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Ostaggi
di Paolo Bartolini
L’articolo tristemente noto di Massimo Recalcati uscito su La Repubblica, dove in sostanza lo psicoanalista italiano vorrebbe farci interrogare sulla nostra (presunta) assenza di empatia e interesse verso gli ostaggi israeliani sequestrati da Hamas, insinuando sottilmente che i movimenti di solidarietà verso i palestinesi mancano di introspezione ed equità, può essere sondato capovolgendo la sua impostazione. Io credo che obiettivamente la sorte degli ostaggi sia andata sullo sfondo, e che ciò accada non per una difficoltà psicologica dei singoli a provare compassione per questi poveri disgraziati, ma perché Israele agisce da molto tempo in un modo talmente aggressivo, sproporzionato, persecutorio e – palesemente – genocida, da consegnare esso stesso all’oblio i suoi cittadini. Una delle responsabilità più gravi del governo Netanyahu, e in generale dello Stato etnico-religioso che rappresenta, è di aver attenuato ogni slancio solidale verso le proprie vittime. Era il 7 ottobre, e avevamo appena fatto in tempo a provare orrore per quel barbaro atto terroristico, che già era diventato chiaro a chiunque che l’evento in questione avrebbe schiuso le porte dell’inferno per i palestinesi, popolo occupato, vessato e frequentemente aggredito dalle imponenti forze militari dell’“unica democrazia del Medioriente”. Domani Israele dovrà rispondere di parecchi crimini, tra i quali l’aver seppellito i propri morti in un terreno inospitale della psiche collettiva, poiché la pulizia etnica e lo sterminio dei palestinesi – ovviamente programmati e a lungo desiderati dagli estremisti sionisti – sono fenomeni così giganteschi da rendere impossibile qualunque equiparazione tra i danni subiti dalle due popolazioni.
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Occidente: suicidio assistito
di Fulvio Grimaldi
https://www.youtube.com/watch?v=zF5gEwp6YKs
https://youtu.be/zF5gEwp6YKs
Cos’è che ci ha fatto sapere Mattarella nel suo quotidiano mattinale con cui, dal monte Quirinale, che vale il Sinai di Mosè, ti erudisce il pupo? Pupi che saremmo noi, popolo italiano imberbe e perennemente plaudente a lui, come al consimile andreottiano Pippo Baudo e al dio del made in Italy, Giorgio Armani, assurto a eroe della nazione quando fu inquisito per sfruttamento di poveracci. Il che ci spiega perché da Meloni, giù giù fino a Nordio, la magistratura delenda est.
Devono essere stati ispirati, i nostri governanti UE, guidati dall’avanguardia dei Volenterosi, da quella setta di fanatici del culto della morte (propria e altrui) che in Medioriente è riuscita nel genocidio di maggiore successo della storia umana. Genocidio che fisiologicamente avrà un coronamento affine a quella della “Setta del Popolo” in Guyana, ricordate quel suicidio collettivo di madri, padri, nonni e bambini? Il celebrante era Jim Jones. Oggi si chiama Bibi Netaniayhu.
Ma Ursula von der Leyen, che a partire dal modello Ucraina, confortata da famuli come Merz, Starmer, Macron, Meloni, va approntando un simile crepuscolo degli dei anche per l’Europa, E per i suoi “valori”. A proposito dei quali ci si impone un breve excursus verso il monte del Mosè qurinalizio. Irrinunciabile la promozione di uno dei suoi espettorati più recenti: quello dell’Europa che, in virtù dei suoi valori non ha mai fatto guerre.
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Speranza e violenza
di Ennio Abate
Che il mondo potesse essere salvato dai ragazzini si è dimostrato impossibile. Che dopo il ‘68 potesse nascere in Italia un partito rivoluzionario come quello di Lenin è stata l’illusione delle generazioni che hanno fatto politica negli anni Settanta del Novecento. Che la riproposta della lunga marcia nelle istituzioni contenuta ne Il Sessantotto e noi di Luperini e Corlito sia sbagliata è la mia opinione che ho già argomentato.
