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lacausadellecose

La quiete dopo la tempesta?

di Michele Castaldo

161752095 60024780 1c90 4e50 a908 67a66fa7530f«Passata è la tempesta odo augelli far festa» leggiamo in Leopardi e osservando gli umori dei personaggi del nuovo governo si ha l’impressione che la tempesta – cioè l’uscita di scena di Salvini – sia passata e dunque «Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride». È proprio così?

A volte ci sono gesti e parole che spiegano molto più di un libro: il gesto di Giuseppe Conte che poggia la mano sulla spalla sinistra di Salvini, mentre pronuncia il discorso di commiato alla camera, è tutto un programma; come dire: povero fesso, povera ingenua creatura, sei caduto nella trappola, l’hai fatta grossa: hai preteso di avere rapporti equivoci con la Russia, di intavolare trattative sotto banco; di convocare le parti sociali, cosa che non competeva al tuo dicastero; di proseguire in una continua campagna elettorale incentrata sulla tua persona; di osare di mettere in discussione la permanenza nell’Unione Europea e di cambiare l’alleanza strategica dell’Italia. Dulcis in fundo: hai avuto la pretesa di chiedere i pieni poteri agli elettori. Ma chi credi di essere? Ti sei guardato allo specchio? Non hai capito con chi hai a che fare! Mo’ ti sistemo io.

Il discorso di Conte era apparso da subito come una porta girevole, di uscita per lasciarsi alle spalle l’alleato scomodo e di entrata per la nuova investitura con appunti di programma con un nuovo alleato, non più sovranista ma europeista, non più occhieggiante verso la Russia di Putin, ma saldamente ancorato nella Nato.

Et voilà! Il gioco è fatto: esce Conte Giuseppe ed entra Giuseppe Conte! Esce la Lega salviniana ed entrano il Partito Democratico e Liberi e Uguali. Così il popolo democratico tira finalmente un sospiro di sollievo. Il mostro è stato messo all’angolo e in condizioni di non nuocere. È così?

Cosa esce sconfitto realmente con l’uscita della Lega salviniana dal governo e quali insidie si nascondono nei prossimi anni per gli immigrati, per i lavoratori e i disoccupati in Italia e in modo particolare nel sud? È questa la domanda alla quale siamo più interessati.

Che la figura di Salvini fosse odiosa è fuori discussione, ma che la sua uscita dal governo voglia dire aver sconfitto le pulsioni sociali, che lui esprimeva, e tuttora esprime, ce ne corre e non poco. D’accordo che il popolo è volubile e cambia facilmente umore, ma una percentuale così alta di voti come quella registrata dalla Lega alle elezioni europee di maggio vuole dire qualcosa di più profondo che ci interessa indagare.

In primis c’è la questione degli immigrati su cui Salvini ha costruito le sue fortune, perché a differenza di chi pensa che il razzismo venga calato dall’alto, il materialista ritiene che sia presente nella società italiana (e non solo) di questi anni e che Salvini lo raccoglie, lo “nobilita” e gli fornisce “dignità” politica di ampio respiro. Se poi insieme alla questione degli immigrati viene aggiunta quella dell’uso delle ruspe contro gli zingari il quadro si completa.

Bisogna fare bene attenzione a questo punto che è dirimente anche per spiegare il drenaggio elettorale che la Lega ha compiuto dal M5S al proprio partito nel Sud oltre che nel Nord dell’Italia. Cerchiamo di spiegarlo con parole semplici: al cospetto di un disoccupato meridionale Salvini è apparso molto più convincente perché il disoccupato vede immediatamente come proprio concorrente l’immigrato, mentre il M5S si è mostrato meno convincente con il reddito di cittadinanza. Perché? Perché tu puoi anche istituire i navigator per l’avviamento al lavoro, ma se non c’è lavoro sei poco credibile, mentre la presenza dell’immigrato come concorrente – anche per il lavoro nero – rende il disoccupato ancora più astioso proprio nei confronti del diretto concorrente. Tanto è vero che durante i 14 mesi di governo M5S-Lega Salvini ha insistito moltissimo sulla questione degli immigrati pur avendo approvato il reddito di cittadinanza, perché questo non avrebbe alleviato quello, cioè la mancanza di lavoro e l’aumentata concorrenza fra disoccupati indigeni e immigrati. Siamo all’abc del materialismo.

