L’ora di sionismo? I disegni di legge sull’antisemitismo e la scuola
di Diego Melegari
«Ho parlato con Delrio, abbiamo intenzione di trovare dei punti di intesa […] I dettagli li discuteremo. Ci sono molte cose che coincidono, come la definizione dell’antisemitismo, che deriva da organismi internazionali […] Anche il governo Conte II, di cui Boccia faceva parte, l’aveva adottata. Quindi stanno facendo una recita pro Pal. Stanno alimentando un clima insano, stanno diventano tutti degli Albanese […] vorremmo approvare la legge entro il 27 gennaio, Giorno della Memoria»[1]. Queste le parole di Maurizio Gasparri, capogruppo di Forza Italia al Senato e firmatario di un disegno di legge contro l’antisemitismo.
Dell’impianto generale della proposta di Gasparri si è già occupato approfonditamente Alessandro Somma, al cui articolo rimando[2]. Dobbiamo ora ricordare che i disegni di legge in discussione su questo tema sono ben quattro: quello di Gasparri, quello di Scalfarotto (Italia Viva), quello di Romeo (Lega) e, infine, proprio quello di Delrio (PD). C’è da dire che sulle premesse concettuali Gasparri ha ragione: tutti i disegni di legge accettano la “definizione operativa” di antisemitismo proposta dall’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA), raccomandata dal Parlamento Europeo (risoluzione del 1 giugno 2017), recepita dal Consiglio Europeo (dichiarazione n. 15213 del 2018) e adottata dal Consiglio dei Ministri (17 gennaio 2020): «L’antisemitismo è una certa percezione degli ebrei che può essere espressa come odio nei loro confronti. Le manifestazioni retoriche e fisiche di antisemitismo sono dirette verso le persone ebree, o non ebree, e/o la loro proprietà, le istituzioni delle comunità ebraiche e i loro luoghi di culto». Il carattere problematico di un’adozione acritica delle definizioni dell’IHRA risiede soprattutto negli esempi che accompagnano la formula generale. Costituirebbero forme di “nuovo antisemitismo”, infatti, anche il «negare agli ebrei il diritto dell’autodeterminazione, per esempio sostenendo che l’esistenza dello Stato di Israele è una espressione di razzismo», il «fare paragoni tra la politica israeliana contemporanea e quella dei Nazisti» o l’«applicare due pesi e due misure nei confronti di Israele richiedendo un comportamento non atteso da o non richiesto a nessun altro stato democratico».
È proprio in virtù della dubbia estendibilità della categoria di “nuovo antisemitismo” a posizioni di radicale antisionismo e di critica a Israele[3] che si è acceso un certo scontro tra maggioranza e minoranza nel Partito Democratico, di fronte al quale, d’altra parte, non si è mancato di ricordare che anche la segretaria Elly Schlein si era espressa a suo tempo a favore dell’adozione della definizione dell’IHRA[4].
Se ci focalizziamo sul mondo della scuola la differenza non è trascurabile. Il Ddl Gasparri adotta «integralmente» la definizione dell’IHRA e, «nei casi di violazione dei doveri di prevenzione e segnalazione» di «atti a carattere razzista o antisemita», prevede per il personale scolastico le sanzioni indicate dall’articolo 492 del decreto legislativo n. 297 del 1994 (da un mese a sei mesi di sospensione, fino alla destituzione). La linea è quella, ovviamente, della repressione, rafforzata dalla concomitante integrazione dell’articolo 640-bis del Codice penale con l’applicazione della pena da due a sei anni per i casi di propaganda “antisemita”, nei quali sembrerebbe ricadere, date le premesse, la negazione «del diritto all’esistenza dello Stato d’Israele». Non è difficile immaginare lo spettro di posizioni politiche che un dispositivo di questo tipo mira, se non a colpire direttamente, almeno a intimidire. Di questo c’è già stato un assaggio con le polemiche scatenate dalla partecipazione di alcune scuole a un’iniziativa online che vedeva ospite Francesca Albanese e con il conseguente annuncio dell’invio di ispettori ministeriali negli Istituiti coinvolti[5].