Qui controbatto per punti alle obiezioni che Corlito ha mosso al mio Compianto sul Sessantotto https://www.poliscritture.it/2025/05/26/compianto-sul-sessantotto/
1. Affermi: «Come a dire che la violenza del potere borghese, che non abbiamo mai sottovalutato tanto meno ora in questa epoca di guerra, richiede inevitabilmente l’uso di un altrettanto potente uso della violenza rivoluzionaria.». Non esito a rispondere di sì. Dove si è vista mai una rivoluzione che non abbia dovuto contrapporre una violenza capace di spezzare la violenza dei dominatori?
2. «Non è un caso che, pur nella sua precisione esegetica, Abate non citi mai direttamente la questione cilena, che è invece centrale nelle nostre conclusioni».
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La politica degli interessi e la politica delle gerarchie
di comidad
L’accordo di mutua difesa firmato da Arabia Saudita e Pakistan lo scorso 17 settembre ha precedenti storici abbastanza noti, dato che è stata proprio la petro-monarchia di Riad a finanziare il programma nucleare militare pakistano, ufficializzato nel 1998. D’altra parte occorre considerare la tempistica dell’annuncio di tale accordo, che arriva pochi giorni dopo l’attacco israeliano al Qatar, sebbene la petro-monarchia di Doha ospiti una grande base militare degli Stati Uniti. In altre parole, l’inaffidabilità degli USA ha costretto il regime saudita a diversificare i “fornitori di sicurezza” ed a favorire l’ingresso di un nuovo soggetto nell’area medio-orientale; il Pakistan, appunto. Il regime di Islamabad ha ufficialmente buoni rapporti con gli USA, quindi il suo ingresso nell’area medio-orientale non assume il carattere di una sfida dichiarata al presunto “ordine” statunitense, sebbene oggettivamente rappresenti un segnale del suo crescente discredito.
Molte analisi geo-strategiche si sono concentrate sulle conseguenze negative che un tale accordo potrebbe comportare per il principale avversario del Pakistan, cioè l’India. Sembra però che in questo ambito non si sia detto finora molto di concreto, specialmente per ciò che riguarda le sorti del corridoio infrastrutturale e commerciale che dovrebbe collegare l’India al Medio Oriente. Il porto israeliano di Haifa avrebbe dovuto essere tra le infrastrutture essenziali per rendere operativo il corridoio con l’India; è stato però lo stesso Israele a bruciare questa prospettiva attaccando l’Iran, i cui missili hanno dimostrato che Haifa è troppo vulnerabile e insicura. La stampa sionista finge che nulla sia cambiato per Haifa, ma intanto il regime israeliano continua a minacciare l’Iran, scoraggiando gli investimenti in un’infrastruttura dal destino così incerto.
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Non ci caschiamo
di Fabrizio Marchi
A Gaza (ma anche in Cisgiordania) proseguono senza sosta il genocidio e la pulizia etnica del popolo palestinese da parte dello stato (e non solo dell’attuale governo) terrorista, razzista e nazifascista israeliano ma il sistema mediatico e il governo Meloni fingono di scandalizzarsi per qualche tafferuglio e qualche vetrina infranta da parte dei soliti (noti) scemi durante una manifestazione. Circa 500.000 persone sono scese in piazza in tutto il paese in 81 città per protestare vigorosamente ma pacificamente contro questa spaventosa carneficina, ma i TG e i vari talk show non fanno altro che parlare di queste scaramucce (sia detto tra parentesi, quanto successo ieri a Milano avviene nei pressi degli stadi una domenica sì e l’altra pure ma non solleva certo un simile can can mediatico…) fra alcuni dimostranti e la polizia.
Ora, se avessero tentato di assalire il consolato israeliano (cioè quello di uno stato razzista, nazista e genocida) non avrei avuto molto da ridire, devo essere onesto. Personalmente penso che non è tirando sassi e bottiglie che si risolvono le questioni, ovviamente, perché la politica è una vicenda decisamente più complessa. Però se non vogliamo essere ipocriti oppure ragionare da anime belle (che è comunque meglio che essere ipocriti) sappiamo perfettamente che esiste violenza e violenza. La violenza agita da parte di chi, come oggi i palestinesi, combatte contro un regime oppressivo o contro uno stato imperialista e razzista che occupa la propria terra e il proprio popolo non può essere messa sullo stesso piano della violenza agita da quel regime o da quello stato imperialista e razzista. Gli esempi potrebbero ovviamente moltiplicarsi, ma credo non ci sia bisogno di aggiungerne altri.
