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È il tasso di interesse, bellezza!
di Sergio Cesaratto e Antonino Iero
Pubblichiamo un post di Sergio Cesaratto, professore ordinario di Politica monetaria e fiscale nell’Unione Monetaria Europea, Università di Siena, e Antonino Iero, staff Direzione Regolamentazione e Studi Economici gruppo Unipol*
Nel pieno della polemica di queste settimane, il commissario europeo Pierre Moscovici ha affermato: “Una manovra che aumenta il debito pubblico che è già 132%, il cui rimborso annuale ammonta a 65 miliardi l’equivalente del bilancio per l’istruzione, e che pesa 1.000 euro a italiano, non è bene per il popolo. È il popolo che paga ed è il popolo che rimborsa. Sono i più vulnerabili” (La Repubblica, 26 ottobre 2018). La ricetta di Moscovici, presentata come puro buon senso dalla maggior parte degli opinionisti, consisterebbe nell’abbattere il debito pubblico per abbattere la mole di interessi. O viceversa? Due cose oltre a tasse e funerale sono certe: le manovre di abbattimento del rapporto fra debito pubblico e PIL sono una fatica di Sisifo, in quanto spesso deprimono il denominatore più che il numeratore. La spesa per interessi non è una “variabile indipendente”, un fattore ineluttabile: i tassi di interesse li fanno le banche centrali e non i mercati, a meno che questi vengano lasciati operare liberamente.
Un altro commentatore, Carlo Bastasin (2018), nel passato spesso molto lucido, ha scritto che alla tesi che l’austerità sia stata responsabile dell’”aumento di circa 33 punti percentuali del debito pubblico tra il 2008 e il 2016, non corrisponde a un’analisi appena approfondita. Sono sufficienti pochi calcoli per verificare che l’aumento del debito è in larghissima parte attribuibile all’incremento della spesa per interessi sul debito stesso. Altri fattori più tecnici (tra cui quasi 4 punti di Pil in aiuti italiani ai Paesi europei in difficoltà) possono aver contribuito, ma è stata la tensione sui tassi d’interesse, causata soprattutto dall’incertezza sulla permanenza dell’Italia nell’euro, a far esplodere il debito”.
Più che con elevatezza del debito, Bastasin sembra prendersela con il timore di una Italexit. Ma il timore dell’Italexit dipende proprio dall’aumento dei tassi, gli spread ormai ben noti anche alla casalinga di Voghera: una volta superata una qualche soglia fatidica – i “pundit” dell’economia nel 2012 parlavano di un rendimento sui decennali al 7%– per un Paese non ha più senso ricorrere ai mercati, ma la solvibilità e la possibilità materiale di pagare stipendi e pensioni potranno essere garantite solo riappropriandosi della stampa della propria moneta.
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Le false promesse del “capitalismo di Stato”
di Sandro Moiso
Mark Harrison, Ulrich Herbert, Larry Liu, Otto Nathan, Peter Robinett, La politica economica del nazionalsocialismo, Countdown Studi sulla crisi/2, Asterios, Trieste 2018, pp. 270, euro 30,00
Ciclicamente tornano in scena i dibattiti, sia da sinistra in chiave keynesiana che da destra con richiamo orgoglioso ai fasti statalisti del Ventennio, sull’utilità dell’intervento dello Stato nell’economia, esattamente come è avvenuto nei giorni successivi al crollo del ponte Morandi a Genova. Tale dibattito rimuove sempre la funzione ultima dello Stato, relegandolo al ruolo di agente neutrale della regolazione del sistema economico, ma dimenticando che, in realtà, fin dalla sua prima apparizione ha avuto come scopo ultimo quello di garantire che la ricchezza socialmente prodotta forse drenata quasi esclusivamente verso un solo polo della società: quello dei detentori dei mezzi di produzione, siano questi ultimi sotto forma di capitale costante oppure di capitali finanziari. Siano questi rappresentati da individui, aziende, società per azioni o partiti.
Lo dimenticano anche coloro che si esaltano per i “socialismi nazionali”, dimenticando così che dall’URSS di staliniana memoria a tutti gli altri esperimenti condotti in seguito, dalla Cina al Sud America, tale nazionalizzazione degli apparati produttivi ha svolto la funzione di un’accumulazione capitalistica primigenia giunta in ritardo, ma poi svoltasi spesso, anche se non sempre, in maniera accelerata rispetto a quella originale dell’Occidente. Appare così utile, ai fini di una riflessione più ampia e meno superficiale, la pubblicazione del testo della casa editrice Asterios di Trieste, nella collana Countdown -Studi sulla crisi /2, dedicato alla disanima della politica economica nazionalsocialista.
Countdown, il cui sottotitolo recitava e continua a recitare Studi sulla crisi, è stata fin dalla sua prima comparsa nel 2016, all’epoca per le edizioni Colibrì, una rivista attenta ai motivi della crisi economica che travaglia l’economia mondiale da diversi anni a questa parte, che ha indagato con articoli quasi sempre legati ad una lettura non ‘ufficiale’ e non superficiale della stessa.
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Brexit, prendere tempo per non perdere spazio?
Giuseppe Molinari intervista Marco Veronese Passarella
Dagli scorsi mesi stiamo prestando particolare attenzione ai processi che stanno determinando un sostanziale cambiamento del quadro politico, economico e sociale internazionale. Sono sempre più evidenti quelle espressioni di rifiuto dello status quo all’interno della composizione sociale che, connesse ad una crisi che sembra infinita e a conflitti intercapitalistici più o meno diretti, ridefiniscono l’ordine mondiale: la globalizzazione è messa in discussione, così come il predominio secolare degli Stati Uniti, mentre l’Unione Europea vive al suo interno sempre maggiori contraddizioni, a partire da quanto sta succedendo in Gran Bretagna.
* * * *
Ne parliamo con Marco Veronese Passarella, a cui chiediamo, alla luce delle trattative tra governo britannico e Commissione europea, com’è orientato, ad oggi, il dibattito interno in Gran Bretagna? L’attesa prolungata e la mancata determinazione di una soluzione definitiva ha portato ad un rafforzamento delle posizioni moderate – nelle scorse settimane, per esempio, ci sono state alcune manifestazioni di piazza a favore dell'indizione di un nuovo referendum - o il sentimento pro-Brexit continua ad essere preponderante?
