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Il militante filosofo
di Felice Mometti
È sempre difficile risalire ai motivi che stanno alla base di una ripresa di interesse per il pensiero teorico e politico di un autore che ha svolto un ruolo non secondario nel campo del marxismo critico. Probabilmente sono sempre un insieme di coincidenze e necessità. A sei anni dalla morte di Daniel Bensaïd nel giro di pochi mesi, in Francia, sono usciti alcuni importanti contributi: la ripubblicazione di Stratégie et parti, che risale alla metà degli anni ’80, con una lunga introduzione e altrettanto lunga postfazione di Ugo Palheta e Julien Salingue(1) e il numero monografico, dedicato a Bensaïd, di Cahiers critiques de philosophie dal titolo Le militant philosophe(2). Ed è stata anche annunciata l’uscita, entro quest’anno, di un altro dossier monografico a cura questa volta della rivista Historical Materialism.
Un bilancio incerto
La prima pubblicazione di Stratégie et parti, nel 1987, era stata preceduta da un lungo contributo su Critique Communiste(3) in cui si esplicitava senza mezzi termini la profonda crisi che stava attraversando la Ligue Communiste Révolutionnaire (Lcr), l’organizzazione in cui militava, e venivano avanzate alcune ipotesi sul cambiamento radicale di fase politica dopo le lotte del decennio precedente.
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Tra Barroso e Bouhlel
Quindici anni dopo Genova
Franco Berardi Bifo
Things fall apart; the centre cannot hold;
Mere anarchy is loosed upon the world,
The blood-dimmed tide is loosed, and everywhere
The ceremony of innocence is drowned;
The best lack all conviction, while the worst
Are full of passionate intensity.
(Yeats: The Second Coming)
Fine del thatcherismo
Quindici anni dopo Genova, quando il globalismo neoliberista festeggiò sanguinosamente il suo trionfo, molti segnali fanno pensare che tutto stia precipitando: il dominio neoliberista, che ha garantito un equilibrio di potere a livello globale sta franando, e la guerra civile frammentaria si espande in ogni area del pianeta, fino a coinvolgere gli Stati Uniti d’America dove la diffusione capillare di armi alimenta la quotidiana mattanza di cui gli afro-americani sono la vittima privilegiata.
I segnali si moltiplicano ma come interpretarli? Quale tendenza intravvedere?! E soprattutto come ricomporre l’autonomia sociale, come proteggere la vita e la ragione dalla follia omicida che il capitalismo finanziario ha attizzato e il fascismo nelle sue varianti nazionaliste e religiose sempre più spesso aggredisce?
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Le contraddizioni dell’operaismo
di Marco Gatto
Il revival operaista è ormai sotto gli occhi di tutti: il successo internazionale raggiunto da Toni Negri, il riconoscimento dell’importanza filosofica di Mario Tronti, i tentativi di innestarne la teoria politica sul post-strutturalismo di marca deleuziana, la proliferazione accademica di discorsi teorici fondati sull’autonomia e sulla soggettività rivoluzionaria, e via dicendo, segnano un orizzonte culturale in cui l’operaismo ha conquistato una rilevanza impensabile fino a qualche decennio fa. Si coglie, persino, una sorta di euforia galvanizzante nei sostenitori di quella stagione, oggi alfieri del post-operaismo: una narrazione culturale in cui i filosofi-politici diventano eroi titanici, scrivono ponderose autobiografie, diventano senatori dalla parte sbagliata, e nella quale la classe operaia è vista come una sorta di leggenda o di racconto delle origini.
A questa creazione dal nulla di un mito filosofico il nostro paese non è estraneo: chi si ostina, oggi, a riconoscere una supposta differenzialità teoretico-geografica nella tradizione filosofica italiana sembra servire, senza neppure troppi problemi, logiche forse eccessivamente somiglianti a quelle del mercato culturale più ordinario. Ogniqualvolta venga fuori dal niente un’identità costruita a tavolino, non possono che affiorare preoccupazioni.
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Il realismo, fase suprema del postmodernismo?
Note su «New Realism», post modernità e idealismo
Diego Fusaro
«Realismo ingenuo, realismo scientifico, realismo filosofico: malgrado tutte le pretese dei difensori ostinati, esso è sempre molto ingenuo, perché ci vorrebbe assai poco ad accorgersi che tutto ciò che si trova, o si escogita, o si costruisce col pensiero, non può essere altro che pensiero» (G. Gentile, Genesi e struttura della società).