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Fumo e ceneri
recensione di Marina Minicuci
Il saggio “Fumo e ceneri” (di Amitav Ghosh, Einaudi 2025, 387 pagine, 22,00 euro) racconta più dei migliori libri di storia come in Cina e successivamente in India, prima i colonizzatori olandesi e poi i britannici, abbiano fatto dell’oppio un sistema di domino contribuendo in modo decisivo a costruire il mondo d’oggi, sull’orlo del baratro. Ghosh annoda magistralmente i fili del commercio dell’oppio alla base delle fortune degli imperialismi e delle loro élite e specularmente alla base delle disgrazie e dello sterminio delle popolazioni con le sue propaggini che a tutt’oggi affliggono il mondo. Un esempio fra tutti il Fentanyl un potente oppioide sintetico, detto anche “la droga degli zombie”, 50 volte più letale dell’eroina, che sta seminando morti fra la popolazione U.S.A. “in quattro o cinque anni più morti che durante la Seconda Guerra Mondiale”. E poiché il suo commercio è molto redditizio fa gola a tutte le mafie, quella farmaceutica in testa, cosa che fa temere che l’epidemia si propagherà anche alle nostre latitudini.
La pianta del papavero, Papaver somniferum, data almeno 20.000 anni, mentre il suo addomesticamento e il riconoscimento delle sue proprietà medicinali risalgono a un periodo successivo, tra il 6000 e il 3500 a.C.; è sempre stata usata per usi farmacologici, ancora oggi il 50% dei farmaci contiene oppiacei. L’oppio è una sostanza salvifica il cui uso mai si potrebbe vietare e continuerà a esserlo per molto tempo a venire. Mentre letale è stata la sua trasformazione in droga, alienante come lo è stata per gli abitanti della Cina, di parte dell’India, Giava, Sumatra…
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In difesa della Flotilla
di Andrea Zhok
Due parole sulla vicenda della “Flotilla”, con una considerazione politica generale.
Che nella Flotilla ci fossero (ci siano) personaggi in cerca di notorietà personale è sicuro (almeno uno si è palesato).
Che questo tipo di iniziative abbia un carattere eminentemente mediatico, con elementi di spettacolarizzazione, e che sia un passo indietro rispetto a eventuali iniziative politiche, pressioni, sanzioni, ecc. è sicuro.
Che alcuni cerchino di strumentalizzare la vicenda per colpire i rispettivi governi in carica – quasi ovunque appiattiti su una posizione sionista – è decisamente plausibile.
Che a questa iniziativa partecipino molti soggetti che su altri temi sociali importanti hanno manifestato nel recente passato una consapevolezza politica carente o nulla è un fatto.
E tuttavia.
1) Tra fare qualcosa e non fare un cazzo c’è sempre un abisso. Dunque onore a chi, di fronte al male, si sbatte per fare qualcosa.
2) Nel caso specifico dei rapporti con Israele — stato canaglia notoriamente privo di qualunque scrupolo e dotato di mezzi finanziari e militari colossali — chiunque si profili come ostile alle politiche di Israele comunque mette in campo almeno un pochino di coraggio. E in un’epoca dove i capi di stato o della chiesa – gente con il culo straordinariamente al caldo – abbozzano, fischiettano, quando non supportano senz’altro un genocidio, anche a questo, piccolo o grande coraggio civico, va dato atto.
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L'Occidente e la pericolosa isteria della minaccia russa
di Davide Malacaria
La spinta isterica per dar vita a un’escalation contro la Russia si intensifica, con i Paesi Nato a inventare sempre nuovi pretesti per favorire tale sviluppo. Dapprima i droni russi sui cieli polacchi, capitati lì a causa di un disturbo elettronico che li ha deviati – come dimostra anche lo sconfinamento in Bielorussia, paese alleato di Mosca, che certo non aveva alcuna necessità di minacciare. Sconfinamento che ha avuto una coda nella distruzione di una casa – per fortuna nessuna vittima – e nella violazione delle spazio aereo della residenza del presidente polacco da parte di un drone.
