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bandierarossainmov

Rivoluzione industriale 4.0 e Medioevo insorgente

di Riccardo Achilli

00026388Il dibattito sull’automazione ed i suoi effetti lavoristici e sociali sta avendo una rinascita, in corrispondenza con quella che sembra prospettarsi come una nuova rivoluzione tecnologica pervasiva, fatta essenzialmente di sviluppi nei settori della intelligenza artificiale, della produzione, uso e distribuzione sostenibile dell’energia, delle biotecnologie e della progettazione digitalizzata in 3D. Qualcuno chiama “Rivoluzione Industriale 4.0” questa ondata tecnologica imminente, che riconfigurerà completamente gli assetti produttivi, occupazionali, sociali e politici del mondo.

Naturalmente non mancano i cantori dell’ottimismo, appositamente convocati per preparare il campo a questi sconvolgimenti che saranno, per chi dovrà viverne la fase di transizione (cioè noi) devastanti non meno di quelli che hanno accompagnato la prima Rivoluzione industriale. Nel campo della green economy, si va da chi, come Jeremy Rifkin, immagina un futuro di “produzione democratica” di energia da parte di autoproduttori individuali proudhoniani, che si scambiano energia fra loro in una rete in cui nessuno può assumere una posizione oligopolistica, all’idea che l’innovazione tecnologica in materia energetica possa risolvere il riscaldamento globale (quando probabilmente il problema è quello, da un lato, di preparare le contromisure nei confronti di un fenomeno già in atto e non reversibile, e dall’altro di preoccuparsi di problemi ambientali altrettanto se non più gravi, come l’eccessiva impronta idrica ed alimentare).

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conness precarie

Sul crepuscolo di una subalternità

di Ferruccio Gambino e Devi Sacchetto

In vista della presentazione a Bologna (qui l’evento Facebook) di La fabbrica rovesciata. Comunità e classi nei circuiti dell’elettrodomestico di Graziano Merotto (Roma, DeriveApprodi, 2015), pubblichiamo il poscritto al volume di Ferruccio Gambino e Devi Sacchetto

ltvs kentmichaelsmith 1Ci sono poscritti che si scrivono per dovere e altri che si scrivono per convenienza. Questo lo scriviamo per interesse: certamente non per lucrare qualche prebenda a beneficio dell’autore; e neppure per chiedere venia delle eventuali manchevolezze dell’opera, consapevoli come siamo delle coscienziose ricerche di Graziano Merotto in un reame industriale chiuso, che soltanto nel corso di un tempo da lui ben speso gli è stato possibile rischiarare. Il nostro è un interesse inteso a incoraggiare il dibattito sui rapporti industriali del presente e del futuro, al di fuori dei pregiudizi interessati alle armonie prestabilite.

Si tratta di un dibattito che si situa all’intersezione di alcune branche delle scienze sociali. Altre discipline appaiono parche di contributi per la ricostruzione di controversi processi sociali contemporanei. Sull’argomento studiato da Graziano Merotto le eccezioni sono rare. Lettrici e lettori potrebbero dubitare degli ostacoli che l’autore ha dovuto superare per portare a termine questo volume. In effetti, gli ostacoli non traspaiono nel testo, che anzi mostra un sereno distacco sine ira ac studio rispetto alle singole figure che impersonano il capitalista e il proprietario fondiario, rappresentanti di rapporti sociali di cui in realtà sono le creature.

Il libro è il frutto di una ricerca priva di sostegni pubblici e privati, svolta nei meandri di ambienti industriali di cui poco si conosceva, e portata a termine con notevole motivazione. In realtà, l’autore ha sviluppato una conricerca esemplare con i protagonisti delle molteplici iniziative operaie che hanno trasformato in soggetto politico la forza-lavoro del comparto dell’elettrodomestico nell’area studiata.

