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Lotte, linguaggio, natura umana: l'itinerario politico-teorico di Paolo Virno

Guido Borio, Francesca Pozzi, Gigi Roggero

Intervista tratta da Gli operaisti

0e99dc 366e20efb68c4476950169a5ad9bb513mv2.jpgL'intervista che pubblichiamo oggi, a cura di Guido Borio, Francesca Pozzi e Gigi Roggero, è tratta dal volume Gli operaisti (DeriveApprodi, 2005). È un documento importante perché ricostruisce il percorso politico-intellettuale di Paolo Virno, illumina le tracce di ragionamento lasciate aperte dal filosofo e dalla sua tradizione del pensiero. Diversi i nodi che vengono trattati: oltre alle esperienze di organizzazione degli anni Settanta, Virno ci parla delle scommesse degli anni Ottanta e Novanta, ossia il tentativo di capire in che modo la trasformazione del paese negli anni della contro­rivoluzione avesse creato un nuovo tipo umano, oltre che natural­mente diverse forme di produzione, che potevano ormai comincia­re a esprimersi conflittualmente; dei limiti e delle ricchezze della tradizione operaista; dei filoni di ricerca affrontati da «marxista critico», concentrandosi su questioni fondamentali come il linguaggio, la comunicazione e la possibilità di porre al centro politicamente la natura umana.

* * * *

Qual è stato il tuo percorso di formazione politica e culturale e quali gli inizi della tua attività militante?

P.V.: Mi sono formato politicamente a Genova, dove la mia famiglia viveva e io facevo il liceo. Genova era esposta all’influenza di Torino, dove nel ’67 ci furono le prime occupazioni. Nell’estate di quell’anno si mobilitarono gli studenti medi, più vivaci di quelli universitari, che invece erano in contatto con le organizzazioni tradizionali dei partiti, Ugi e via dicendo. Come studenti medi fondammo il Sindacato degli studenti, che nell'autunno del '67 fece i primi scioperi su tematiche già sessantottesche, lotta all’autoritarismo, solidarietà con gli studenti greci dopo il golpe, e via di questo passo. Questa fu l’iniziazione. Alcuni di quelli con cui feci politica a quel tempo hanno avuto i destini più diversi: da Carlo Panella che adesso lavora per Mediaset, a Franco Grisolia che sta nella segreteria di Rifondazione, trotzkista da allora a oggi senza variazione alcuna (questo hanno di buono i trotzkisti, che si proseguono!).

L’anno scolastico ’67-68 fu interamente impegnato con questo tipo di esperienza importante come per tutti gli altri, però fatta nell’ambito di una città operaia del triangolo industriale, quindi con rapporti con le fabbriche di Sampierdarena.

Nell’autunno del ’68, sempre per un trasferimento della famiglia, sono venuto ad abitare a Roma, e qui ho preso contatti e rapporti con il gruppo che sarebbe diventato Potere operaio, che allora nella capitale era il gruppo delle facoltà scientifiche, del discorso su scienza e produzione, quello del Comitato di base alla Fatme. Soprattutto quest’ultima, tra l’autunno del ’68 e l’inizio del ’69, fu un’esperienza di massa che aprì e chiuse alcune lotte vincenti, portando a casa risultati concreti su cottimo, orario, ritmi ecc. Questo gruppo di Roma all’origine non si chiamava ancora Potere operaio, l’esperienza decisiva è quella de «La classe» a Torino nella primavera ’69. Sono anni della storia italiana in cui c’è un punto che è storiografico ma anche di paradigma teorico: mentre sul ’68 si trovano mille voci e altre mille sul ’69, se ne trovano poche, o comunque poche attente, su quello che accadde fra l’estate del ’68 e l’estate del ’69, che costituisce invece il punto di massima maturazione delle tematiche della rivoluzione italiana. È l’anno dei comitati di base, delle vertenze autonome nelle grandi e medie fabbriche. Dunque, l’Autunno caldo sono i consigli di fabbrica del ’69, del ’68 si sa: mentre questa stagione di mezzo, che invece è il grande laboratorio, anche da un punto di vista teorico, il più paradossale, il più complicato da capire, resta in generale perfettamente ignorata, se non per quei pochi che rivendicano una tradizione critica.

Quindi, io presi contatto con il comitato di base della mia scuola, con forme di avvicinamento collettivo anzitutto attraverso le tematiche de «La classe», cioè il salario, l’orario, questo materiale come tutte le storie sulla coscienza, l’autoritarismo, le cose pelose, francofortesi, ineffabili. Invece, lì c’era una radicalità intellettuale, anche teorica, che però faceva cortocircuito immediato con le condizioni materiali.

