Heidegger ha vinto Marx ha perso
di Leo Essen
1.
Il gioco, come osserva Fink con una pesantezza heideggeriana, appartiene essenzialmente alla costituzione d’essere dell’esistenza umana. In altri termini, il gioco non è un’attività accessoria né un semplice divertimento, ma un modo originario in cui l’essere umano si rapporta al mondo. Di più: La totalità dell’ente, dice, funziona come un gioco. Di più: Il gioco funziona come motore del lavoro del costruire e del demolire. Il gioco come allegoria del cosmo. Come creazione originale e produzione. Rapimento estatico, fascinazione incantata. Momento oscuro e dionisiaco della panica cancellazione di sé. Apoteosi della sovranità. Liberazione dai gravami dell’esistenza.
Il gioco in quanto esistenziale: In-der-Welt-sein, Mitsein, Sorge, Entwurf, Geworfenheit, Sein-zum-Tode e Tutt-u-Cucuzzaru.
Poi c’è il gioco inautentico. Quello che si oppone al lavoro, e come il lavoro diventa necessario alla sussistenza – la contraddizione che muove il mondo (Omnis determinatio est negatio), il produci consuma crepa. L’apparato di civilizzazione della società altamente tecnicizzata, il suo sistema razionale, amministra la produzione, il consumo, il traffico, la comunicazione e il divertimento. Nel gioco sembra di essere trascinati via da questo mondo preordinato, dal tempo parcellizzato e ormai reso estraneo, sembra di raggiungere un nuovo mondo di impulsi di libertà e di realizzazione immaginaria dei desideri. E, invece, poiché siamo nella società dell’industria e della tecnica (e della scienza), dice Fink, ci sono pericoli di tipo nuovo: il gioco cattura le masse in enormi manifestazioni circensi e poiché lo sport della domenica offre materia di discussione dopo la grigia settimana lavorativa, c’è sempre un’immensa industria al lavoro, un’industria del passatempo, una fabbrica per il consumo del gioco o, ancora più inquietantemente, uno sfruttamento della voglia di giocare in una manipolazione totale, che continua a vigere anche là dove i singoli si sentono totalmente liberi e sembrano godere della loro libertà di scelta.
Oggi il tempo libero, sin troppo abbondante, è diventato un problema sociale; esso deve essere organizzato, amministrato, sorvegliato in luoghi appositamente costruiti, ripensato in impianti e campi sportivi, nei teatri, nei luoghi di divertimento, nelle macchine da gioco, nei parchi gioco per bambini e simili. L’intrattenimento programmato, dice Fink, è un prodotto dell’industrialismo, della pianificazione tecnica ed economica. Il Panem et circenses, insomma.
C’è gioco e gioco. Quello inautentico, direbbe Heidegger, ha il fine fuori di sé, ἐν ἄλλῳ (en allō) – il fine fuori di sé, ripete Fink; quello autentico, direbbe H, ha il fine in sé, ἐν ἑαυτῷ (en heautō) – il fine in sé, ripete F. Il lavoro, per esempio, ha il fine fuori di sé, per questo il lavoro è schifoso e va evitato come una malattia. E chi lavora è peggio di un lebbroso. Il lavoro è tuttalpiù un mezzo per trascendere una vita di merda. L’uomo dovrebbe di quando in quando togliersi dal giogo del lavoro, dice Fink, dovrebbe liberarsi una buona volta dalle tensioni continue, sgravarsi dal peso degli affari e del negozio, liberarsi dall’angoscia del tempo parcellizzato per guadagnare un rapporto più disteso con il tempo, in cui questo può venire sprecato e addirittura diventa così abbondante che lo si può di nuovo scacciare con un passatempo.
Il gioco, quello autentico, quello che non ha il fine di impiegare il tempo libero, di tenersi in forma, di dimagrire, di rimediare a una vita lavorativa sedentaria, di far stare tranquilli e narcotizzati sul divano o negli stadi, eccetera; il gioco come attività creativa, in cui la creazione è il gioco stesso; il gioco non come perdita di tempo, ma come perdita del tempo, come eterno presente, come parusia; il gioco che ha il carattere di un presente tranquillo e di un senso autonomo, che è un lampo di eternità; questo gioco è privo di scopo, non è pianificato, è gratuito, è una spesa senza ritorno. Di più: è una spesa che non sa nemmeno di essere una spesa; è una spesa che è un guadagno.
Il gioco ha solo degli scopi interni a sé, che non rimandano ad altro. Non essendo pianificato, non è razionale: è imprevedibile e casuale, aleatorio, ma non per questo è irrazionale. È un vagabondare senza meta e senza limiti che tiene lontani dal mondo demoniaco del lavoro (parole di Fink). Il gioco non ragiona, e tuttavia non è affatto povero di pensiero o privo di pensiero – parole di Fink, tolte di bocca a Heidegger.
Il gioco ci sottrae alla condizione fattuale, alla prigionia di una situazione costrittiva e oppressiva, ci offre la felicità della fantasia. Il gioco – qui Fink tocca punte di poesia – il gioco si oppone a ogni partizione della società in classi, in divisioni secondo l’età biologica, o magari secondo il sesso.