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lavoro culturale

Basaglia tra le righe: per un’analisi del lavoro cognitivo

di Maurizio Busacca

Pubblichiamo un estratto da “Lavoro totale. Il precariato cognitivo nell’età dell’auto imprenditorialità e della Social Innovation” di Maurizio Busacca (CheFare / Doppiozero)

15491717 Industry cooperation and partnershipLavoro – Improduttività e i loro doppi

L’analisi che viene proposta in questo lavoro si fonda principalmente sulla produzione culturale, politica e tecnica di Franco Basaglia e Franca Ongaro perché la loro risposta operativa al governo della follia li rende soggetti e oggetti ideali dell’analisi che mi propongo di svolgere sui processi di soggettivizzazione dei knowledge workers nell’ambito della dialettica Lavoro totaleImproduttività malata.

La vocazione personale e il desiderio di esprimere il proprio talento spingono i lavoratori a costruire processi di identizzazione complessi, che rimescolano tra loro passioni, diritti e aspettative fino a rendere frastagliati i confini delle tradizionali sfere di definizione sociale. È proprio in seno alla volontà di autorealizzazione che si apre lo spazio soggettivo, e ambivalente, del lavoro cognitivo: da un lato spazio di auto-realizzazione, dall’altro spazio di umiliazione del lavoro (Chicchi, 2014). Il lavoro cognitivo mette così all’opera soggettività per la produzione di soggettività (Masiero, 2014) attraverso pratiche discorsive e non discorsive che generano comportamenti psichici di nuovo tipo (Dardot-Lavall, 2009) e analizzabili mediante la serie di “attrezzi” che Basaglia e Ongaro hanno utilizzato per tentare di comprendere la psicologia del colonizzato e la carriera sociale del malato.

Fin dalle sue origini il lavoro di Basaglia e Ongaro è fortemente influenzato dal lavoro sulla carriera sociale del malato e l’etichettamento di malattia di Goffman (1961).

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manifesto

Il lavoro centrifugato

Maurizio Ricciardi

«La fabbrica rovesciata» di Graziano Merotto, Una monumentale ricerca militante nel settore degli elettrodomestici made in Italy. Un avvincente affresco sulle trasformazioni industriali dal punto di vista operaio

715449Nell’ultimo secolo il lavoro salariato ha percorso un moto circolare che sembra averlo riportato alla sua condizione iniziale di assoluta mancanza di potere sociale. Il volume di Graziano Merotto, La fabbrica rovesciata. Comunità e classi nei circuiti dell’elettrodomestico (DeriveApprodi, euro 50) descrive questo lungo movimento, ricostruendo la vicenda politica di una vasta porzione di classe operaia impiegata a produrre elettrodomestici nel cuore del Nordest, ovvero dalla provincia di Treviso fino a Pordenone. Come scrivono Ferruccio Gambino e Devi Sacchetto in un’intensa postfazione, però, non siamo di fronte né a un esercizio di sociologia del lavoro né alla storia sociale di un distretto produttivo. Questa è la storia dell’altra Marghera, ovvero di un polo di insubordinazione operaia, forse meno conosciuto ma che da molti decenni non si adegua alla continue ristrutturazioni aziendali e alla deferenza che esse pretendono.

 

L’era dei metalmezzadri

Il processo di autentica conricerca emerge nella scrittura di Merotto e dalle molte voci operaie che restituiscono il senso politico della vicenda collettiva.

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lavoro culturale

Vogliamo vivere: la libertà dopo il JobsAct

di Roberto Ciccarelli

Libertà dal lavoroLibertà e lavoro dopo il Jobs Act di Giuseppe Allegri e Giuseppe Bronzini” (DeriveApprodi, 2015) andrebbe letto solo perché mette in discussione l’invenzione di una tradizione diffusa a destra e a sinistra, in alto e in basso: il lavoro salariato e, più in generale, subordinato è una norma generale, un dato naturale, un’essenza a cui tutto deve tornare.

Questo è anche uno strumento agile che parla all’irrequietezza creativa dei giuristi, come dei movimenti più profondi della società. Insieme ripensano i fondamenti del diritto (del lavoro) in nome della libertà e dell’uguaglianza.

