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Marxismo creativo, libertà e "linea rossa"
di Alessandro Pascale
[Quella che segue è la relazione tenuta da Alessandro Pascale in occasione dell’assemblea pubblica sull’effetto di sdoppiamento svoltasi al Centro culturale Concetto Marchesi (Milano), il 14 settembre 2019 a Milano. All’assemblea, moderata da Massimo Leoni, hanno partecipato come relatori anche Roberto Sidoli, Giorgio Galli, Marco Rizzo. Nella foto da sx a dx: Sidoli, Leoni, Rizzo, Galli, Pascale]
Contro il determinismo economico
La teoria dell’effetto di sdoppiamento pone la questione di una rivalutazione della Politica sull’Economia. Ad un primo sguardo superficiale sembrerebbe una messa in discussione del materialismo storico ma questa, per l’appunto, non è altro che una visione volgare della questione. In realtà, come emerso in maniera netta dalla relazione di Roberto Sidoli, tale teoria non è altro se non un’adeguata interpretazione che si innesta nel solco tracciato dal pensiero dei grandi classici del socialismo scientifico.
Per mostrare queste affermazioni leggiamo un breve estratto del Dizionario dei termini marxisti, curato da Ernesto Mascitelli nel 1977 e disponibile gratuitamente sul sito Resistenze.org. Alla voce “determinismo economico” ecco quanto si riporta:
«È la concezione che ritiene che lo sviluppo storico sia rigidamente ed esclusivamente determinato dallo sviluppo delle forze produttive e delle componenti “tecniche” della società. Il determinismo economico esclude la possibilità che l’organizzazione cosciente della classe operaia possa in qualche modo influire sullo sviluppo storico. È il fondamento teorico di alcune delle più importanti correnti opportuniste della II Internazionale. La teoria secondo cui avrebbe dovuto verificarsi “il crollo inevitabile del capitalismo” per motivi esclusivamente economici, ampiamente diffusa nella socialdemocrazia tedesca negli ultimi anni dell’Ottocento, fu una delle espressioni più classiche di questa concezione. Il determinismo economico fu criticato dai principali esponenti del movimento comunista in quanto rappresentava un’incomprensione dei fondamentali principi del materialismo storico. Spesso si accompagnava all’affermazione della necessità di una “revisione” del marxismo. Inoltre, dal punto di vista politico, si manifestò come rinuncia alla difesa degli interessi della classe operaia».
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Perché le critiche del prof. Perotti alla “moneta fiscale” sono sbagliate
di Enrico Grazzini
Gentile prof. Roberto Perotti,
vorrei approfondire la discussione sulla cosiddetta “Moneta Fiscale” che lei ha criticato nel suo scritto “La sirena della moneta fiscale”[1] pubblicato sul sito web lavoce.info, e desidero dimostrare che le sue obiezioni e le sue tesi sono fallaci.
Nel suo articolo spiega che
“La moneta fiscale è essenzialmente un Certificato di Credito Fiscale (CCF), cioè un titolo emesso dallo stato che può essere usato, alla scadenza, per pagare tasse, multe, ed altre obbligazioni finanziarie verso lo stato, per un valore pari al valore facciale del titolo stesso. Il titolo è trasferibile a terzi”. Lei sostiene che la moneta fiscale è un tentativo di “aggirare il monopolio della produzione di moneta da parte della Bce, senza dover uscire dall’euro”.
Ma a suo parere questo tentativo è inefficace e sbagliato perché la moneta fiscale non sarebbe affatto diversa da un normale titolo di debito pubblico, per esempio da un BOT e quindi, come tale, provocherebbe un incremento di deficit pubblico. Ne deriva logicamente che l'emissione di moneta fiscale produrrebbe uno sforamento dei parametri fissati dall'Unione Europea, e che l'aumento del debito pubblico potrebbe perfino portarci fuori dall'euro. Da qui -secondo lei - il sostanziale fallimento della proposta di Moneta Fiscale.
Io vorrei dimostrarle che le sue tesi sono quasi totalmente sbagliate. Le mostrerò che, contrariamente a quanto lei indica nel suo scritto, grazie all'emissione di Titoli di Sconto Fiscale il governo italiano può fare crescere rapidamente e notevolmente l'economia reale senza fare deficit, anzi diminuendo il rapporto debito pubblico/PIL. Tutto questo rispettando necessariamente le (peraltro rigide, antiquate e restrittive) regole dell'eurozona e della UE.
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Città per turisti
di Alessandro Barile
Sarah Gainsforth, Airbnb città merce, DeriveApprodi, 2019, pp. 191, € 18,00
Bisognerebbe riflettere sul ritardo che l’Italia – e Roma in particolare – sconta riguardo ai temi della gentrificazione, della “turistificazione” dei centri urbani, degli stravolgimenti che in questi decenni recenti hanno sconvolto la morfologia delle sue principali città d’arte. Un paese pioniere della riflessione urbanistica si è trovato improvvisamente impreparato di fronte alle tormentate sfide che distinguono il volto di città e metropoli dei nostri giorni. A dire il vero gli ultimi anni hanno visto un inevitabile recupero: la trasformazione della città si è imposta quale motivo di analisi di un nuovo modello estrattivo, al tempo stesso produttivo, finanziario e parassitario. Il libro di Sarah Gainsforth si inserisce precisamente in questo movimento di attivismo politico-culturale: recuperare il tempo perduto, aggiornando interpretazioni sfocate, ormai incapaci di comprendere i fenomeni sociali che investono l’ambiente urbano. Come ogni lavoro di questo tipo, si presenta immediatamente interessante e inevitabilmente parziale. Interessante perché l’autrice coglie il motivo decisivo: smascherare le retoriche del capitalismo parassitario che travolge i centri urbani e li trasforma in qualcos’altro (ma cos’altro? Questa rimane la domanda inevasa); parziale perché, per l’appunto, pioneristico – almeno, come detto, nel nostro paese – e che quindi non può servirsi di una mole dignitosa e condivisa di studi italiani rilevanti sull’argomento. Si presenta dunque come lavoro dal quale partire, ed è la sua inequivocabile importanza.
Proviamo a centrare subito il tema, liberandoci dalle pastoie sociologiche o urbanistiche che ingarbugliano il problema dentro punti di vista troppo ristretti per svelare pienamente la complessità della vicenda: la città attuale è il prodotto della crisi economica.
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Metropoli e rapporto uomo-ambiente nella transizione al comunismo
di Mario Lupoli
Nella teoria e nella prospettiva attuale della transizione dal capitalismo contemporaneo al comunismo possibile, è essenziale oggi riprendere criticamente la riflessione attorno a quelle coordinate produttivistiche, tecno-idolatriche e antropocentriche che hanno caratterizzato ampia parte della teorica comunista tra fine Ottocento e Novecento. L’esigenza che emerge oggi è muoversi in orizzonti nuovi che più radicalmente affrontino la necessaria coniugazione di umano e naturale. L’articolo che segue vuole essere uno spunto per avviare un confronto su questi temi, ed è a sua volta il primo prodotto di un dibattito in corso
Nella sua riflessione sulla transizione dal capitalismo al comunismo, Trotsky[1] affronta la questione di una riprogettazione di massa di uno spazio di vita integrato umano-naturale sulla terra.