Nelle scorse settimane sono scesi in piazza i cosiddetti “ceti medi riflessivi”, ovvero coloro che vivono la Brexit con un certo senso di colpa e che sono ancora ottimisti sul possibile risultato di un secondo referendum. Va ricordato, innanzitutto, che il referendum del giugno 2016 fu una scelta fatta dai Tories per cercare di arginare e annullare l’Ukip e riportare quella massa di elettori nel recinto conservatore; da questo punto di vista l’operazione è riuscita, anche se, come abbiamo visto, ha determinato un esito diverso, incontrollabile per gli stessi conservatori.
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“Senza la lotta anti-imperialista, la lotta per l’accoglienza dei rifugiati è incompleta”
di Said Bouamama
Gli europei devono stringere la cinghia e sentono parlare la crisi dei rifugiati ogni giorno. Di conseguenza, il Vecchio Continente si sta lacerando. Da un lato, abbiamo coloro che vogliono una politica di migrazione più decisa. Dall’altro, quelli che denunciano una mancanza di umanità. Tutto sul fondo dell’ascesa dell’estrema destra. Per Said Bouamama, autore del “Manuel stratégique de l’Afrique” (Manuale Strategico dell’Africa, ulitmo libro delle edizioni Investig’Action) stiamo vivendo un punto di svolta storico. Un processo di fascistizzazione è in corso e non dovrebbe essere preso alla leggera. Ma il sociologo spiega anche come fermarlo.
* * * *
Grégoire Lalieu : In tutta Europa e negli Stati Uniti stiamo assistendo a un’espansione dei movimenti di estrema destra. Quali sono le cause di questa emergenza?
Saïd Bouamama : Le cause sono molteplici. Primo, siamo in una nuova fase storica che può essere descritta come la più grande regressione sociale dal 1945. Non è una semplice piccola crisi che avrebbe portato alcune misure di austerità. Siamo davvero di fronte a un’offensiva ultra liberale partita dagli Stati Uniti che ha raggiunto l’Europa da trent’anni.
I famosi anni Reagan-Thatcher …
Assolutamente. Ma insisto, viviamo una nuova fase storica, perché il progetto non è più lo stesso. Non si tratta più di tagliare un certo numero di conquiste sociali con l’austerità. Ciò che è al lavoro oggi è la messa in discussione dell’equilibrio derivante dai rapporti di forza dopo la seconda guerra mondiale.
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Nodi irrisolti
di Elisabetta Teghil
2007-2017/ dieci anni di femminismo ovvero come il femminismo si è consegnato nelle mani del nemico
Il femminismo è di gran moda. Se ne fa un gran parlare, non c’è canale televisivo, quotidiano, rivista, sede istituzionale o paraistituzionale che non parli di femminicidio, che non nomini la violenza sulle donne, da quella sessuale agli abusi sul lavoro, dalla necessità delle quote di rappresentanza femminili, di qua o di là, alla disparità di trattamento economico e via discorrendo. Si vendono le cuffie con le orecchie rosa, le borse con il simbolo di genere perfino nei mercatini rionali. Detto così sembrerebbe un gran bene. Invece il “femminismo” che va per la maggiore, svuotato di ogni valenza antagonista e liberatoria, diventato merce e strumento delle logiche di dominio, sta portando ai resti il femminismo tutto.
E’ stato un lungo percorso che si è dipanato dalla fine degli anni’70 fino ad oggi e nella deriva a cui siamo giunte ha una parte importantissima la scelta politica di non affrontare e risolvere alcuni nodi fondanti: la sorellanza, l’emancipazione, la trasversalità, l’interclassismo, il conflitto.
Tra la fine degli anni ’60 e gli anni ’70 le donne hanno scoperto di essere tutte sorelle nella consapevolezza della comune oppressione. Non più un problema femminile, dunque, di cui tutti quelli che avevano a cuore una società migliore avrebbero dovuto e voluto occuparsi, non più una carenza di attenzione e di diritti a cui la società avrebbe dovuto porre rimedio, bensì una questione strettamente legata ad un modello socio-economico, il patriarcato, assunto e affinato dalla società del capitale, che prevedeva ruoli sessuati precisi, gerarchicamente impostati, in cui il maschile veniva costruito come dominante e il femminile dominato per una resa ottimale degli individui messi al lavoro in una divisione precisa dei compiti e con uno sfruttamento differenziato e gerarchico.
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Il cadavere nel pozzo
di Il Pedante
Restando sul tema che ha motivato la sospensione di questo blog, ho seguito con interesse le risposte date dall'onorevole Stefano Patuanelli, capogruppo M5S al Senato, al pubblico di una trasmissione locale andata in onda il 26 ottobre scorso a proposito del disegno di legge n. 770, che porta la sua firma. Il DDL, che si candida a sostituire la legge Lorenzin in tema di vaccinazioni obbligatorie e il cui testo è oggetto di audizioni in Senato in questi giorni, è già stato qui criticato in quanto, collocandosi in perfetta continuità con la norma varata dal governo precedente, ne moltiplica i difetti e ne amplia la forza sanzionatoria, la portata, i destinatari.
Ai lettori - fortunatamente pochi - che ancora si interrogano su quanto sia giustificata l'attenzione ormai quasi esclusiva che dedico al nuovo obbligo vaccinale, dovrebbe bastare il fatto che in tutta la storia d'Italia - inclusa, quindi, quella caratterizzata da ondate epidemiche oggi sconosciute - non si era mai assistito a un'imposizione farmaceutica di massa di queste proporzioni e alla collegata limitazione dei più elementari diritti sociali. Come è logico aspettarsi, la riduzione dei casi di malattie infettive si era invece accompagnata, fino all'anno scorso, a un progressivo allentamento dei già blandi obblighi di vaccinazione senza peraltro incidere negativamente sulle coperture. O dovrebbe ancora prima bastare l'altrettanto inaudita pressione ricattatoria esercitata sui professionisti della sanità che - lo ripetiamo: per la prima volta nella storia nazionale - devono oggi temere provvedimenti disciplinari qualora, in scienza e coscienza, fornissero ai propri assistiti il «consiglio di non vaccinarsi». Ho descritto gli intuibili effetti che questa militarizzazione del personale sanitario sta producendo sull'indipendenza dei medici e quindi sulla fiducia dei pazienti - e quindi sulla loro salute - nel libro Immunità di legge.