Gioco contro Piano: questa è la partita. Il piano dispone e ordina il mezzo per il fine, e il mezzo sei tu, il tuo corpo, le tue mani, la tua mente. Il piano è l’espressione dell’intenzione e della previsione in vista di un futuro che è tutto pensato e calcolato nel piano stesso. È il dominio del passato sul futuro. È l’avanzata del tempo calibrato e calcolato. Se il piano viene eseguito con rigore scientifico e razionalità, ciò che in esso era previsto accadrà, e dunque non accadrà niente di nuovo. E se il piano devierà, bisognerà allora ricalcolare, stimare, saggiare, riprogrammare e ripartire, affinché nessuna variabile sia sconosciuta e tutto proceda come deve procedere – la statistica aiuta, il calcolo delle probabilità anche. L’errore deve essere eliminato, e il caso torchiato. Il calcolo domina. E dove domina per davvero? Domina in Usa e in URSS, dice Fink, domina negli stati totalitari. Cosa c’è di più totalitario di un piano che non sopporta errori e deviazioni, scostamenti e perdite?
Il gioco è senza perché, direbbe Heidegger. Mentre il lavoro, negli USA e in URSS, è dominato dall’industrialismo e dalla tecnica applicata alla produzione. Qui la forza consumata è accordata al movimento della macchina, niente deve andare perduto, tutto ha un perché, tutto deve essere recuperato e valorizzato, tutto deve avere un senso e ogni cosa deve piegarsi al movimento della macchina: è la macchina che usa l’uomo e non l’uomo la macchina; egli diventa una sua appendice, con il taylorismo il piano della produzione prende la sua forma scientifica definitiva, ciò che entra come input deve uscire come output, senza resto. Ogni goccia di sudore è soppesata e valorizzata. Il piano industriale domina la logica della produzione. Allo stesso modo, in URSS, il piano – ovvero i soviet + l’elettrificazione – sacrifica l’uomo sull’altare del progresso industriale. La validità di ogni singolo svanisce a un ritmo frenetico a favore della totale uniformità. Ciò che «è», direbbe Heidegger, è ciò che sta per ad-venire, provenendo dal «già stato» e in quanto «già stato», sono un ritorno calcolato e razionale che impedisce la venuta di ciò che è libero e inedito. Tradotto vuol dire che là dove domina il Piano industriale (o il Piano quinquennale – il già stato), l’uomo non può sgarrare, deve filare dritto, deve eseguire il programma, e comandato dal capitale morto fare in modo che questo capitale si riproduca e ritorni più forte di prima, identico a se stesso, così come era e così come sarà nei tempi dei tempi. Dal calcolo – dal piano – si genera il mondo. Ma il calcolo – il calcolo meccanico, il calcolo dell’intelligenza artificiale e meccanica – computa solo e soltanto ciò che è già registrato nel programma, il calcolo non crea, non è libero, non è sovrano, sciorina il futuro da ciò che ha accumulato in passato. Tutto il tempo è compreso nell’eternità del già sempre stato. Il capitale morto si muove in circolo, ruota meccanicamente, usa come mezzo il lavoro vivo per far tornare il morto. Nel 1677 Leibniz scrisse un dialogo sulla lingua rationalis, vale a dire sul calcolo e la macchina calcolatrice (sull’intelligenza artificiale), e in una nota manoscritta a margine, dice Heidegger, osserva: Cum Deus calculat fit mundus. Quando Dio calcola si genera il mondo. Il mondo, il destino del mondo, è già tutto deciso nella mente calcolante di Dio, niente può sgarrare. Nessun errore, nessun dispendio, nessuna devianza, tutto è deciso, ogni cosa ha uno scopo, l’occhio è fatto per vedere, e la mano per afferrare, altro che Darwin! Allo stesso modo pensa il marxismo: la struttura ha già sempre deciso per la sovrastruttura, e ogni pensiero, ogni istituto, il diritto e la politica, la società e il costume, gli usi e i passatempi, lo sport e la ginnastica, il modo in cui il cibo viene preparato e consumato, le suppellettili, i vestiti e la moda, la televisione e la radio, i giornali, la musica leggera e la musica classica, le chiacchiere dei vicini e le liti condominiali, l’algoritmo di internet, tutto è deciso dalla struttura economica, e niente è più possibile. Si ripete a pappagallo, si ripete ciò che la macchina e la tecnica e la scienza hanno calcolato che bisogna dire. Tutto viene così ridotto al medesimo livello, su di uno stesso piano – altro che mille piani!, – simile alla superficie appianata di uno specchio che non riflette e non rimanda più alcuna immagine, scrive Heidegger nel 1935. La dimensione predominantemente è diventata quella dell’estensione e del numero. Il saper fare non designa più la capacità, né la generosità derivanti da esuberanza e padronanza delle proprie forze, ma solo da una certa routine che ognuno può apprendere macchinalmente con un certo sforzo. Tutto questo si è andato ulteriormente aggravando, sia in America che in Russia. Si tratta, dice Heidegger, dell’invadenza di ciò che chiamiamo il demoniaco. L’incremento di questo demoniaco che fa tutt’uno col crescente disorientamento e con la crescente insicurezza dell’Europa nei suoi confronti e in se stessa, si manifesta in molti modi. Quest’Europa, dice, in preda a un inguaribile accecamento, sempre sul punto di pugnalarsi da se stessa, si trova oggi nella morsa della Russia da un lato, e dell’America dall’altro. Russia e America rappresentano la stessa cosa: la medesima desolante frenesia della tecnica scatenata e dell’organizzazione senza radici dell’uomo massificato. Pure il marxismo, dice, ha ceduto alla forza irresistibile della scienza e della tecnica, e per esso, tutto è deciso nella struttura economica come ultima istanza.