Trotsky prospetta infatti un coinvolgimento di massa – e non solo di architetti e ingegneri - nella progettazione di città-giardino, in una dinamica sociale che tende all’estinzione della divisione del lavoro.
Significativamente è in gioco la ricomposizione dell’uomo, che il capitalismo scinde al massimo grado (a livello individuale e di specie) fino a svuotarlo completamente della stessa capacità di dotare di senso la propria vita, le proprie relazioni e la propria prassi.
Questa ricomposizione si coniuga in un orizzonte nel quale la partecipazione crescente – anche alla riprogettazione urbanistica e quindi degli spazi e dei tempi di vita – consiste, da una parte, nell’esito del passaggio dal modo di produzione capitalistico alla società comunista, che, appunto, supera la divisione sociale del lavoro, l’alienazione e il feticismo delle merci, fenomeni tra loro fortemente correlati e co-determinati; dall’altra si identifica nella condizione e, insieme, nel progressivo radicale ampiamento della democrazia consiliare, fino a determinarne la perdita dei caratteri politici, giacché la scomparsa delle classi sociali renderà superflua la politica (ovvero, comunque sia, qualunque forma di potere, nelle sue varie articolazioni e configurazioni, di una classe su un’altra). Una volta persi tali caratteri, sarà necessaria esclusivamente una funzione amministrativa delle forme di coordinamento dell’associazione di liberi individui del comunismo. I due aspetti insieme lasciano scorgere che cosa possa implicare in termini di coinvolgimento di donne e uomini, a livello locale e internazionale, una riprogettazione degli spazi di vita.
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"Totalitarismo", triste storia di un non-concetto
di Vladimiro Giacché
Con la risoluzione approvata il 19 di settembre il Parlamento Europeo ritorna ad utilizzare il concetto di totalitarismo per giungere ad un'antistorica e inconcepibile equiparazione tra nazismo e comunismo. In questo saggio che rilanciamo Vladimiro Giacché spiega perché il totalitarismo è un concetto utilizzato sostanzialmente per equiparare nazismo e comunismo. Da La Contraddizione del 23/01/2006 – www.contraddizione.it
Come le guerre di Bush, anche il lessico ideologico contemporaneo è animato dalla lotta tra il Bene e il Male. Una lotta sanguinosa che vede contrapposti ai nostri alleati, “Mercato”, “Democrazia” e “Sicurezza”, due nemici mortali: “Terrorismo” e “Totalitarismo” – tra loro complici, e sempre meno distinguibili l’uno dall’altro. Come è logico, l’esecrazione generale circonda questi due tristi figuri. L’appellativo di “Totalitario”, in particolare, è decisamente tra gli insulti più in voga. Di “atteggiamento totalitario” è stato recentemente accusato il ministro brasiliano per la cultura Gilberto Gil da Caetano Veloso, nel corso di una polemica sulla distribuzione di fondi pubblici. “Tipica di uno stato totalitario” è secondo Vittorio Feltri la (sacrosanta) decisione del Prc di espellere un consigliere comunale che prima ha difeso il diritto di Di Canio di fare il saluto fascista, poi lo ha imitato a beneficio del fotografo di un giornale locale. E “totalitario” è ovviamente anche ogni oppositore di Berlusconi che venga sorpreso a pronunciare con tono di rimprovero le tre parole “conflitto di interessi”.
Si tratta di usi grotteschi del termine, ma a loro modo significativi. Ancora più significativo è l’uso del termine da parte dell’ex direttore della Cia James Woolsey: il quale ha recentemente affermato che “una stessa guerra” contrappone oggi gli Usa a “tre movimenti totalitari, un po’ come avveniva nel secondo conflitto mondiale”. I tre “movimenti totalitari” sarebbero rappresentati dal baathismo (sunniti iracheni e Siria), dagli “sciti islamisti jihadisti” (appoggiati dall’Iran e legati agli hezbollah libanesi) e dagli “islamisti jihadisti di matrice sunnita” (ossia “i gruppi terroristici come al Qăīda”) [intervista a Borsa & Finanza, 5.11.2005]. Un dubbio sorge spontaneo: che cosa diavolo hanno in comune oggi un nazionalista arabo laico, un fondamentalista islamico sciita e uno sunnita? Praticamente nulla. Eccetto una cosa: il fatto di opporsi agli Stati Uniti. “Totalitario”, insomma, è chi si oppone all’Occidente, e più precisamente agli Usa.
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Alcuni punti essenziali della Critica del Valore
di Anselm Jappe
Il sistema capitalista è entrato in una grave crisi. Questa non è solamente una crisi ciclica, bensì finale, e va vista non nel senso di un collasso imminente, ma come disgregazione di quello che è un sistema plurisecolare. Non si tratta della profezia di un evento futuro, ma della constatazione di un processo diventato visibile nei primi anni '70, le cui radici risalgono alle origini stesse del capitalismo. Quella cui assistiamo, non è una transizione che ci porta ad un altro regime di accumulazione (come avvenne nel caso del fordismo), né coincide con l'avvento di nuove tecnologie (come avvenne nel caso dell'automobile), e non si tratta neppure di uno spostamento del centro di gravità e della sua dislocazione verso altre regioni del mondo, ma dell'esaurimento di quella che è la fonte stessa del capitalismo: la trasformazione del lavoro vivente in valore.
Le teorie fondamentali del capitalismo, così come le analizza Karl Marx nella sua critica dell'economia politica, sono il lavoro astratto e il valore, la merce e il denaro, e che vengono riassunti nel concetto di feticismo della merce.
Una critica morale basata sulla denuncia dell'«avidità» eviterebbe di prendere in considerazione ciò che è essenziale. Non si tratta di essere marxisti o post-marxisti, o di interpretare l'opera di Marx, o integrarla per mezzo di altri contributi teorici. Ma, piuttosto, va ammessa la differenza tra il Marx «essoterico» ed il Marx «esoterico», tra il nucleo concettuale e lo sviluppo storico, tra l'essenza ed il fenomeno. Marx non è «obsoleto», come sostengono i critici borghesi. Anche se ci si concentra soprattutto sulla critica dell'economia politica,e all'interno di quella che è la teoria del valore e del lavoro astratta, ciò costituisce tuttora il contributo più importante per comprendere il mondo in cui viviamo.