1. La segreta complementarietà di realismo e postmodernismo
Uno spettro si aggira per il mondo: lo spettro del realismo. È lo stesso Maurizio Ferraris, nelle pagine programmatiche del Manifesto del nuovo realismo1 (2012), a evocare l’incipit del manifesto marx-engelsiano per alludere all’odierno dilagare ipertrofico del realismo in tutte le sue forme (politiche, sociali, economiche, filosofiche). Analogamente a Marx ed Engels, che si richiamavano allo spettro del comunismo come a una forza già esistente e pronta a seminare il panico nella vecchia Europa, Ferraris adombra come quella del realismo sia una presenza “spettrale” perché vaga e, insieme, materialmente già esistente e affermata. Una presenza reale, appunto, e insieme dai contorni evanescenti, come emerge non appena si consideri che la categoria multicomprensiva di realismo alberga oggi, al proprio interno, tali e tante determinazioni concettuali differenti da rendere, eo ipso, ambigua, scivolosa e sfuggente la stessa categoria. E, non di meno, come subito cercherò di chiarire, al di là di questa strutturale proteiformità della formula, è possibile individuare un comun denominatore tra le molteplici determinazioni semantiche sussunte sotto l’etichetta di realismo.
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Il pivot to China
Diego Angelo Bertozzi
Scopo di questo saggio è di dare un quadro il più possibile comprensibile delle tensioni che si stanno accumulando in Asia orientale, soprattutto in riferimento al nuovo ruolo di potenza economica e politica della Cina popolare. Questo perché la stampa, soprattutto occidentale, diffonde l’immagine di una Pechino sempre più aggressiva e intenzionata a far pesare sui Paesi vicini tutta la propria forza, utilizzando il ricatto della propria modernizzazione militare. Queste denunce hanno un grande limite, e non certamente per puro caso, perché riflettono una vera e propria scelta di campo: tacere sul quadro complessivo che vede proprio la Cina come oggetto di un nuovo sistema di accerchiamento militare, politico ed economico con al centro Washington, decisa a salvaguardare la propria posizione egemonica risalente al secondo dopoguerra.
Il primo cordone sanitario attorno a Pechino
Lo scoppio della guerra di Corea (1950-53) è il primo tremendo impatto della Cina con la realtà delle relazioni fra potenze.
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Le radici storico-antropologiche della nozione di feticismo
di Alessandra Ciattini
La nozione di feticismo nasce all'interno della riflessione sulla “religiosità primitiva” ma da questa è trasferita ad altri ambiti culturali. Contiene in sé una prospettiva critica che consente di scomporre i nostri “feticci” nel sistema di relazioni che in essi si cristallizzano
In una fase storica in cui alcuni sentono la nostalgia di rapporti uomo / natura improntati alle antiche e simbiotiche concezioni animistiche [1], forse è opportuno ricostruire brevemente la storia di una nozione centrale del pensiero moderno. Mi riferisco alla nozione di feticismo usata da Hegel, Marx, Comte, Freud per citare solo i pensatori più grandi, anche se in contesti diversi e con obiettivi differenti. E ciò non per amore di pura erudizione, ma cercare di far chiarezza - per quanto è possibile nel breve spazio concessomi in questa sede - su due punti: 1) cosa suscita l'interesse per le forme religiose extra-occidentali ? 2) perché guardare ad altre forme di vita sociale per comprendere alcuni elementi costitutivi della propria società e cultura?
L'interesse per nozioni coniate per definire un'esperienza storica “altra” o direttamente provenienti dalle forme sociali extra-occidentali non è ovviamente isolato al feticismo; si pensi ad esempio al concetto di tabù - reso noto da James Cook nei suoi diari di bordo alla fine del '700 - che pure ha avuto tanto successo e che è un parola di origine polinesiana, il cui significato è “marcato con una foglia”. Tale marcatura indicava che l'oggetto così segnato non poteva essere violato, altrimenti sarebbe scattata sul violatore una punizione automatica di origine sovrannaturale, la quale si sarebbe quindi realizzata anche nel caso in cui il trasgressore non fosse stato scoperto.
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Introduzione a Hans Heinz Holz: Marx, la storia, la dialettica*
Stefano Garroni
Perché presentiamo questi scritti di H. H. Holz – rispettivamente già pubblicati dalla rivista “Dialektik” 1991 n. 2 e 1992 n.1? La risposta sta nella paradossale situazione teorica, culturale e politica, in cui ci tocca attualmente vivere.
Voglio dire che, probabilmente, si dovrebbe risalire molto indietro nel tempo, per trovare un’altra epoca in cui, come nella nostra, sia tanto marcata la distanza fra livello teorico – cioè, della riflessione scientifica e di quella filosofica, più strettamente a contatto con gli sviluppi delle scienze e le loro conseguenze anche morali – ed i livelli CULTURALE E IDEOLOGICO – dunque, i piani, che mediano, variamente, consapevolezza teorica e credenze funzionali all’assetto sociale dato. Le conseguenze di tale marcato distacco sono – com’è facile capire e constatare – devastanti: il passaggio, oggi, dalla lettura di un libro importante a quella di un giornale o, più limitatamente, della sua “terza pagina”, autenticamente significa non solo né tanto trascorrere da un livello ad un altro, quanto piuttosto passare da un mondo – raffinato, complesso, difficile, ma probabilmente e parzialmente vero –, ad un universo onirico, la cui difficoltà è data da un fitto intreccio di semplificazioni aberranti ed ipocrisia stupefacente.