Entro in Potere operaio dopo gli episodi cruciali della primavera ’69 a Torino, dopo il convegno nazionale dei comitati di base di fine luglio, e dunque alla fine di agosto quando, dopo la rottura con Lotta continua, si sta per formare realmente Po come organizzazione. Come tanti altri, mi colpì l’apertura teorica e culturale, il fatto che si prendesse sul serio la grande cultura borghese, il pensiero negativo, la filosofia classica e la grande economia, Keynes o Schumpeter, in una situazione in cui viceversa la cultura e i riferimenti concreti nel movimento erano quelli che si sanno. Ciò naturalmente provocava anche dei vizi (narcisismo, quelli che…), e ovviamente non tutti i compagni di Potere operaio leggevano quelle cose: ma un conto è far finta di aver letto Schumpeter o Keynes, un altro è far finta di aver letto il Libretto di Mao. Ovviamente i comportamenti parodistici e millantatori ci sono stati lì come dovunque, però francamente c’è anche una qualità diversa e che conta di ciò che viene millantato. Quindi, c’era questa apertura su Marx e le lotte, in mezzo la grande filosofia e la grande economia: Marx contro il marxismo insomma, come strumento anche sociologico ed empirico. È un discorso che torna ancora nell’oggi, quando con «Luogo comune» e le altre esperienze si è sostenuto, pure con una certa amarezza, che le pagine più avveniristiche di Marx, come quelle del Frammento sulle macchine, si sono realizzate ma senza rivoluzione, senza crisi: il general intellect, la centralità del sapere e della comunicazione nella produzione sociale postfordista si è realizzata, tanto che quelle pagine risultano al limite un breviario per il sociologo più che un discorso di tendenza. Ma già allora si ritenevano congrui molti capitoli de Il capitale, dei Grundrisse o via dicendo con quello che materialmente avveniva giorno per giorno. Tra l’altro anni dopo (saltando l’ordine cronologico) io vissi a Milano l’avventura e l’esperienza di sostituire Oreste Scalzone per un mese in un lavoro di quelli improbabili che aveva lui, ossia una supplenza delle 150 ore all’Alfa di Arese, facendo dunque da supplente al supplente. Allora facevo anche interventi all’Alfa, quindi conoscevo bene tutte le avanguardie, però furono curiose le lezioni sul Primo libro de Il capitale (era quello il libro di testo): ci si può quindi immaginare la lettura del capitolo sulle macchine, sulla giornata lavorativa, fatta in parte con dei compagni, in parte invece con degli operai qualsiasi, non particolarmente politicizzati. Il che però era una specie di conferma, qualche anno più tardi (verso la fine del ’73) dell’assunto generale dell’esperienza operaista, cioè del carattere immediatamente applicabile delle pagine più avanzate di Marx alla condizione materiale dell’estrema modernità.

Sono stato in Potere operaio dall’inizio alla fine, dall’agosto-settembre ’69 fino al suo scioglimento e anche oltre. Prima, a Roma, intervenendo durante l'Autunno caldo nelle poche medie fabbriche romane (come la Vox con 2000 operai sulla Tiburtina), poi dopo con l’intervento territoriale nei quartieri, le occupazioni delle case. Ci fu una prima puntata a Torino nell’autunno ’71 con un’operazione un po’ brutta di Potere operaio, che aveva fatto il convegno, si era radicalizzato, c’erano le tematiche sulla rottura della crisi come si diceva allora, di forzatura prima che ci fosse il riassestamento dell’organizzazione capitalista, tutte cose mal riassunte poi nel termine dell’insurrezione. Ci fu una specie di spedizione politica che è la cosa meno opportuna in una realtà come Torino, una di quelle cose rapide, di resa dei conti nel gruppo. Fu insomma una cosa che non ricordo volentieri, comunque per me fu importante questo primo rapporto sia con i compagni di Torino, sia con l’impatto anche visivo e percettivo con la Fiat. Fui di nuovo a Roma nel ’72, sono stato più o meno nelle strutture dirigenti, nel direttivo e nella segreteria della sezione di Roma. Dal marzo-aprile del ’72 sono nell’esecutivo nazionale. I gruppi si ossificano e avvengono le cose che si sanno a memoria. Io non sono uno di quelli che dà un giudizio negativo sui gruppi. Fatemi credito sul fatto che potrei parlare per due ore delle parodie, le schifezze, le riprese di vecchi modelli ecc.; detto questo, ritengo che dopo il ’69 si pone un problema specifico, non lineare (mettendola in termini matematici) del potere politico. In termini banalissimi, si potrebbe dire che è il problema dello sbocco politico di un movimento che per la prima volta (per dirla con Gramsci contro Gramsci) non per fare la rivoluzione contro Das Kapital ma cerca la rivoluzione in accordo con Das Kapital: dunque, non contro la miseria e l’arretratezza, ma contro il rapporto di produzione capitalistico e contro lo stesso lavoro salariato. È una cosa che non ha avuto precedenti e che cercava le sue forme politiche; ciò era avvertito nei quadri di base del sindacato, della Fiom, era un dibattito politico generale. Le posizioni come quella di Capanna a Milano (per dirne una fra le più famose allora, poi ovviamente il dibattito a metà degli anni Settanta sarà diverso, sarà il dibattito dell’autonomia) sostenevano: «no, per carità, movimento politico di massa», poi fiancheggiavano il Pci e di lì a poco facevano da servizio d’ordine alla Uil. Quindi, là c’era un problema, secondo me nelle sue versioni migliori è stato elaborato e raccolto da Lotta continua e da Potere operaio, poi anche in una certa misura e a loro modo (un modo diversissimo e lontanissimo dal mio) da Avanguardia operaia e da altri. Mi pare – certamente storiograficamente ma forse anche da un punto di vista politico-teorico – una semplificazione indebita anche a distanza di tanti anni dire che si è passato dall’eden delle assemblee del ’68 e dei comitati di base della primavera del ’69, ai piccoli ritualismi aridi e inconcludenti dei gruppi: io sarei più cauto e ricorderei qual era la posta in palio. Che poi sulla posta in palio si sia fallito, è un conto; che però ci fosse questa posta in palio con la sua specificità, con la sua discontinuità rispetto all’andamento lineare dei movimenti, secondo me va ammesso. Ciò mi viene in mente a proposito del fatto che dal ’72 ho partecipato a una di queste strutture un po’ buffe, ridicole e spesso in Potere operaio vissute ironicamente, quella dell’esecutivo.