Nella premessa al Ddl Delrio si fa, invece, esplicito riferimento al carattere “polimorfo” dell’antisemitismo e ai già menzionati “undici esempi” riportati dal documento dell’IHRA, a loro volta accostati, tra le altre cose, a casi di «politici e giornalisti cui è stata resa impossibile la partecipazione a eventi pubblici» (sottintendendo che le contestazioni sarebbero state mosse dall’odio per l’origine ebraica dei suddetti esponenti e non per le loro posizioni politiche, ad esempio in merito al genocidio palestinese) o dalla «deturpazione di simboli della Shoah in nome dell’antisionismo (“dalla Shoah non avete imparato niente”)» (non chiarendo se il carattere antisemita andrebbe limitato all’atto della deturpazione o attribuito allo slogan citato in quanto tale). La logica del Ddl è, in questo caso, di affidare il contrasto all’antisemitismo a «sistemi di reporting e di monitoraggio», in particolare sulle piattaforme online (aspetto centrale del documento) e nel mondo della formazione (sfere in qualche modo equiparate, in quanto terreni fertili per «invettive e stereotipi antisemiti»). Per quanto riguarda la scuola «l’articolo 5 prevede che le comunicazioni annuali effettuate dalle istituzioni scolastiche, mediante i sistemi informativi dell’Istruzione e del Merito, comprendano anche i dati circa le azioni effettivamente intraprese dalle istituzioni stesse per prevenire, segnalare e arginare la diffusione dell’odio antisemita». Molto più a suo agio con la mutazione neoliberale della scuola italiana, fatta di competitività tra Istituti, competenze più o meno trasversali, “indicatori” sulla performatività delle pratiche educative adottate, permeabilità a enti formatori esterni[6], la proposta “democratica” punta, quindi, a implementare azioni positive che ogni scuola dovrebbe mettere in campo per attestare il proprio grado di contrasto al pericolo antisemita, criterio che, probabilmente, diventerebbe una voce immancabile del POF (Piano Offerta Formativa, la “carta d’identità” di ogni istituto), paragonabile in questo alla varietà dei progetti proposti, all’“inclusione” degli alunni con disabilità o all’utilizzo di nuove tecnologie.
Lo sfondo di questa oscillazione tra “Questura” e “Buone Pratiche” (poli tra i quali, verrebbe da dire “giustamente”, Gasparri è convinto si possa trovare un accordo) si trova nelle Linee guida sul contrasto all’antisemitismo nella scuola, documento del novembre 2021, prefato dall’allora Ministro Patrizio Bianchi e frutto del lavoro di un comitato tecnico-scientifico composto da esperti e rappresentati dell’Unione Comunità Ebraiche Italiane, con il coordinamento di Milena Santarini[7]. C’è da dire che il documento in questione presenta un grado di raffinatezza argomentativa ben diverso da quello presente nei Ddl analizzati. In esso si riconosce, ad esempio, che «occorre evitare una riduttiva identificazione tra i due termini “antisionismo” e “antisemitismo”» e che «mentre – come per tutti gli Stati – le critiche politiche sono certamente legittime, l’utilizzo di una retorica antisemita o l’uso di teorie cospirative è spesso visibile e va combattuto». Nello stesso denso paragrafo si denuncia, però, come spesso avvenga «un amalgama, e cioè che dall’antisionismo si scivoli nell’antisemitismo, o – ancor più spesso – che l’uno faccia da copertura all’altro» Se rimaniamo sul piano di un’analisi delle diverse “formazioni ideologiche” che si agglutinano intorno alla questione israelo-palestinese porsi questo problema è certamente legittimo, anche se sfugge come un simile scivolamento avvenga nella concreta prassi didattica. Gli antidoti indicati, invece, suggeriscono che è proprio il terreno didattico (e non solo quello della “vigilanza” contro effettivi atti di discriminazione) quello sul quale si vuole agire, promuovendo prospettive interpretative piuttosto precise. I docenti, infatti, sono chiamati ad astenersi dall’identificare il sionismo con l’imperialismo o con il colonialismo e a prevenire questa tentazione trattando «in sede formativa il tema dei nazionalismi europei in epoca moderna, riconducendo e individuando le caratteristiche specifiche del concetto di “sionismo”». Tratto caratterizzante il “nuovo antisemitismo” sarebbe, infatti, «un’errata e distorta equiparazione del “sionismo” – il