Il razzismo sociale lo si combatte con misure vere, o perlomeno che appaiono tali. Il vietare lo sbarco di “clandestini” dalle navi delle Ong è – agli occhi del disoccupato – una misura vera. Il governo M5S-Lega si è caratterizzato fortemente come antiimmigrati e il merito maggiore – secondo l’umore popolare – è stato di Salvini. Questa questione non solo resta aperta in tutta la sua drammaticità, ma rischia di segnare un pericoloso solco sociale proprio per come il nuovo governo procederà.

Stabilito dunque che non è Salvini che crea il razzismo, ma è il razzismo sociale che elegge Salvini a proprio rappresentante, cerchiamo di capire quale prospettiva delinea questo governo cosiddetto giallo-rosso.

Ribadiamo qui una tesi che andiamo ripetendo ormai da anni: la questione degli immigrati di questa fase storica si presenta come la nuova tratta dei neri dal nord Africa verso il vecchio continente, cioè l’Europa; a differenza di quella che trasferiva i neri dall’Africa verso il nuovo continente, quella che costituì gli Usa. Sono cambiate le modalità, ma la sostanza è la stessa. L’unica differenza è che quella prima tratta veniva messa al servizio di un movimento ascendente del modo di produzione capitalistico che si espandeva a macchia d’olio, dunque con una mano d’opera a costo zero; mentre la nuova tratta dei neri si inquadra in una crisi mondiale dell’accumulazione dove l’Europa è chiamata a competere con i costi asiatici della manodopera. Basta leggere la stampa che conta per capire quello che affermiamo, non ultimo Goffredo Buccini sul Corriere della sera di martedì 3 settembre: «Ridare linfa e soldi agli Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) per un’autentica integrazione di secondo livello ma pure selezionare al meglio la nuova immigrazione “economica” di cui le nostre aziende e le nostre pensioni hanno bisogno». Più chiaro di così!?!

La differenza, una differenza sostanziale, tra la sinistra governativa e la chiesa cattolica da una parte e la destra salviniana, dalla parte opposta, è sui costi. Mentre per i primi certi costi sono obbligati per governare l’immigrazione, per Salvini quei costi devono essere devoluti alle piccole e medie aziende per reggere la concorrenza di questa fase e favorire l’esportazione.

Con i primi – sinistra e chiesa cattolica – è schierata, obtorto collo, la grande industria, le banche, altrimenti detto l’establishment italiano, ma innanzitutto europeo, e tutti quei settori sociali che orbitano intorno ai problemi dell’immigrazione in termini di strutture e servizi. Mentre con i secondi – la Lega salviniana, Fratelli d’Italia e rimasugli di estrema destra – è schierato il ceto medio produttivo del Nord Est e quello commerciale che viene infilzato giorno per giorno sia dalla grande distribuzione che dalla concorrenza “sleale” degli immigrati che sono costretti a inventarsi commercianti di tutto e di più.

Messo perciò in chiaro che la questione degli immigrati resta un nodo sociale centrale per i prossimi anni vediamo gli altri due aspetti che riguardano il sovranismo e lo schieramento internazionale.

Sia chiaro: un Salvini, in quanto politico di vecchia data, è sempre un leghista, ovvero rappresentante del ceto medio, che ha la vista corta. Non che ce l’abbiano molto lunga la grande industria e le banche, ma almeno cercano di avere un minimo di memoria e di porgere un occhio al calendario e l’altro alla carta geografica.

Se l’Europa in venti anni ha avuto due guerre mondiali con immensi disastri, un papa, capo di una chiesa con centinaia di milioni di fedeli, si pone il problema di come può finire l’esasperazione del nazionalismo, che vuol dire aumentata concorrenza delle merci, compresa la merce umana, veicolato sotto le mentite spoglie del sovranismo. Che non lo “capisca” Salvini, passi, che la destra melonista gli stia dietro, pure, ma che non lo capiscano certe formazioni di “estrema” sinistra è tutto dire. Siamo al buio totale. Eppure basterebbe dar retta a quel bracciante comunista che ripeteva spesso: «bada bene guagliò che i capitalisti hanno i monaci a studiare nei conventi con la barba così lunga – e si portava la mano destra all’altezza dell’ombelico – per fregare gli operai».

Ora, avere la carta geografica e il calendario davanti vuol dire vedere che l’Asia, un continente un tempo depredato dalle potenze occidentali, è entrato a pieno titolo nel mercato mondiale ed è diventato un concorrente straordinario di tutto l’Occidente, basta guardare al problema dei dazi tra gli Usa e la Cina.