Se, dunque, il mondo è fatto secondo il calcolo di Dio, ossia (precisa Heidegger) è qualcosa di premeditato razionalmente (pianificato), quando l’uomo prende il posto di Dio riprende anche a calcolare, e il mondo, nel suo insieme, diventa calcolo e previsione, programmazione e algoritmo.
Poi però c’è il gioco. Nel fitto del bosco si apre una radura dove ciò che appare si mostra da sé, e non in funzione di altro. Se la tecnica ci dice che niente è senza programmazione e calcolo scientifico, e che nessuno può fare quel che gli pare, ma deve sempre attenersi a un piano, il gioco, invece (trascrivo nel dialetto di Heidegger), il gioco significa entrare nella svelatezza e qui rilucere, e, così rilucendo, perdurare e rimanere. Lo sforzo di Heidegger è qui quello di pensare un inizio – ma più in generale, di pensare un pensiero – che non sia già stato pensato da qualcun altro, di pensare insieme la libertà, la creatività e la sovranità. Non è facile per un uomo dire, in modo determinato, sono libero, queste sono le mie idee da uomo libero, creo ex nihilo (il fiat, appunto!), perché, nel mondo finito, ogni determinazione è negazione e ogni negazione è etero-determinazione – dunque non sovranità e libertà e creazione, ma dipendenza e ripetizione. In dialetto di Heidegger: Ogni fondazione, anzi, ogni sembianza di fondabilità, non può che ridurre l’essere a qualcosa che è, cioè a un ente. L’essere, in quanto essere, resta senza-fondamento (grund-los). Qui interviene il gioco. Il gioco è una ripetizione senza intenzione, senza piano, senza fine, senza scopo, senza un già pensato e calcolato. Il gioco è quell’incalcolabile a partire dal quale ogni calcolo e ogni ragionamento si srotolano. Il cuore del ragionamento – il grund direbbe Heidegger – è il gioco, il centro del calcolo è l’incalcolabile (l’ab-grund). E siccome questo dare il fondamento è un dare ciò che non si ha (cioè il dare un grund a partire da un ab-grund), questo dare è un dono. E questo dono non è un commercio o un negozio (neg-otium), è un dono che si dà senza legame, senza filia o filiazione, senza volere, senza comunità o comunione di intenti, dunque senza soggetto, all’insaputa di chi dà, in quanto un sapere e un tenere conto e un calcolare scaturiscono appunto da questo primo dare – dunque un non-dono, un non negozio. Un dono che fa sembrare un mercimonio e un investimento persino il potlatch. Insomma, quando i ragazzi giocano, e nel gioco si prendono sul serio, come se stessero lavorando e faticando, e ancora di più, e si muovono e si rapportano tra di loro e alle circostanze come se tutto fosse ordinato verso un fine, e si affrontano, si misurano, si scontrato e baccagliano, non si accorgono nemmeno, tanto si prendono sul serio e prendono sul serio quello che fanno, non si accorgono che stanno giocando, che tutto si risolverà in niente, e che a base di quello che dicono e di quello che fanno e dell’intera contesa non c’è niente, se non il gioco stesso, posto che quando giocano pensino al gioco – perché pensare al gioco significa non poter può giocare, perdere la serietà e la concentrazione –, il gioco, un cazzeggiare. Il gioco tiene i giocatori con i piedi a terra. E questo passaggio dal gioco – che è niente – alla partita, è un salto, dice Heidegger, anzi, un Weitsprung, un salto in lungo. Qui iniziano le metafore sportive. E bisognerà tener conto di tutto l’impianto e la dipendenza metaforica – il negozio – che regge la parata del gioco in quanto dare senza dare – in quanto innocenza e gratuità. Solo nella misura in cui l’uomo è messo in questo gioco, scrive Heidegger (siamo nel 1955 a Friburgo, H. tiene una lezione, l’allievo Fink scriverà il suo famoso saggio nel 1957), egli è veramente in grado di giocare e di restare in gioco. Ma di che gioco si tratta? Anche se assicuriamo che il gioco qui inteso – quel gioco, cioè, in cui l’essere in quanto essere riposa (è ancora Heidegger che parla) – è un gioco alto, se non addirittura il gioco sommo. Sopra ogni cosa, sopra la scienza, sopra l’economia, sopra la religione, sopra la società e la sociologia, prima dell’antropologia e della psicologia, prima del lavoro e della pianificazione – capitalista o socialista – prima bisogna giocare – prima c’è il gioco, vuol dire Heidegger. E, inoltre, il gioco è scevro di ogni arbitrio. Non c’è niente nel gioco che lo riconduca a un soggetto, a una volontà, a una decisione, a una scelta. Tutto il contrario, chiarisce Heidegger, bisogna pensare la scelta e la libertà a partire dal gioco. Persino la sommità del gioco, l’alto e il più alto, il sovrano, devono essere pensati a partire dal gioco. Il gioco non dipende da niente, nemmeno dalla decisione. Come fondare allora la libertà e la sovranità se esse hanno sopra di sé qualcos’altro – il gioco? Ma il gioco non deve essere pensato come un qualcosa. Il gioco, dice Heidegger, è scevro da ogni arbitrio. Con ciò si è detto ancora poco, finché questa altezza e la sua sommità, non vengono pensate