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Alla ricerca di una migliore teoria macroeconomica
di Heinz D. Kurz e Neri Salvadori*
Abstract: Questo articolo sottolinea che un certo numero di elementi costitutivi della moderna macroeconomia e dei risultati che ne derivano non sono sostenibili. Il riferimento è alle presunte “microfondazioni” della teoria e, in particolare, all’uso di funzioni di produzione macroeconomiche e al metodo dell’“agente rappresentativo”. Le “leggi” semplici e apparentemente non invasive della domanda di input e dell’offerta di output non sono sostenibili in generale. I macroeconomisti sono spesso orgogliosi di sviluppare le loro argomentazioni in termini di una versione ridotta della teoria dell'equilibrio generale, ma si comportano come se ignorassero che la stabilità dell’equilibrio economico generale non può essere dimostrata in condizioni sufficientemente generali. Una ulteriore fonte di instabilità del sistema economico è riscontrabile nel carattere dirompente del cambiamento tecnologico
In un saggio recente dal titolo provocatorio “Rethinking Stabilization Policy: Evolution or Revolution?”, Olivier J. Blanchard e Lawrence H. Summers (2017, ripubblicato in questo numero: Blanchard e Summers, 2019) affermano che il manifesto fallimento della teoria macroeconomica dominante nel dar conto della “Grande Recessione” conseguente alla crisi finanziaria innescata dal crollo del segmento subprime del mercato immobiliare statunitense del 2007-2008 dovrebbe indurre i macroeconomisti contemporanei a cambiare in modo sostanziale i loro modelli interpretativi della realtà.1
Sfortunatamente, come si evince dal titolo stesso del loro lavoro, Blanchard e Summers non si sbilanciano e non ci dicono esplicitamente se il cambiamento che essi ritengono necessario sia da interpretarsi nel senso di una semplice “evoluzione” oppure se vada ricercata una vera e propria “rivoluzione”. In ogni caso, i due autori non lasciano dubbi sul fatto che, a loro avviso, mere operazioni cosmetiche, di piccoli aggiustamenti al margine, non siano sufficienti allo scopo di colmare il gap fra teoria e realtà macroeconomica. Essi sottolineano infatti come una analisi più approfondita della complessità del settore finanziario e della sua intrinseca instabilità sia solo il primo passo: “la lezione da trarre va ben oltre e dovrebbe costringerci a mettere in dubbio alcune credenze consolidate” (Blanchard e Summers, 2019, p. 172, corsivo nostro). Le “convinzioni tanto care” agli economisti contemporanei a cui Blanchard e Summers si riferiscono includono sia la presunzione che le economie di libero mercato siano in grado di autoregolarsi in modo tutto sommato ottimale, considerati i vincoli istituzionali, informativi etc. cui sono sottoposte, sia la presunzione che shock temporanei non possano avere effetti permanenti sul PIL pro capite di medio-lungo termine (ibidem).
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Leo Huberman, Paul Sweezy, “La controrivoluzione globale”
di Alessandro Visalli
Edito da Einaudi nel 1968 il libro “La controrivoluzione globale” include una raccolta di articoli dalle annate 1963-68 di Monthly Review, tutti firmati da Leo Huberman e da Paul Sweezy, intorno ad alcuni temi aggreganti: “la guerra coloniale interna”, ovvero gli scontri ed i disordini razziali; l’analisi di congiuntura dell’economia interna ed internazionale in una fase cruciale; la “guerra coloniale esterna”. Le due “guerre coloniali” sono tenute insieme dall’analisi dell’economia, o meglio delle esigenze interne del funzionamento economico.
La guerra coloniale interna
La prima parte prende avvio dalla “guerra alla povertà” lanciata da Johnson, che nel programma dell’Amministrazione avrebbe dovuto interessare 1/5 delle famiglie americane (mentre sarebbero dovute essere almeno il doppio), e destinava quindi una somma di un miliardo di dollari, nove volte insufficiente. Insomma, come capita, “l’intera faccenda è da cima a fondo una truffa politica”, che in realtà cercava di mettere un tampone ad un problema di eccesso di capacità dell’industria americana, rispetto al livello della domanda di beni e servizi che una società nella quale si estendono la povertà da una parte (per la maggioranza) e l’abbondanza dall’altra (per una stretta minoranza), esprimeva sempre di più.
Questo è l’ambiente nel quale, nell’articolo del 1964 “La guerra coloniale interna”, si dà conto della rottura tra Eliah Muhammad e Malcom X (che morirà l’anno dopo, ucciso da sicari probabilmente del primo), e della radicalizzazione del movimento dei neri. Il “vecchio movimento” (quello di Martin Luther King, ucciso a sua volta nel 1968) avanzava infatti delle tradizionali richieste di partecipazione. Secondo la loro analisi i neri erano semplicemente ed immoralmente privati dei loro diritti fondamentali, e non strutturalmente costretti in un sistema che ne richiedeva, per sua natura, l’oppressione, al fine di farne la classe-paria necessaria per il suo equilibrio.
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Pianificabilità, pianificazione, piano
di Ivan Mikhajlovič Syroežin
II parte – Pianificazione
Capitolo 4. L’autoregolamentazione nei sistemi economici (parte II)
Introduzione di Paolo Selmi
Affinità, per certi versi, sorprendenti, quelle che legano Robert Doisneau a un certo tipo di fotografia sovietica: nulla di strano, in realtà, ma semplice amore, adesione appassionata e incondizionata, oggi come allora, a descrivere il mondo da un certo punto di vista, tipizzato al punto da renderlo immediatamente riconoscibile, attraverso un linguaggio che personalmente preferisco a molti altri modi di “scrivere con la luce”: semplice e, al tempo stesso, talmente ricco di suggestioni da passare, in una stessa immagine, dall’ironia alla tenerezza, attraverso variegate sfumature intermedie, tante quante ne possono imbrigliare le diverse, possibili, concentrazioni di sali d’argento su una pellicola di celluloide.
Fotografo amato in URSS, Doisneau vi si recò anche per lavoro, in periodi diversi e qualcosa, sicuramente, “seminò” se, nel cercare immagini relative a un semplice distributore automatico di acqua gasata, mi sono imbattuto in questo piccolo capolavoro anonimo; immagine molto probabilmente costruita, come del resto – per sua ammissione – faceva spesso anche lo stesso Doisneau, nel creare le sue opere immortali lungo le strade parigine; al tempo stesso, l’immagine ritratta trabocca di quella spontaneità, di quella freschezza, di quel coinvolgimento, che trasfigurano, in ogni bambino, l’istante prima di azionare con una monetina quel misterioso meccanismo davanti a sé. In questo caso, peraltro, il meccanismo tanto misterioso non sembra, i due bimbi appaiono ormai abbastanza esperti e la loro tecnica combinata altrettanto “rodata”. Non potevo non omaggiare il lavoro di questo anonimo fotografo sovietico.
Accostare poi questo scatto alla teoria di Fiat 124, pardon, di Žiguli appena uscite dalla linea di montaggio, amplifica ulteriormente suggestioni e associazioni di idee, in presenza di quello che Gianni Rodari chiamava “binomio fantastico” nella sua “Grammatica della fantasia”: una strana coppia che sembra quasi evocare un futuro utopico, dove le macchine usciranno fuori dalle linee di produzione con una monetina, dove il processo produttivo sarà così facile da gestire che lo potrà fare anche un bambino, oppure dove l’intera economia nazionale sarà al servizio di tutti, persino dei più piccoli.