Poi c’è Rosolina, la rottura, sto con la parte di Piperno. Penso che la discussione non fosse pro o contro le assemblee di fabbrica di Milano, su queste come riferimento centrale vi era accordo generale in tutte le organizzazioni, tra tutti i compagni, in tutte le sedi di dibattito non vi era dubbio alcuno. Il punto, in realtà, riguardava alcune funzioni specifiche soggettive, in particolare l’uso e l’impiego della violenza, un problema teorico e non soltanto pratico. Allora, il problema era: c’è già in Italia chi risponde in maniera soddisfacente a questa questione politica, organizzativa e anche teorica, che sono le funzioni di rottura o come le si voglia chiamare? Se così è, ovviamente possono essere delegate a coloro che già le assolvono in una forma soddisfacente, viceversa resta il problema di elaborare il come e le forme di queste funzioni. Naturalmente, chi sosteneva che già c’erano diceva: «allora lavoro direttamente con le assemblee autonome, a questo ci pensano altri». Altri pensavano non ci fossero in assoluto, ma che il modo in cui queste funzioni di rottura venivano elaborate fosse dentro una linea sostanzialmente interna al vecchio movimento operaio, cioè una prosecuzione radicale dell’antifascismo militante, della Resistenza rossa, se si vuole una lotta armata per le riforme (si può fare anche questo, alla fine il problema della forma di lotta conta ma non è decisivo). Quindi, il dibattito su Rosolina fu quello, oltre che su tante altre cose: composizione di classe, andamento della crisi, rapidità della riorganizzazione capitalistica, che naturalmente era la vera posta in gioco nella rivoluzione italiana.

Io penso (e questo invece è punto storiografico e teorico) che nel Novecento ci siano state due rivoluzioni fallite e che chi — come Tronti o altri — dice che ce n’è stata una, cioè quella che tutti sanno negli anni Venti, sbaglia. Non si capisce niente del secolo (per usare questo linguaggio un po’ magniloquente alla Tronti) se non si tiene conto di tutte e due: una è la rivoluzione in Occidente negli anni Venti (in Germania e altrove), l'altra la rivoluzione in senso proprio degli anni Sessanta e Settanta, la prima che è contro il modo di produzione capitalistico e non arretratezza e pauperismo, e di cui il postfordismo è sostanzialmente la replica in grande, la controrivoluzione. Mi spiego: per rivoluzione non intendo che molto gridassero parole d’ordine rivoluzionarie, il carnevale delle soggettività non mi interessa. O si dice che tutte le rivoluzioni che non sono riuscite non esistono, e si può dirlo; oppure, se si introduce la dimensione di rivoluzione fallita, bisogna avere un criterio sobrio (non ancorato alle grida e ai brusii degli soggetti di allora) di che cos’è una rivoluzione fallita. Secondo me si può parlare di rivoluzione fallita, in maniera sobria e oggettiva, laddove per un consistente e lungo lasso di tempo vi è un blocco nella decisione politica e sociale, nei luoghi di produzione, nei quartieri popolari e in alcune delicate istituzioni statali. Questo lungo blocco fra due poteri sociali contrapposti in Italia (e talora più in generale, in certi anni e in certi luoghi dell’Occidente capitalistico) c’è stato. In questo senso io parlo di rivoluzione fallita. E per controrivoluzione non intendo ritorno all’ancien régime, ricostituzione di quello che già c’era; penso la controrivoluzione come una rivoluzione al contrario, come una cosa straordinariamente innovativa e che, per giunta, fa proprie e utilizza molte delle spinte, delle istanze, dei modi di essere, delle inclinazioni che avevano nutrito di sé la rivoluzione.

Dalla fine del ’72, inizio ’73 ho vissuto e fatto politica a Milano. Ho lavorato all’Alfa Romeo e all’Innocenti, ho assistito e partecipato alla rottura dentro Potere operaio e alla discussione, che non era banale: alcuni frammenti (i più degni, i meno angusti) costituivano un dialogo sui prodromi del postfordismo, o comunque dall’uscita capitalista dal fordismo (ricordo ad esempio i contributi di Magnaghi sulla fabbrica diffusa che da lì a poco saranno stampati su Quaderni del territorio, oppure la discussione con Toni). Il dibattito all’interno di Potere operaio ebbe anche dei momenti alti, carichi di presagi su questo passaggio. Là proprio c'è la labilità e la fragilità dell'esperienza politica, la questione naturalmente è quella del tempo del debito: se questo passaggio di uscita dal fordismo da parte del capitalismo avviene con tempi da loro decisi e come passaggio repentino il quadro sociale e della soggettività è completamente mutato e tu hai perso; il problema era di stare dentro questo passaggio, non di avversarlo in nome della bellezza delle linee di montaggio. Insomma, il problema era quale segno mettere su questo passaggio: c’è una fase della di trapasso e lì si gioca tutto. Quindi, rivendico che anche nella fase finale, che è quella più livida, più carica di risentimenti, per tanti aspetti la più detestabile, c'era un nucleo vero di discussione.

Successivamente resto ancora a Milano a fare intervento all'Innocenti, con quel poco che restava di Potere Operaio che non era andato con l'Autonomia. Poi, quando ci fu la seconda chiamiamola occupazione della Fiat, quella del febbraio-marzo ’74, vado a Torino dove avevo dei buoni amici e compagni: era una realtà rimasta più o meno in piedi come sede di intervento, e poi c’erano le lotte e l’intervento sull’autoriduzione e via dicendo. Nell’estate o all’inizio dell’autunno del ’75 torno a Roma, dapprima credevo provvisoriamente, poi per tanti motivi invece diventa un restare. Comincia una stagione di mezzo in cui non c’è più organizzazione, in cui ci sono nuovi cicli di studio e di riflessione, fino all’autunno ’76 e all’inizio del ’77. In quel periodo c’è una riflessione rispetto al ’68 e al ciclo ’68-’73, sul fatto che la forza-lavoro sociale ha altri canali di formazione, altre espressioni soggettive. Questa discussione avviene in un gruppo di compagni romani che lavoravano insieme per motivi professionali, avevamo messo in piedi un centro di ricerche che si chiamava Cerpe. Tutti questi compagni ritornano ad avere un ruolo pubblico, a fare proposte, attività e lavoro nel ’77 romano, ma senza nessuna forma organizzata. A quel punto naturalmente c’era stata anche una modificazione nella storia dell’Autonomia, quella che av­viene attorno al ’75-’76 milanese e che diventa appunto la forma poli­tica della nuova composizione di classe; mentre all’inizio, negli anni fra il ’73 e il ’75, era una cosa più angusta, con ragioni più specifiche, dal ’75 diventa davvero la forma generale della nuova composizione di classe della forza-lavoro scolarizzata, del lavoro mentale, del lavo­ro precario, della nuova giornata lavorativa sociale. Quindi, i vecchi motivi di divisione rispetto all’area dell’Autonomia vengono meno e ovviamente si lavora con loro, anche se, ripeto, mancano un gruppo e una soggettività organizzata.