 

Diritto all’esistenza

Il lavoro oggi è l’attività più svalutata e meno certa che esista. È sulla bocca di tutti, perché da tutti è subito e odiato per la sua realtà impoverita, da tutti ricercato per i poveri redditi che da esso si riescono a spremere. Da questa cosa modesta, opaca, Allegri e Bronzini traggono una realtà impensata, l’opposto del racconto vittimistico che si ascolta in Tv o sui giornali. Si parla di libertà del lavoro, fondata sul diritto all’esistenza. Questo diritto si incarna nell’autodeterminazione degli individui.

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contropiano2

La règia “modernità” del contratto di lavoro intermittente

Fabrizio Poggi

7aa3ba733009147f8f21c46e6922bda7 LNella prefazione alla terza edizione de Il Capitale di Marx, nel novembre 1883, Friedrich Engels scriveva che «Non poteva venirmi in mente di introdurre nel Capitale il gergo corrente in cui sogliono esprimersi gli economisti tedeschi, quello strano pasticcio linguistico in cui, per esempio, colui il quale si fa dare del lavoro da altri contro pagamento in contanti si chiama il “datore” di lavoro e “prenditore” di lavoro si chiama colui al quale viene preso il proprio lavoro contro pagamento di un salario. Anche in francese “travail” si usa nella vita di tutti giorni con il significato di “occupazione”. Ma a ragione i francesi riterrebbero pazzo l'economista che volesse chiamare il capitalista “donneur de travail” e il lavoratore “receveur de travail”».

Ma, è noto ormai da qualche migliaio di anni, che i nomi vengono dati alle cose per mascherarne la sostanza. In effetti, la distinzione non certo linguistica, con cui Marx separava lavoro e forza-lavoro – la seconda essendo l'unica merce posseduta dal lavoratore e, dunque, da lui alienabile, vendibile; il primo essendo l'estrinsecazione dell'uso che di quella può fare colui che la compra, cioè il capitalista – pare con successo svanita dal gergo corrente degli odierni rapporti tra produttori diretti e possessori di capitale.

E rappresentando ogni codice giuridico l'ufficializzazione dei rapporti esistenti nella società, nessuna sorpresa che le pubblicazioni di regime confermino la scomparsa di quella distinzione marxiana e qualifichino dunque i «lavoratori dipendenti (altrimenti detti lavoratori subordinati)» come coloro che sono «occupati in una azienda alle dipendenze e sotto la direzione del “datore di lavoro”, tenuti a rispettare un orario di lavoro, in cambio di una retribuzione» (INPS; Lavoro dipendente).

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ilcomunista

Gli anni vissuti pericolosamente

Riccardo Bellofiore

0419 manufacture 630x420La cosiddetta “età d’oro” del capitalismo - il termine non mi piace tanto, in verità – i trenta anni tra il 1945 e il 1975, spesso viene qualificata come un’epoca di compromesso tra le classi. Ma quando mai! Era un’epoca di dominio forte da parte del capitale, un comando sul lavoro, dentro cui, con il conflitto e con l’antagonismo, si sono, nel corso della seconda metà degli anni Sessanta soprattutto e primi anni Settanta, strappate una serie di conquiste. Il fatto che tanto i governi conservatori quanto quelli più di centro-sinistra abbiano perseguito politiche di bassa disoccupazione lo si deve alla storia tragica dell’Europa nel Novecento; e poi alla competizione di un sistema, che non ha mai avuto la mia simpatia, che era il sistema sovietico, e che però imponeva all’Occidente di stare al passo. In quel trentennio, prima ancora che i keynesiani in senso stretti divenissero consiglieri espliciti dei governi (avverrà soprattutto con Kennedy e Johnson), esiste una piena occupazione e una contrattazione collettiva, un lavoro decente secondo la definizione dell’ILO, e salari progressivamente crescenti in termini reali.