in base al mistero del gioco. Bisogna segnarsi bene questo passaggio. Il gioco non è il Dio assente della teologia negativa, tanto quanto non è il Dio della teologia positiva. Il gioco si sottrae a ogni differenza tra mondano e ultra-mondano. Il tema del gioco archivia ogni pensiero della differenza (amico/nemico, dionisiaco/apollineo, maschio/femmina, lavoro/capitale, etc.). Il gioco non è ciò che sta in alto, rispetto a ciò che sta in basso: il gioco apre la possibilità della differenza tra alto a basso. Non può essere inteso a partire da questa metafora spaziale, essendo ciò a partire da cui la metafora e lo spazio parlano e spaziano – prendono senza poter dare. Perché il gioco è abissale, è velato, è misterioso, non si lascia pensare. O, meglio, chiarisce Heidegger, appena si prova a pensare il gioco e a rappresentarselo, esso si pietrifica, si cristallizza, diventa una cosa, e in quanto cosa entra nella differenza con altre cose, e non funziona più come gioco. Per pensare il mistero del gioco, dice Heidegger, il nostro modo abituale di pensare non è sufficiente – bisognerebbe barrare o virgolettare ogni parola. Infatti, non appena il nostro modo abituale di pensare il gioco cerca di pensare il gioco, e cioè non appena cerca di rappresentarselo a modo suo, lo prende per qualcosa che è – lo trasforma in una semplice presenza, un questo o un quello, determinato da regole e dunque calcolabile, eccetera. Forse, dice, la frase di Leibniz: Cum Deus calculat fit mundus, dovrebbe essere tradotta in modo più adeguato così: Quando Dio gioca, si genera il mondo. Che cos’è il gioco? Domanda delle domande: la domanda metafisica. Il gioco è senza perché, dice Heidegger. Il gioco gioca giocando. Cazzeggia. Esso rimane soltanto gioco: il più alto e il più profondo. Ma questo «soltanto» è tutto, l’Uno e l’Unico.
2.
Il disprezzo della tecnica è antico quanto il mondo. Non è un’invenzione del Novecento. Per Aristotele ci sono lavori così sgradevoli e noiosi che nessun uomo libero accetterebbe di farli, lavori per i quali non possono che essere incaricati gli schiavi e le donne. Nel mondo antico c’era un disprezzo per il lavoro manuale. Presso i greci era talmente diffuso che il termine stesso di βάναυσος – bánausos – che significa artigiano, divenne sinonimo di spregevole e si applicava a tutte le tecniche. Tutto ciò che è proprio dell’artigiano o del manovale, scrive Koyré (Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione), porta vergogna e deforma l’anima oltre che il corpo: il corpo, perché l’esercizio di un mestiere ostacola e impedisce il suo sviluppo armonioso; l’anima, perché l’industria ha per fine di soddisfare ciò che c’è di inferiore nell’uomo, il desiderio della ricchezza. Il disprezzo che si ha per l’artigiano si estende al commerciante: in rapporto alla vita liberale occupata da ozi studiosi – σχολή – [skholḗ originariamente significava tempo libero, poi studio e infine scuola, luogo di apprendimento.], il negozio [neg-otium, ἀσχολία (ascholía), mancanza di tempo libero, occupazione], gli affari non hanno spesso che un valore negativo; la vita contemplativa, dice Aristotele, è superiore alle forme più alte dell’attività pratica. La contemplazione, scriverà Plotino, è il fine supremo dell’azione; l’attività non è che l’ombra, l’indebolimento, l’accompagnamento. Per Platone gli ingegneri corrompevano e guastavano la dignità della geometria facendola scendere dalle cose intellettive e incorporee alle cose sensibili e materiali. Separati dai geometri gli ingegneri erano collocati nelle arti militari. Questa opposizione si rifletteva in quella tra ϑεωρία (teoria) e πρᾶξις (prassi). Alla fine dell’Etica nicomachea, scrive Schuhl, Aristotele parla dell’alternarsi di πόνος (ponos – il lavoro faticoso), e ἀσχολία (il negotium), cioè gli affari, con la παιδιά́, che è il gioco, alternarsi che è sorte comune agli uomini, e senza altra possibilità per gli schiavi, mentre l’uomo libero conosce una forma superiore di gioco, la σχολή, il diletto coltivato, che attinge quanto c’è di più divino nell’attività umana. Il mestiere dell’ingegnere non si è dissociato da quello del meccanico se non lentamente e tardi, e cioè appunto nella misura in cui ha cessato di essere un mestiere manuale ed è diventato un mestiere colto. Anche Platone, scrive Koyré, quando ci dice Tu non vorrai dare tua figlia a un μηχανοποιόν (mecanopoion, fabbricante di macchine), non è forse tanto lontano dalla mentalità di oggi, quando la traduzione di μηχανοποιόν con ingegnere potrebbe lasciarci credere: quale intellettuale, infatti, anche non aristocratico, quale funzionario anche sovietico, vorrebbe dare sua figlia a un meccanico o a un geniere dell’esercito? Questa stimma, che si trova nella Bibbia, e che ci presenta il lavoro come effetto della caduta, come punizione, maledizione divina, si trasmette alla lingua, dove il lavoro diventa fatica e travaglio, sofferenza e abiezione; questa stimma, che vede opposta la skholḗ al neg-otium, e che oggi oppone il colto e nullafacente – persino il rentier – all’ignorante e al bruto, allo spazzino, che oppone il bottegaio e piccolo borghese al grande intellettuale e all’artista e che giustifica e santifica le posizioni e le naturalizza; questa stimma, che sotto l’etichetta del rifiuto del lavoro, quando il lavoro è fatica e non lavoro astratto, ha radunato la peggior feccia, la quale si vanta di amare ciò che fa, per esempio incassare royalties, montepremi, ingaggi, bonus, dividendi, plusvalenze, affitti; questa stimma che sotto il manto di una scuola eterna, che è la skholḗ di Plaotone e Aristotele, ha contrabbandato l’idea che la parola è la vera arma dei poveri, che la lingua è la chiave della libertà, da Delfi a Roma, da Gnōthi seautón a Vindica te tibi, da Königsberg a Ithaca (New York), da Sapere aude a The truth will set you free. But not until it is finished with you.
Il rifiuto del lavoro si somma all’orrore per la macchina, per l’automa, e di conseguenza per la scienza e la tecnologa.Da Galileo in poi l’utensile medievale diventa tecnologico: arnese più logica, pratica più teoria. Le macchine, reificando l’intelligenza e la creatività umana, infliggono all’uomo un’ulteriore umiliazione. Un uomo sempre più piccolo, che non governa l’universo, che non governa il suo destino biologico e psicologico, è ridimensionato da un’altra entità, la macchina auto-matica, che lo destabilizza in quanto produttore, artista e creatore, artigiano del suo destino.
La scienza ha inferto tre grandi umiliazioni al narcisismo dell’uomo. Nel Cinquecento Nicolò Copernico demolisce, insieme al sistema tolemaico, l’idea che l’uomo sia il centro dell’universo. La Terra diventa un piccolo corpuscolo situato in un angolino remoto di un universo infinito. Nell’Ottocento Darwin abbatte l’idea che l’uomo sia una creatura diversa e superiore rispetto agli altri animali. L’uomo è una bestia, tanto quanto la scimmia e l’asino. Nel Novecento Freud distrugge l’idea di un’anima sovrana che sovraintende ogni azione umana. L’uomo è in balia di forze inconsce che lo determinano a sua insaputa. La macchina pensante, che fa capolino in Leibniz, distrugge il mito di uomo in quanto Artefice del suo destino – la sovranità sul significato del mondo è perduta. Questa perdita va imputata completamene alla ragione. È stato il razionalismo, a partire da Cartesio, è stata al scienza, a partire da Galileo, che hanno cacciato l’uomo dal centro e lo hanno fatto scivolare verso la x. Trasferendo il sapere nella tecnica, diventata nel frattempo tecno-logia, il Razionalismo ha ridotto il mondo e l’uomo a cose calcolabili, riproducibili, ripetibili. Nella famosa conferenza tenuta a Friburgo nel 1938 (L’era dell’immagine del mondo), Heidegger dice che la tecnica meccanica è una trasformazione della prassi, tale da importare prima di tutto l’impiego della scienza matematica. La matematica – la teoria – si piega verso la pratica, si abbassa, si aliena, si inchina, perde l’indipendenza e perde l’innocenza. La phýsis (natura) diventa un dato calcolabile. I Greci non hanno costituito una vera tecnologia, perché essi non hanno elaborato una fisica. E non l’hanno elaborata perché per loro non aveva alcun senso un calcolare matematicamente le grandezze fisiche. Nonostante avessero un modo raffinato per calcolare le orbite degli astri, non avevano interesse a misurare con esattezza le dimensioni di un essere naturale. Non era la scienza e il metodo di calcolo che mancavano, mancava la spinta alla loro applicazione alla fisica. Il cavallo è senza dubbio più grande del cane e più piccolo dell’elefante, ma né il cane né il cavallo, né l’elefante hanno dimensioni strettamente e rigidamente determinate: c’è dovunque un margine di imprecisione, di più o meno, di pressappoco che è più che sufficiente per le transazioni correnti. Le cose del mondo sono pensabili soltanto nella gradualità: la gradualità del più o meno retto, del più o meno piano, del più o meno circolare, eccetera. Tutte le loro proprietà sono infatti immerse in generale nelle oscillazioni della mera tipicità; la loro identità, il loro essere uguali a se stesse e la loro temporanea permanenza nell’uguaglianza è soltanto approssimativa, proprio come la loro uguaglianza con altre. Ciò vale anche di tutti i mutamenti, di tutte le loro uguaglianze e dei loro tipi di uguaglianza. I Moderni, invece, calcolano anticipatamente il fisico, sia per quanto riguarda il decorso passato sia per quanto riguarda il percorso futuro. Nel primo caso è posta (installata – gestellt dice Heidegger) la storia, nel secondo caso è impiantata la natura. Solo ciò che è così installato, cioè inquadrato matematicamente, è anche dato come oggetto della scienza e della tecnologia. È con Cartesio, dice Heidegger, che per la prima volta si dà un oggetto per un soggetto e un soggetto per un oggetto, che la natura e l’uomo diventando calcolabili, diventano delle cose – degli oggetti (Gegenstand).