Nel ’77 si assiste alla nascita di qualcosa di nuovo. Onestamente non credo che nei discorsi che abbiamo fatto negli anni Novanta ab­biamo commesso l’anacronismo di attribuire al prima quello che ab­biamo pensato dopo; sono convinto che là ci fu proprio un’illu­minazione dentro il decorso concreto del movimento, un dire: «ecco, questo è il superamento del fordismo, ed è il superamento del fordismo che avviene in forma di conflitto». Prima le lotte, poi lo sviluppo: il ’77 come nascita ed esordio del postfordismo, del supera­mento del fordismo. Cosa che peraltro è successa tante altre volte nella storia dello sviluppo capitalistico, gli Iww fanno le lotte negli anni Dieci, sono operai dequalificati e mobilie, e in un certo sono l’esordio di quello che Taylor e Ford faranno negli anni Venti con la dequalificazione sistematica del lavoro. Lì il rifiuto del lavoro, la critica del lavoro salariato, smetteva di essere il cuore della faccen­da ma solo in negativo: cioè, venivano in rilievo, in altorilievo, dense, in positivo, le forme di vita, le forme di esistenza, le mentalità, le forme di comunicazione del rifiuto del lavoro. Quindi, il ri­fiuto del lavoro per me aveva questo carattere puramente di «contrario», mostrava e secerneva una sua ricchezza. I discorsi sul ’77 sono stati al centro dell’elaborazione immediatamente successiva, delle parti meno effimere di «Metropoli» e anche di quei due saggi comparsi nei «Pre-print» della saggistica che accompagnava la rivista, scritti in realtà da Lucio alla fine del ’76, da me nel ’78. «Metropoli» fu un’elaborazione a caldo, però anche di qualche respiro, delle cose essenziali emerse da quella inaugurazione conflittuale del postfor­dismo che è stato il movimento del ’77. Su «Metropoli» vi era un leit motiv, naturalmente schiacciato e velato dagli articoli sul terrori­smo, che per ovvi motivi ebbero maggior clamore: si tratta di un tema fondamentale e ricorrente, quello della sempre maggiore cen­tralità del linguaggio nel lavoro e della rottura di tutte le mentalità legate al fordismo.


Dopo Potere operaio e ben prima di «Metropoli» ci fu «Linea di condotta», di cui uscì un solo numero, ma che era un tentativo a suo modo significativo.

Era significativo perché fu un estremo tentativo, condotto tra l’autunno del ’74 e l’inizio del ’75, di riconnettere tra loro alcune delle schegge seguite alla rottura di Potere Operaio. Toni e gli altri nomi, diciamo così, tra il ’73 e il ’75 avevano i loro alti e bassi e, a parte l’ovvio rapporto di continuare a leggere le cose degli uni e degli altri, non c’era più una relazione diretta. Ma la parte di Potere Operaio che non aveva fatto la scelta chiamamola dell’Autonomia si ruppe a sua volta, in quel processo di frazionamento infinito che in biologia si chiama decomposizione (a proposito dei cadaveri). Qui­ndi, c’erano Oreste e altri compagni a Roma che avevano differenzia­to la loro iniziativa, si erano legati sempre più a una frazione radica­le di Lotta continua a Milano, a Sesto San Giovanni, la Magneti Ma­relli e via dicendo. Con loro ce n’era qualcun altro anche a Torino, il rapporto era molto più ravvicinato, eravamo stati dalla stessa parte a Rosolina, anche il rapporto personale era più intimo e stretto. Si fece quindi un tentativo di produrre una riflessione insieme, attraverso due o tre convegni, riunioni, seminari, per dire: «va bene, da quando è finito il settimanale nel dicembre '73 Potere Operaio effettivamente non c'è più, però ci può essere fra noi una forma politica nuova». Dentro questo discorso c’è l’unico numero di «Linea di condotta», che poi passa alla storia perché vi compaiono dei docu­menti importanti con cui alcuni di Lotta continua rompono con la loro organizzazione e tra questi c’è qualcuno confluirà poi in Prima Linea. Quei documenti saranno (con buona ragione, ma certamente con sguardo retrospettivo) considerati la piattaforma generale di un percorso che, prima con «Senza tregua» ma poi con Prima Linea, co­nosce esiti estremi. Il numero di «Linea di condotta», se ci si pensa, è molto eterogeneo e volenteroso, si intuisce la voglia di questi compagni di fare ancora una cosa significativa insieme: ci scrivono Ma­gnaghi, Dalmaviva, io, Daghini, e questa scheggia che di lì a poco fa­rà «Senza tregua». Questo spiega anche perché è un numero solo.

 

Ritorniamo all’esperienza di «Metropoli» e ai percorsi successivi, collocati pienamente dentro quel cambiamento di paradigma che hai ben descritto.