La fase del neo-liberismo monetarista è la fase che risponde alla crisi di questo capitalismo “keynesiano”, che è anche una caduta da sinistra, una caduta dovuta anche ad un conflitto sociale, ad un conflitto del lavoro in cui i lavoratori non accettano di farsi usare come strumento di produzione, come cose, magari risarciti con la piena occupazione e un “equo” salario (lo aveva di nuovo intuito Kalecki).

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doppiozero

Coworking e millenials, o delle rivoluzioni addomesticate

Cristina Morini

ovvio e ottuso cristina morini coworkingParlare di coworking è alfine un espediente per osservare la geografia attuale del lavoro e le difficoltà politiche e organizzative che incontriamo sul tema. Il coworking è infatti un’utile idea, nata dal basso, per tentare di fare emergere il lavoro dalla situazione individualizzata e isolata indotta dalla precarietà, insistendo sull’aspetto sociale e collaborativo del processo. Storicamente, la condivisione degli spazi in cui il lavoro si compiva ha contribuito a costruire la consapevolezza, la cognizione, anche epica, della sua forza antagonista. Oggi, essere al lavoro vuole spesso dire anche essere simbolicamente “fuori” dal lavoro così come per tradizione è stato visto, interpretato e validato. Sandra Burchi che, a partire da dieci racconti di donne alle prese con il loro ufficio domestico, ha dedicato una ricerca importante al fenomeno aggiornato del “lavorare da casa” condensata nel libro Ripartire da casa, invita a perlustrare la nuova dimensione in cui il lavoro si svolge, considerandola come uno “spazio terzo” da reinventare. Luogo tutt’altro che privo di resistenza proprio perché incarna, concretamente, la collisione tra produzione e riproduzione, tra lavoro e non-lavoro, lavoro concreto e lavoro astratto, dunque esprime la fenomenologia dirompente di una realtà che andrebbe – finalmente – considerata congiuntamente perché inseparabile. Effettivamente, non è banale rapportare questa dimensione esistenziale del lavoro precario all’esperienza del lavoro domestico delle donne: la domestication del lavoro diventa l’occasione per disarticolare ogni precedente separazione, prima voluta e sancita, tra sfera pubblica e sfera privata, che significa un prodigioso ampliamento delle possibilità di far “comunicare, lavorare ed essere”, contemporaneamente, il soggetto precario.

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effimera

Brevi note sulla sostenibilità sociale del sistema previdenziale pubblico in Italia

di Andrea Fumagalli*

Pensioni Rischio longevità ImcIn Italia, il sistema pensionistico pubblico è strutturato, seppur solo formalmente, secondo il criterio della ripartizione.

Ciò significa che i contributi che i lavoratori e le aziende versano agli enti di previdenza vengono utilizzati per pagare le pensioni di coloro che hanno lasciato l’attività lavorativa. Per far fronte al pagamento delle pensioni future, dunque, non è previsto alcun accumulo di riserve.

È evidente che in un sistema così organizzato, il flusso delle entrate (rappresentato dai contributi) deve essere in equilibrio con l’ammontare delle uscite (le pensioni pagate).

In Italia, da un lato, il progressivo aumento della vita media della popolazione (fatto di per sé positivo, a meno che non si voglia ripristinare un “Monte Taigeto” di spartana memoria o una “rupe Tarpea” di latina memoria) ha fatto sì che si debbano pagare le pensioni per un tempo più lungo, dall’altro, il rallentamento della crescita economica ha frenato le entrate contributive.

Per far fronte a questa situazione, sono state attuate una serie di riforme tutte orientate a riportare in equilibrio contabile la spesa pensionistica:

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paginauno

Supportare la resistenza, preparare l’offensiva

Dove sono i nostri

di Collettivo Clash City Workers

Incontro-dibattito sul libro Dove sono i nostri. Lavoro, classe e movimenti nell’Italia della crisi, Clash City Workers (La casa Usher, 2014) presso La casa in Movimento, Cologno Monzese (MI), 13 novembre 2015

ccw logoIl progetto Clash City Workers nasce a Napoli nel 2009 e si diffonde a Roma, Firenze e Padova, in piccolo anche a Milano, Torino e Verona, dove si sono sviluppati dei nodi del collettivo Clash. Di base è nato dall’esigenza di trovarsi, dal fatto di essere sempre stati legati a livello ideologico a una visione della società che vede il lavoro al centro quantomeno del ragionamento politico, una visione che però non aveva gli strumenti adeguati per leggere la realtà che si trovava di fronte: andavamo davanti ai luoghi di lavoro a distribuire il volantino ma non riuscivamo a parlare con i lavoratori, ad avere con loro una relazione, proprio perché il nostro approccio era puramente ideologico. In più si aggiungeva la constatazione che quel lavoro che i media raccontavano non esistere più, o perlomeno essere confinato a una parte marginale delle nostre vite, di fatto lo vivevamo direttamente, o anche indirettamente perché disoccupati e studenti che si andavano a formare per poi inserirsi nel mercato del lavoro.

Eravamo di fronte quindi a una mancata considerazione di quel campo che è al centro sia della nostra esperienza individuale e collettiva sia, anche se in modo rovesciato, del discorso pubblico – se pensiamo a qual è il centro dell’operato del governo Renzi, iniziato con una riforma che, a parole, doveva garantire una maggiore occupazione e risolvere il problema del dualismo del mercato del lavoro, e si è tradotta in un un abbassamento generalizzato delle condizioni complessive, con i due passaggi del Jobs Act che prima ha peggiorato il dualismo con la semplificazione dei contratti a termine e poi ha messo in atto l’attacco più violento con l’abolizione dell’articolo 18.

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micromega

Lavoro bene comune: un manifesto

di Domenico Tambasco

L’età delle espulsioni inaugurata dalle dottrine neoliberiste ha nel Jobs Act la sua apoteosi, espressione della “legislazione delle espulsioni” applicata alla merce-lavoro. È tuttavia giunto il momento di contrastare questa brutale deriva, affermando con forza la centralità della teoria dei beni comuni anche nel lavoro. Un manifesto che, lontano dalle astratte teorizzazioni, può costituire il luogo di discussione per una radicale e rinnovata azione politico-sociale

Mostra20Il20lavoro20E820un20bene20comune 1 thumbNel continuo ed incessante processo di estrazione di valore della merce-lavoro[1] imposto dalle dottrine gestionali neoliberiste, un ruolo fondamentale rivestono le tecniche di “espulsione” dei soggetti che, considerati inadatti al processo di feroce selezione del sistema o giunti all’ultimo anello della catena di transazioni organizzativo-produttive, sono brutalmente allontanati dal “sistema” (spesso con il sigillo della legge), scarnificati di ogni umanità.

Del resto, la nostra è “l’età dell’espulsione”[2], un periodo in cui “la spoliazione e la distruzione… l’immiserimento e l’esclusione di masse crescenti di persone che non hanno più valore come lavoratori e consumatori… possono essere considerate il tratto saliente del capitalismo avanzato della nostra epoca rispetto a quello tradizionale”[3].

Si tratta di “una terza, incipiente fase storica, caratterizzata dalle espulsioni delle persone dai progetti di vita, dall’accesso ai mezzi di sussistenza, dal contratto sociale, cardine delle democrazie liberali. Ben piu’ di un mero aumento della disuguaglianza e della povertà”[4].

L’espulsione, dunque, è la categoria concettuale che, icasticamente, meglio consente di rappresentare il metodo utilizzato dal “capitalismo avanzato” nello stoccaggio di “scarti” in proporzionale aumento rispetto ai frenetici ritmi di produzione; raffigura “a tutto tondo” l’integrale esclusione dal circuito economico e sociale.