Le solite accuse roboanti alla Russia per entrambi gli episodi, seguite poi dalle sussurrate smentite perché si è scoperto che la casa era stata distrutta da un missile partito da un F-16 Nato, dicono impazzito, e che il drone era teleguidato da un ragazzo ucraino e una ragazza bielorussa. Poi c’è stato l’allarme per lo sconfinamento di un drone, dicono russo, in Romania e l’asserito sconfinamento di jet russi nei cieli di Paesi Nato.
Un’escalation progressiva che hanno avuto il suo momento epifanico nell’allarme lanciato dalla guerrafondaia Ursula von der Lyen su un asserito attacco hacker russo al suo velivolo in fase di atterraggio in Bulgaria, allarme dimostratosi del tutto infondato, anzi inventato di sana pianta.
Se ricordiamo l’episodio è perché l’invenzione della Von der Lyen era, oltre che sciocca, di una gravità assoluta: il fatto che non sia stata rimossa dall’alto incarico che presiede getta luce sugli allarmi successivi.
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Il fondamentalismo occidentale e gli spari
di Alessandro Carrera
Le università americane sono al centro di una battaglia politica altrettanto importante di quella che coinvolge la magistratura o l’istituzione sanitaria degli Stati Uniti. L’attuale presidenza, insieme ai media e agli opinionisti che compongono la galassia della nuova destra, ha individuato nel mondo universitario il “cuore del sistema” che garantirebbe il perpetuarsi dell’egemonia culturale della sinistra. L’attacco alle università è dunque prioritario al fine di ristabilire un’egemonia conservatrice che può far pensare a un ritorno agli anni Cinquanta, alla paura del comunismo e al periodo del maccartismo, mentre in realtà si tratta di un fenomeno politico nuovo, e che mira a stabilire un vero e proprio “fondamentalismo occidentale”.
Come tutti i movimenti nati dopo la crisi della modernità (che possiamo datare all’incirca tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso), e che aspirano a essere fondativi o rifondativi, anche il fondamentalismo occidentale, non diversamente dal fondamentalismo islamico, senza escludere quello neoconfuciano, si basa su principi largamente ricostruiti ad hoc.
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L’Italia vera sta con la Palestina
Giulio De Petra intervista Vincenzo Miliucci
L’eccezionale giornata di lotta vissuta in tutta Italia il 22 settembre è un moto generale voluto e partecipato dalla gente comune. Non nasce all’improvviso ma è il prodotto di due anni di una straordinaria varietà di iniziative e mobilitazioni in ogni angolo del paese
Lo straordinario successo in tutta Italia delle mobilitazioni del 22 settembre dimostra la capacità che ha avuto il sindacalismo di base di interpretare politicamente l’umore popolare e di offrirgli la possibilità di esprimersi. Ne abbiamo parlato con Vincenzo Miliucci, storico esponente dei Cobas e da sempre tenace sostenitore della causa palestinese.
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Che valutazione dai della grande giornate di mobilitazione del 22 settembre?
L’eccezionale giornata di lotta vissuta in tutta Italia, così come la grande partecipazione allo sciopero politico indetto dalle organizzazioni sindacali conflittuali dal titolo “Stop genocidio, con la Flotilla, blocchiamo tutto”, è il risultato di un moto generale voluto e partecipato dalla gente comune, sfinita dall’orrore quotidiano suscitato dalla totale distruzione di Gaza, dal genocidio in corso, dall’esodo impietoso nella Striscia, dal sistematico annientamento del popolo palestinese.
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La Flotilla non molla. A terra manifestazioni di massa, domani sciopero generale
di Redazione
Alcune navi della Global Sumud Flotilla, sfuggendo alla marina militare israeliana, stanno continuando la loro rotta verso Gaza. Duecento attivisti abbordati e arrestati da Israele. Ieri imponenti manifestazioni in molte città italiane a sostegno della Flotilla. Anche oggi pomeriggio convocate nuove manifestazioni. Domani confermato lo sciopero generale di Usb, Cgil e sindacati di base. Sabato la manifestazione nazionale a Roma.