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In difesa del marxismo
di Giulio Bonali
Giorni addietro abbiamo pubblicato la prefazione di Carlo Formenti e Onofrio Romano al loro libro Tagliare i rami secchi del marxismo. Un lavoro teorico di revisione del pensiero marxista che Giulio Bonali contesta alla radice...
Scrivono Carlo Formenti e Onofrio Romano
«Pensiamo che sia più utile cercare di capire quali concetti - presenti tanto in Marx quanto nelle varie tradizioni marxiste, anche se con diverse sfumature – vadano archiviati, in quanto non servono più alla trasformazione rivoluzionaria dell’esistente o rischiano addirittura di contribuire alla sua conservazione. Questa nostra provocazione non nutre intenzioni liquidatorie nei confronti del marxismo; al contrario: siamo convinti che tagliare i rami secchi della teoria, e abiurare certi articoli di fede delle ideologie che ha ispirato, significhi riattivarne la carica sovversiva nei confronti della società capitalista e ridare energia e prospettive alla speranza rivoluzionaria».
Concordo.
Il marxismo ha “da sempre” ambito ad essere scienza (per quanto “umana”, e dunque con fondamenti epistemici pur sempre razionali ed empirici ma senz’altro meno incontrovertibili e soprattutto con oggetti di studio e di ricerca molto meno quantificabili e “matematicamente calcolabili” rispetto alle scienze naturali; ma non é qui il caso di approfondire la questione).
Dunque, come ogni teoria scientifica, umana e/o naturale, non solo tollera o ammette, ma addirittura esige una continua riconsiderazione critica e messa in dubbio metodica di fronte ai fatti empiricamente rilevabili (e da comprendere razionalmente, per quanto umanamente possibile).
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“Il coraggio di ciò che si sa”[1]
Il secondo governo Conte e la sinistra
di Vladimiro Giacché
Pubblichiamo un eccellente testo di Vladimiro Giacchè nel quale è ricostruita la vicenda storica dell’Italia nell’euro, il passaggio di fase in corso, l’interpretazione del Governo Conte 2 e la sua valutazione critica sulla scelta di Patria e Costituzione di provare a giocare la partita nella maggioranza M5S-Pd-Renzi-LeU. Buona lettura
Friedrich Nietzsche diceva che bisogna avere “il coraggio di ciò che si sa”.[2]
1. Quello che sappiamo
Proviamo a mettere assieme quello che sappiamo sulla traiettoria economica dell’Italia negli ultimi decenni, su quanto è accaduto dall’introduzione dell’euro, prima e dopo la crisi e su quanto è accaduto dopo il 4 marzo 2018. Ci aiuterà a capire cosa fare.
1.1. La traiettoria economica dell’Italia negli ultimi decenni è la storia di un successo catastrofico
A differenza di quanto vuole una vulgata diffusa quanto falsa, questo paese negli scorsi decenni ha fatto diligentemente i compiti che gli sono stati assegnati. Ha eliminato la scala mobile (1993), ha eliminato l’economia mista (accordo Andreatta-Van Miert e poi privatizzazioni di Draghi), ha ridotto il debito dal 117% del 1994 al 100% del 2007.
Usando la crisi come spartiacque, possiamo distinguere due periodi, con l’aiuto di un recente paper dell’economista olandese Servaas Storm[3].
Dal 1995 al 2008 abbiamo realizzato un avanzo primario del 3% annuo (principalmente riducendo le spese sociali): nessuno è stato così bravo in Eurozona (la virtuosa Germania nello stesso periodo può vantare un avanzo di appena lo 0,7%, mentre la Francia evidenzia un disavanzo dello 0,1%). Questo sforzo in teoria sarebbe stato sufficiente per ridurre il debito dal 117% del 1994 a uno strabiliante 77% del 2008. Purtroppo però questo contenimento della spesa pubblica ha ridotto la crescita e questo ha all’incirca dimezzato la riduzione effettiva (in quanto il rapporto debito/pil è stato mantenuto più elevato dalla conseguente minore entità del prodotto interno lordo).
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La Nuova Sinistra: scientifica, sfacciata e non ortodossa
di Filippo Albertin
Le eterogenee trasformazioni politiche, culturali e sociali che in questo ultimo quarantennio hanno accompagnato il passaggio dalla Prima Repubblica della “rappresentanza” post-bellica alla Seconda della “rappresentazione” (dominata come ovvio dal berlusconismo e dai suoi corollari), e dalla Seconda alla Terza della (per certi versi ancora più cupa) “auto-rappresentazione” (culminante nella vittoria pentastellata del 2013), presentano un fattore comune: la costante dissoluzione di un pensiero e di un’azione politicamente efficaci e nel contempo orientati a sinistra.
Non si vorrà, in questo articolo, elencare con eccessiva enfasi o accanimento i perché della lunga crisi del Socialismo (rivoluzionario o riformista che sia) nel nostro paese. Troppe sarebbero le interpretazioni, troppe le analisi, e quel che è peggio altrettanto numerose le dispute intestine e le conflittualità ad esse relative che si andrebbe a produrre o evocare. Dispute e conflittualità che oggi, con perifrasi ormai tristemente peculiari quali “la scissione dell’atomo”, hanno reso tutto ciò che orbita nella cosiddetta “sinistra radicale” tristemente celebre per la sua natura litigiosa, autoreferenziale, randagia, settaria e in ultima istanza autolesionista.
Sarà questo mio intervento a far sorgere finalmente la tanto agognata Nuova Sinistra? Logicamente no. Mi permetto però di sottolineare, non senza una vena di profondo disappunto, che a tutt’oggi nessuno, ma veramente nessuno ha mai proposto alcunché di oggettivamente innovativo e contro-intuitivo in materia di reale costruzione di ciò che in molti appellano come Socialismo del XXI Secolo.
Il movimentismo diffuso che da qualche tempo viene un po’ supinamente salutato come la salvezza e la via per la riconquista dei diritti, in realtà, esiste in mille forme e versioni ormai da decenni, senza che un bel nulla sia cambiato.
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Gilles Lipovetsky e la società della seduzione
di Salvatore Bravo
Se il capitalismo immateriale avanza senza limiti, ciò è possibile perché mancano le narrazioni veritative. Se la Filosofia si limita ad una critica sociologica e non propone la verità come centro di un processo rivoluzionario, la sua critica è solo puro parlare senza effetti
Capitalismo immateriale
Il capitalismo si autofeconda mediante un movimento perennemente innovativo. Non solo è capace di adattarsi alle circostanze storiche, ma fagocita i movimenti di emancipazione e di liberazione riducendoli a merce, e abbattendo persino le frontiere che esso stesso ha creato. Siamo dinanzi ad una nuova fase che rende il capitalismo certamente non diverso dalla sua essenza, ma con effetti amplificati dai mezzi utilizzati. Le fasi del capitalismo rivelano, in modo sempre più esponenziale, la sua intrinseca natura: si installa nelle relazioni umane, entra nella vita degli uomini per trasformarla in plusvalore, sostituisce il concetto con la gestualità seduttiva. La fase attuale è “rivoluzionaria”, perché accelera tale automatismo. Il capitalismo immateriale utilizza il digitale e gli algoritmi non solo per produrre, ma per orientare le scelte e la vita dei soggetti sussunti al suo invisibile potere.
L’incanto
L’incanto del capitalismo immateriale è nella narrazione che esso fa di se stesso: promette la pienezza, producendo a ciclo continuo – con sogni di onnipotenza narcisistica – una nuova percezione del tempo incentrata sul bisogno-desiderio. I bisogni-desideri sono l’incanto della speranza mondana, il tempo dura quanto è necessario per desiderare e consumare, il disincanto è subito compensato da un nuovo sogno. È l’eterno ritorno nella prospettiva dell’homo consumericus. La forza dell’incanto del capitalismo immateriale è nel non lasciare tempo al consumatore; non vi devono essere archi temporali vuoti, in cui il pensiero può concettualizzare con profondità, giustapporre i sogni ed i disincanti in modo sempre più veloce consente il radicamento dell’incantatore e lo sradicamento da se stesso, dal logos e dalla comunità del soggetto.
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Il “paradosso di Lenin”, la politica-struttura e l’effetto di sdoppiamento
di Roberto Sidoli
Di seguito la relazione di Roberto Sidoli all'assemblea del Centro Culturale Concetto Marchesi, tenuta il 14 settebre 2019
Voglio focalizzare l’attenzione sul collegamento esistente tra lo schema generale dell’effetto di sdoppiamento e il “paradosso di Lenin”, avente per oggetto il rapporto generale tra la sfera politica e quella economica, oltre che sullo sdoppiamento della stessa sfera politica in politica-sovrastruttura e politica-struttura, ossia politica intesa come espressione concentrata dell’economia.
Secondo la tesi dello sdoppiamento, dopo il 9000 a.C. e con l’inizio della rivoluzione tecnologica neolitica, non solo il genere umano è entrato nell’era del surplus, costante e accumulabile, ma altresì si è creato e consolidato un campo di potenzialità alternative, di matrice produttiva e politico-sociale, determinando quindi la simultanea genesi e cristallizzazione plurimillenaria – fino ad arrivare ai nostri giorni e all’inizio del terzo millennio – sia di una “linea rossa” collettivistica, gilanica e cooperativa (a partire dalla protocittà egualitaria di Gerico, 8500 a.C.) che invece di una variegata e alternativa “linea nera” di matrice classista, militarista e patriarcale, come nel lontano caso di quei predoni Kurgan che, con le loro sanguinose invasioni, infestarono l’Eurasia dal 4000 a.C. e per molti secoli.
Giorgio Galli recentemente si è chiesto: “la teoria dello sdoppiamento è compatibile con la teoria marxista? A me pare di si”.
Il celebre studioso milanese ha ragione e coglie nel segno.
La teoria dell’effetto di sdoppiamento risulta infatti compatibile con la concezione marxista anche perché costituisce uno sviluppo creativo di quest’ultimo, sviluppo basato su una miriade di fatti concreti che purtroppo in gran parte non risultavano a disposizione del geniale Karl Marx, morto nel lontano 1883: un Karl Marx che, per fare un solo esempio, non aveva (senza colpa alcuna) neanche il minimo sentore della fase di riproduzione plurimillenaria della “rossa” e collettivistica protocittà di Gerico, a partire dall’8500 a.C. e quindi dieci millenni or sono.
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Alain de Benoist e la polemica coi cattolici
di Matteo Luca Andriola
Lo storico Massimo Capra Casadio, nel suo libro Storia della Nuova Destra La rivoluzione metapolitica dalla Francia all’Italia (1974-2000) (Clueb, 2013), documentava il dibattito – e la differenza ontologica – fra “Nuova Destra” italiana e “Nouvelle Droite” francese sul tema cruciale dell’anticristianesimo. «Facemmo finta di niente», afferma Solinas nel libro; e questo per una serie di ragioni basilari: in Italia uno scontro frontale con la Chiesa Cattolica era impensabile, specie in un’area come quella della destra che, anche se al suo interno vi erano posizioni diverse sul tema, cercava di intercettare voti da quell’area. Ora Alain de Benoist, a proposito dell’idea dei suoi amici italiani che «si potevano accogliere molto bene in Italia le idee della Nouvelle Droite senza abbordare dei temi così ‘inutilmente’ scioccanti», afferma: «Io non sono convinto della sensatezza di questo modo di procedere». Denuncia una «incomprensione» degli italiani, che hanno considerato l’anticristianesimo e il paganesimo di de Benoist come qualche cosa che «dipend[esse] da un hobby, se non addirittura da una mania».
Mentre si tratta dell’architrave di tutto il pensiero di de Benoist: «fare a meno della mia critica al Cristianesimo è, ai miei occhi, intellettualmente impossibile». «Per chi considera con Nietzsche che la cristianizzazione dell’Europa […] fu uno degli avvenimenti più disastrosi di tutta la storia fino ai nostri giorni — una catastrofe nel senso proprio del termine — che può significare oggi la parola “paganesimo”?», scriveva De Benoist nel libro Comment peut-on être païen?[1] Anche se l’Autore sottolinea che «ritorno all’anteriore» è «impraticabile» e ne consegue che «un nuovo paganesimo deve essere veramente nuovo».[2] Per de Benoist ormai «non v’è bisogno di “credere” in Giove o in Wotan — […] — per essere pagani. Il paganesimo oggi non consiste nell’innalzare altari ad Apollo o nel resuscitare il culto di Odino.
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Conte bis, un simulacro della democrazia e dell’antisalvinismo
di Carmine Tomeo
Davvero si pensa di poter parlare di democrazia senza mettere al centro delle questioni i diritti sociali?
La gestazione del governo Conte bis non è stata poi così lunga, anche perché quella tra M5S e PD è un’alleanza che risulta essere non così innaturale come a volte viene descritta. L'accordo di governo PD-M5S (nel quale si è poi inserito Leu) nasce su pochi punti cardine cresciuti nel corso delle trattative tra le delegazioni dei due partiti: dai 5 del Pd ai 10 di del M5S fino alla lista di 29 punti finale. La questione è che le basi dell’intesa più che a una discontinuità fanno pensare a una nuova occasione per la borghesia di ricompattarsi intorno a un programma di liberismo tecnocratico, scalzando in questo modo il liberismo nazionalista rappresentato dalla Lega.
