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Dal socialismo delle fogne a quello delle torte

di Emilio Carnevali

Democrazia, volontarismo, mercato. Idee e modelli del socialismo contemporaneo. Un nuovo contributo al dibattito di Jacobin sull'alternativa economica

economia socialismo jacobin italia.pngSewer Socialists: socialisti delle fogne. L’epiteto fu chiaramente coniato con intenzioni derisorie. Alla fine, però, furono gli stessi «socialisti delle fogne» ad appropriarsene. Gli amministratori di Milwaukee, uno dei rari bastioni socialisti negli Stati Uniti di primo Novecento, rivendicavano così il proprio impegno a fornire ai cittadini servizi pubblici di qualità, in contrapposizione alla vuota retorica rivoluzionaria di altri settori del movimento. Daniel Hoan, che fu sindaco per sei mandati (dal 1916 al 1940), non solo dotò la città di un efficiente sistema fognario, che contribuì a migliorare sensibilmente gli standard igienici e le condizioni di vita degli abitanti, ma promosse anche un energico piano per l’edificazione di parchi pubblici.

L’espressione è stata ripresa recentemente anche da Zohar Mamdani, neoeletto sindaco di New York, per rispondere a chi lo accusava di eccessivo idealismo e segnalare come il suo socialismo sia, appunto, un sewer socialism, interessato a ottenere risultati amministrativi concreti.

 

Socialisti e modelli, ieri

Si tratta di tensioni che attraversano il movimento socialista sin dalle origini. La città di Milwaukee aveva ricevuto un cospicuo influsso di immigrati dalla Germania. Gli anni a cavallo del secolo erano stati quelli del cosiddetto dibattito sul «revisionismo» nella socialdemocrazia tedesca. Aveva preso forma una corrente politica e culturale ispirata alle idee riformiste di Edward Bernstein, del quale è rimasta celebre la massima secondo cui «l’obiettivo finale del socialismo è nulla, il movimento è tutto». Ancor prima che le dure lezioni del socialismo reale mettessero in guardia sul legame fra dogmatismo e autoritarismo, il socialismo riformista rivelava una certa refrattarietà per i modelli precostituiti, i piani di «ingegneria sociale» troppo dettagliati e ambiziosamente specifici.

E tuttavia, non sono state solo le ali moderate e gradualiste del movimento socialista a sviluppare un’esplicita ostilità verso i modelli, o – per riprendere l’espressione usata da Marco Bertorello e Giacomo Gabbuti nell’articolo che ha aperto questo dibattito su Jacobin Italia – verso le proposte di «sperimentazione socio-economica di ordine sistemico e strutturale».

È noto che Marx preferiva limitarsi all’«analisi critica della realtà fattuale, piuttosto che scrivere ricette per l’osteria dell’avvenire», come ha ricordato Emanuele Felice in una bella intervista su questo sito.

Il trionfo della Rivoluzione d’Ottobre aprì un breve periodo di confronto – grosso modo fra il 1924 e il 1928 – su quelle che dovevano essere le caratteristiche fondamentali della costruzione di un’economia non capitalista in Unione Sovietica. Con il consolidamento al potere di Stalin una strategia fu scelta e il dibattito fu messo a tacere (molti dei suoi protagonisti vennero fisicamente eliminati). Ne nacque quello che l’economista ungherese János Kornai, nella sua summa teorica sull’economia di piano (The Socialist System, 1992), ha battezzato il «socialismo classico». Tre furono i suoi elementi costitutivi: il monopolio del potere da parte del Partito comunista; la proprietà statale delle aziende industriali (con una certa diffusione del modello cooperativo nel settore agricolo); l’allocazione delle risorse tramite una pianificazione centralizzata (con un limitato ruolo del mercato nel consumo al dettaglio, nelle relazioni occupazionali, e soprattutto dell’economia informale o illegale). Il «socialismo classico» fu imposto anche alle «democrazie popolari» dell’Est Europa dopo la Seconda guerra mondiale (pur con le significative varianti della Jugoslavia prima, e dell’Ungheria poi) e fu adottato in Cina e a Cuba dopo il successo delle rivoluzioni in quei due paesi (1949 e 1959). Per il movimento comunista internazionale – almeno per la sua componente maggioritaria – non si trattava di discutere di modelli, ma di consolidare i successi della rivoluzione e difendere il campo socialista nella competizione globale fra sistemi apertasi con la Guerra fredda.