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Aggiornamenti:
La missione impossibile della Mikeno. Rotto il blocco navale israeliano davanti Gaza, “Vendicata” la Mavi Marmara
Una delle imbarcazioni della Global Sumud Flotilla, la turca Mikeno, ha compiuto ciò che fino a questa mattina era stato impossibile da anni: raggiungere le acque antistanti la Striscia di Gaza, superando il blocco navale israeliano. La Mikeno, che secondo l’ultima posizione registrata dal sistema di tracciamento alle 6.23 del mattino di giovedì 2 ottobre risulta essere entrata nelle acque davanti a Gaza, segnando un momento storico per questa missione. Mentre questa imbarcazione proseguiva la sua rotta verso la destinazione finale, il resto della flotta affrontava l’intervento della marina militare israeliana, che ha intercettato circa 19 imbarcazioni delle quasi quaranta che componevano la spedizione.
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Ventidue italiani sequestrati da un’organizzazione terroristica. Tajani: “sono stati gentili”. Il Paese è in fiamme
OttoParlante - La newsletter di Ottolina (2/10/25)
Il Marru
Decine di italiani sono stati sequestrati dalla più spregiudicata organizzazione terroristica del pianeta a scopo di estorsione: il popolo italiano invade strade e piazze per chiederne il rilascio incondizionato; governo italiano non pervenuto. Non c’è nessun bisogno di entrare nel merito della partigianeria politica per comprendere l’enormità di quello che sta succedendo in queste ore: basta guardarlo dal punto di vista di quelle regole e di quel diritto che da 40 anni l’Occidente invoca a caso per giustificare ogni sorta di aggressione militare ai quattro angoli del pianeta; evidentemente, però, quando lo spiegavano a scuola, Tajani era assente. Come era assente ieri sera, mentre 22 italiani venivano illegalmente sequestrati dopo una massiccia operazione di pirateria: manco un commentino; per sentirlo, bisognerà aspettare le 9 e 08 della mattina seguente. Siamo in Parlamento, e sembra di essere in un universo parallelo: “Questa terribile tragedia è nata il 7 ottobre di due anni fa dall’aggressione terroristica rivolta contro la parte più pacifica di Israele”, esordisce il Ministro; “Israele è stata aggredita ed ha il pieno diritto di difendersi”, ma senza eccedere. D’altronde, sottolinea, “Gaza non è Hamas”; anzi, “I palestinesi sono le prime vittime di Hamas”. Noi, però, abbiamo fatto tutto quello che andava fatto, e io “sono orgoglioso di far parte di un Paese che ha fatto più di chiunque altro per i gazawi”.
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Tra Est e Ovest, Fratellanze e generali
Egitto, Turchia, Qatar, tre incognite del M.O.
di Fulvio Grimaldi
https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-fulvio_grimaldi__tra_est_e_ovest_fratellanze_e_generali_egitto_turchia_qatar_chi_sono_che_fanno/58662_62820/
In una stagione estiva più tumultuosa del solito, tra i sette fronti aggrediti da Israele, la soluzione finale decisa per Gaza e applicata alla Cisgiordania, l’epidemia di False Flag che l’Occidente allestisce per accreditare riarmo e guerra, lo sgretolarsi di ogni diritto internazionale, umano e democratico in Occidente, l’episodio più intricato e ricco di variabili analitiche è stato l’attacco israeliano al Qatar. Non solo. I colpi forti sono due, quasi in contemporanea. E hanno risuonato per il mondo. Trovandosi perfino in assonanza. Trattasi del colpaccio inflitto al Qatar con quei bombardamenti sul compare e socio d’affari e di quell’altro colpo, l’uccisione di Charlie Kirk, polena della nave ammiraglia a stelle e strisce mentre solca gli oceani e spazza all’impazzata chi si ritrova sulla rotta.
Tutto appare chiaro come l’inchiostro. Israele, per far fuori coloro che con Trump e Qatar, alleati nel destino di classe e di profitto, minacciano di mettergli i bastoni tra le gambe accettando di restituire prigionieri in cambio di tregua, bombarda il pluridecennale confidente arabo. Che non ha ancora visitato il postribolo “Abramo”, ma ne va bussando alla porta. Tanto più che quella tregua è invocata H 24 dagli elettori israeliani, che la sanno legata alla ipotesi detestata da Netanyahu: il rilascio dei coloni fatti prigionieri, detti “ostaggi”.
Con l’assassinio (mancato) dei leader di Hamas, unico autentico giocatore avversario sul campo, a dispetto di quelli (ANP, Abu Mazen, arabi vari) che USA-Sion insistono a mettere sul proscenio, si era puntato a rimettere lo schiacciasassi IFD sul percorso della obliterazione definitiva della questione Palestina. E Charlie Kirk, questa specie di papa della chiesa del fanatismo fascio-bigotto-reazionario, cosa c’entra?