Ciò risulta già abbastanza palese osservando come, nel corso degli incontri tra i due partiti e a margine di essi, si aveva, da una parte il PD che escludeva una riforma del Jobs act e dall’altra il M5S che escludeva (solo in maniera più categorica del nuovo partner di governo) l'abolizione dei decreti sicurezza voluti da Salvini. Negli stessi giorni, decine di migranti restavano su navi di Ong senza possibilità di toccare terra, prima grazie al divieto di sbarco firmato, oltre che da Salvini, dai ministri (ancora in carica in quel momento) Trenta e Toninelli, poi dalla decisione del neoministro degli Interni, Lamorgese che ha subito fatto sapere che la politica dei porti chiusi non si tocca. In quelle occasioni, vecchi e nuovi ministri non hanno dovuto nemmeno curarsi della presenza a bordo di esponenti del PD come Orfini e Delrio. Che tra l'altro mai si sono curati, con tutto il loro partito, tutto il M5S e tutta la Lega, delle conseguenze criminali che anche in questo momento producono i disumani accordi firmati tra il governo Gentiloni (nel frattempo nominato commissario europeo con delega agli affari economici) e la Libia.
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Necessità, tempo e lavoro
di Moishe Postone
Si può dire che il pioniere che ha elaborato una revisione del lavoro astratto e della categoria del valore in Marx è stato senz'altro Moishe Postone, nel 1978, e che la Critica del Valore è emersa a partire dal suo pensiero. In questo testo, dal titolo «Necessità, Tempo e Lavoro», Postone dà inizio ad una problematizzazione circa quelli che sono gli equivoci del marxismo tradizionale. Dal momento che il capitalismo si struttura come libero mercato, rendendo così possibile lo sviluppo del capitalismo industriale, le sue condizioni intrinseche di accumulazione, di competizione e di crisi hanno dato origine a delle tecniche di pianificazione centralizzata, di concentrazione urbana del proletariato industriale, così come di centralizzazione e do concentrazione dei mezzi di produzione, e alla separazione fra diritto formale alla proprietà e proprietà reale ecc.. Tali tecniche, tipiche della produzione industriale, hanno creato un livello di ricchezza inimmaginabile fino ad allora, e brutalmente iniquo. A fronte di quadro simile, il marxismo che Postone definisce «tradizionale» aveva intravvisto la possibilità di un nuovo modo di distribuzione, equo e corretto, e regolato in maniera cosciente. Perciò, sebbene i marxisti sembrassero avere una teoria della produzione sociale, in realtà quello che portano avanti è una critica storica del modo di distribuzione. Di conseguenza, il marxismo, secondo Moishe Postone, per poter essere ripreso senza i suoi tradizionali equivoci, va riletto concentrandosi sull'aspetto della distribuzione. Secondo lui, questo errore non può essere attribuito a Marx, bensì a quella che è la sua errata interpretazione. nel rivisitare i Grundrisse, Postone asserisce che Marx era a conoscenza della centralità del lavoro, quando affermava che tutto il modo di produzione capitalistico si trovava ad essere fondamentalmente basato sul lavoro salariato. Secondo lui, Marx considerava già il valore come il centro della produzione borghese, e sapeva che le relazioni di valore avvengono nella produzione in sé, e non si limitano solo alla circolazione e alla distribuzione. È per questo che Roswitha Scholz considera Postone come un classico di quella che è la critica fondamentale del valore, anche se egli non ha mai fatto uso di una simile espressione.
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Brevi note sulla introduzione del '57 ai Grundrisse
di Laura Ruocco
È noto come la gestazione de Il Capitale abbia impegnato un lungo tratto della travagliata esistenza di Karl Marx. Nondimeno è possibile individuare diversi punti cruciali all’interno della riflessione marxiana, non omogenea né progressiva, ma piuttosto impegnata in una inesausta riflessione relativa alle “tre fonti e tre parti integranti del marxismo”[1], una delle quali riteniamo abbia una certa rilevanza relativa agli aspetti metodologici che, sin dai Manoscritti economico-filosofici del 1844, non ha mai smesso di occupare parte cospicua dell’analisi di Marx. Ci riferiamo al patrimonio del pensiero filosofico tedesco, in particolare alla pesante eredità esercitata dalla ricerca hegeliana con cui, è possibile dire, l’autore del Manifesto si è costantemente misurato durante tutta la sua esistenza.
Si suole affermare, certamente non a torto, che il comunismo scientifico abbia operato un rovesciamento del pensiero di Hegel, tale da riportare la dialettica con i piedi per terra in modo da scoprire la reale fonte delle implicazioni e delle conseguenze della logica applicata alla analisi della formazione economico-sociale[2]. Tuttavia tale affermazione, pur suffragata dalle parole dello stesso Marx, rischia di impoverire, se non fraintendere, le modalità, da una parte di filiazione, dall’altra di superamento, intercorrenti fra la concezione di Hegel e quella di Marx, specificamente per quanto concerne la riflessione da entrambi dedicata alla dottrina della logica. Snodo fondamentale, relativo a quest’ultimo aspetto, si ritrova nella Introduzione del 1857 ai Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, sinteticamente denominati Gründrisse, opera preparatoria alla stesura de Per la critica dell’economia politica pubblicata nel 1859. La prefazione in questione non sarà mai pubblicata da Marx, sostituita da quella composta nel 1859, priva degli aspetti metodologici esposti in quella precedente.
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Gli insegnanti, la rivoluzione digitale e un recente libro di Alessandro Baricco
di Carlo Scognamiglio
Poiché vita reale e comunicazione digitale sono oggi inscindibili e nel digitale vive una parte importante del nostro sistema simbolico, gli insegnanti dovrebbero superare tanto la visione “apocalittica” quanto quella “integrata” riguardo all’uso della tecnologia nella didattica. Tra i compiti della scuola, quindi, anche quello di una vera e propria alfabetizzazione digitale per decifrare il nuovo orizzonte d’esistenza.
1. C’è una questione, nel dibattito culturale italiano, che necessita di ulteriori approfondimenti. Non certo orfana della giusta attenzione da parte degli studiosi, credo tuttavia che vada interrogata con un approccio meno tecnico. Mi riferisco al rapporto tra istruzione e tecnologie digitali. Non ho esordito evocando la necessità di un supplemento d’inchiesta in ambito esclusivamente pedagogico, perché mi vado sempre più persuadendo dell’impatto sociale della questione, che quindi pretende un più ampio ambiente di osservazione. Ci sono livelli di indagine stratificati, in questo caso. Ci sono le aspettative delle famiglie, delle aziende, degli studenti stessi. Ci sono poi le relazioni mediche e le programmazioni didattiche. Esiste il tema politico e la questione psicologica. Come dire? L’assoluta pervasività della tecnologia digitale nel nostro esistere è tale da aver terremotato l’intero impianto culturale degli stili di vita, e in generale della nostra civiltà.