Come si affronta la spietata concorrenza di questa fase con un continente che, da un punto di vista capitalistico, fa paura? Ci sono due soli modi di affrontarla: o andando in ordine sparso, ognuno per sé e chi ha più polvere spara; oppure tentando una unione fra nazioni europee per contrattare acquisti di materie prime e vendite di prodotti finiti. Per farlo è necessario darsi delle regole in entrata e in uscita da alleati alla pari. Le regole non le detta la Germania o la Francia, le dettano le leggi del mercato che sono valide in tutto il mondo. Le detta, cioè, un sistema che è ormai mondiale e sono regole semplici: spendere di meno insieme per reggere insieme la concorrenza. Regole capitalistiche che la sinistra ha dovuto sposare. Regole che con la mondializzazione hanno imposto drastiche misure nei confronti della mano d’opera e incoraggiato l’arrivo di lavoratori dall’Est europeo prima e dal Nord Africa poi. Che un Salvini sbraiti, ululi alla luna. Questa è la questione.

Gli accordi fra nazioni che aderiscono dell’UE eliminano la concorrenza al suo interno? Niente affatto, ma è questa la questione. Le regole le ha deciso il dio Capitale e se la Germania era – ed è – il paese più forte e forse anche più capitalisticamente “razionale” è del tutto naturale che desse una sua impronta.

Se a ciò si aggiunge il fatto che il tutto è condito dall’alleanza militare strategica della Nato, il cerchio si chiude. Non ci vuole una laurea particolare per capire cose così lapalissiane.

Si diceva della vista corta della Lega. Inutile girarci intorno: Salvini ha tentato di spostare sull’asse nazionale quella che era la originaria visione della Lega bossiana; ed ha sfruttato il razzismo sociale diffuso anche in Italia meridionale. Da questa crisi esce sicuramente ridimensionato come “statista” e molto probabilmente sarà costretto a rifluire lì dov’era nato, nel ceto medio produttivo padano a impugnare la bandiera della sovranità se non per l’Italia, per la sua Padania, perché quel ceto medio del lombardo-veneto non può interrompere i suoi rapporti import export con la Russia e lo deve poter fare con maggiore autonomia. L’annuncio di una manifestazione della Lega per il 19 ottobre a Roma la dice lunga sulle incognite che il nuovo governo si troverà ad affrontare. In quei giorni si incomincia a delineare la legge di bilancio e se non vengono messe risorse per le aziende del Nord la Lega potrebbe riproporsi in piazza come movimento dei forconi. Di contro, se per accontentare il Nord Italia, e mettere a tacere la Lega, il governo dovesse lasciare il Sud ai suoi problemi, potrebbe esplodere una generalizzata protesta sociale che né il M5S e ancor meno il Pd riuscirebbero a controllare. E non è detto che non scoppino in contemporanea tanto al Nord quanto al Sud con caratteristiche diverse.

All’oggi è molto difficile fare previsioni, di sicuro ci sentiamo di dire che aumentando la concorrenza a livello mondiale aumenterà anche fra gli stati che aderiscono alla UE; e quello che sta accadendo in Inghilterra è il segno tangibile sia delle difficoltà di stare nell’Unione sia di uscire da essa. I fatti di Hong Kong, con il ritiro della legge sull’estradizione, la dicono lunga sulla forza delle leggi economiche dove una potenza continentale di un miliardo e mezzo di persone non è riuscita a imporsi a una parte del proprio paese con appena 7 milioni di abitanti. Ma la campana di Hong Kong suona proprio per l’Inghilterra, capitale da sempre della finanza europea e mondiale. E nonostante la presenza di bandiere angloamericane alle manifestazioni lì stanno affluendo capitali dall’interno della Cina ed è per questo che il governo centrale ha tentato il colpo gobbo ed ha dovuto fare marcia indietro.

Altrimenti detto: il capitalismo non nacque nazionale, ma lo divenne strada facendo. Non è detto che le sue leggi a questo stadio di sviluppo mondializzato non possano fungere da detonatore per una disgregazione generalizzata.

Molti commentatori nell’esaminare questa crisi italiana puntano a personalizzare sia la caduta del governo che la soluzione ad essa, altrimenti detto guardano ai pupi che si muovono piuttosto che indagare da cosa vengono mossi. In Europa c’è un irrequieto ceto medio falcidiato dalla crisi. È in atto una vera e propria lotta di classe tra la grande industria, la grande commercializzazione e le banche – che esprimono il cosiddetto establishment - da un lato e tutte quelle categorie composte da piccole e medie aziende, artigiani e professionisti. A queste categorie si aggiungono le nuove leve di disoccupati acculturati, laureati e diplomati. Un mondo irrequieto che tenta di darsi voce, di organizzarsi in movimento sociale, di darsi un programma e un corpo politico, ma proprio perché è composito si esprime per salti della quaglia, come il M5S in Italia, i Gilet gialli in Francia, Tsiprs in Grecia, la Catalogna in Spagna e così via. In Italia questo movimento composito e irrequieto si sta manifestando in due tronconi sia sociali che territoriali; schematizziamo per rendere l’idea: la Lega prevalentemente produttivo e nordista, il M5S di cittadinanza e sudista. Entrambi questi due movimenti cercano di aggrapparsi allo Stato per sopravvivere.