 

Socialisti e modelli, oggi

La crisi del socialismo sovietico apparve evidente ben prima del crollo del Muro di Berlino. Con la scomparsa dell’Unione sovietica l’opzione di un’«alternativa socialista» si è di fatto eclissata non solo nel dibattito politico dei paesi occidentali, ma anche nella ricerca accademica, almeno nelle discipline economiche (sulle quali intendo concentrarmi in questo articolo). I programmi universitari di «sistemi economici comparati» (comparative economics) si sono gradualmente spostati sull’analisi delle economie in transizione; successivamente, nei rari casi in cui sono sopravvissuti questi insegnamenti, l’attenzione si è concentrata sulla letteratura delle cosiddette varieties of capitalism: essenzialmente, sul confronto fra liberal market economies (modello anglosassone) e coordinated market economies (modello renano-scandinavo).

Questo, almeno, fino a tempi relativamente recenti. Le crisi che si sono succedute negli ultimi anni hanno visto episodi di intervento pubblico in economia per certi versi senza precedenti in tempi di pace nei paesi capitalisti: si pensi, per fare un esempio fra tanti, al credito illimitato garantito dalle banche centrali ai governi durante la pandemia da Covid 19. La dirompente ascesa economica della Cina post-riforme di Deng ha presentato al mondo il successo di una strategia di sviluppo che ha utilizzato le opportunità offerte dalla globalizzazione economica e dal mercato mondiale, ma dove è centrale il potere di indirizzo esercitato dalle autorità pubbliche.

Parallelamente, la crescita degli standard di vita nei paesi avanzati si è praticamente arrestata: se gli Usa costituiscono una parziale eccezione, l’Italia rappresenta invece un caso particolarmente estremo di questo fenomeno, con un tasso di crescita del reddito pro capite medio annuo che era del 4,94% negli anni 1950-1974, è passato all’1,94% negli anni 1974-2007, per arenarsi allo 0,25% dal 2007 a oggi. All’epoca della cosiddetta stagnazione brezneviana, fra il 1974 e il 1984, il Pil pro capite dell’Unione Sovietica cresceva dello 0,98% in media all’anno, più di mezzo punto in più della media italiana dell’ultimo ventennio.

In questo contesto, anche nella ricerca accademica ha cominciato a riaffacciarsi una discussione sulle «alternative di sistema» in campo economico. I socialisti di oggi tendono a non condividere lo scetticismo dei socialisti di ieri nei confronti dei modelli. Da una parte sanno che il totale discredito in cui la nozione di «socialismo» è sprofondata con il crollo del socialismo reale può riacquistare credibilità solo a fronte di argomenti circostanziati. Dall’altra parte è tramontata già da molto tempo l’illusione storicista secondo cui il mondo sarebbe inesorabilmente in marcia verso un radioso futuro socialista grazie alle contraddizioni insuperabili del capitalismo: se verso qualcosa siamo in marcia, è più probabile sia la catastrofe climatica. E allora è forse utile cercare di orientare la direzione verso cui scegliere di dirigersi grazie a cartine più dettagliate dei possibili, alternativi, punti di approdo.

 

Modelli di economia socialista contemporanei

Insieme ad André Pedersen Ystehede, economista del Ministero della Tassazione danese, in un articolo sul Journal of Economic Surveys abbiamo tentato di fare ordine nella letteratura economica contemporanea, identificando i principali filoni di ricerca alla base dei modelli di economia socialista oggi proposti a livello internazionale. Ne riassumerò di seguito tre, senza alcuna pretesa di esaustività, che sono a mio avviso i più rappresentativi delle tendenze in corso.

1) Socialismo come processo di «democratizzazione». A questo primo gruppo si possono ascrivere lavori come quello dell’economista francese Thomas Piketty. Il suo «socialismo partecipativo» punta a un duplice processo di democratizzazione sia delle tradizionali istituzioni della rappresentanza, che del governo delle imprese. Piketty è propugnatore di radicali politiche redistributive tramite la leva fiscale, con aliquote effettive che possono arrivare fino al 90% per redditi, eredità e patrimoni 10.000 volte superiori a quelli medi (la soglia è meramente indicativa visto che l’aliquota cresce in modo lineare insieme al multiplo rispetto ai valori medi. Si veda la tabella 17.1 nell’edizione italiana del suo libro Capitale e Ideologia per un esempio più dettagliato). A questo modello è sostanzialmente accostabile la cosiddetta Zucman Tax (dal nome dell’economista Gabriel Zucman, coautore di Piketty in diversi lavori), discussa recentemente – e respinta – dal parlamento francese. Nell’ottica del socialismo come processo di democratizzazione, una più equa ripartizione di reddito e ricchezza non è un fine in sé, bensì è funzionale a una più equa ripartizione del potere, un modo per tutelare il sistema democratico dalla distorsione a cui è soggetto quando si verifica l’accumulo di enormi ricchezze nelle mani di pochi. Anche le riforme di corporate governance proposte da Piketty sono animate dallo stesso spirito, come ad esempio quella di limitare al 10% i diritti di voto esercitabili dai singoli azionisti.