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conness precarie

Ciao pensione ciao. Sul versante legislativo del lavoro

di Maurizio Fontana

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Andare via lontano a cercare un altro mondo, dire addio al cortile, andarsene sognando. E poi mille strade grigie come il fumo, in un mondo di luci sentirsi nessuno. Saltare cent’anni in un giorno solo, dai carri dei campi agli aerei nel cielo (Luigi Tenco)

Come si è compreso qualche tempo dopo la morte di Luigi Tenco, l’ispirazione originaria dell’autore di Ciao amore ciao discendeva dal travolgente sbalzo vissuto dai giovani uomini e donne che, dall’entroterra ligure, entravano nelle fabbriche  genovesi negli anni ’60. A Tenco, morto il 27 gennaio 1967, non fu dato conoscere come, sul finire del decennio, in Liguria come nel resto dell’Italia industriale quella generazione operaia si fosse ripresa dallo smarrimento iniziale di un secolo in un giorno solo per andare verso il più intenso ed esteso ciclo di lotte conosciuto nel nostro paese, attraverso l’espansione di una conflittualità fondata sulla conquista di una dimensione collettiva imperniata sulla figura dell’operaio massa. Di quella lunga stagione in questa occasione ci interessa richiamare due provvedimenti legislativi di assoluto spessore, che sedimentarono il potere operaio sull’assetto sociale complessivo e sono oggi sotto schiaffo dell’attuale governo: la riforma delle pensioni dell’aprile 1969, preceduta da uno sciopero nazionale della sola Cgil del 7 marzo 1968 e da due scioperi generali unitari, nel novembre dello stesso anno il primo e nel febbraio del 1969 il secondo, e lo statuto dei lavoratori del maggio 1970.

Quest’ultimo all’epoca non fu considerato una strepitosa conquista, ma un’accettabile mediazione che si auspicava potesse essere migliorata nell’immediato futuro, sull’onda di un’offensiva operaia che proseguiva dentro e fuori le fabbriche conquistando potere sui posti di lavoro, aumenti salariali e pensionistici, un’estesa socializzazione dei costi di riproduzione della classe. Già dal decennio successivo, invece, si è conosciuto in Italia un costante regresso della legislazione sul lavoro, mentre le sedimentazioni organizzative e istituzionali di quella ormai lontana stagione sono andate progressivamente sgretolandosi e buona parte di quelle che sembrano aver resistito si sono spesso convertite a un altro paradigma in un contesto sociale profondamente mutato.

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micromega

La barbarie del lavoro

di Domenico Tambasco

Raggiunto pienamente il traguardo della libera licenziabilità attraverso il Jobs Act, l’attacco neoliberista punta ora dritto al cuore della prestazione lavorativa: l’orario di lavoro e il suo presidio costituzionale, l’art. 36. Superato quest’ultimo baluardo, non resta null’altro nel campo dei diritti lavorativi: siamo giunti alla barbarie del lavoro

poletti orario lavoro 510È vorace il neoliberismo, come tutti gli “ismi” avendo, nel suo patrimonio genetico, un cromosoma totalitario che pretende il completo asservimento della persona e della sua esistenza.

È suadente il neoliberismo, sussurando continuamente alle orecchie dei cittadini dell’ormai globale villaggio la parola “libertà” che, nella cruda realtà dei fatti, cela il tintinnio di nuove catene.

Raggiunto pienamente il traguardo della libera licenziabilità attraverso le “tutele crescenti”, la lotta di classe da alcuni decenni promossa dall’1% della società[1] si dirige determinata, ora, verso il cuore della prestazione lavorativa: l’orario di lavoro. Ecco dunque che qualche perlustratore in avanscoperta “spara” i primi colpi di avvertimento, dichiarando che

L’ora-lavoro è un attrezzo vecchio che non permette l’innovazione… dovremmo immaginare contratti che non abbiano come unico riferimento la retribuzione oraria”[2], trattandosi di “un tema culturale su cui lavorare”, poiché “il lavoro oggi è un po’ meno cessione di energia meccanica ad ore e sempre più risultato”. Del resto “per molti anni i ritmi biologici e di vita si sono piegati agli orari fissi, ma con la tecnologia possiamo guadagnare qualche metro di libertà”.

Di qui l’invito alle giovani schiere di economisti e giuslavoristi ad “immaginare il futuro su questo tema”.