Alcune precisazioni sono obbligatorie. Se parliamo di tecno-logia non ci riferiamo soltanto allo strumento e ai diversi mediatori elettronici di cui ci siamo circondati. Intendiamo infatti per “tecnologia” il sistema degli strumenti (hardware e software) che anno dopo anno semplificano le nostre azioni, ma anche il ragionamento – o discorso (λόγος) – sulla tecnica. Ciò significa che non possiamo scindere i mezzi dal loro impatto (simbolico, pratico e valoriale) sulla cultura. Le cose cambiano. Bisogna capire come, e anche perché.
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Dall'URSS alla Russia
di Fabrizio Poggi
Se almeno un solo elemento della immensa lezione leniniana ho potuto assimilare (e tentare sempre di applicare) è quello della necessaria e costante analisi dei rapporti tra le classi nell'esame di ogni fenomeno reale. Così che, invogliato dal commento al pezzo di Alexander Höbel - “Inefficienze e difetti dell’economia sovietica” - fatto da Eros Barone, che giustamente mette in rilievo la doverosa analisi dei rapporti di classe nell’analisi della storia sovietica e della sua involuzione a partire dalla degenerazione khruščëviana, propongo questo pezzo, uscito su nuova unità nel 2017 (n. 4), qua e là rivisitato per l'occasione, ma non aggiornato, sperando di dare un piccolo contributo alla discussione
Dietro le quinte di una cosiddetta “formazione dei militanti” sul tema della storia dell'URSS, si contrabbandano spesso trotskismo, khruščëvismo e gorbačëvismo. Presentando la storia sovietica come un percorso “Dal capitalismo al socialismo e viceversa”, da posizioni idealistiche si attribuisce l'evoluzione e la successiva involuzione dell'esperienza socialista in URSS a soli fattori soggettivi, secondo la vulgata di una presunta “bontà innata” di chiunque si sia opposto a quelle che vengono definite le “criminali” scelte politiche ed economiche della leadership sovietica durante il trentennio in cui Stalin fu alla testa del VKP(b).
Di contro, si è tentato di illustrare sommariamente come quelle scelte riflettessero reali rapporti tra le classi sociali, così come si evince da alcune fonti sovietiche. Delimitazione cronologica e schematizzazione tematica sono soggettive e solo indicative del tema.
* * * *
Nel 1932, sul numero 1-2 della rivista “Pod znamenem marksizma” (“Sotto la bandiera del marxismo”), compare l'articolo di M. Korneev Il secondo Piano quinquennale e l'eliminazione delle classi, che illustra la politica di trasformazione delle campagne in URSS, basata sulla collettivizzazione delle piccole aziende individuali e la definitiva eliminazione dell'ultima classe sfruttatrice rimasta, quella del kulak, i contadini ricchi.
Tra il 1973 e il 1979, intrattenendosi con lo storico Felix Čuev, l'ex membro del Politbjuro, ex presidente del Consiglio dei commissari del popolo ed ex Ministro degli esteri sovietico Vjačeslav Molotov afferma: “contrappongono Stalin a Bukharin e a Dubček. Sono i destri che lo fanno – i residui di kulak non liquidati. Tra Bukharin e Dubček c'è molto in comune”. E poi: “Khruščëv non è stato casuale. Il paese è contadino e la deviazione di destra è ancora forte.
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Interpretare il futuro? Non basta, va trasformato
di Roberto Paura
Martin Rees: Il nostro futuro, Traduzione di Luigi Civalleri Treccani, Roma, 2019 pp. 180, € 21,00
Tra le letture preferite del piccolo Martin Rees nell’Inghilterra degli anni Cinquanta c’era Eagle, una serie a fumetti che raccontava le gesta di Dan Dare, “pilota del futuro”. “C’erano bellissime illustrazioni di città in orbita, gente che volava con i jetpack e invasori alieni”. Non c’è da meravigliarsi se la generazione di Rees “seguì con entusiasmo le imprese eroiche dei pionieri”, dal momento che “le tute degli astronauti della Nasa (e dei cosmonauti sovietici) mi erano familiari, tanto quanto le procedure di lancio e rientro”. Oggi Martin Rees è dal 1995 Astronomo reale britannico, dal 2005 membro della Camera dei Lord e fino al 2010 presidente della Royal Society. Ma è anche e soprattutto un attento studioso del futuro. Nel 2003 pubblica Il secolo finale, testo che tra i primi introduce il concetto di “rischio esistenziale” e associa l’accelerazione del progresso tecno-scientifico a possibili scenari estintivi per la civiltà umana entro questo secolo. Il nostro futuro, pubblicato quest’anno e subito portato in Italia dalla nuova collana Visioni della Treccani, condensa le visioni del futuro di Rees “in qualità di scienziato, di cittadino e di membro preoccupato della specie umana”. Dopo questo titolo, la collana ha proposto La terra, la storia e noi, denso trattato sull’evento Antropocene degli storici francesi Christopher Bonneuil e Jean-Baptiste Fressoz, e il testo-manifesto di Peter Frase, Quattro modelli di futuro, pubblicato nel 2016 dalla casa editrice Verso con il titolo Four Futures. Insieme, questi tre titoli ci offrono un itinerario privilegiato per addentrarci tra i nostri futuri possibili.
Il futurismo ben temperato
Partiamo da Rees. Il suo è un testo classico di futurologia (o futurismo: in Italia si sta affermando questa traduzione dell’anglosassone futurism per cercare di sottrarla al suo pesante retaggio ideologico del primo Novecento).
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Le innovazioni teoriche di Immanuel Wallerstein
di Bollettino Culturale
Parte I
Se osserviamo tutto il lavoro di Immanuel Wallerstein, e anche l'insieme globale di linee in cui ha sviluppato questa prospettiva dell'analisi dei sistemi-mondo, possiamo renderci conto che questo lavoro e detta prospettiva sono fondamentalmente visualizzati attorno a quattro assi tematici principali, assi che si articolano l'un l'altro in modi diversi, ci danno l'architettura completa dell'edificio concettuale e teorico da questa stessa prospettiva dell'analisi dei sistemi-mondo.
Quattro assi che, a volte sovrapposti, e altri che si intersecano trasversalmente, contengono anche le chiavi principali dell'originalità di questa analisi dei sistemi-mondo, nonché la loro eccezionale irradiazione all'interno delle più diverse sfere accademiche e intellettuali di tutto il mondo
Perché quando attraversiamo attentamente l'opera di Immanuel Wallerstein, è evidente che un primo asse è quello storico critico, che cerca di spiegare, in modo nuovo, l'intera storia del capitalismo e della modernità all'interno della quale viviamo ancora, avendo iniziato la sua esistenza storica nel "lungo sedicesimo secolo" cruciale e decisivo, postulato da Fernand Braudel, in un’onda che arriva fino ai nostri giorni.
L’asse storico-critico di una storia globale del capitalismo moderno, dal XVI secolo ad oggi, che non era solo la matrice originale dell'intera prospettiva dell'analisi dei sistemi-mondo, ma è stata anche concretizzata, parzialmente, nell'opera di Immanuel Wallerstein, che è senza dubbio la sua opera più tradotta e conosciuta in tutto il mondo: Il Moderno Sistema-Mondo.