«Metropoli» dovrebbe nascere come rivista larghissima, di tutta l’area del ’77, ci sono riunioni con Toni e altri, poi le cose vanno in maniera diversa. È comprensibile, ho fatto anch’io per parecchi anni un lavoro di organizzazione e penso (ho appena fatto la difesa dei gruppi) che nell’organizzazione, anche nelle sue forme più sci­atte, c’è sempre un contenuto degnissimo; però, è chiaro che chi viene da delle organizzazioni ha un problema di continuità, di influenza, di lotta politica ecc., e – pur avendo radicalità teorica – è meno di­sposto a giocarsela come tale ignorando passaggi tattici e di egemonia. Insomma, la rivista la fanno materialmente il gruppo romano, i senza partito e i senza organizzazione, insieme a Oreste, che inve­ce un partitino e un’organizzazione ce l’ha, ma che dice: «io nella ri­vista mi comporto come voi». Il primo numero, perché sequestrato, subisce un’immediata «mediatizzazione», anche se vengono sot­tolineati solo gli articoli sul 7 aprile che era avvenuto due mesi prima. Alcuni di noi sono imputati, io ero presente all'arresto di Oreste e di Zagato nella sede romana di «Metropoli» il 7 aprile stes­so, Piperno sfugge all’arresto per pura fortuna due volte nella stessa giornata. Vi sfugge ogni volta come in un film di Fernandel, arriva subito dopo che è arrivata la polizia, da cui può fuggire per l’infinita furbizia e la superiore astuzia; penso che però, come nella storia maggiore di noi, spesso questa storia di avvedutezza deriva da una concatenazione stupefacente di colpi di culo! Quindi, il primo nu­mero di «Metropoli» si occupa ovviamente delle retate, c’è l’artico­lo, peraltro informista e anglosassone, di Piperno che dice: «prima pagano e meglio è», ma non nel senso di sparargli alle gambe, bensì nel senso «prima le istituzioni si autocorreggono e meglio è». Non che questo fosse il suo modo di pensare, ma aveva deciso di giocare il ruolo del liberal conseguente.

Il secondo numero di «Metropoli», dopo un anno di galera, esce nell’80, però è di nuovo un numero raccogliticcio, con articoli man­dati dal carcere, un numero non pensato nel suo insieme. «Metro­poli» esiste come organo di riflessione sul postfordismo, sulla crisi della società del lavoro, sulle nuove forme della soggettività. Nell’ 81 ne escono, come mensile, cinque numeri, dal tre al sette. Con tutti i difetti delle situazioni spurie, in cui ci sono tanti residui di vecchi paradigmi che convivono con le intuizioni più vitali, è tuttavia pos­sibile trovare il nucleo, il fulcro di questa riflessione. Io credo (ma naturalmente la cosa è puramente biografica) che gli elementi og­gettivamente più rilevanti per esempio dell’elaborazione di «Luogo comune» siano stati una prosecuzione, un affinamento, anche con maggior peso culturale e teorico, di cose che erano già espresse in «Metropoli». Io vado in galera, ma in ritardo, a scoppio differito: vengo arrestato con Castellano, Maesano e Pace (che però sfugge all’arresto, di nuovo, giuro, non per sagacia...) il 6 giugno ’79, poi ci fanno confluire nel 7 aprile. Ritroviamo gli altri nel cortile di Rebibbia, nel braccio speciale, stiamo un po’ di mesi lì, poi c’è la diaspora, cioè il Ministero ordina di mandare ognuno di questi detenuti in un carcere speciale diverso, perché ovviamente, tramite avvocati, visi­te, benché ci fosse il regime di braccio speciale, quello era diventato un luogo in cui si elaboravano documenti, lettere a giornali, si face­va campagna politica, c’erano state delle lotte interne. Quindi, io vado a Novara, Oreste va a Cuneo, quell’altro va a Favignana, quell’altro ancora da un’altra parte. Comincia questo giro negli speciali, e ci ritroviamo non tutti ma in parte nel carcere di Palmi, inaugura­to nell’autunno del ’79, carcere per soli politici o per detenuti comunemente completamente politicizzati, una specie di Kesh. Lì dentro c’è una situazione curiosa, perché si incontrano assolutamente tutti. Infatti, in un primo periodo si pensò anche di approfittare di questa situazione per avviare una discussione larga, di carattere costituente con i compagni delle Br, con Alunni o con quelli dei Nap; però, il problema che è il più spregiudicati di loro, come Curcio, erano d’accordo, avevano capito di aver perso l’essenziale, cioè il cam­biamento di paradigma del ’77, il fatto che i giovani operai erano non più riconducibili a quelli del '69, altri invece no. Inoltre, vivevano il pieno sviluppo di quella che chiamavano strategia dell’annienta­mento, insomma diciamo di massificazione della lotta armata, e naturalmente il tipo di tattica, di passaggio che stavano attraversan­do era un vincolo materiale troppo forte per avere la snellezza men­tale di affrontare una discussione così grande. Quindi, all’inizio c’era una buona intenzione, quasi subito accantonata, ma poi ci fu un illividimento dei rapporti sempre maggiore. Io, dopo poco meno di un anno di galera, vengo rilasciato perché declas­sano il mio reato da costituzione a partecipazione, e a quel punto avevo fatto già abbondantemente il carcere preventivo. Poi starò fuori due anni, nell’anno vero di «Metropoli», quello in cui è una rivista, nel bene o nel male, che vale come tale e non per la sua mediatizzazione. Peraltro vende tanto, va solo in edicola e non vende mai meno di 15.000 copie: cosa che si può capire per il primo numero, ma dive­nta significativa per quelli successivi.