A questo punto la Ragione smarrisce la sua vocazione. Frammischiandosi alle cose, cadendo dall’alto in basso, cadendo nell’uomo e nella cosa, perde il suo carattere autonomo, libero, sovrano. Risiedendo in una cosa finita, come avviene per i caratteri finiti dell’alfabeto che devono ripetersi per produrre infiniti significati, la scienza deve ruotare su se stessa come una trottola, come un tornio, come un rotore, come un processore di computer, come un giocattolo, e generare dal tik tak binario infiniti pensieri.
La scongiura pronunciata contro l’uomo, contro la scienza matematica e contro il motore appare oltremodo ridicola quando viene giustificata in base a una cosa finita (il gioco), giocata da uomini finiti, i quali, seguendo regole finite, fanno girare una palla che genera infinite combinazioni. Nella Crisi Husserl a un certo punto dice, a proposito dell’alienazione causata dalla tecno-scienza, dice che la matematica applicata opera con lettere dell’alfabeto, con segni di collegamento e di relazione (+,-,x.=, ecc.) e secondo le regole del gioco della loro combinazione; procede in un modo che non è diverso da quello del gioco delle carte o degli scacchi. Il pensiero vero – quello originario – che conferisce propriamente un senso a quello che fa e ai risultati ottenuti è qui escluso. Nella matematica si processano i casi e si applicano le regole senza sapere cosa si fa. La macchina intelligente (l’IA) non sa quello che fa, tanto quanto la calcolatrice non sa cosa significhi 2+1=3, applica delle regole e produce un risultato. Anche quanto l’IA scrive un testo che a noi appare sensato, per lei è solo statisticamente più probabile di un altro che a noi apparirebbe totalmente sconclusionato. La macchina gioca, direbbe Husserl, usa segni di collegamento e regole senza capire quello che fa, fornisce qualcosa di sensato, ma lei è completamente priva di senso.
Nella matematizzazione generale, dice Heidegger, l’uomo diviene il centro di riferimento della fisica. Il mondo ha un senso, diventa ciò che veramente è, solo nella misura in cui è impiantato dall’uomo che rappresenta e produce. Nel medioevo, invece, ogni cosa nel mondo era ens creatum, il frutto dell’azione creatrice personale di Dio inteso come causa prima e suprema. Ogni bene corrisponde a Dio come sua aliquota: appartiene a un certo grado dell’ordine del creato e corrisponde, come causato, alla causa creatrice (analogia entis). Ogni agente vale in proporzione alla sua funzione nell’ordine sociale. Ognuno contribuisce al Bene Comune in misura della posizione che occupa nell’ordine generale: Donna, Bambino, Contadino, Padre, Moglie, Servo, Cavaliere. Tutto ruota intorno a Dio o al suo tramite, che investe il Re e il Cavaliere, che santifica il matrimonio, che battezza il bambino. Nel Moderno ogni cosa è creata dall’uomo, è creata dal lavoro dell’uomo, e tutto ruota intorno all’uomo.