Ad aggravar le cose, si aggiunge la novità, per cui – oggi – è proprio la “sinistra”, che si fa portatrice – addirittura paladina – sia di quel distacco, che di quell’intreccio di ipocrisia e semplificazioni deliranti.
Insomma, la nostra è l’epoca in cui – poniamo – ci si batte per la “memoria storica” (così detta); il che ovviamente significa che in primo luogo la “sinistra” – la grande laudatrice delle “radici storiche” – mentre lamenta e denuncia con feroce cipiglio la “smemoratezza” attuale, contemporaneamente accetta la mistificazione di fondo – che consiste esattamente nel ricacciare, nel confinare, storia e radici nel PASSATO, appunto, in ciò che sta dietro le nostre spalle e che, dunque, ATTUALMENTE non ci occupa più.
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Al di la’ del salario: l’auto-sfruttamento del capitale umano
di Fabio Mengali
Una non-recensione del libro “Logiche dello sfruttamento. Oltre la dissoluzione del rapporto salariale” di Chicchi, Leonardi e Lucarelli
La lettura del nuovo libro di Federico Chicchi, Emanuele Leonardi e Stafano Lucarelli "Logiche dello sfruttamento. Oltre la dissoluzione del rapporto salariale" (Ombre Corte, 2016) risulta preziosa per la comprensione del presente e per iniziare a superare una serie di categorie, analisi e interpretazioni che hanno iniziato a starci scomode quando parliamo di nuove forme del controllo e dello sfruttamento. Cerchiamo di addentrarci nei suoi contenuti, approfittando del confronto diretto con gli autori che è avvenuto all’interno dello Sherwood Festival del 2016, per capire quale posta in gioco mette sul piatto la proposta teorica del saggio.
(Di sotto il video della presentazione)
Non solo sussunzione: l’altra logica del capitale per sfruttarci
L’obiettivo del libro è chiaro fin da subito: registrando la permanenza del binomio indissolubile tra plusvalore e sfruttamento nel rapporto di lavoro, gli autori vogliono analizzare adeguatamente la presa del capitale sul lavoro vivo per capirne i nuovi meccanismi di estrazione del valore.
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Il socialismo come limite conflittuale del capitalismo
di Nicolò Bellanca
Il socialismo è oggi una voce del movimento intellettuale e politico planetario che lotta per limitare l'espansione capitalistica nella vita personale e sociale. Si tratta di una prospettiva che non riesce però ad affermarsi ne "L'idea di socialismo" di Axel Honneth, argomenta Nicolò Bellanca in questo nuovo capitolo della riflessione avviata sul "Rasoio di Occam" intorno all'ultimo libro del filosofo tedesco
Il recente libro del filosofo francofortese Axel Honneth, intitolato L’idea di socialismo, è un’occasione per chiederci se e quanto resti in piedi di una delle grandi impostazioni teoriche, e di uno dei maggiori progetti politici, della modernità.[1] L’impianto teorico del volume è scontato e abbastanza condivisibile: «al determinismo storico, alla centralità del proletariato e alla rigidità dell’economia pianificata centralizzata, si sostituisce un deciso sperimentalismo storico, aperto sia riguardo alle forme economiche sia riguardo agli attori in gioco. Alla cecità giuridica e politica del socialismo tradizionale è contrapposto un progetto radicalmente democratico, giocato sulla discussione pubblica e sull’ampliamento dei partecipanti a essa».[2] In termini costruttivi, al cuore della proposta di Honneth vi è non già il valore dell’uguaglianza – come in tanti altri contributi sul tema del concetto di sinistra e/o di socialismo[3] –, bensì l’idea della libertà sociale: accanto alla libertà negativa come non-interferenza e a quella positiva come autodeterminazione, quella sociale si acquisisce soltanto in relazione con gli altri. Più esattamente, l’ideale della libertà sociale si realizza non nel rapporto dell’uno-con-l’altro (intersezione), bensì in quello dell’uno-per-l’altro (interconnessione) e, secondo Honneth, coincide, tra i principi normativi introdotti dalla Rivoluzione francese, con la fraternité o reciprocità solidale.
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Il De profundis per gli Stati Uniti d’Europa
Michele G. Basso
L’uscita dell’Inghilterra dalla UE è la dimostrazione dell’impossibilità della formazione di una federazione di stati europei sul modello degli USA. Più volte abbiamo riportato le posizioni di Lenin, della Luxemburg e di Bordiga, che giudicarono tale ipotesi o impossibile o reazionaria. L’idea di una soluzione bismarckiana o cavouriana, per cui uno Stato con la guerra unifica diversi paesi, si presentò anche per l’Europa, e fu sconfitta. Napoleone, entro certi limiti erede della rivoluzione francese, dove arrivò con la sua legislazione favorì lo sviluppò di una moderna borghesia, ma il suo tentativo di arrivare ai confini dell’Europa s’infranse contro la riserva della reazione mondiale, la Russia zarista.