Successivamente feci ancora due anni di carcere, con una con­danna a 12 anni in primo grado, e un anno di arresti domiciliari che sono un buon modo di semplificare il passaggio per certi versi al postfordismo in generale, sia pure in un aspetto microsociale, op­pure il passaggio dalla società disciplinare alla società di controllo; l’assoluzione (insieme a tanti altri imputati del 7 aprile) fu nell’87, la conferma nell’88. La vita sospesa, come sempre accade quando uno è condannato, sia pure ormai a piede libero, l’Italia cambiata, mentalità completamente modificate, vecchie forme di comunanza e di contiguità completamente spezzate. Nell’87 si decide con altre persone di capire i termini della nostra rivincita, cioè di capire in che modo la trasformazione del paese negli anni della contro­rivoluzione avesse creato un nuovo tipo umano, oltre che natural­mente diverse forme di produzione, che potevano ormai comincia­re a esprimersi conflittualmente. Si è pensato che fosse sensato un approccio al postfordismo che muovesse dall’impatto (in termini arcaici) fra struttura e sovrastruttura, il punto di indifferenza, il punto perfettamente comune a entrambe. Era scrutare un modo di essere del lavoro dipendente contemporaneo, ritenendo che esso non può essere compreso adeguatamente (proprio nel suo essere produttivo di plusvalore, beninteso) solamente o principalmente con strumenti economici, e in certa misura nemmeno con strumen­ti solo sociologici. Il lavoro contemporaneo, perché produttivo di plusvalore e non perché disincarnato, richiede una strumenta­zione assolutamente larga, in cui sono coinvolte le forme della sua cultura, la sua struttura emotiva, le sue convinzioni etiche ed estetiche. Paradossalmente, la soggettività postfordista, per essere colta nel suo nucleo più duro, e fra le altre cose più economicamente rilevanti, doveva essere accostata con questa larghezza di strumenti. C’è una bella frase di un grande epistemologo francese, Gaston Ba­chelard, il quale diceva che la meccanica quantistica che suscita tanti problemi e tanti paradossi deve essere trattata con strumenti molto eterogenei l’uno dall’altro. Per spiegare un problema di mec­canica quantistica ora serve, in termini filosofici, un concetto di Kant, ora un concetto di Bergson, ora un concetto medioevale, e poco male se sono così diversi fra loro. Così è anche per la forza-la­voro e la soggettività postfordista (non è che io sia molto contento di questa formula, ma è per capirsi in breve).

Questa è l’esperienza che porta al libro collettivo Sentimenti del­l’aldiqua, che naturalmente vuole essere anche una critica radicale del pensiero debole, del postmoderno italiano che è stata l’ideologia dei vincitori, l’ideologia della sconfitta dei movimenti di massa. La quale però, come tutte le ideologie vere, ha in sé un nucleo di verità, soltanto che esso non solo è deformato, ma soprattutto è apologeti­co, cioè tende a pensare che è così e solo così potrà sempre essere. Invece, la questione era riportare il cosiddetto pensiero postmoder­no alla sua base materiale. La società della comunicazione genera­lizzata di cui parla Vattimo è la trasfigurazione deformata e apolo­getica di un fatto reale, cioè che il plusvalore si produce attraverso il linguaggio. Facciamo dunque un tentativo di lavorare con gente di versa, molti dei soliti, che sono i soliti buoni, però anche persone differenti. Seminari, discussioni, la rivista, alcuni di noi lavorano a «il manifesto» e cercano di fare un giornale dentro il giornale, cioè fanno le pagine culturali che non hanno nessun rapporto con le cose un po’ cialtrone che girano in tutte quelle precedenti. Da ciò nasce l’esperienza di «Luogo comune», di cui escono quattro nu­meri, ed è una rivista in cui compare molto l’aspetto redazionale, di discussione, i seminari ecc. C’era l’ovvio rischio dell’errore e del dire più di quanto si pensa, mi si permetta il gioco di parole, perché a volte uno decide coscientemente di dire più di quanto sarebbe cauto e prudente affermare, quindi di dire più di quanto pensa, semmai per suscitare discussione e sottoporsi a critica: in realtà era un tentativo di squadernare un insieme di categorie, questa volta non in maniera allusiva come alla fine degli anni Settanta, ma a pieno titolo, proprio mordendo la carne viva del nuovo, del cambio di paradigma, predisponendo però una ripresa politica organizzati­va. La prima cosa è che qualsiasi organizzazione, come sempre, è una cultura: chi non coglie gli aspetti materialistici e materiali della cultura, rischia di non comprendere il problema nel percorso orga­nizzativo. Il problema era produrre, anche in maniera un po’ arte­fatta, affannosa, attraverso parole-chiave (generai intellect, linguaggio e produzione, esodo) un panorama mentale (cosa c’è di più ma­teriale di un panorama mentale?), però per mettere insieme dei gruppi di militanti intellettuali. E per far sì che questi, con esperi­menti cauti, sul reddito di cittadinanza, sulle nuove forme di produ­zione, la fabbrica innovata, il lavoro non di fabbrica ecc., potessero cominciare a disegnare dei percorsi pratici. Naturalmente lì ci sono tutte le difficoltà, i tempi lunghi, c’è lo sbattere la testa e poi provare in un altro modo. Ma la condizione preliminare era questa rete.