Il lavoro è il fondamento del mondo e della ricchezza. Lutero è il nostro Adam Smith, avrebbe potuto dire Marx. La Rivoluzione della Germania, disse (Introduzione. Per la critica della filosofia del diritto di Hegel 1844), è la Riforma. Lutero mise al centro l’uomo: quando la religione era il sentimento di un mondo senza cuore, nel quale l’uomo era un essere degradato, assoggettato, abbandonato, spregevole. Con Lutero diventa chiaro che è l’uomo che fa Dio, e non Dio l’uomo. Lutero ha liberato l’uomo dalla religiosità esteriore, facendo della religiosità l’interiorità dell’uomo. Egli ha emancipato il corpo dalle catene, ponendo in catene il cuore, ponendolo al centro del creato. Ha portato il centro del creato dal Cielo alla Terra. Ha mostrato che lassù non c’è nessuno. Ma questo centro, ribatte Heidegger, nel quale Marx piazza l’uomo e il lavoro, ha la funzione di bloccare il gioco, di neutralizzarlo, di rapportarlo a un punto di presenza, a un’origine fissa. Così, al centro la permutazione – la rotazione – viene interdetta. Se il lavoro è impiantato al centro, così come lo avevano impiantato Ricardo e Proudhon, ogni cosa deve cambiarsi con lavoro e il lavoro diventa la misura di ogni cosa e tutto si misura in ore di lavoro. Il gioco dello scambio – regolato dalla mano invisibile, dunque auto-regolantesi – in cui tutto può essere scambiato con tutto, senza riguardo al lavoro speso, dunque senza misura e senza calcolo, benché si enumeri e si conti e si incassi, è interdetto, bloccato, pietrificato, cristallizzato, reificato. Se il centro è presidiato, le ripetizioni, le sostituzioni, le trasformazioni, le permute sono sempre riprese e ricondotte a un’arché o a un telos, sono soppesate, squadrate, misurate e messe in riga.
Porre al centro il lavoro era, prima di tutto, un desiderio della borghesia. Marx lo ripete in ogni pagina, dalla Miseria della filosofia al Programma di Gotha. Nel Programma dice, papale, i borghesi hanno i loro buoni motivi per considerare il lavoro come la fonte – il centro – della ricchezza. Perché se il lavoro è la fonte della ricchezza e tutto ruota intorno al lavoro, ne consegue che l’uomo, il quale non ha altra proprietà all’infuori della sua forza-lavoro, deve essere, in tutte le condizioni di società e di civiltà, lo schiavo di quegli uomini che si sono resi proprietari delle condizioni materiali del lavoro. Egli può lavorare solo col loro permesso, e quindi può vivere solo col loro permesso. In Marx c’è una messa in questione puntuale di questo centro, che però non sfocia nel Marginalismo, non sfocia nel gioco. Il Marginalismo ha dovuto cominciare a pensare che non c’è centro, che il centro non ha un posto naturale (in ciò si riassume la critica di Böhm-Bawerk a Marx), che non è un posto fisso bensì una funzione, una specie di non-luogo nel quale si producono senza fine sostituzioni di beni. Questo è il momento in cui ci si rende finalmente conto cheogni cosa può fungere da denaro, anche la carta. L’assenza di un un centro estende all’infinito il campo e il gioco delle permute. Questa distruzione del centro non si produce solo nel Marginalismo, si produce anche in Nietzsche, in Freud, e in Heidegger.
Tutti questi discorsi distruttori e tutti i loro analoghi, dice Derrida (1964), sono presi in una specie di cerchio. Questo cerchio è unico ed esprime la forma del rapporto tra la storia della metafisica e la distruzione della storia della metafisica, e permette, o permetterebbe, a ognuno di questi distruttori, di dare del metafisico all’altro.
Perché?
Nel 1925 Winston Churchill riportò la sterlina al Gold standard, e lo fece al vecchio tasso pre-bellico di 1£ = 4,86$, lo stesso del 1914.
Perché l’oro fu rimesso al centro come regolatore delle permute?
Per un’antica superstizione.
Prima del 1914 Londra era la capitale finanziaria globale. Tornare all’oro e al vecchio tasso ristabiliva la fiducia internazionale nella sterlina e comunicava che l’Inghilterra pagava i suoi debiti in moneta buona. Ma non c’entravano solo il prestigio e la credibilità. Una valuta forte, ovvero piantata al centro del sistema finanziario ma esterna ad esso, ovvero non soggetta alla domanda e all’offerta, ancorata a un supposto Gegenstand (oro), favorisce chi vive di rendita (interessi, affitti, titoli di Stato), chi ha redditi fissi, non legati alla produzione (rentier interests).
Il tasso scelto dall’Inghilterra era troppo alto rispetto al dollaro, e se è vero che tutelava i creditori internazionali britannici, cioè banche, compagnie assicurative, fondi e investitori, i quali, se si fosse svalutata la sterlina, avrebbero ricevuto rimborsi in valuta più debole perdendo potere d’acquisto, è altrettanto vero che sacrificava l’industria inglese, i lavoratori, l’economia domestica: le esportazioni inglesi divennero troppo costose, l’industria subì una forte deflazione interna, l’economia interna entrò in una crisi industriale e occupazionale.
Nel 1921 per un dollaro ci volevano 75 marchi; a gennaio del 1923 ne servivano 18 mila, a luglio 350 mila e a novembre 4,2 Trilioni. Chi aveva accesso a valuta estera o beni reali divenne ricchissimo; chi aveva debiti fu favorito, perché i debiti venivano ripagati con moneta senza valore. I salari venivano pagati due volte al giorno, per fare la spesa si andava in giro con valige di soldi e nei ristoranti i prezzi cambiavano mentre si consumava il cibo.