L’altro tentativo di unione con la forza, condotto da una borghesia ormai ultrareazionaria, fu quello di Hitler, ma non poteva riuscire perché, più che di unificazione si trattava di colonizzazione, giacché Hitler introdusse in Europa quei metodi terroristici che gli imperi europei avevano utilizzato contro le popolazione africane, asiatiche e con gli indiani d’America.
Se è stata impossibile l’unificazione con la forza, a maggior ragione lo è quella mediante accordi tra Stati.
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Contro il Reddito di Cittadinanza Universale ed Incondizionato
di Marco Mercuri
Mentre il MoVimento5Stelle si accredita sempre più come forza di governo, tesse legami internazionali e “normalizza” il suo programma epurandolo dalle misure definite per anni “antisistema e populistiche” dai media (basti pensare al riposizionamento europeista avvenuto a seguito della tournée pre-elettorale di Luigi Di Maio nei salotti che contano tra Roma, Berlino e Londra, per inciso, la stessa che fece Renzi), c’è un fiore all’occhiello del loro programma che sta raccogliendo uno straordinario ed inaspettato consenso divenendo, di fatto, la “scaletta” che consente di salire sul carro del vincitore a gente come Gramellini, Freccero ed altri personaggi della nostrana a-sinistra radical chic. Stiamo parlando del Reddito di Cittadinanza.
In Svizzera il 5 giugno la maggioranza dei cittadini ha bocciato la proposta di modifica costituzionale che avrebbe aperto la strada alla realizzazione di un reddito di cittadinanza universale ed incondizionato (2500 franchi svizzeri, corrispondenti a circa 2280€). Non passerà molto prima che sentiremo parlare nuovamente di simili tentativi nella vecchia Europa. In molti paesi è già presente una sorta di reddito di emergenza capace di arrivare a soccorso delle vittime della disoccupazione e della precarietà, fenomeni strutturalmente connaturati all’attuale modo di produzione capitalista. Tali misure sono però assimilabili, al netto delle dovute peculiarità, a sussidi di disoccupazione ed altre forme di assistenza “particolare”.
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Guerra e rivoluzione
di Sebastiano Isaia
Conoscerete la verità ed essa vi renderà liberi (Gesù).
L’ipotesi illusoria non fa le veci della verità (Mohammad).
La verità è rivoluzionaria (Lenin).
Per lo storico Franco Cardini, con il terrorismo jihadista l’Occidente si trova a dover fare i conti con una guerra sociale che usa la religione come mero pretesto: «Non illudiamoci. Questa non è una guerra di religione: è una guerra sociale, della quale è teatro tutto il mondo». Si tratta allora di chiarire i termini politici e sociali di questa guerra, di precisarne i contorni, anche ideologici, di coglierne la dinamica interna e di connetterla al più generale e unitario processo sociale mondiale. Nel suo piccolo, chi scrive ha cercato di dare un contributo alla comprensione di questa «guerra sociale» scrivendo diversi post sull’argomento, ai quali rimando i lettori, e la cui tesi centrale si può riassumere come segue: la religione non spiega nulla di fondamentale, mentre è essenziale capire l’uso politico-ideologico che di essa fanno i movimenti politico-militari al servizio di interessi economici, sociali e geopolitici ben definiti.
A proposito dell’evocata guerra sociale, e prima di entrare nel merito della questione, non posso non evidenziare il fatto che il Presidente degli Stati Uniti si è visto costretto ad abbandonare in fretta il vertice Nato di Varsavia, nel corso del quale gli Alleati hanno approntato nuove misure politico-militari idonee a contenere l’attivismo imperialista della Russia di Putin, per fronteggiare quella che molti analisti politici americani definiscono «una nuova guerra civile». «Obama ha la guerra in casa, e viene qua a intromettersi nelle vicende che riguardano il mio cortile di casa!», avrà pensato con un certo fastidio e con molto compiacimento il virile Vladimir.
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Stato d'eccezione o statalismo autoritario
Agamben, Poulantzas e la critica dell'antiterrorismo
di Christos Boukalas
L'antiterrorismo viene spesso compreso in termini di emergenza e di sospensione dello Stato di diritto. Contro questa lettura eccezionalista sviluppata soprattutto da Giorgio Agamben, Christos Boukalas sostiene un approccio strategico-relazionale delle mutazioni degli Stati capitalisti e degli apparati securitari, rispetto a cui lo statalismo autoritario appare come una forma normale di potere politico nella società capitalista. In questa prospettiva, i potenziali di resistenza alle strategie del potere non devono essere trovati nella "nuda vita" ma nelle forze sociali e nelle lotte concrete che caratterizzano la situazione attuale.