C’è tutta questa storia, anche di produzione teorica, a volte anche piuttosto rarefatta – non abbiamo avuto problemi a tirare dentro Wittgenstein e Heidegger se ci servivano, con il solito strumentali­smo materialista. Quindi, questa produzione teorica fra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta aveva questa finalizzazio­ne che io dico organizzativa, in senso largo, poi semmai sono orga­nizzazioni totalmente ignote rispetto a tutti i precedenti conosciuti. Ciò secondo me finisce attorno al ’94. Intanto, si capisce che noi non siamo stati sufficientemente tenaci, bravi e capaci; si capisce però anche che c’è una vera difficoltà in Italia perché il ciclo di svi­luppo postfordista, iniziato alla fine degli anni Settanta, possa mo­strare ora l’altra faccia della medaglia, conflitto e forme dell’orga­nizzazione, in quanto ci sono state una serie di giustapposizioni che lo hanno come bloccato e deviato: la caduta del Muro, la crisi del si­stema politico italiano, che per tanti aspetti è una crisi che deriva da cose di fondo, è una crisi della democrazia rappresentativa, quindi qualcosa che in un certo senso interesserebbe enormemente un pensiero come il nostro. Però, di questa crisi si nutrono altre cose, il partito-azienda, il leghismo ecc. Quando, a un certo punto, poteva­-doveva mostrarsi l’altra faccia della medaglia postfordista, quella conflittuale, questa ha preso invece una torsione di destra, o co­munque è rimasta seppellita dentro il clamore della crisi del siste­ma politico; ciò, a parte la nostra evidente incapacità, talvolta anche poca serietà, ha bloccato per un motivo più alto e consistente la pos­sibilità di mostrare le potenzialità nuove sul piano politico-organiz­zativo della soggettività postfordista.

Poi ci sono stati altri conati, tentativi organizzativi più recenti. Parlando a livello individuale, attorno al ’94 c’è come il constatare e toccare con mano qualcosa che probabilmente si poteva capire anche qualche anno prima: un tentativo politico-organizzativo to­talmente nelle condizioni nuove, che sia cioè come il risultato della controrivoluzione, che si ponga all'estremo e al bordo della controrivoluzione, non ha funzionato, è rimasto stritolato per un insieme di motivi. Da quando smette di esserci «Luogo comune» nel ’93, ora più ora meno, ora più da lontano ora più da vicino, una parte consistente di quelli che fecero la rivista collaborano a «DeriveAp­prodi», quindi c’è una continuità. Ci sono stati tanti piccoli conati di iniziativa politica, anche molto recenti, ma nel complesso resta secondo me valido il giudizio sul fatto che vi è come un conge­lamento, un ritardo, un’inibizione, un torpore, e quindi un tempo lungo perché si possa dare positivamente, conflittualmente, con l’in­venzione di nuove forme, di nuovi percorsi, di nuove strutture e teorie dell’organizzazione, l’altra faccia del postfordismo.

Detto questo, però, non si capisce molto di quello che ho fatto io se non si considera che da sempre, e dal ’78-79 in maniera via via sempre più centrale e massiccia, mi ero occupato di filosofia. Me ne sono sempre occupato da marxista critico, cioè pensando che un problema fondamentale fosse lavorare su un materialismo ampio, capace di non lasciare fuori di sé problemi fondamentali come il linguaggio, la comunicazione o altro ancora. Sarebbe dunque diffi­cile parlare di me stesso dal ’79 in poi senza tenere presente che, anche quantitativamente, la parte maggiore del mio tempo l’ho passata a lavorare su problemi e questioni filosofiche, scrivendo e pubblicando cose affrontando i buchi neri del marxismo, ma non del marxismo in generale, bensì del marxismo critico, del marxi­smo nostro, constatati come veri e propri punti di catastrofe nella ricchezza complessiva degli anni Settanta. Le prime cose riguarda­rono proprio il problema: c’è una teoria della conoscenza in Marx? E questa teoria della conoscenza, se c’è e se ci fosse, riguarda solo le cose come stanno o c’è anche un modo di conoscere la tendenza, la trasformabilità dell’esistente? Quali sono le categorie per conosce­re non solo il valore di scambio, ma anche la fuoriuscita dal valore di scambio? Queste furono le primissime cose che poi misi in gran parte in Convenzione e materialismo, che fu scritto fra l’80 e l’82, anche se per ovvi motivi carcerari uscì nell’87.

Poi naturalmente molte di queste cose si intrecciano, come per esempio avviene nella riflessione su una categoria come quella di moltitudine, che nel Settecento fu opposta a quella di popolo, ed è da quest’ultima che derivano le teorie politiche della modernità. Noi in «Luogo comune» abbiamo detto: «badate che sta tornando perspi­cua, pertinente alla situazione attuale la categoria della moltitudi­ne». È difficile non concepire e pensare la categoria della moltitudi­ne senza tirare fuori una serie di questioni propriamente filosofiche: quali sono i giochi linguistici, le forme comunicative della moltitudine? Cos’è la categoria dell’individuale, del singolare per i molti? L’idea di molti fa pensare a tante singolarità non sintetizzabili in quell’uno che è lo Stato e il sovrano. Insomma, queste domande possono essere pensate attraverso problemi e categorie di etica, filo­ sofia del linguaggio, filosofia politica. Quindi, il problema è che ci sono punti consistenti in cui la riflessione più teorico-politica si lega alla riflessione filosofica, ma ce ne sono anche altri per cui invece non è così. Il mio problema è in fondo quello di uno che non c’è mai stato simpatico, Engels; questa in un certo punto si pose la questio­ne :«va bene, noi abbiamo detto delle cose materialistiche sulla prod­uzione e sulla storia: però, il materialismo non dovrebbe avere l’am­bizione di coprire tutto il campo, quindi anche il campo della scien­za, della natura, dei sensi? Non dovrebbe essere anche un sensuali­smo, un sensismo?». Quindi, alcune volte queste riflessioni si incrociano, vedi l’esempio della moltitudine, altre volte ho dedicato anni a ragionare su quale fosse lo statuto materialistico del linguag­gio, quale fosse il rapporto fra il linguaggio e la vita sensibile, quale fosse il rapporto fra il linguaggio e il mondo materiale. E qui siamo per certi aspetti vicini e per certi aspetti lontani dal tipo di percorso politico di cui dicevo prima.