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Rapporto su una guerra già da lungo tempo in atto
di Sandro Moiso
Tra il 5 e il 7 ottobre si è svolto nel Salento un workshop internazionale dal titolo “Policing extractivism: security, accumulation, pacification”, già precedentemente annunciato su Carmilla (qui). Nata dalla collaborazione tra il Movimento No Tap, il Transnational Institute, l’Associazione Bianca Guidetti Serra – Puglia e l’Università del Salento-Cedeuam, l’iniziativa, chiusasi con un’assemblea popolare a Melendugno nel pomeriggio di domenica 7 ottobre, ha visto la partecipazione di accademici, rappresentanti di vari movimenti in difesa dei territori sconvolti dallo sfruttamento intensivo delle risorse minerarie o agricole oppure da grandi opere inutili e dannose e di organizzazioni internazionali che si battono in difesa della Terra e dei diritti dei popoli che la abitano, che hanno dato vita e corpo ad un programma e a un dibattito intenso e mai scontato.
L’attività del workshop, che è stata preceduta il 4 ottobre da una visita al cantiere di San Basilio da parte di una folta delegazione internazionale, ha visto rappresentato al proprio interno gran parte del mondo occidentale, considerato che sia gli accademici che i militanti dei movimenti e delle differenti organizzazioni (tutte rigorosamente apartitiche) provenivano dall’Italia, dalla Francia, dal Regno Unito, dall’Olanda, dal Canada, dagli Stati Uniti, dal Perù e dall’Argentina e, pur con le dovute differenze e specificità locali e nazionali, ha potuto dare vita ad un confronto sui temi dell’estrattivismo inteso come sfruttamento sia agricolo che speculativo dei suoli sia, ancora, come estrazione vera e propria di ricchezza dall’uso dei sottosuoli tramite l’estrazione di materie prime (gas e petrolio in primis), mettendo costantemente in luce come tale accaparramento privato delle ricchezze così prodotte non solo vada a colpire economicamente le comunità interessate, ma anche, e forse in maniera ancora più dannosa, l’ambiente e il futuro delle stesse, locali o nazionali che esse siano.
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La statizzazione del capitale nell'Anti-Dühring
di Enrico Galavotti
Engels faceva bene a dire nell'Anti-Dühring che “né la trasformazione in società anonime, né la trasformazione in proprietà statale sopprime il carattere di capitale delle forze produttive”. Che cos'è infatti una “società anonima”? È la possibilità di acquistare, da parte di chiunque disponga di capitali, di quote azionarie di una qualsivoglia azienda quotata in borsa.1
Chi compra è già un “capitalista” (anche se non ha un'azienda con operai da sfruttare); lo è perché beneficia indirettamente di un modo di produzione che lo precede nel tempo, e siccome ha fatto sua l'ideologia che lo giustifica, si aspetta che il suo investimento produca interessi significativi. Può anche non far nulla per far maturare questi interessi. Può, se ha un'impresa, affidarne la gestione a manager specializzati. Ma pretende continue rendicontazioni, in quanto, al primo accenno di crisi, vuol poter decidere liberamente sul destino delle proprie azioni. La proprietà quindi può essere suddivisa tra i capitalisti azionari (i cui nomi, peraltro, non sono resi pubblici), di cui hanno voce in capitolo solo i più importanti, quelli che hanno fatto gli investimenti più significativi (il peso delle decisioni è in stretto rapporto alle quote possedute, anche se nelle assemblee generali periodiche s'invitano tutti gli azionisti). La gestione della società è tutta capitalistica.
Lo stesso avviene a livello statale. Quando lo Stato partecipa direttamente allo sfruttamento dei lavoratori, lo fa in nome del capitalismo nazionale, offrendo p.es. capitali per le ristrutturazioni, gestendo imprese troppo grandi per i singoli imprenditori, salvando (o nazionalizzando) situazioni disperate...
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Gli ex combattenti della Grande guerra e l’"orrido" sovranismo piccolo-borghese
Analogie ed errori a cent’anni di distanza
di Domenico Moro
“Coloro che non ricordano il passato sono costretti a ripeterlo”
George Santayana
Gli errori di cento anni fa
Cento anni fa aveva termine la Prima guerra mondiale. L’Italia ne uscì vittoriosa. Tuttavia, per assecondare le mire imperialiste del grande capitale industriale, pagò un prezzo molto superiore persino a quello della Seconda guerra mondiale: oltre 650mila caduti, centinaia di migliaia di feriti e mutilati e più di mezzo milione di vittime civili. Inoltre, la guerra provocò una crescita repentina ma squilibrata dell’industria, e, grazie agli enormi profitti e alle sovvenzioni statali, una fortissima centralizzazione del potere economico.
I quattro milioni di ex combattenti, dopo quattro anni di morte e sofferenza nelle trincee, ritornarono alle loro case ma non trovarono lavoro. Nelle città era difficilissimo riconvertire a scopi civili la ridondante industria bellica. Nelle campagne i proprietari avevano sostituito la forza lavoro partita per la guerra con moderni macchinari e non volevano espandere la produzione a causa della riduzione della domanda interna.
La guerra aveva scavato un solco tra le élite e le masse e l’Italia era attraversata da contraddizioni profonde che svilupparono ampie lotte sociali e democratiche. Il Partito socialista vinse le elezioni del 1919 con il 32,28% dei voti, seguito dai Popolari al 20,3% e dai Liberali al 15,9%. Inoltre, tra 1919 e 1920 il Paese fu attraversato da un imponente movimento di occupazione delle fabbriche. Eppure, nel giro di pochi anni la reazione capitalistica portò all’affermazione di una forza nuova, il fascismo, che la sinistra non riuscì a contrastare.
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Il popolo non esiste
di Michele Filippini
Una riflessione per sottrarre il pensiero di Laclau alle derive sovraniste e alla subalternità alla destra
È ormai difficile negare che l’Italia si trovi in un “momento populista”, caratterizzato dall’emergere di forze politiche nuove, nuovi discorsi politici e nuova costruzione di senso comune. Si tratta di una fase che, in altri tempi e con altra sensibilità, Antonio Gramsci aveva chiamato «guerra di movimento», un «interregno», una fase di passaggio verso la successiva stabilizzazione egemonica di un ordine. La rapida ascesa di partiti e personalità nuove (M5S, Salvini), l’altrettanto rapida caduta di altre (Monti, Renzi), l’elevata mobilità elettorale (il M5S che in pochi anni balza al 32,7% o la Lega che passa dal 4% al 32% dei sondaggi odierni) e la politicizzazione estrema di alcuni temi (Europa, migranti, sicurezza) sono tutti segnali di una fase di intensa ridefinizione dello spazio politico, dei soggetti in campo e delle loro parole d’ordine.
