sempre più parasitaria, più astrattamente dominante dello sviluppo capitalistico, rendendo vuota  la relazione capitalista. L'operaio non si incontra frontalmente col capitalista come organizzatore della forza-lavoro fino a che questa organizzazione si trasforma sempre più in un processo autonomo che guida il lavoratore. Qui, senza sequestro, il lavoratore si trova di fronte ai meccanismi della rendita (immobiliare, finanziaria, accumulativa), fenomeni che rimandano ad una organizzazione barbarica della organizzazione capitalistica del lavoro. Qui, d'altra parte, è l'esodo della forza-lavoro, che significa la capacità di sviluppare controcultura però fondata su nuove istituzioni. La relazione di governo è sempre più una relazione che non è più nulla di amministrativo senza una relazione di forze; il governo sulla nuda vita. Esiste, inoltre, un tentativo di cominciare a raccontare, a descrivere, questo esodo. Resto convinto che si sta uscendo dal postmoderno e dalla paura di azzardare una grande narrazione. Oggi ricomincia il tempo di una narrazione del processo di liberazione, perchè tutti questi elementi costruiscono questo mosaico sulla base del potere di raccontare una storia della liberazione che è assolutamente necessaria.
 

Sia a Genova che in Argentina nel 2001 abbiamo avuto una irruzione delle masse che, al principio, non riuscì a plasmare una nuova istituzionalizzazione. In Bolivia c'è un grado maggiore di potenzialità, però la Asemblea Xostituente è stata destabilizzata. Che ostacoli vedi ?

 
Esodo significa capacità costituente. Il grande problema passa nella diffrazione dei poteri costituenti. dentro le teorie giuridiche, il potere costituente è stato sempre considerato come un potere extra-legale; attuato una sola volta, erige l'ordinamento e non esiste più. Dobbiamo imparare a immaginare il potere costituente come un potere che si dispiega in questa relazione duale. Questo anno in Bolivia, per esempio, la discussione avuta  è stata riferita, giustamente, a nuove forme  costituzionali che non necessariamente vedono il potere costituito  come negazione del potere costituente, ma come strutture di nuovo ordinamento totalmente aperte a un potere costituente. Si è deciso un nuovo modello di costituzione. Rispetto alla Argentina, è chiaro che quei movimenti specifici finirono, però l'accumulazione di questi processi si deve tenere molto in conto. E questi sono fenomeni assolutamente irreversibili. Sono convinto che quando si parla di costituzione materiale insieme alle relazioni di forza che costituiscono la società - si deve tener presente questa composizione politica latente. D'altra parte, le correnti attuali più vive del diritto, post-Luhmann, includono la costituzione senza Stato. Anche il postmoderno in tutta la fase dell'aleatorietà e della sfumatura sta terminando. Stiamo entrando in una nuova epoca nella quale il contemporaneo vuole mostrare la sua solidità.   
 

In una certa occasione hai detto che il movimento di resistenza globale è in crisi. Come pensi l'organizzazione post-partito ?

 
Quando si parla di crisi della forma-partito si parla della crisi della rappresentazione politica, di tutto un sistema di formazione e trasmissione della volontà politica che, giustamente, caratterizza attualmente la democrazia. Perciò, questionare sul problema del partito significa questionare se esiste un'altra forma di democrazia. Cioè: come può concretizzarsi un ideale di democrazia assoluta ? Credo che tuttavia si tratta di muoversi sul terreno della investigazione. E' evidente che la definizione del partito - quando era una definizione seria e non puramente ideologica - si è organizzata sulla relazione che è esistita dentro la definizione tecnica e sociale della forza-lavoro, la composizione politica in generale, e la forma politica, legata a un tentativo di riappropriazione del ciclo produttivo, nella definizione dei consigli operai, per esempio. Oggi tutto è più difficile da determinare: dentro la composizione tecnica del lavoro c'è questa composizione sociale, cognitiva, astratta, mobile, precaria. Per quesato abbiamo un autentico tessuto nel quale la istituzionalizzazione data, molto probabilmente, si presenterà come problema non della rappresentazione bensì della presentazione. E' sempre da considerare che non sono gli intellettuali coloro che inventano le forme nelle quali si organizzano le masse o le moltitudini; sono queste che propongono alla riflessione le forme di base da attuare. Credo che il grande passaggio che sta attraversando il capitalismo è opera di chi invece di approfondire lo individuale, approfondisce la singolarità e la partecipazione di ogni indiviiduo nel comune. E' l'immanenza della singolarità nel comune. Questa immanenza è la stessa autonomia comune che si dà come base tanto più istituzionale quanto più qualcosa anarchico nello stesso momento nell'individualismo.  Niente è mai stato anarchico.
     
 
Quali sono le caratteristiche del lavoro precario ?
 
Lavoro precario è una definizione sociologica o economica per intendere, prima di tutto, una forma di salario. Si tratta di un lavoratore essenzialmente mobile, flessibile, che non sta legato ad uno spazio determinato come neppure a una struttura temporale specifica, la giornata lavorativa di 8 ore. Mentre, dal punto di vista salariale, all'operaio-massa lo chiamiamo fordista, a questo lavoratore lo chiamiamo precario. Staiamo, in termini macroeconomici, in una situazione globale, non in una nazionale. Il migrante, per esempio, è fondamentalmente dentro questa figura del precario. Sappiamo che quando abbiamo fatto le manifestazioni per San Precario, è stato santo riunire un centinaio di migliaia di persone a Milano il 1°maggio. E' un processo molto bello, se facciamo santi che si levano in processione, con musica e cori..."San Precario: aiutaci tu". L'immagine di un giovane, di una persona qualunque, che con la faccia del santo senza più paura, perchè questa è una qualità fondamentale: essere vivo, capace...Allora, per un lato, il lavoratore precario è mal pagato e in una situazione non stabile, però, dall'altro, qualcuno preferisce lavorare così. La figura del precario è soprattutto quella del lavoro femminile: oggi, andare a lavorare in fabbrica o in officina può significare non avere figli, perchè se hai un figlio vieni cacciata. In questo caso, il lavoratore precario è, per esempio, una donna che preferisce restare nella sua casa e lavorare secondo i suoi tempi.
 

Hai menzionato, citando Hardt, la idea della guerra globale permanente, che si potrebbe pensare concatenata, almeno in America Latina, a un processo sempre più intenso della militarizzazione, della criminalizzazione e della giuridizzazione della protesta sociale, dello spavento e forte presenza di un discorso che reclama sicurezza...
 

Riguardo al discorso sulla guerra permanente, come in generale lo stato di eccezione - sono stati di eccezione permanenti - vale tanto più oggi quando la centralizzazione di questo processo termina. Gli Stati Uniti realizzò un colpo di stato sopra la mondializzazione, essere il potere sovrano che domina il campo. Nel momento in cui questo potere sovrano unilaterale cessa, in cui si affermano ambiti multilaterali di regolazione, tutta una serie di strumenti passano ad essere della criminalizzaione interna, della eccezionalità diffusa. Tutto questo si relaziona con la separazione del comando capitalista della organizzazione del lavoro: nel momento in cui il capitale si distacca dal dall'organizzazione del lavoro assume questo ricorso alla forza; la violenza si converte in codice di comando.  
 

originale: http://www.clarin.com/suplementos/cultura/2007/12/08/u-00611.htm

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