Il contributo di questo articolo alle analisi critiche del terrorismo consiste nel presentare e confrontare i due approcci alla sicurezza interna agli Stati Uniti [*1]: in primo luogo, l'approccio in termini di stato di emergenza, derivato da Carl Schmitt ed introdotto nei dibattiti contemporanei attraverso la sua riconcettualizzazione da Giorgio Agamben, e in secondo luogo, un approccio strategico-relazionale elaborato a partire dalla teoria dello Stato di Nicos Poulantzas e Bob Jessop [fs].
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A proposito di mandanti morali
di Militant
Ernesto Galli della Loggia, insieme a Dario Di Vico, Angelo Panebianco, Paolo Mieli e Sergio Romano, fa parte di quella cerchia di intellettuali di riferimento che stabiliscono la linea politico-ideologica del Corriere della Sera, il principale organo d’informazione del paese. Da questo punto di vista, è sempre interessante leggere le analisi proposte da questi particolari maître a penseer della borghesia italiana, perché dicono esplicitamente ciò che il resto del giornalismo lascia solo intendere ambiguamente. Si fanno carico di sintetizzare una visione del mondo, dunque riassumono la weltanschauung dominante. Paradossalmente, proprio perché tendono a dire “le cose come stanno” senza freni inibitori tipici di chi non può ambire a quel ruolo, a volte affermano effettivamente “pezzi di verità” celati dalle varie narrazioni artificiose attraverso cui viene celata la realtà dei fatti. Sono, in altri termini, il volto “sincero” di un realismo politico con cui fare i conti. Altre volte, invece, hanno il ruolo di nobili giustificatori dello status quo. Non a caso capita molte volte, non solo da queste parti, di commentare le loro prese di posizione. Perché se bisogna confrontarsi con il pensiero dominante, è attraverso questi personaggi che bisogna passare, per leggere la realtà senza veli deformanti.
L’analisi proposta dal nostro sul Corriere di lunedì scorso (Le parole che l’Islam non dice) riassume degnamente il pensiero dominante, quello effettivamente veicolato dai centri del potere politico-culturale, ma che viene mascherato dalle ragioni del politicamente corretto.
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La riforma del lavoro francese, la Nato e la fine del ruolo del Ps
di Lorenzo Battisti
Dodici manifestazioni nazionali, milioni di lavoratori in piazza, duri scontri tra la polizia e i sindacati, con continue provocazioni e arresti arbitrari. Questo ha provocato la legge di riforma del codice del lavoro fatta dai socialisti. Con questa il Ps ha voluto inaugurare il suo ultimo anno alla guida delle Francia. Difficile non fare il confronto con la reazione nulla che i sindacati italiani ebbero quando il loro governo approvò prima la riforma Fornero e poi il Jobs Act di Renzi. A questo si aggiunge il ruolo sempre più importante giocato dalla Francia all'interno della Nato.
La legge sul lavoro: la distruzione del codice del lavoro francese
Proprio nelle settimane che hanno preceduto la presentazione della riforma del lavoro, tra censure più o meno esplicite, è uscito in Francia un documentario (sul genere di quelli di Michael Moore) che si chiama “Merci, Patron” (Grazie Padrone), dove si racconta la storia di una coppia che perde il lavoro a causa di una delocalizzazione in Polonia. Il documentario offre uno spaccato della Francia odierna e del dramma del lavoro al tempo della crisi capitalistica.
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UE-EURSS? No, totalitarismo neo-liberista del mercato
di Quarantotto
1. Come spesso capita, seguendo una prassi "conservativa", dei commenti più stimolanti, ci soffermiamo sulla questione della "spontaneità" dell'ordine naturale del mercato per arrivare poi a verificare la presunta equiparabilità dell'Unione Europea all'URSS.
Muoviamo dalla notazione di Philip Mirowsky (et al.) suggerita da Francesco:
“il Mercato” non fa apparire naturalmente e magicamente le condizioni per il suo continuo fiorire, per questo il neoliberismo è in primis e soprattutto una teoria su come ristrutturare lo Stato al fine di garantire il successo del mercato e dei suoi attori più importanti (…)” [P. MIROWSKI - D. PLEHWE, The Road from Mont Pelerin, Harvard University Press, Cambridge, 2009, 161]".
Non che Mirowsky sia un entusiasta assertore di tutto questo: anzi, egli è uno dei più acuti e ironici osservatori critici di quel paradigma neo-liberista, che controlla saldamente governi nonchè opinione pubblica e di massa, avendo unificato il pensiero politico-filosofico (prima ancora che, ovviamente, quello economico), ormai praticamente in tutto il mondo:
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Il mancato golpe in Turchia
Sabotaggio, incompetenza o inganno?
di Federico Pieraccini
Il Golpe in Turchia rimane ancora da decifrare ma le prime conseguenze iniziano a rivelarsi
Per capire il colpo di Stato in Turchia, bisogna analizzare le motivazioni che hanno portato il golpe a fallire. Una premessa: c’era davvero l’intenzione rovesciare il potere e arrestare Erdogan ? Chi sono i mandanti ? Partendo da questi interrogativi e vagliando le possibili risposte, si ottiene un quadro ragionevole e autentico in una vicenda ancora molto confusa.