Tra Doha e Orem, Utah
C’entra, se si considera cosa rappresentano l’operazione israeliana sul Qatar e le ricadute che accanitamente si vogliono trarre dal “martirio” di Kirk: In entrambi i casi si sono fatti passi da gigante verso l’abolizione di ogni tipo di regolamentazione dei rapporti fra persone e Stati.
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Gaza e la cronaca dell’inadeguatezza borghese
di Pasquale Liguori
Ci sono articoli che, senza volerlo, finiscono per dire molto più sulla società che li produce che sull’evento che raccontano. L’articolo “Pensieri in marcia per Gaza. Tra rabbia e scollamento” di Giulia Pilotti su Domani, in cui narra la sua partecipazione al corteo milanese per Gaza, non è tanto un’analisi politica quanto un diario di coscienza. Eppure, ha un merito: quello di dichiarare con un candore quasi disarmante tutto ciò che solitamente viene nascosto dietro la retorica della piazza e del presunto “movimento nascente”.
L’incipit è già rivelatore: “Lunedì scorso, sotto una pioggia da monsone thailandese, ho portato mio figlio all’asilo per poi unirmi al corteo… A dirla tutta, prima sono andata a fare colazione in pasticceria, per rispondere alla domanda di Gassman ne La terrazza: a che ora è la rivoluzione? E come si viene, già mangiati?”. Non c’è riconoscimento dell’urgenza storica, né riferimento al genocidio, peraltro mai nominato nel testo. Gaza non entra in scena come ferita viva, ma come sfondo lontano. Milano è il teatro e, soprattutto, il centro resta l’io narrante, impegnato a registrare le proprie tappe quotidiane prima della marcia. È la riduzione della tragedia a cornice esistenziale, la politica come intermezzo nella routine, e già qui si delinea l’orizzonte di un gesto che non trascende l’autonarrazione.
Tra un passo e l’altro, la colonna sonora del corteo evoca ancora una volta la dimensione privata più che quella pubblica:
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La Tecno-archía - ovvero la Nave dei folli
di Lelio Demichelis
Di Lelio Demichelis è da poco uscito un nuovo saggio di critica radicale dei sistemi tecnici e del capitalismo, della modernità industriale e della sua volontà di onnipotenza che produce nichilismo ed ecocidio - saggio che ha per titolo: Tecno-archía o la Nave dei folli. La banalità digitale del male, pubblicato da DeriveApprodi (p. 294, € 23,00). E se la critica alla modernità non è ovviamente cosa nuova, nuovo è dire che la modernità è diventata una archía, un potere archico – e quindi in conflitto ontologico e teleologico con libertà, democrazia, società e biosfera. Da cui si può/deve uscire quindi solo con un pensiero anti-archico/an-archico (ma in un senso diverso dall'anarchismo classico) e cioè demo-cratico. Ovvero non basta uscire dal capitalismo (ammesso che qualcuno lo pensi ancora...) e dai sistemi tecnici integra(n)ti e totalizzanti se a monte non si esce da ciò che li predetermina. Appunto la tecno-archía.
Per gentile concessione dell’Editore ne pubblichiamo alcuni estratti, presi dall’Introduzione e dall’ultimo capitolo dedicato alla sinistra.
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L’era della tecno-archía – e dei suoi tecno-oligarchi – sembra essere iniziata il 20 gennaio 2025, ma è il nome che qui diamo alla modernità/iper-modernità come combinazione di calcolo, rivoluzione scientifica e industriale; di capitalismo e di sistema tecnico; di positivismo e pragmatismo; e poi di complesso militare-industriale-scientifico; di illibertà mascherata da libertà; di ingiustizia e disuguaglianza come scelta politica; di finzioni di democrazia e di governo reale del mondo da parte di imprenditori autocratici e del capitale; di ecocidio compulsivo; di razionalità strumentale/calcolante-industriale che ha prodotto l’eclisse della ragione (richiamando Max Horkheimer).