2) Socialismo come «impresa volontaria». È una tendenza che ha origini molto antiche, in ultima analisi riconducibili alla ricorrente aspirazione di dare vita a comunità ideali ispirate a valori, pratiche, rapporti sociali diversi da quelli dominanti nel mondo circostante. È lo spirito che ha animato esperienze diversissime fra loro, dalle comuni agricole legate al cristianesimo protestante in Nordamerica, ai Kibbutz israeliani, alle utopie socialiste di Robert Owen e Charles Fourier nell’Ottocento, fino alle comuni hippy della nuova sinistra degli anni Sessanta del Novecento. Duncan Foley, economista americano della New School for Social Research di New York, ha più recentemente provato a delineare i tratti di una sorta di «comunità socialista nel capitalismo» ispirata dal successo delle pratiche di produzione di software open-source. La sua Lifenet si fonda sul contributo volontario dei cittadini per la produzione di un’ampia gamma di beni. I partecipanti al network – cui non sarebbe precluso svolgere un’attività anche nell’economia capitalista – non sono retribuiti per le loro prestazioni, ma possono attingere liberamente dal prodotto degli altri. Il potenziale squilibrio fra domanda e offerta dei singoli beni, in assenza di un sistema di prezzi flessibili che tenda a pareggiare i due lati del mercato, è un problema simile a quello che caratterizzò il «socialismo classico» con i suoi prezzi amministrati e la conseguente necessità di ricorrere al razionamento. Lifenet utilizzerebbe l’economia capitalista come un buffer, una valvola di scambio, un mercato straniero in cui esportare e dal quale importare prodotti finanziandosi col proprio surplus. L’ethos di «parsimonia» e «avversione allo spreco», che secondo Foley dovrebbe comunque animare i partecipanti di Lifenet, rimanda all’annosa questione del rapporto fra società socialista e i suoi, eventuali, prerequisiti etico-comportamentali.

3) «Socialismo di mercato». L’idea di fondo è quella di combinare una preponderante proprietà pubblica o collettiva delle aziende, e il mercato come sistema privilegiato di allocazione delle risorse. La rinnovata centralità della questione dei diritti di proprietà e della distribuzione primaria è qui vista come un’alternativa alla crisi del modello socialdemocratico, nel momento in cui la capacità di re-distribuzione delle autorità pubbliche è sempre più compromessa dalla competizione fiscale fra gli Stati. Il «socialismo azionario» discusso nei lavori dell’economista italiano – e docente alla Freie Universität di Berlino – Giacomo Corneo ha un certo sentore marxiano nell’ambizione di utilizzare i più avanzati metodi di organizzazione della produzione del capitalismo a servizio di un’economia di tipo alternativo. Fra questi, il mercato azionario, ovvero lo strumento con cui la classe capitalista ha affrontato il problema «principale-agente» nel rapporto coi propri manager. Gli interessi di questi ultimi possono divergere significativamente da quelli degli azionisti, siano questi ultimi soggetti privati o, come nel caso del «socialismo azionario», l’intera collettività. La contrattazione delle azioni offre la possibilità di radunare un’enorme quantità di informazione dispersa e utilizzarla a servizio di dispositivi per il disciplinamento della governance di impresa. Corneo immagina un’economia sostanzialmente duale: da una parte grandi aziende quotate e partecipate da un fondo sovrano pubblico, i cui dividendi verrebbero girati al bilancio statale; dall’altra un sistema di piccole e medie aziende, fondamentali per garantire dinamismo economico e un efficace sistema di incentivi all’innovazione, l’assenza dei quali ha segnato la sconfitta storica delle economie pianificate del socialismo reale. All’interno di questa cornice, tre sono le sfide istituzionali con cui il socialismo azionario si cimenta: 1) Il processo di creazione del fondo, per il quale si possono invocare i casi della Nuova Zelanda o di Singapore come esempi di Stati nei quali fondi sovrani sono stati costituiti senza fare affidamento sulle rendite di riserve naturali (come nel caso della Norvegia o delle petromonarchie del Golfo). 2) L’apparato di regole a garanzia di una gestione efficiente del settore pubblico. 3) Un sistema di demarcazione fra settore pubblico e privato che non deprima gli animal spirits del capitale privato e favorisca al contempo l’accumulazione di capitale pubblico.