Partiamo da qui. Ipotizzando l’esistenza di un manuale del ‘Perfetto Colpo di Stato’, è molto probabile che tratterebbe e spiegherebbe accuratamente l’importanza dei primi obiettivi da mettere a segno per il buon esito di un golpe:
- L’arresto del Capo di Stato
- La nomina di un Rappresentate dei golpisti e di una conferenza stampa attraverso i media nazionali per tranquillizzare la popolazione.
- Il controllo di tutte le fonti di informazione/comunicazione.
- L’appoggio di almeno una parte consistente delle forze dell’ordine.
- Il controllo dei ministeri.
- Il controllo degli aeroporti civili e militari.
- Il controllo del parlamento.
- Il controllo dei cieli.
- Il Coprifuoco.
Il mancato arresto di Erdogan è una vicenda molto indicativa delle reali intenzioni del golpe.
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Turchia: sono capaci di tutto
di Fulvio Grimaldi
“La mente è come un paracadute, non funziona se non si apre.” (Frank Zappa)
“Siamo gli strumenti e i servi di uomini ricchi dietro le quinte. Siamo le marionette; loro tirano i fili e noi balliamo. I nostri talenti, le nostre capacità e le nostre vite sono tutti la proprietà di altri. Siamo prostitute intellettuali”. (John Swinton, direttore del “New York Tribune”, 1880).
Partiamo dall’ultima bufala False Flag, quella dell’autogolpe del tiranno turco, destinata a completare, con l’ennesima carneficina di propri sudditi, la serie di autoattentati con cui è riuscito a governare uno Stato di Polizia quasi perfetto. Gli mancava la liquidazione di qualche residuo di esercito, magistratura, informazione, politica (il gruppo Fethullah Gulen) e una dimostrazione ad alleati vagamente perplessi che senza di lui non si va da nessuna parte. E così ha allestito il suo incendio del Reichstag, quello che nel 1933 servì a Hitler per rimuovere comunisti, socialisti e cattolici antifascisti e, nel 2001, con l’11 settembre, alla cupola militar-finanziaria-industriale USraeliana a lanciare la guerra per la loro dittatura mondiale.
Lo sibila tra i denti anche lo stesso Gulen che, ovviamente, rintanato negli Usa sotto tutela e controllo di Washington, non c’entra niente. Anche perché quando mai lui, islamista integralista quanto Erdogan, avrebbe potuto/voluto lanciare contro il sultanato una forza militare che, a dispetto delle epurazioni islamizzanti subite negli anni, mantiene una robusta base secolare e nazionalista. Anche perché per una roba del genere i suoi sorveglianti americani non gli avrebbero mai allentato le briglia.
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Deleuze, il movimento reale del molteplice
Giso Amendola
Il saggio «Gilles Deleuze» (DeriveApprodi) di Michael Hardt libera il campo dalla lettura neoliberista del filosofo francese. E svela la politicità dell’opera, considerandola come un nodo nella trama critica dello status quo
All’inizio degli anni Novanta, nel 1993, due anni prima della morte di Gilles Deleuze, Michael Hardt pubblica uno dei primi lavori monografici in lingua inglese dedicati al filosofo di Logica del senso e Differenza e ripetizione: oggi Gilles Deleuze. Un apprendistato in filosofia torna disponibile grazie a DeriveApprodi e alla “neonata” collana Operaviva (l’edizione italiana è a cura di Girolamo De Michele, la traduzione è di Cecilia Savi).
Quando esce originariamente il libro di Hardt, la recezione di Deleuze nei paesi anglosassoni sta avvenendo a seguito di quell’ondata di interesse per il pensiero radicale continentale che ci avrebbe fatto parlare poi di una French Theory. Il libro di Michael Hardt ha davanti originariamente questo panorama: il poststrutturalismo è stato sì accolto nel panorama americano, ma è stato letto soprattutto come una sorta di più o meno ironica e disincantata critica del fondamento, un abbandono lineare e senza scosse della tradizione filosofica, senza che questo congedo riesca a sviluppare una reale potenza costruttiva e critica.
L’obiettivo dichiarato di Hardt è quello di ribaltare questa visione del poststrutturalismo: si tratta di rivendicare al poststrutturalismo la capacità di attraversare la modernità cercandone le “filiazioni alternative”, e di affrontare la questione del fondamento evitando di rimanere impigliati nella meditazione perpetua sulla sua eclissi.