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“La responsabilità non è dell’occupante, ma dell’occupato”
di Rami Abu Jamous
Rami Abu Jamous scrive il suo diario per Orient XXI. Giornalista fondatore di GazaPress, un’agenzia di stampa che forniva aiuto e traduzioni ai giornalisti occidentali, Rami ha dovuto lasciare il suo appartamento a Gaza con la moglie e il figlio Walid di due anni e mezzo. Rifugiatisi a Rafah, la famiglia è stata poi costretta a un nuovo esilio prima a Deir al-Balah, poi a Nuseirat, bloccata come tante famiglie in questa enclave miserabile e sovraffollata. Un mese e mezzo dopo l’annuncio del cessate il fuoco, Rami è finalmente tornato a casa con la moglie, Walid e il figlio appena nato, Ramzi. Per il suo Diario da Gaza, Rami ha ricevuto tre importanti riconoscimenti al premio Bayeux per i corrispondenti di guerra. Questo spazio gli è dedicato dal 28 febbraio 2024.
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Giovedì 4 settembre 2025.
Qualche giorno fa, ho ricevuto una telefonata da un’amica che vive in Francia:
— Rami, a quanto pare, questa volta la situazione è grave. Gli israeliani occuperanno l’intera Striscia di Gaza e deporteranno tutta la popolazione. Il piano è già pronto e verrà realizzato. Non è meglio per te cercare di evacuare?
— Perché dovrei andarmene?
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Cinquanta gusci di noce
di Marco Bersani
Il blocco delle barche della Flotilla, avvenuto manu militari da parte dell’esercito israeliano nella notte, costituisce un crimine di guerra. Non così tragico -speriamo- come quelli che quotidianamente avvengono a Gaza (anche oggi all’alba oltre 70 morti), ma identico dal punto di vista giuridico internazionale: Israele ha assaltato in acque internazionali una flotta di navi disarmate con persone provenienti da 44 Paesi che portavano con sé cibo e medicinali.
Un crimine contro il quale ogni governo democratico dovrebbe ribellarsi con forza e determinazione.
Non è il caso dell’Italia, dove i massimi esponenti di governo fanno a gara a chi si comporta in maniera più indegna.
Partiamo dalla Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, che dopo aver dato il via libera ideologico a Israele (“Quelli della Flotilla sono irresponsabili”) e dopo aver fatto dichiarazioni deliranti (“Stanno mettendo a rischio il piano di pace del mio amico Donald”) da oltre 24 ore è muta come un pesce. Evidentemente attonita nel constatare come le piazze del paese si sono spontaneamente riempite già nella serata di ieri, pronte a esondare oggi, a bloccare tutto domani e a convergere sabato per la Palestina.
Quasi incredibile il Ministro degli Esteri, Antonio Tajani, che è riuscito nel corso dell’intera serata e su tutti i canali a fare il telecronista del crimine di guerra: “Ecco, vedete li fermano…ma è un blocco, non un assalto..ora li porteranno sulla nave militare, poi li porteranno ad Ashkelon, poi li espelleranno”.
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Appunti sulla giornata di lotta del 22 settembre
di Cosimo Scarinzi
Sulla giornata di mobilitazione del 22 settembre 2025 contro il genocidio a Gaza riportiamo queste riflessioni di Cosimo
Ritengo si debba partire da un dato quantitativo, più di 80 manifestazioni, alcune con decine di migliaia di partecipanti, altre con migliaia portano a una presenza in piazza in occasione dello sciopero di lunedì 22 settembre di centinaia di migliaia di persone.
Un dato ancora più significativo se si tiene conto del fatto che lo sciopero e l’assieme delle mobilitazioni sono stati costruiti in pochi giorni, che la CGIL ha organizzato come controfuoco uno sciopero e una serie di manifestazioni su temi simili per venerdì 19.
Un dato che ci dice che lo sciopero ha coinvolto sui posti di lavoro molte/i lavoratrici e lavoratori che non hanno come riferimento sindacale il sindacalismo di base e che sono venuti in piazza anche lavoratori autonomi, insomma che si è andati ben oltre il mondo del sindacalismo di base e della sinistra radicale.
Questo senza, ovviamente, sottovalutare una robusta presenza di studentesse e studenti per i quali il 22 settembre non era, dal punto di vista della conduzione immediata, significativamente diverso dalle molte manifestazioni sugli stessi temi che si sono tenute negli ultimi mesi. Sarebbe anzi oggetto di un’interessante inchiesta militante la comprensione che gli studenti hanno della differenza fra sciopero delle lavoratrici e lavoratori e manifestazione.