In un contesto come questo sembra perdere di significato la contrapposizione che aveva sostenuto quasi tutte le battaglie contro il neoliberismo degli ultimi anni: quella tra un discorso radicale-democratico di attivazione e contestazione del potere, e uno istituzionale governamentale di contenimento attraverso la spoliticizzazione. Al contrario, oggi più che mai il discorso del potere è un discorso populista e radicale, mentre la sua contestazione sembra relegata al piano della critica morale e paternalista. La crisi del neoliberismo ha riattivato le “faglie politiche” sulle quali si costruiscono i soggetti collettivi, e la destra razzista e i qualunquisti nostrani hanno compreso meglio di chiunque altro le opportunità di quest’apertura.
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Lenin. Unità e coerenza del suo pensiero
Postilla all’edizione italiana 1967
di György Lukács
Originariamente apparso in italiano in Lenin. Unità e coerenza del suo pensiero, Einaudi , Torino 1970, ora in L’uomo e la rivoluzione, Edizioni Punto Rosso, Milano 2013
Questo volumetto fu scritto subito dopo la morte di Lenin, senza lavori preliminari, per il bisogno spontaneo di fissare teoricamente ciò che allora mi sembrava essenziale, il centro della sua personalità intellettuale. Perciò il sottotitolo Unità e coerenza del suo pensiero, indicante che intendevo soprattutto riprodurre non il sistema oggettivo, teorico, di Lenin, ma quelle forze motrici, di tipo oggettivo e soggettivo che avevano permesso questa sistemazione, la loro incarnazione nella persona e negli atti di Lenin, senza neppure tentare di spiegare per esteso e per intero questa unità dinamica nella sua vita, nella sua opera.
Se oggi c’è un certo interesse per scritti di questo genere, lo si deve soprattutto alle circostanze particolari di questi tempi. Da quando è cominciata la critica marxista del periodo staliniano, con essa è sorto anche un interesse per le tendenze d’opposizione degli anni venti. Ciò è comprensibile anche se, dal punto di vista teorico e concreto, spesso si commettono eccessi. Per quanto falsa fosse la soluzione data da Stalin e dai suoi seguaci alla crisi allora in corso della rivoluzione, non si può dire che a quel tempo qualcuno offrisse un’analisi, una prospettiva capace di servire anche da orientamento teorico per i problemi delle fasi successive. Chi oggi vuole collaborare utilmente alla rinascita del marxismo deve considerare gli anni venti su un piano puramente storico, come un periodo passato e concluso del movimento operaio rivoluzionario. Solo così potrà valutare giustamente le sue esperienze e i suoi insegnamenti in rapporto alla fase attuale, essenzialmente nuova. Proprio la figura di Lenin, come è regola nel caso di grandi uomini, ha talmente incarnato il suo tempo che i risultati, e soprattutto il metodo delle sue affermazioni e dei suoi atti, possono conservare una determinata attualità anche in circostanze ampiamente mutate.
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Homo Sacer
Antonio Lucci intervista Giorgio Agamben
Il 25 ottobre 2018 è uscita in edizione unica per i tipi Quodlibet l’opera che ha tenuto Giorgio Agamben impegnato per vent’anni, vale a dire il progetto Homo sacer. Questo, apertosi con il volume omonimo, uscito nel 1995, si è concluso, infatti, con quello che porta la numerazione IV.2, L’uso dei corpi, uscito nel 2014. Nei volumi che fanno parte di quest’opera sono stati definiti e introdotti nel dibattito filosofico concetti che poi diverranno patrimonio comune (anche nel loro essere stati spesso oggetto di critiche) della filosofia contemporanea: quello di “sacertas”, di “nuda vita”, di “campo”, di “forma-di-vita”, la dicotomia “bios/zoe”, per nominarne solo alcuni. L’enorme successo in particolare del primo volume del progetto nel mondo anglosassone ha creato le premesse per la diffusione dei dibattiti avanzati da Agamben a livello planetario (Agamben è al momento, con ogni probabilità, il filosofo italiano più conosciuto all’estero), tra i cui effetti di ritorno vi è anche quella che poi sarebbe stata definita Italian Theory, ossia un movimento di autoriflessione e di interrogazione della filosofia italiana sulle proprie categorie fondative, che ha investito anche (e soprattutto) il mondo anglofono – interessato a comprendere come un pensatore come Agamben potesse essere posto in dialogo con altri autori, sempre italiani, che hanno animato i dibattiti teorico-critici dei decenni scorsi (tra tutti Toni Negri e Roberto Esposito).
L’intervista che segue, che si concentra principalmente sul progetto Homo sacer e sulla struttura del volume in uscita, è frutto di una riflessione di chi scrive riguardo alle questioni “architettoniche” dell’opera agambeniana. Oltre a dovere un sincero ringraziamento a Giorgio Agamben per l’occasione di dialogo, vorrei in questa sede ringraziare l’amico Carlo Salzani per i preziosi suggerimenti che mi hanno portato alla formulazione di alcune delle domande presentate.
* * * *
Antonio Lucci: Giorgio Agamben, escono in questi giorni, per Quodlibet, in un’edizione unica i nove volumi di Homo sacer, un lavoro che l’ha tenuta occupata, praticamente, per vent’anni. Lei stesso, nella prefazione all’ultimo dei volumi della serie, L’uso dei corpi, sosteneva che un’opera «può essere solo abbandonata», rifiutando, all’epoca, di mettere la parola “fine” al progetto. In questa edizione completa, Lei vede, a tre anni di distanza dalla pubblicazione dell’ultimo volume del progetto, un lavoro definitivamente chiuso, o qualcosa ancora passibile di integrazioni?
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Le sinistre ai tempi del colera1
(promemoria per populisti smemorati)
di Daniele Benzi
…però bisogna farne altrettanta per diventare così coglioni, da non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni (Fabrizio De André, Storia di un impiegato)
Sono arrivato in America Latina dieci anni fa cercando di sottrarmi alla penosa situazione di disoccupazione e precariato che è toccata alla maggior parte della mia generazione. Ma anche per sfuggire alla sgradevole sensazione di frustrazione ed impotenza che, soprattutto dopo le legnate prese al G8 di Genova nel 2001, mi provocava l’insignificanza politica e l’enorme frammentazione delle sinistre radicali in Europa e in particolare nel mio paese. Molti europei, in effetti, precari e frustrati come me, non certo grandi scienziati o strateghi della rivoluzione come a volte si sono presentati in Venezuela, Bolivia o Ecuador, sono arrivati in America Latina richiamati, o più spesso incantati, dalle sirene della “svolta a sinistra”.