 

Il filo (rosso) conduttore

È possibile individuare tratti comuni fra queste tendenze, come anche fra i mille altri rivoli della letteratura accademica neosocialista a cui qui non ho potuto fare cenno? Proviamo ad abbozzarne alcuni:

a) È pressoché universale l’accento posto sull’importanza della partecipazione democratica e di una cittadinanza attiva, oltre che sulla tutela dei diritti civili e politici garantiti dalle moderne democrazie liberali. Si è persa traccia, in sostanza, di qualsiasi suggestione di «dittatura del proletariato» o di privilegio da accordare a un determinato partito o «avanguardia politica» anche solo di portata «transitoria».

b) Riguardo alla proprietà pubblica, i teorici neosocialisti adottano generalmente un approccio flessibile e pragmatico. Se le scelte in materia si devono confrontare con l’evidenza empirica a disposizione, è naturale che saranno sempre scelte contingenti, suscettibili di revisione nel momento in cui emergesse un’evidenza di tipo diverso. Ne deriva un atteggiamento molto più aperto all’intervento pubblico in economia di quanto le socialdemocrazie europee siano state disposte a concedere nei primi decenni successivi alla fine della Guerra fredda. Ma nessuna preclusione di principio verso l’impresa privata. Nel «socialismo classico» l’impresa privata semplicemente non aveva ragione di esistere, dato che il rapporto fra lavoratore e proprietario del capitale privato si configurava come «sfruttamento» (l’unica cosa somigliante a un’iniziativa economica privata di una certa rilevanza era l’impresa familiare agricola: singole famiglie potevano prendere in gestione un lotto di terreno appartenente a una cooperativa o a un’azienda agricola statale, per poi venderne i prodotti direttamente ai consumatori al dettaglio. Ma si trattava, appunto, di imprese familiari, che non contemplavano rapporti di lavoro salariato). Lo stesso pragmatismo si applica nella scelta del mercato concorrenziale come strumento principale di allocazione delle risorse. Il che non significa che specifici ambiti, come ad esempio quello dell’istruzione e della sanità, non possano funzionare avvalendosi di sistemi di coordinamento differenti.

c) I contributi neosocialisti degli anni recenti provengono da economisti con background teorici diversi. È noto che alcuni dei padri dell’economia neoclassica, da Knut Wicksell fino a Kenneth Arrow, avessero simpatie socialiste. Il grande economista austriaco, e feroce antisocialista, Ludwig von Mises sosteneva che «persone con idee diverse sulla natura e le origini del valore economico» – intendeva: anche gli economisti che non condividono la teoria marxista del valore-lavoro – «possono essere socialiste sulla base dei loro sentimenti». Ma all’epoca del socialismo reale le contrapposizioni teoriche e quelle politiche tendevano a sovrapporsi con una certa facilità. Oggi il campo degli economisti neosocialisti si caratterizza per una – a tratti sorprendente – pluralità nelle scuole di pensiero cui fanno riferimento i suoi protagonisti.

Sintetizzando ulteriormente questi spunti, un elemento trasversale nelle proposte dei «nuovi socialisti» è la propensione verso soluzioni pratiche che attingono, con eclettica disinvoltura, alla tradizione liberale e a quella democratica, oltre che a quella socialista. Intervenendo nel dibattito sulla possibile riforma dei sistemi del socialismo reale negli anni Sessanta del Novecento, l’economista marxista Maurice Dobb ammoniva che «cambiare un sistema economico non è come preparare un dolce e una torta»: non si possono mischiare liberamente gli ingredienti sulla base dei propri gusti.

I neosocialisti contemporanei non sembrano troppo preoccupati di scegliere ingredienti assai diversi fra loro per preparare la propria torta. Dopo il sewer socialism, è in arrivo un cake socialism?


*Emilio Carnevali è professore associato di Economia politica presso il Dipartimento di Scienze economiche e statistiche dell’Università di Salerno.
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