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Škola kommunizma: i sindacati nel Paese dei Soviet
di Paolo Selmi
Diciassettesi9ma parte. “Ammettere i propri difetti è privilegio dei forti”: l’intervento di Tomskij al XIV Congresso del Partito Comunista di tutta l’Unione (bolscevico) PARTE VII
g. Sindacato, aziende concessionarie e scioperi
Successivamente, Tomskij esamina il ruolo del sindacato nel settore delle aziende concessionarie, ovvero gli stranieri che hanno ottenuto dallo Stato il permesso di esercitare la propria attività di impresa nel Paese dei Soviet. Pregherei di prestare la massima attenzione a questo brano, perché in esso sono contenute tutte quelle oggettive contraddizioni del sindacato in una NEP che oggi è tanto rivalutata, per non dire osannata da un certo revisionismo neanche troppo strisciante.
Fare onestamente, efficacemente, sindacato in una situazione socioeconomica sempre più disgregata dalle spinte centrifughe di dinamiche capitalistiche di diversa natura, oltre che da frequenti e concomitanti sovrapposizioni e interazioni (o interferenze) degli organismi di partito che contribuivano a confondere ulteriormente le acque, in una prospettiva oggettivamente schizofrenica, dal momento che tali concessioni erano favorite perché rappresentavano economicamente una boccata di ossigeno, ma non dovevano in alcun modo rappresentare una concessione o, peggio ancora, CEDIMENTI, anche sul terreno della lotta di classe, man mano che si aprivano le gabbie diventava un’impresa sempre più ardua. Diamo ora la parola al Segretario:
Permettetemi ora qualche parola del lavoro sindacale nelle aziende concessionarie. Due sono le deviazioni che possiamo notare da parte dei sindacati. La prima consiste nel riprodurre anche in tali aziende, meccanicamente e in toto, il metodo adottato nelle statali: nelle statali ci sono le assemblee di produzione? Facciamole anche nelle concessioni! Nelle statali c’è la commissione di produzione? Portiamola anche di là! La campagna per la la produttività del lavoro? Lo stesso anche lì! E così via. E che questa sia una deviazione in molti, ancora, non lo capiscono! E c’è anche l’estremo opposto.
Di titubanze e atteggiamenti ambigui verso le concessioni purtroppo ne abbiamo, e questo ci porta a mantenere una linea ferma, definita centralmente, nei confronti della tattica da tenere con le aziende concessionarie.
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La svolta di Trump sull'Ucraina è solo retorica
di Davide Malacaria
La svolta di Trump sul conflitto ucraino, a quanto pare, resta limitata alla retorica. In realtà, al di là delle roboanti critiche a Mosca, il nocciolo del discorso all’Onu era una presa di distanza dalla guerra con relativo scaricabarile sulla sola Europa. Lo ha capito anche la stolida rappresentate degli Esteri Ue Kaja Kallas, che in un’intervista ha dichiarato: “Non possiamo essere solo noi“, Trump deve aiutarci.
Peraltro, che fosse quello il punto focale del discorso lo conferma il New York Times: “Grattando la superficie, un desiderio più profondo sembra celarsi nel cambiamento di posizione di Trump […]. Trump sembra volersi lavare le mani del conflitto ucraino, dal momento che non è riuscito a portare il presidente Vladimir Putin al tavolo dei negoziati e ha visto diminuire le sue possibilità di agire come mediatore”.
Il rapporto Usa-Russia resta più o meno inalterato, come conferma l’incontro avvenuto in parallelo al’invettiva di Trump, tra il Segretario di Stato Marco Rubio e il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov. A dimostrazione della proficuità del vertice, la risposta di Lavrov a un cronista che gli chiedeva come fosse andata. Nessuna parola, solo un gesto inequivocabile: pollice in sù.
L’intemerata di Trump all’Onu era un modo per allentare le pressioni che il partito della guerra sta esercitando su di lui, incrementate dagli sviluppi del mese di settembre, tra cui l’assassinio di Charlie Kirk, che l’ha mandato in confusione. Ha dato loro quel che volevano, ma solo a livello retorico.
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