La crisi del governo di questi due tronconi non è stata causata dall’incauto Salvini, no, ma dalla fretta dei settori sociali della Lega che pressati dalla crisi avrebbero voluto mettere a frutto immediatamente il risultato elettorale delle elezioni europee. Sia chiaro: la sconfitta di Salvini viene salutata con un certo sollievo dall’establishment anche perché la sua propaganda faceva leva su un sentimento di rancore sociale che in certi momenti diviene pericoloso.

La soluzione data alla crisi va nella direzione di un produttivismo europeista a cui il ceto medio del M5S è chiamato ad accodarsi. Come dire: volete sopravvivere come ceti sociali? Non avete altra strada che sposare la causa della grande industria, delle grandi concentrazioni commerciali, delle banche, in primis della Bce. E questo vuol dire SI alle grandi opere come Tav, Ilva, Gronda, ecc. Perché, detto in parole povere, solo con grandi investimenti produttivi è possibile continuare a concedere il reddito di cittadinanza, vostra bandiera politica. Il tutto è possibile se vi disciplinate ai voleri dell’establishment. Dicono a Napoli: chesta è ‘a zita e se chiamma Sabella. Volete ruoli importanti nel governo? Bene: Di Maio ministro degli Esteri, immerso in una selva di mastini della burocrazia dove si confezionano i “pacchi” in entrata e in uscita per l’Africa. Ma alle Infrastrutture e Trasporti ovviamente ci va una donna di comprovata esperienza come Paola De Micheli che deve garantire la continuità delle concessioni alle famiglie meritorie che le detengono.

Abbiamo fatto solo due esempi per dare il senso di questo patto di governo tra forze politiche che esprimono interessi sociali che sono di subordinazione l’uno, il M5S, all’altro, il PD. Il PD, che seppure agglomerato di correnti è un partito produttivista che aveva votato con la Lega il SI alla Tav prima della caduta del governo; mentre il M5S raccoglie un malcontento del ceto medio prevalentemente centro-meridionale che non ha nessuna possibilità di esistenza senza la grande industria, le banche e l’assistenza dello Stato.

Durerà? Si durerà, lo diciamo a ragion veduta perché conosciamo la capacità scientifica del partito democratico di saper entrare come un cuneo nelle contraddizioni dei movimenti sociali, specie se compositi, dilatarle e renderli innocui. Questo tanto nei confronti del M5S – certamente più esposto – quanto della Lega il cui motto dei suoi aderenti è ubi bene ibi patria. A meno che, ecco l’oste, la crisi non avanzerà a tal punto da accorciare ulteriormente la coperta, già all’oggi molto corta. A quel punto possono saltare molti equilibri e quello che non è accaduto in decenni di soprusi nei confronti degli immigrati, dei lavoratori, dei precari, dei disoccupati, degli artigiani, di piccoli esercenti potrà accadere in un giorno e quei settori andranno a comporre una miscela esplosiva dagli esiti imprevedibili perché potrebbe innescare un effetto domino per tutta l’Europa. Una prospettiva non lontana anni luce.

Comments

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GianMarco Martignoni
Monday, 16 September 2019 21:28
Sul piano della logica il ragionamento apparentemente fila, ma non c'è mai una spiegazione mono-causale all'avanzata leghista oltre la " Padania ".Se è scontato che si determini una mobilitazione reazionaria delle masse quando la sinistra abiura ai suoi principi ( Canfora insegna nel suo ultimo saggio apparso per Laterza ), al contempo non possiamo dimenticare il trasformismo italico, tanto che quanti stavano con Berlusconi sono passati , con tutte le truppe, immediatamente al miglior offerente Il razzismo sociale è sempre esistito, e i meridionali l'hanno sperimentato sulla propria pelle e lo subiscono tuttora, anche se fa meno clamore d'un tempo.Certo che se il sistema mediatico diventa l'amplificatore del razzismo di stato e istituzionale, avanti Savoia...
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