Per formazione e interessi di ricerca, nel bene e nel male ho sempre guardato alla “marea rosa” da un punto di vista regionale e globale, non come una somma di processi e casi nazionali. Ciò mi ha permesso di osservare quotidianamente, specialmente vivendo abbastanza a lungo in un paese periferico nell’economia mondiale come l’Ecuador, certi condizionamenti strutturali e le complessità geopolitiche in cui si sono trovati i governi “progressisti” che spesso sfuggono ai movimenti dal “basso”. Non per questo, tuttavia, la mia posizione e il mio giudizio sono stati più indulgenti o meno critici sui loro limiti, incoerenze e contraddizioni che li hanno condotti alla situazione penosa in cui ci troviamo oggi.
In questo senso, secondo me il dibattito sulla “fine del ciclo” progressista che l’anno scorso e quest’anno ha infiammato inutilmente, credo, molti intellettuali e militanti, intrecciandosi purtroppo con i fatti tragici in Venezuela, è un dibattito chiuso.
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Drago buono, san Giorgio no buono
In margine ai travagli di Travaglio, Di Maio, Draghi…
di Fulvio Grimaldi
Ampia fiducia, massimo rispetto… ma decchè?
Li conoscete, questi mantra, vero? Che uno si senta inquisito a torto o a ragione, non c’è verso che non dichiari urbi et orbi “Ampia fiducia nella magistratura”. Che è, un po’, una captatio benevolentiae di chi dovrà processarlo e, molto, tentativo di accreditarsi all’opinione pubblica illibato al 100%. Dai sodali del dichiarante ciò provocherà plauso commosso, dai suoi avversari ghignante spernacchiamento. Personalmente, per quanto avrei ben donde di dichiararmi fiducioso nella magistratura, visto che l’ho scampata indenne da ben 150 procedimenti per reati di stampa (diffamazioni, apologia di reato e simili) quando ero direttore di Lotta Continua, come da più recenti querele giudicate infondate o temerarie, mi morderei la lingua prima di pronunciare quella formuletta che riconosce ai magistrati un’assoluta purezza di intenti e atti. Per un Borelli e un Davigo abbiamo avuto un Carnevale (“l’ammazzasentenze”), per un Di Matteo, un De Magistris, un Robledo e un Woodcock, abbiamo avuto il famigerato “porto delle nebbie romano” e magistrati perseguitati fino al CSM. E che CSM! Dunque, c’è poco da giurare sulla perfezione di chicchessia, né del primo potere dello Stato, né del secondo e neppure del terzo. E pur sempre lo Stato capitalista della borghesia.
Carta vince, carta perde
E se Marco Travaglio viene condannato a 95mila euro per aver diffamato il padre dell’ex-premier, uno che entra ed esce da inchieste giudiziarie come fossero il bar sotto casa e a Virginia Raggi tocca vivere sotto un gragnuola di denunce e procedimenti, fino ad ora tutti a vuoto; e se i responsabili di grandi avvelenamenti collettivi, di stragi da amianto o da uranio, di bombardamenti su civili serbi, la fanno franca; e se nelle nostre carceri i colletti bianchi sono meno che in qualsiasi altro Stato europeo, a dispetto dei nostri primati in mafia, corruzione, evasione…
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Quando sovranismo fa rima con socialismo
di Carlo Formenti
Che certi termini abbiano assunto questo significato deteriore non è avvenuto a caso. Si tratta di una reazione del senso comune contro certe degenerazioni culturali, ecc., ma il ‘senso comune’ è stato a sua volta il filisteizzatore, il mummificatore di una reazione giustificata in uno stato d’animo permanente, in una pigrizia intellettuale altrettanto degenerativa e repulsiva del fenomeno che voleva combattere>>: così Gramsci nei “Quaderni” (Quaderno 8, § 28, p. 959 dell’edizione critica Einaudi).
Proviamo ad applicare questa citazione all’uso che oggi viene fatto di termini come populismo e sovranismo da parte dei partiti tradizionali, di destra come di sinistra. La parola populismo, che occupa da tempo un ruolo non marginale nella storia del moderno dibattito politico - nel corso della quale ha assunto valenze e significati diversi - è stata “emulsionata” dal linguaggio contemporaneo dei media, i quali l’hanno ridotta a puro strumento di propaganda politica, anatema da scagliare contro ogni forma di opposizione al pensiero unico liberal liberista. Quanto a sovranismo – che è un neologismo di origine relativamente recente (si riferisce originariamente ai movimenti che rivendicavano l’indipendenza del Québec dal resto del Canada) -, ha subito in tempi brevi un destino analogo: è stato adottato dalla langue de bois mediatica per analoghi fini propagandistici, per accreditare cioè l’associazione automatica fra ogni posizione politica che rivendichi la riconquista della sovranità nazionale e l’uscita dall’Unione europea e i nazionalismi di destra.
Chi non si accontenta di tali semplificazioni, e nutre salutari sospetti nei confronti degli interessi che le ispirano, dispone ora di due nuovi strumenti di approfondimento critico: sono usciti, a breve distanza l’uno dall’altro, i libri di Thomas Fazi e William Mitchell (“Sovranità o barbarie. Il ritorno della questione nazionale”, ed. Meltemi) e di Alessandro Somma (“Sovranismi. Stato, popolo e conflitto sociale”, ed. DeriveApprodi) che smontano, il primo le narrazioni sull’inesistenza di alternative al mondo globalizzato, il secondo quella che attribuisce alla Ue il ruolo di baluardo della democrazia contro il ritorno dei nazionalismi.
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“Scritti sull’alienazione” di Karl Marx
di Paolo Missiroli
Recensione a: Karl Marx, Scritti sull’alienazione. Per la critica della società capitalistica, Testi scelti e introdotti da Marcello Musto, Donzelli, Roma 2018, pp. 160, 18 euro (scheda libro)
Esattamente duecento anni or sono, in una non enorme casa nel centro di Treviri, una non grande città nell’allora non esteso Regno di Prussia, nasceva Karl Marx.