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Le università e i giovani nel tritacarne della crisi e dei diktat europei
di Leonardo Bargigli*
Una recensione del volume “Giovani a Sud della Crisi”, basata sulla relazione presentata durante il dibattito sul libro tenutosi a Firenze l’8 maggio 2019 nell’ambito del festival Unifight organizzato dal Collettivo Politico di Scienze Politiche
Dopo l’approvazione della riforma Gelmini nel 2010, l’attenzione per le sorti del sistema universitario italiano è calata paurosamente. Il disinteresse sociale è andato di pari passo con il drastico ridimensionamento dell’istruzione universitaria. Dopo gli anni della “bolla formativa” gonfiata dalla propaganda sugli “obiettivi di Lisbona”[1] e sull’ “economia della conoscenza”, crisi e austerità hanno tolto sostanza a molti appetiti baronali e padronali, ed è rimasta nuda e cruda sul terreno una realtà fatta di precarietà, sfruttamento e salari da fame. Una realtà che, per chi l’ha voluta vedere, è sempre stata il pane quotidiano delle generazioni che hanno frequentato le aule universitarie negli ultimi decenni.
Il corpo docente ha continuato, tranne rare eccezioni, a tacere, mentre l’Università italiana si asserviva agli imperativi dell’accumulazione capitalistica su scala europea. E senza dubbio è venuto calando, sotto i colpi della repressione, anche il livello di conflittualità studentesca[2]. Se questo è lo stato dell’arte, il lavoro di Noi Restiamo è meritorio, prima di ogni altra considerazione, perché nasce in un contesto culturale difficile, che si è reso sempre più sordo se non ostile ad ogni forma di riflessione collettiva. I suoi meriti però non si limitano affatto a questo. Il libro è prezioso perché affronta in modo organico il nesso tra tre processi che sono di fondamentale importanza:
- la ristrutturazione del sistema formativo universitario
- l’accumulazione del capitale su scala europea
- le ricadute di tale accumulazione sui territori e sulle sovrastrutture politiche e giuridiche
Nel seguito cercherò di chiarire l’articolazione e i legami reciproci di questi processi partendo proprio dall’angolo di osservazione offerto dalla realtà universitaria – quella che conosco meglio[3].
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di Francesco Cappello
Immaginate di salire in cima ai 400 metri delle torri gemelle e da lassù lasciar cadere un blocco di cemento; cadendo sarà frenato in modo trascurabile dalla resistenza dell’aria; immaginate di conteggiare il tempo necessario a che esso raggiunga il suolo. Scoprirete, cronometro alla mano, che la caduta, quasi libera, ha impiegato circa 10 secondi (nell’ipotesi di resistenza zero da parte dell’aria, la meccanica newtoniana ne prevede 9). Ci si rimane male quando si scopre che l’ultimo piano delle torri ha raggiunto il suolo in un tempo di pochissimo superiore a quei 10 secondi. In pratica l’ultimo piano, in seguito al collasso, ha raggiunto il suolo come se ad ostacolarne e rallentarne la caduta non ci fossero stati frapposti oltre 100 piani. In altre parole, la dinamica con cui l’ultimo piano ha raggiunto il suolo è stata praticamente analoga a quella di una caduta nel vuoto!
Eppure tutti abbiamo ancora negli occhi e nel cuore gli incendi, seguiti agli impatti violenti dei Boeing della American Airlines con le torri, la fiammata esplosiva iniziale e il denso fumo nero che dopo poco (circa un’ora) indicava l’esaurimento degli incendi a riprova del fatto che i piani al di sopra e al di sotto di quelli coinvolti da urto e fiamme dovevano necessariamente essere integri. In particolare, è del tutto lecito pensare, che la struttura portante in travi di acciaio temperato (47 piloni), al di sopra e al di sotto dei piani direttamente coinvolti, non interessata dalle fiamme, doveva essere rimasta indenne. Per di più l’acciaio fonde intorno ai 1500 gradi e l’incendio divampato in conseguenza dell’impatto che fece esplodere il kerosene (la benzina degli aerei) a detta dei tecnici può aver raggiunto, se si fosse svolto in condizioni ottimali, una temperatura massima di 800 gradi (1). A riprova, le testimonianze di coloro i quali, trovandosi agli ultimi piani dell’edificio, sono riusciti a salvarsi attraversando i piani direttamente coinvolti dalla collisione.
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Blanchard e Summers: rivoluzione o conservazione?
di Roberto Ciccone e Antonella Stirati*
Abstract. E’ a nostro avviso positivo che autori come Blanchard e Summers giudichino necessario un cambiamento nell’analisi del funzionamento dei sistemi economici, e mentre rispetto all’alternativa tra “evoluzione” e “rivoluzione” da essi prospettata opteremmo certamente per la seconda, riteniamo che il rinnovamento richiesto sia di grado ancora superiore a quanto gli autori contemplino. Forti ragioni teoriche, oltre che empiriche, spingono ad abbandonare definitivamente l’idea, propria dell’analisi tradizionale, secondo cui in un’economia di mercato esisterebbero forze in grado di mantenere i livelli di attività vicini al “prodotto potenziale”, con le conseguenti implicazioni per la politica economica, e in particolare fiscale
1. Introduzione: un’alternativa all’analisi economica dominante
Chi scrive non può che dare il benvenuto al fatto che un autore come Blanchard si presti a un confronto aperto con approcci teorici alternativi, come è avvenuto nel dibattito di Milano con Brancaccio (Blanchard e Brancaccio, 2019). Così come vediamo con favore che Blanchard e Summers (d’ora in avanti B&S), nel saggio da noi assunto a premessa e traccia per questa discussione (B&S, 2017),1 ritengano necessario un cambiamento nell’analisi del funzionamento dei sistemi economici, e cioè in quella cui i due autori ripetutamente si riferiscono come ‘macroeconomia’ – sebbene, incidentalmente, sarebbe forse più appropriato dire che il cambiamento invocato debba riguardare la teoria economica tout court, essendo questa, in ogni suo aspetto, ad avere per oggetto il modo di operare di un’economia capitalistica. E di fronte al tipo di alternativa che B&S prospettano per quel cambiamento, “evoluzione” o “rivoluzione”, opteremmo certamente per la seconda. Ma a nostro avviso il cambiamento richiesto è di grado ancora superiore rispetto a quanto B&S contemplino in entrambe le ipotesi.
Riteniamo che vi siano forti ragioni teoriche, oltre che empiriche, che spingono ad abbandonare l’idea, attualmente prevalente, secondo cui in un’economia di mercato, o capitalistica, esistono forze in grado di mantenere i livelli di attività vicini a quello che viene spesso definito il suo “prodotto potenziale” – vale a dire il prodotto corrispondente alla piena occupazione delle risorse disponibili, o, con riferimento al lavoro, alla variante apparentemente più concreta del tasso “naturale” o “non inflazionistico” di disoccupazione.
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