movimento di indipendenza nazionale che ha portato alla nascita dello Stato di Israele – a un movimento “razzista”, “colonialista”, imperialista”». Bisognerebbe, allora, evitare di rendere «eccezionale» il sionismo, comprendendone «i tratti analoghi ai movimenti che tra l’Ottocento e il Novecento hanno portato alla nascita di diversi Stati, tra cui l’Italia con il Risorgimento». Esisterebbero, infatti, dei parametri precisi per comprendere quando l’antisionismo sfocerebbe nell’antisemitismo e, tanto per cambiare, essi sarebbero tratti dagli esempi dell’IHRA, tra i quali spicca anche il curioso caso in cui l’attenzione per la causa palestinese «non è accompagnata da analoga solidarietà verso altri gruppi».
Il lettore immagini le domande di un docente che rilegga simili indicazioni, magari alla luce della minaccia penale di Gasparri o del monitoraggio di Delrio. Non posso, ora, che parlare in prima persona, Dovrei, quindi, vedere nei miei studenti, tendenzialmente spoliticizzati, che hanno avuto un moto di indignazione di fronte al massacro di Gaza, ma che in passato non si sono mobilitati per altre cause, delle potenziali SA? E che dire delle mie risposte alle loro richieste di approfondire il tema? Per rendere conto della complessità del problema e, al tempo stesso, per averne una visione sintetica mi sono basato su libri di Arturo Marzano e di Lorenzo Kamel[8]. Si tratta di testi che vanno pienamente incontro alla “storicizzazione” richiesta dal documento, ad esempio insistendo sulle molteplici tenenze interne al movimento sionista e periodizzando le diverse fasi con cui esso si è rapportato alla popolazione palestinese. Ma quando, sulla base degli stessi libri, ho discusso di quale tra le tipologie di “colonizzazione” potesse rendere conto dell’occupazione della Palestina, oppure quando ho citato la convinzione di Herzl di costituire «l’avanguardia della civiltà contro la barbarie» o, infine, quando ho sì utilizzato l’espressione di Enzo Traverso per cui il sionismo costituirebbe una “mimesi ebraica” dei nazionalismi europei, ma non ho mancato di ricordare come a detta dello stesso storico «il terrorismo è stato spesso sostenuto e praticato dai movimenti di liberazione nazionale, e i miliziani di Hamas rientrano perfettamente nella definizione classica del “partigiano”»[9], la mia “storicizzazione” si è spinta forse su terreni già infettati dal “nuovo antisemitismo”? Quando ho applicato al movimento sionista quegli strumenti decostruttivi, derivati da Mosse, Anderson, Hobsbawm, Banti, che è ormai uso comune utilizzare nell’analisi dei movimenti nazionalisti moderni (quello risorgimentale compreso, proprio come suggerito dalle nostre linee guida) e ho, quindi, parlato di “costruzione del popolo”, di “invenzione di una tradizione”, di “immaginari e stereotipi orientalisti”, di intrecci tra “razza”, “nazione” e “classe” nel modello di cittadinanza dell’“unica democrazia del Medio Oriente”, di uso pubblico e politico della memoria e della storia, quante volte le mie parole avrebbero meritato il “cartellino rosso” dell’IHRA? I docenti sanno che il “Giorno della Memoria”, non a caso indicato da Gasparri come data chiave per l’approvazione della legge, è di fatto l’unico rito civile celebrato nelle scuole di ogni grado e come, in quell’occasione, accada che la carta dell’“universalità” o quella dell’“eccezionalità” della Shoah siano alternativamente giocate per prevenire qualsiasi ragionamento critico sui rapporti tra storia, memoria e politica, compresa la domanda sul perché l’ipertrofia di politiche della memoria e di un certo “filosemitismo” ufficiale[10] tenda ad accompagnarsi con l’aumento dei casi di razzismo e xenofobia[11]. Qualcosa di analogo sta ora avvenendo per il tema generale del “sionismo”. Esso viene presentato come fenomeno da storicizzare, da non intrappolare in una presunta “eccezionalità”, quando questa impostazione sia funzionale a ridurne la venatura coloniale, ma ci si ritrae poi dalla conseguenza che esso possa avere dei legittimi nemici politici (lontani da qualsiasi razzismo, ma allo stesso tempo critici del progetto sionista in quanto tale e non solo di una singola iniziativa di un singolo governo israeliano), i quali vengono, invece, destoricizzati, come semplici maschere di un antisemitismo eterno.