Non eccessivamente ricca la sua famiglia, non troppo noto il suo cognome, non incredibilmente colti i suoi genitori. Tutte le caratteristiche per descrivere l’inizio di una vita nella media, si direbbe. Invece, come tutti sanno ancora oggi, infinita sarebbe stata la sua fortuna. Di Marx appena ventiquattrenne si diceva:
“Immaginati Rousseau, Voltaire, d’Holbach, Lessing, Heine e Hegel fusi in una sola persona. Ecco il dottor Marx.”
Questo ragazzo di Treviri avrebbe ridisegnato i confini del mondo e dell’analisi di esso.
Ma forse, ancora più dell’Ottocento, è il Novecento il secolo di Marx. Dopo quel secolo (breve o lungo che sia stato), cosa possiamo farcene di Marx? Perché continuiamo a parlare di lui? Come è possibile che molti, leggendo le sue pagine oggi, rimangano ancora folgorati dalla realtà di cui parla, che essi percepiscono come la loro realtà, la nostra realtà? In fondo, spesso lo si sente dire, Marx è morto nel 1883. Tutto quello di cui parla non è forse (ammesso che fosse vero il suo dire) finito, terminato? Per andare avanti, non bisogna forse, dimenticare Marx?
È curioso come, al contrario di questi discorsi, lo spirito di Marx soffi più forte, oggi, nel 2018, che poco più di una decina di anni fa. Marx scorre potente nel pensiero contemporaneo, per alcuni non abbastanza, certo, ma ha di nuovo un peso.
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Pianificabilità, pianificazione, piano
di Ivan Mikhajlovič Syroežin
Capitolo 2 - All’origine della pianificabilità
Introduzione di Paolo Selmi
L’immagine di copertina questa volta ha più a che vedere con il sottoscritto e col suo appuntamento al buio, dopo oltre venticinque anni di spensierata e ignorante lontananza, con il magico mondo della matematica. Tutto sommato, sono contento di essermi difeso con onore anche in questa parte non semplice. In questo capitolo, infatti, il buon Syroežin pensa bene di portarci in corda doppia su passaggi non agevoli, almeno per me. Tuttavia, oltre a ringraziare il fatto di non andare malaccio nella materia, di avere quindi un fondo atletico minimo (anche se, riprendendo il manuale di analisi di quinta, ho avvertito un groppo alla gola non indifferente), oltre che non mollare mai per natura (nonostante spesso mi sentissi molto più come il tizio in maglione della foto, più che quello in camicia), ringrazio anche il fatto che il Nostro corre poco, verrebbe da dire quasi il minimo sindacale, si ferma ad aspettare, e nel prosieguo delle sue dimostrazioni riprende concetti già espressi poc’anzi, quasi a volerti incoraggiare, a dire che si, hai capito bene, oppure che no, è meglio se rileggi di nuovo quel manuale che ti sei bellamente scordato, e recuperi prima qualche concetto di base perso per strada.
Questa foto mi è piaciuta, come penso anche che sarebbe piaciuta a un grande della fotografia del secolo scorso, Robert Doisneau, anche per altri motivi: questa scena di vita quotidiana universitaria, di giovani sovietici ripresi durante la preparazione di un esame sicuramente “tosto”, non si stanno facendo le scarpe tra di loro, puntando a quella spietata scrematura del péloton, frutto di una “selezione naturale” che può fare da noi Analisi I, Lingua e Letteratura Giapponese I, o il Mortirolo, piuttosto che lo Zoncolan, presi a trenta all’ora sin da sotto le pendici. Al contrario, si aiutano. C’è chi ci arriva subito e chi ci metterà decisamente di più, tuttavia alla fine con il dovuto impegno ci arriveranno tutti. Anche questo è socialismo, e ho avuto la fortuna e l’onore di sperimentarlo in prima persona studiando cinese con professori cinesi e italiani in tempi molto diversi da questi.
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Indietro non si torna... purtroppo
di Alfonso Geraci e Marco Palazzotto
Dopo Nuovo PCI e Sinistra Anticapitalista, anche il PRC ha abbandonato il progetto PAP. Il documento votato dal CPN di Rifondazione non suscita entusiasmi, ma anche noi – che abbiamo condiviso per un anno il cammino di Potere al Popolo – abbiamo lasciato PAP dopo la votazione sui due statuti contrapposti, ritenendo (con motivazioni e preoccupazioni in buona misura diverse da quelle espresse dalla mozione di cui sopra) che si sia giunti a un capolinea, e che PAP abbia costruito e “blindato” un meccanismo di funzionamento sbagliatissimo e che rende molto difficile se non impossibile al singolo militante partecipare coscientemente ed efficacemente alla vita dell’organizzazione. Queste nostre riflessioni intendono avviare un dibattito, per cui auspichiamo che sia i compagni che proseguiranno il percorso di PAP che quelli che l’hanno abbandonato vogliano intervenire. [AG, MP]
Potere al Popolo prevede il potere al popolo?
La festa appena cominciata è già finita… (Sergio Endrigo)
Lo scorso 9 ottobre si sono concluse le consultazioni svolte nella piattaforma informatica di Potere al Popolo che hanno sancito, secondo il comunicato dello stesso movimento (qui maggiori dettagli ), la vittoria dello statuto 1 – sostenuto dalle componenti dell’Ex OPG occupato “Je so’ pazzo” e Eurostop – sullo statuto 2 – sostenuto invece dal PRC, ritirato all’ultimo momento dagli estensori e rimasto comunque online per il voto dopo la decisione della maggioranza del coordinamento nazionale provvisorio.
Hanno votato a favore dello statuto 1 circa 3300 persone su più di 9000 iscritti e quindi il 37% circa degli aventi diritto, e pari al 55% degli utenti attivi.
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Per una critica socialista dello Stato liberale di diritto: note sparse
di Mattia Gambilonghi
1. Origini e caratteri essenziali
Principale punto d’approdo di quel filone contrattual-razionalistico che, agli albori della modernità, aveva cominciato a ridisegnare la politica in senso individualistico e antiorganicistico, ponendo al centro del proprio progetto il Soggetto per eccellenza – quello borghese – e definendo i termini di una mediazione razionale tra individui capace di dar vita ad un artificio politico – lo Stato – incaricato di tutelare questi ultimi e i loro diritti naturali, lo Stato liberale di diritto rappresenta la forma di Stato che contrassegnerà lo scenario europeo dalla Rivoluzione francese alla fine della Seconda guerra mondiale.