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Il regime europeo del salario 2
La loi travail e il governo della precarizzazione
di Lavoro Insubordinato
Lo scorso 5 luglio Manuel Valls ha messo fine al dibattito parlamentare sulla loi travail con un atto di forza. Per scavalcare una peraltro timida opposizione, il governo ha fatto nuovamente ricorso all’articolo 49.3 della costituzione, una procedura d’emergenza che dovrebbe garantire l’interesse generale della nazione. Poco importa che negli ultimi quattro mesi milioni di uomini e donne abbiano scioperato e manifestato chiarendo che di quell’interesse generale non sanno che farsene. Un governo sotto assedio invoca lo stato d’assedio per stringere la morsa neoliberale sulla vita di quelle donne e di quegli uomini. Dopo che la Commissione europea ha imposto il suo diktat alla Grecia – cancellando senza esitazioni il risultato del referendum dello scorso luglio – e dopo l’imposizione del Jobs Act a colpi di fiducia in Italia, ora anche la Francia si adatta alla tendenza europea che pretende di stabilire il comando del potere esecutivo sul lavoro vivo. Invocando l’articolo 49.3, il governo francese non si libera soltanto di una patetica opposizione parlamentare, ma pretende anche di sovrastare il rifiuto espresso in questi mesi dalle piazze per imporre un incontrastato predominio del capitale. Definendo le condizioni politiche dello sfruttamento, di una completa disponibilità al lavoro e quindi un’estensione del comando capitalistico anche al di là del rapporto di lavoro salariato in essere, la loi travail è l’espressione nazionale del regime europeo del salario. La sollevazione francese degli ultimi mesi è però il chiaro segno che precarie, operai e migranti non sono affatto disposti a sottostare a un simile regime.
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Lotta teorica è prassi
di Francesco Schettino
“Solo un partito guidato da una teoria di avanguardia può adempiere la funzione di combattente di avanguardia” (V.I. Lenin, Che fare? 1902) : brevi riflessioni sul ruolo della teoria rivoluzionaria
Lotta teorica e socialismo scientifico
Nella storia del pensiero marxista – o più in generale all’interno dei movimenti o partiti ispiratisi almeno vagamente all’idea del comunismo (o del socialismo) nell’ultimo secolo – il rapporto tra teoria e prassi rivoluzionaria ha senza dubbio ottenuto un posto di primaria importanza nel dibattito che negli anni si è svolto, per quanto spesso con esiti abbastanza avvilenti. In questo breve articolo non si vuole proporre una rassegna di quelli che sono stati gli ultimi, tra l’altro spesso poco incisivi, sviluppi della questione: al contrario, prendendo a riferimento l’esempio cubano, oltre che quello dei paesi a capitalismo avanzato, si tenterà di proporre un contributo che possa consentire una riflessione su questioni che, oramai, sono solo di rado tenute in adeguata considerazione.
Punto di partenza per affrontare una discussione di questo genere, evitando di scivolare su posizioni che in fin dei conti hanno dimostrato tutta la loro velleità e sterilità, è la considerazione, fin troppo distorta o aggirata, di Lenin che, nel Che fare? giustamente sosteneva che “senza teoria rivoluzionaria non vi può essere movimento rivoluzionario”.
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Il potere liquido del Panopticon
Federico Rahola
Con la Rete, la sottrazione dalle tecnologie del controllo non può limitarsi all’anonimato e all’invisibilità. Un sentiero di lettura a partire dai testi di Michel Foucault, Alice Goffman e dall’annuncio, non confermato, dell’identità dell’artista Bansky
Il rapporto tra poteri e resistenze è anche una partita tra luce e ombra. E non si tratta di stabilire una volta per tutte un primato tra i due ambienti, piuttosto di tracciare la loro reversibilità tattica. Ma se è vero che il controllo oggi si gioca sulla necessità di prevedere il comportamento di soggetti liberi e mobili, ciò significa che la luce su cui si fonda dovrà partire dai soggetti stessi. Da qui, forse, la necessità di un elogio dell’ombra, a quarant’anni da Sorvegliare e punire di Michel Foucault e a più di sessanta da L’uomo invisibile, unico romanzo compiuto di Ralph Ellison.
Sessant’anni potrebbero essere un tempo congruo per disperdere l’eco delle prime parole di quel libro. Eppure erano potenti, le note di un manifesto a venire, una new thing: «sono un uomo invisibile. No, non sono uno spettro, come quelli che ossessionavano Edgar Allan Poe; e non sono neppure uno di quegli ectoplasmi dei film di Hollywood. Sono un uomo che ha consistenza, di carne ed ossa, fibre e umori, e si può persino dire che posseggo un cervello. Sono invisibile semplicemente perché la gente si rifiuta di vedermi: capito?» Poche frasi e la voce si localizza, facendo di un seminterrato l’indirizzo da cui recapitare un’autobiografia a ritroso destinata a insinuarsi di piatto nelle pieghe di un secolo tagliato a metà dalla linea del colore: «vivo abusivamente in un edificio affittato solo ai bianchi, in una sezione del seminterrato che fu interrotta e dimenticata durante il XIX secolo».