I governi inglese e tedesco occuparono il centro con un supplente, nell’intento di manipolare i valori economici. L’Inghilterra per far ritornare lo splendore dell’Ottocento, la Germania per non pagare i debiti di guerra. Non computarono il fatto che sia la sterlina-oro sia il Papiermark erano solo supplenti e che il centro era ormai abbandonato e vuoto, e che tutto ciò che vi transitava, surrogando le prerogative proprie al centro, finiva per subire lo stesso trattamento di distruzione. Così, il 21 settembre 1931, una sterlina troppo rivalutata, costrinse l’Inghilterra ad abbassare la testa e ad abbandonare la parità con l’oro, mentre la Germania, devastata internamente dall’iperinflazione, dovette, nel novembre del 1923, sostituire il Papiermark con il Rentenmark nel rapporto di 1 RM = 10¹² PM, e nell’agosto del 1924 sostituire il Rentenmark con il Reichsmark.
Negli anni 30-40, il grande erede della scuola Marginalista, Friedrich August von Hayek, suggerì di imporre al centro un supplente controllato direttamente e fedelmente dallo Stato che potesse fungere da perno intorno al quale far ruotare tutte le transazioni nazionali e internazionali. Ma Hayek rimaneva pur sempre un empirista e presto dovette ammettere a se stesso che, alla prova dell’esperienza passata e presente, non si poteva sperare che un supplente controllato dallo Stato potesse garantire la stabilità richiesta. Non poteva garantirla non tanto perché lo State avrebbe prima o poi cercato di mettere le mani sul centro manipolando le transazioni, ma perché, di principio, lo sforzo empirico di un soggetto finito che si affanna dietro una ricchezza infinita che non potrà mai dominare è votato al fallimento. Ci sono troppe variabili, più di quelle che si riesce a processare.
Se uno sguardo finito, quello dello Stato, che dal centro garantisce la stabilità della moneta, non è in grado di coprire l’infinità di un campo, perché la natura di quel campo esclude la totalizzazione, allora bisogna riconoscere che il campo è un campo da gioco, cioè un campo di sostituzioni infinite nella chiusura di un insieme finito. Questo campo non permette quelle sostituzioni infinite se non perché esso è finito – dice Derrida – , vale a dire, perché, invece di essere un campo troppo grande, gli manca qualche cosa, cioè un centro che fissi e fondi il gioco delle sostituzioni. Se in una scacchiere una casella è vuota le pedine possono muoversi, l’ordine e i valori posizionali possono cambiare, chi, momentaneamente occupa la casella centrale – oro, carta, Bitcoin – funge da moneta, ma solo fin quanto occupa o gli si lascia occupare la posizione centrale.
Negli anni 50-60, quando Hayek capisce che non ci si può fidare dello Stato, che le banche centrali manipolano la moneta, inizia a dubitare della possibilità pratica di una moneta pubblica neutrale. Ma è solo negli anni 70-80 che conclude che lo Stato è strutturalmente incapace di mantenere una moneta stabile. L’unica soluzione è abolire il monopolio pubblico dell’emissione e permettere la concorrenza tra valute private. Permettere al gioco del mercato di stabilire, di volta in volta, quale moneta usare. Ogni banca o impresa potrà emettere la propria valuta. Gli individui sceglieranno quale usare. Il mercato eliminerà le monete cattive e premierà quelle stabili (free banking). Senonché, anche il free banking, come tutti i giochi, ha il suo limite in ciò, che i prezzi cambiano continuamente, il movimento, di principio, non si arresta, se non a transazioni concluse, quando i prezzi non servono più a niente. Il mercato funziona solo e soltanto se i prezzi sono conoscibili in anticipo. Il gioco, così come lo racconta Fink, non ci permette di conoscere prima – in anticipo – il risultato finale, consegnandoci mani e piedi alla statistica.
Nel 1935 Husserl si chiede, facendo eco al suo discepolo Heidegger, se è ancora possibile che l’umanità europea porti avanti un’idea assoluta – libertà, sovranità, creatività – oppure se non sia ridotta a un mero tipo antropologico empirico come la Cina o l’India. Si chiede se quella scienza moderna che prometteva di portare l’umanità tanto in alto, non la abbia in verità precipitata nel cuore delle cose, non l’abbia estraniata nel mondo e confinata tra le cose sensibili e finite, periture. Con la matematica applicata anche la geometria ideale estraniata diventa una geometria applicata, cioè un metodo che richiede un oggetto su cui applicarsi. La scienza e il metodo scientifico, dice (Crisi), somigliano così a una macchina che produce evidentemente qualcosa di molto utile e di cui quindi ci si può fidare, una macchina che ciascuno può imparare a manovrare pur senza comprendere minimamente le interne possibilità e la necessità delle sue operazioni. La macchina è un giocattolo senza perché che avvia l’uomo verso una destinazione. E il circolo è chiuso – trovando, dove non lo si voleva trovare, il motore che muove il mondo.







































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