Il fatto di nascere e svilupparsi da un lato in reazione all’ordinamento cetuale e particolaristico proprio dell’Ancien regime, e dall’altro al fine di razionalizzare politicamente e dare una veste di diritto pubblico ad una società mercantile che vede oramai il motore del proprio sviluppo in quello “scambio di equivalenti” reso possibile dalla reciprocità strutturalmente connessa all’istituto giuridico del contratto – autentico perno delle società proto-liberali e proto-capitalistiche[1] –, fa sì che i caratteri che sin da subito contraddistingueranno lo Stato liberale di diritto siano quelli dell’astrattezza, della generalità e dell’uniformità, veri e propri «punti salienti [del] programma politico-ideologico» della Rivoluzione francese[2]. La modernità giuridica sente infatti in maniera quasi ossessiva la necessità di “semplificare tutto”, riprendendo le parole del giurista di età napoleonica Jean-Étienne-Marie Portalis: non più la molteplicità di corpi, fonti del diritto e regimi giuridici, ma una società (presunta) omogenea composta da individui dotati di una eguale capacità giuridica. È evidente come il carattere dell’astrattezza investa in primo luogo i tratti e le qualità proprie dei soggetti politico-giuridici posti al centro dei nuovi ordinamenti, dei soggetti che idealtipicamente ricalcano una precisa e storicamente determinata figura sociale, quella dell’individuo-proprietario, il bourgeois[3].
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Marx un cane morto?
di Salvatore Bravo
L’accettazione del sistema sociale vigente quale unico possibile è il volto abbagliante dietro il quale si cela la sua verità, l’abbaglio è il disorientamento, il turbocapitalismo vive e si espande nella caduta del senso critico, nella rinuncia individuale e di massa al riorientamento disalienante verso la condizione disumana a cui, tutti, sono sottoposti, malgrado le innegabili differenze delle condizioni materiali. Naturalmente la sua ideologica fatalizzazione consente al capitale trasformato in motore della Storia collettiva ed individuale di essere il vero protagonista delle storie, in quanto la storia è nel concreto il luogo delle scelte individuali che si aprono all’alterità per fondare la comunità. Le storie con il vociare del possibile sono sostituite con velocità crescente di ordine geometrico dal capitale, il quale divenuto ipostasi non riconosciuta, ed in forza omologatrice delle storie individuali. Le vite divengono in quanto abitate dal capitale indifferenziate, non hanno che gli stessi attributi del valore di scambio, così come le merci sono valore di scambio e dunque astratte perché hanno perso il valore d’uso, nella stessa maniera i soggetti sono posti tutti sulla stessa linea indifferenziata, essi sono tempo astratto, e quindi il valore di ciascuno passa per le forche caudine della rinuncia alla propria individualità in favore di criteri astratti di quantificazione. Il tempo di lavoro di ciascun individuo è sottoposto alla legge comune a tutti, ogni individualità è soppressa, svuotata perché serva del tempo astratto, ovvero del tempo dedicato alla produzione ed al consumo coatto.
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Considerazioni su Potere al popolo dopo la votazione sugli statuti
di Enzo Gamba
Il progetto politico mantiene la sua validità ma rimane il rischio di perdere, per l’ennesima (forse l’ultima?) volta, una grande occasione
In questo ultimo anno, complici le iniziative fiorite e sfiorite al Brancaccio, si è dibattuto molto sul problema di quale dovesse essere il progetto politico dell’immediato futuro per la sinistra di classe e per i comunisti in particolare. Era necessario ragionare e discutere per chiarire ciò che si dovesse fare, al fine di invertire l’andamento della lotta di classe - ormai agìta quasi sostanzialmente solo dal capitale - di ricompattare la classe dei lavoratori salariati e subordinati (gli sfruttati) e dei loro possibili alleati sociali, per cominciare a cambiare e risalire la china.
Si era fatta strada tra molti compagni l’idea che dovessimo pensare ad una ipotesi politica che individuasse in un “movimento politico organizzato” il soggetto politico unitario che, sulla base di un “programma minimo”, di fase, agisse e si muovesse sulla scena politica della lotta di classe nel nostro paese; movimento politico dove i comunisti avrebbero potuto nuovamente riprendere il legame con la classe e riattivare nel contempo il loro patrimonio teorico politico. Né quindi un nuovo partito ideologico dei comunisti, né l’ennesimo tentativo di “intergruppi” sotto l’etichetta delle “sinistre unite”, né una federazione associativa di vari e diversi movimenti perlopiù monotematici. L’avvio di un percorso unitario con la nuova proposta di Potere al Popolo! sembrava rispondere non solo a queste esigenze, ma rappresentava una concreta articolazione di tale progetto politico. Il Manifesto fondativo di PaP era lì a dimostrarlo e anche le principali organizzazioni comuniste avevano dato il loro fattivo assenso.
Ciò che però è successo in PaP in questi ultimi tempi impone, oggettivamente, di entrare nuovamente nel merito della questione, non tanto delle posizioni che si sono confrontate, ma degli elementi e aspetti peculiari del progetto politico che, a nostro avviso, avrebbero dovuto e dovrebbero sostanziare PaP e che sotto traccia hanno condizionato in modo negativo il confronto.
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L'elogio di Salvini a Bolsonaro
Una discussione tra Piemme e Fabrizio Marchi
* * * *
Che ci dice l'elogio salviniano di Bolsonaro
di Piemme
Fabrizio Marchi su l'interferenza dice l'essenziale del neopresidente del Brasile Jair Bolsonaro:
«Bolsonaro è la sintesi del peggio che possa esistere al mondo. Ammiratore di Hitler per sua stessa ammissione, nostalgico delle feroci dittature militari (sponsorizzate e armate dagli USA) che per quasi mezzo secolo hanno letteralmente insanguinato l’intero continente latinoamericano, ultra filosionista (in una delle sue primissime dichiarazioni ha annunciato la decisione di chiudere l’ambasciata palestinese), ultraliberista in politica economica, omofobo, integralista religioso (più per opportunismo che per fede…), seguace fanatico delle sette evangeliche che dagli Stati Uniti stanno da tempo colonizzando l’America Latina, filo americano, antisocialista e anti comunista viscerale, appoggiato da Trump, Bannon, e naturalmente da Netanyahu e da tutta la destra e l’estrema destra sud e nord americana, israeliana ed europea, Bolsonaro è il simbolo della “riscossa” reazionaria in America Latina».