Lo schema adottato è quello classico: si attacca l’obbiettivo definendolo “vecchio”, d’ostacolo all’innovazione e alla libertà dei “moderni”: nel caso di specie, al fattore “tempo” del rapporto di lavoro viene contrapposto il “risultato”, “l’apporto dell’opera”.

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conness precarie

Smart working, smart profit… Smart strike?

di Lavoro Insubordinato

56937246Avete bisogno di un convivente che vi aiuti a pagare affitti e bollette? Fra poco non sarà più un problema. È in arrivo lo smart working, il lavoro agile che permetterà allo sfruttamento di entrare nelle case di lavoratori e lavoratrici in salute e in malattia, 365 giorni l’anno finché licenziamento non li separi.

Pensate che esista ancora uno scarto tra pubblico e privato e che solo le donne abbiano il privilegio di lavorare tra le mura domestiche senza limiti alla giornata lavorativa? No, roba vecchia, lo smart working sarà per tutti, maschi e femmine, dipendenti pubblici e privati.

Avete paura di non essere abbastanza flessibili? Lo yoga non serve. Ora potrete essere sempre al lavoro, flessibilissimi e produrre, produrre come non avete mai fatto prima, senza limiti di orario e all’ora che preferite, in altre parole: sempre! Always! Immer!

Produttività continua e azzeramento dei costi di gestione: un toccasana per le aziende che, già rinvigorite dal Jobs Act, possono tirare l’ennesimo sospiro di sollievo. Lo scopo del lavoro agile, secondo l’articolo 1 del ddl non ancora approvato, è «incrementare la produttività e la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro», ossia riconciliare il lavoratore con l’idea che i tempi di lavoro hanno occupato tutta la vita.

Lo smart working si ispira liberamente alle smart holidays, meglio note come Discretionary Time Off (DTO), sistema già diffuso nelle grandi multinazionali della Silicon Valley, General Electric e fra poco anche Linkedin.

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doppiozero

Cos'è il lavoro nell'Ubercapitalismo?

Alessandro Gandini

uberIn un articolo apparso a fine ottobre sul magazine online “Medium”, Robin Chase, fondatrice di Zipcar (un noto servizio di car sharing collaborativo angloamericano), racconta come il tempo medio di vita di un'impresa dal 1960 a oggi sia radicalmente calato: dai 61 anni, in media, degli anni Sessanta, ai 15 di oggi. Chase sostiene che questo sia un indicatore, fra i tanti, del processo di cambiamento socio-economico in atto. Innovate or die, questo è il mantra. Qui, l'industrializzazione e l'automazione basate su un'idea centralizzata del lavoro (gerarchica e top-down) oggi lasciano spazio (meglio, cedono il passo) a un'idea di organizzazione del lavoro centralizzata, distribuita e non gerarchica che Chase sintetizza nella definizione Peers Inc.

L'idea alla base di Peers Inc. è quella secondo cui la nuova industrializzazione al tempo dell'economia di Internet si basa su un modello di organizzazione del lavoro incentrato su una piattaforma e un core centrale, esiguo, di lavoratori che garantiscono il funzionamento della stessa. Attorno a questi, poi, si estende una larga parte di “lavoratori” che non lavorano direttamente per la piattaforma, ma offrono servizi ai clienti della stessa – quelli che Chase chiama Peers. Uber, ad esempio, funziona cosi: c'è la piattaforma, c'è il core di lavoratori che ne permettono il funzionamento (i dipendenti di Uber nel mondo) e ci sono i Peers: nel caso di Uber, i drivers che mettono a disposizione le auto ai clienti della piattaforma – noi, che dobbiamo andare a Linate, e il taxi costa parecchio, e non lo possiamo chiamare con l'app. Anche Airbnb funziona così: c'è il core di lavoratori che gestisce la piattaforma, ci sono i clienti (noi, che vogliamo andare in vacanza spendendo poco per un uso cucina) e ci sono i Peers: quelli che Airbnb chiama host, quelli che una volta avremmo chiamato affittacamere, che offrono il servizio ai clienti della piattaforma.