Di fronte a tutto questo non so se sia corretto parlare di un corpo docente che, attraverso le mobilitazioni per Gaza, avrebbe in qualche modo riscoperto il valore civile e la “politicità”, in senso nobile, della sua funzione e contro il quale sarebbe scattata la macchina repressiva[12]. Sono abbastanza convinto che si assisterà, invece, all’integrazione senza significative resistenze della lotta al “nuovo antisemitismo” nei documenti fondativi degli istituti, a un proliferare di corsi di aggiornamento per insegnanti, con relativa corsa all’accaparramento di fondi, all’attivazione di convenzioni con enti formatori, all’inserimento di fatto obbligatorio del tema nei curricula di educazione civica (a questo fanno menzione, sotto la voce di “educazione all’interculturalità”, i Ddl di Scalfarotto e Romeo), al controllo incrociato e diffuso di dirigenti, colleghi e genitori (alle volte basta il timore di apparire un “rompiscatole” agli occhi del proprio Consiglio di classe), insomma, ancora una volta, a una “governance dell’anti-antisemitismo”, corazzata però da strumenti disciplinari a cui ricorrere in modo più disinvolto, come in fondo è lo spirito del tempo in tanti campi.
E forse è proprio questo il nucleo più interessante di tutti questi provvedimenti: il vedere come dopo l’apertura di una vera faglia, la reazione contro la politica genocida israeliana, essa sia stata assorbita nella ripolarizzazione tra simulacri di politica, di “destra” o di sinistra”, e al tempo stesso investita di dispositivi, assunti invece trasversalmente, che vanno nella direzione di un’erosione delle condizioni per la formazione di un’esistenza politica consapevole. L’“ora di sionismo” certamente è e resterà una pura provocazione del titolo. Ciò non toglie che siamo probabilmente già in grado di tracciare il ritratto del docente che dovrà rendicontare il proprio “modulo” di lotta all’antisemitismo, progettato con la stessa rarefazione di ogni densità storica e di pensiero già toccata, ad esempio, all’insegnamento dell’Educazione civica: un insegnante impegnato in corsi di formazione su come applicare al nuovo tema ormai non più nuovi espedienti metodologici e a ingabbiare quanto fatto in altre griglie di valutazione, con qualche “compito di realtà” da potere condividere con i colleghi, con la progressiva accettazione del suo ruolo di “agevolatore” di contenuti e pratiche “indicati”, “suggeriti”, “monitorati” altrove, con un indistinto timore, fosse anche solo per la sproporzione tra la quotidianità del proprio lavoro e un’accusa tanto infamante come quella di antisemitismo, e con la vaga sensazione di contribuire all’infantilizzazione dei suoi studenti e, questa volta, un poco anche di se stesso.









































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