Non dice, Marchi, le immense responsabilità che un quindicennio di governi del PT lulista hanno avuto nel causare la vittoria di questo energumeno — politiche liberiste che hanno accresciuto a dismisura le già enormi diseguaglianze sociali, una gestione nepotistica e corruttiva del potere.
Ma non è questo adesso il punto; condividiamo del pezzo del Marchi il ribrezzo per lo sconcio e sguaiato appoggio che Salvini ha promesso a Bolsonaro.
Con l'esaltazione di Bolsonaro Matteo Salvini ha compiuto un'altro passo o strappo per attestare la sua Lega nel campo della destra reazionaria —alla faccia di certi amici che ce la menano col discorso che sarebbe finita la "dicotomia sinistra-destra": la verità è che più la sinistra si imputridisce e s'inabissa nel campo liberale, più le destre avanzano, per di più secernendo le pulsioni più antidemocratiche.
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Disarmare il capitale
L'alternanza scuola-lavoro secondo Roberto Ciccarelli
di Tiziana Drago
È intorno al centro traumatico del culto del capitale che ruota l’ultimo libro di Roberto Ciccarelli, Capitale disumano. La vita in alternanza scuola lavoro, manifestolibri, 2018. La mostruosità di un universo tutto risolto in un profitto onnivoro e feroce, il massacro dei desideri individuali e collettivi, quel groviglio di vulnerabilità, acredine e impotenza che imbriglia i tentativi di disarticolare la bulimia del sistema. E, insieme, l’impresa titanica di immaginarne lo sgretolamento. Chi non avesse letto i precedenti lavori dell’autore (Forza lavoro. Il lato oscuro della rivoluzione digitale, DeriveApprodi, 2018 e, insieme a Peppe Allegri, La furia dei cervelli, Manifestolibri, 2011 e Il quinto stato. Perché il lavoro indipendente è il nostro futuro, Ponte Alle Grazie, 2013) troverà ora una porta di accesso non meno preziosa a un immaginario così angolato e delineato e insieme così proliferante e inesauribile. Nel presente inasprito e rancoroso che ci tocca, questa dedizione incondizionata e in controtendenza è un ethos limpido e inattuale, una forma del desiderio di cui è difficile trovare esempi, proprio perché assoluta e non negoziabile: cosa rarissima in un mondo in cui desiderio e adattamento sono diventati sinonimi. D’altra parte, i bei libri si coniugano sempre al futuro e ci chiedono di interrogarci, più che su cosa siamo stati, su cosa potremmo ancora essere («questo libro è un esercizio etico per prendere le distanze da ciò che siamo, aprendoci alle possibilità non ancora determinate dalle verità di qualcuno e imposte alla vita degli altri, ma presenti nel nostro vivere insieme»: p. 11).
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Rotta di collisione
intervista a Leonardo Mazzei
Il rifiuto italiano di piegarsi ai diktat della Commissione europea e lo scontro che ne deriva è una delle questioni più dibattute in Germania. Il sito tedesco Makroskop ha rivolto a Leonardo Mazzei alcune domande. Qui sotto l'intervista
La commissione europea ha rifiutato il budget italiano definendolo una “deviazione senza precedenti” dai patti. Perché questa durezza?
La "deviazione senza precedenti" è un'esagerazione evidente. Negli ultimi quarant'anni solo 4 volte il rapporto deficit/pil è stato più basso del 2,4% previsto dal governo per il 2019. Anche nei due anni della massima austerità (governo Monti) questo rapporto fu al 3%. La posizione della Commissione europea, che oggi è arrivata a bocciare il Documento programmatico di bilancio italiano, si spiega solo politicamente. Si vuole colpire in maniera dura un governo che, pur senza attuare una netta svolta verso politiche espansive (come sarebbe stato invece necessario), ha deciso però un'inversione di tendenza rispetto alle politiche austeritarie.
La risposta italiana sembra ferma. È inevitabile una escalation?
La maggioranza di governo non può permettersi una retromarcia. Sarebbe un disastro politico. Essa sta cercando di realizzare dei risultati concreti - pensioni, reddito delle fasce più povere, fisco - senza arrivare allo scontro frontale con l'UE. Ma questa ricerca di un compromesso non è stata accolta a Bruxelles, anzi. L'escalation sembra dunque l'ipotesi più probabile.
Rimane comunque uno spazio per un compromesso? Conte ha detto che forse posticiperanno alcune spese. Un cambio di alcuni decimali non sembra decisivo.
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Il governo piccolo-borghese e antioperaio degli ‘amici del popolo’
di Eros Barone
Per comprendere l’evoluzione (o l’involuzione) della situazione politica del nostro paese, occorre prendere le mosse dalla ristrutturazione dei ‘vincoli esterni’ (UE, USA e BRICS) che, oggi come non mai, ne condizionano il decorso. Da questo punto di vista, la legge di bilancio del governo per il 2019 e l’uso politico delle variabili economico-finanziarie (lo ‘spread’ e il ‘rating’) sono lo specchio fedele di contraddizioni e conflitti del tutto interni alle diverse frazioni della borghesia capitalistica , legati a contrastanti indirizzi politici concernenti il rapporto con i mercati internazionali e con gli attuali schieramenti imperialisti. La crisi economica mondiale ha infatti acuito le fratture esistenti nel sistema capitalistico sia a livello verticale, tra la grande impresa monopolistica e la piccola e media produzione nazionale, sia a livello orizzontale, tra le diverse frazioni (industriale, finanziaria, commerciale) del grande capitale. Pur con tutte le mediazioni che ancora si interpongono (ma che sono destinate a ridursi via via che lo scontro si inasprisce), la Lega e il Movimento 5 Stelle sono per l’essenziale, in quanto “nomenclatura di classi sociali” (Gramsci), 1 l’espressione di tali contraddizioni.
L’attuale fase politica si situa dunque nel quadro di una “crisi organica” 2 della mediazione istituzionale di tipo tradizionale e segna una nuova tappa dello sforzo che da tempo vede impegnate alcune frazioni del blocco dominante sul terreno della ricerca di un’alternativa endosistemica al l’europeismo, cioè alla subordinazione dell’eurozona all’asse capitalistico franco-tedesco, quale si è espressa attraverso il ‘connubio’ dei due partiti (PD e FI) con cui, a partire dagli anni novanta del secolo scorso, le classi dominanti, ‘giocando’ sulla regolazione del vincolo europeistico, hanno realizzato una certa unità e difeso i loro interessi economici.
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