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Golpe in Turchia. Tutto previsto, o quasi
di Pino Cabras
Il confuso colpo di Stato in Turchia non ci sorprende. È finito un ciclo storico di cui molti osservatori hanno avvertito per tempo la resa dei conti
Il golpe in corso in Turchia non ci sorprende. Un anno fa ospitammo su queste pagine un articolo profetico di Thierry Meyssan, intitolato "Turchia in pericolo", che prediceva un'imminente guerra civile causata dai disastri e le convulsioni cui Recep Tayyip Erdoğan aveva sottoposto questo paese chiave della NATO, per non parlare dei contraccolpi derivanti dal suo ruolo più criminale, quello di coordinatore del terrorismo jihadista che insanguina Siria e Iraq. Sempre Meyssan annunciava in un altro articolo: "Verso la fine del sistema Erdoğan". Qualunque sia l'esito finale del colpo di Stato, possiamo già dire che siamo al termine di tutti gli equilibrismi turchi degli ultimi 15 anni, sintetizzati via via in un regime personale sempre più repressivo, triplogiochista, antidemocratico. Che Erdoğan sia rovesciato o che riconquisti provvisoriamente il potere, come sembra probabile, a chi prenderà in mano il comando rimarrà un paese diviso, con le istituzioni umiliate dalla diffidenza reciproca, l'assenza di un progetto convincente in mezzo a una situazione internazionale esplosiva.
Un altro articolo interessante è stato scritto da Luisanna Deiana su SpondaSud il 13 aprile 2016, che riproponiamo qui di seguito.
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La situazione delle ferrovie italiane
di Marco Cedolin
Ci troviamo oggi di fronte ad una serie d’investimenti di portata epocale, operati da parte dello Stato e finalizzati alla costruzione di nuove infrastrutture ferroviarie. Per avere un’idea delle grandezze economiche oggetto della questione, basti pensare che i costi della sola tratta TAV Torino – Milano – Napoli si aggirano sugli 80 miliardi di euro, ai quali andranno aggiunti gli 11 miliardi di euro (previsti quindi soggetti ad incrementi esponenziali) della linea Torino – Lione, più altri investimenti nell’ordine delle decine di miliardi di euro per la futura tratta Milano – Venezia – Trieste e per il terzo valico Milano – Genova.
Le infrastrutture per i treni ad Alta Velocità dovrebbero rappresentare comunque un valore aggiunto all’attuale rete ferroviaria italiana, non potendo vantare caratteristiche funzionali atte a migliorarla, né tanto meno a sostituirla. Senza soffermarci ad analizzare la mancanza di motivazioni che sostengano la necessità delle nuove infrastrutture, dovrebbe essere prerogativa imprescindibile di ogni investimento aggiuntivo il fatto che la rete ferroviaria oggi operativa sia perfettamente funzionante, il più possibile sicura, sufficientemente moderna, e totalmente in grado di rispondere alle normali esigenze del traffico su rotaia.
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Democrazia senza partiti? Prospettive, interrogativi e intelligenze artificiali
di Francesco Piccinelli
Se è vero che la democrazia rappresentativa e i partiti sono in crisi, essi devono cercare un modo per rinnovarsi anche se i modelli proposti negli ultimi 70 anni non sembrano essere particolarmente soddisfacenti
E’ possibile immaginare una democrazia senza partiti? La risposta d’istinto è un fermo no, perché i partiti servono a mettere in contatto cittadini e istituzioni ed e attraverso la loro organizzazione che le domande che arrivano dall’esterno arrivano dove vengono prese le decisioni. Eppure, se c’è una cosa che stiamo imparando in questi ultimi anni è che i partiti tradizionali in Europa contano sempre meno e vengono progressivamente sostituiti da altro, da movimenti di estrema destra o da partiti antisistema.
Certo, vengono sostituiti da organizzazioni che sono comunque partiti. Il problema di questi nuovi partiti è che non hanno la democrazia nel loro orizzonte e, apparentemente, usano il consenso democraticamente costruito per abbattere la democrazia, come sta accadendo in Polonia e Ungheria, per esempio. È ancora presto per stabilire se siamo di fronte a due casi isolati o siamo davanti a un nuovo vento dell’Est che contagerà anche il resto del Continente. Quello che è certo, però, è che siamo davanti a un’Europa dove la democrazia rappresentativa è in crisi e dove va trovata una soluzione, soprattutto se la sinistra vuole avere un futuro.
Il punto è che cittadini e politici non sono mai stati così distanti. Lo racconta benissimo Peter Mair in “Ruling the Void”, libro che mette in evidenza come la politica sia, ormai, una questione privata per politici che governano isolati dal resto del mondo mentre i cittadini osservano da spettatori data la crisi – per esempio – del partito di massa novecentesco.
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