Insomma, qual è il problema della tradizione operaista? Come tutte le tradizioni merita solo di essere buttata a mare, ma il punto è: c’è in essa qualcosa che permette di pensare, con il massimo di radica­lità e di realismo, la critica del capitalismo dopo l’89 e di indipen­denza dall’uso del socialismo reale? Se sì, è l’unica tradizione di pensiero che in un certo senso aveva metabolizzato fin dagli anni Sessanta il Muro, e che forse ora ha almeno altrettante se non più cose da dire di quante ne avesse nel ’69. Solo in questo senso parlo in termini positivi della tradizione operaista, non per i suoi trascorsi più, o meno nobili ma nemmeno tanto: per questa capacità di te­nere insieme quello che gli altri considerano ormai scisso.

 

Rispetto al movimento globale e alle nuove generazioni militanti, quanto può essere utile una lettura critica delle esperienze dell’operaismo, che si muova tra la possibilità di attualizzare i migliori filoni di ricerca teorica e politica e la necessità di liberarsi dal peso degli anni Settanta?

Mentre negli anni Ottanta e Novanta, anche laddove erano suc­cesse cose significative, restava l’ombra degli anni Settanta come l’epoca dei fatti che contano, l’esplosione di questo movimento internazionale avrebbe dovuto avere il vantaggio di smettere di guardare indietro. Dopo Genova si possono sperimentare miseria, divisione, frustrazione, sconfitte, nuovi avanzamenti, ma ci sono tutti motivi per mettere la testa teorica nel presente. Da Seattle in avanti ci sono stati quelli che io chiamerei gli stati generali delle nuove fi­gure produttive, cioè una rappresentazione e un’autodefinizione del lavoro intellettuale di massa, del lavoro linguistico, del lavoro precario, di tutte le figure che oggi andrebbero marxianamente considerate lavoro produttivo di plusvalore assoluto e relativo. Il problema è che si sono manifestate su un terreno a prima vista un po’ disincarnato, etico-simbolico. Secondo me, però, questo stesso terreno etico-simbolico – i diritti umani, la giustizia, la libertà di linguaggio e di espressione, violare di un palmo le zone rosse – andreb­be compreso e non disprezzato, perché è l’espressione più diretta e inevitabile delle condizioni materiali di questa forza-lavoro. Non è stata una fuga dai rapporti di produzione, ma un’espressio­ne fedele di essi, in cui cultura, sapere e forme di vita sono gli ingre­dienti principali. È la contraddizione che l’operaismo negli anni Novanta ha cercato, variamente e con gerghi diversi, di mettere in luce: vi era una forza-lavoro sociale che stava nel cuore dell’econo­mia contemporanea, e le cui caratteristiche al contempo violavano ed eccedevano tutte le categorie dell’economia politica.

Per restare alla storia dell’operaismo, vi è discontinuità tra que­sta forza-lavoro e figure egemoni come l’operaio di mestiere, l’o­peraio-massa e l’operaio sociale; non si tratta quindi di un ulteriore anello di quella catena, ma dell’esplosione delle stesse determi­nazioni di forza-lavoro, pur trattandosi ancora a tutti gli effetti di forza-lavoro. Questo paradosso, che a partire da Seattle si è mani­festato con tanto clamore, crea un problema a cui l’operaismo è stato attento fin dai primi anni Sessanta, cioè come uno movimen­to necessariamente e materialisticamente etico possa ricondurre ciò sul terreno del conflitto con forme di lotta efficaci. Questa è una delle questioni più interessanti dell’intera tradizione operai­sta, anche se raramente tematizzata come tale: la forma di lotta è stata la soglia tra la composizione tecnica e la composizione politi­ca di classe, sta nel cuore delle diverse teorie dell’organizzazione. Allora, il problema è come il movimento può tornare sul terreno dei rapporti di produzione e dunque come – sul piano delle migra­zioni, delle proprietà intellettuale, della giornata lavorativa sociale – fare del male e mettere nei guai l’avversario. Il limite del dopo Genova non è il cosiddetto terreno etico-simbolico, che – insisto ancora – è rappresentazione fedele di una composizione di classe così paradossale ed estrema come quella che abbiamo di fronte; il problema è la mancata traduzione di questa rappresentazione etico-simbolica in un complesso di forme di lotta efficaci.

Dunque, tornano questi due leit motiv operaisti, completamen­te tramontati rispetto agli anni Novanta. Il primo riguarda una sorta di classe operaia composta da individui sociali che non ha più nulla delle caratterizzazioni sociologiche della classe operaia. Se si vuole, è un superamento della classe operaia ferma restando la produzione del plusvalore. Il secondo è il terreno delle forme di lotta. È tra questi due punti nel dopo Genova non c’è stato un vero punto di contatto. Ho l’impressione che la riproposizione delle esperienze originarie di «Quaderni rossi» e di «Classe operaia» a Torino, l’analisi minuta – a volte un po’ entusiastica ed encomia­stica – del «gatto selvaggio», dello sciopero a scacchiera e via di­ cento, in un certo senso costituisca l’ultimo grido e la novità più nuova del nostro panorama.

 

Venuta meno la centralità politica dello scontro tra operai e capitale, Tronti legge una nuova produzione di faglie del conflitto al livello di quello che lui definisce il capitalismo-mondo. La guerra globale, gli at­tentati di Madrid o di Londra sembrano però porci di fronte alla traversa lità delle dinamiche e degli attori coinvolti piuttosto che a rigidi confini e nitidi schieramenti. A fronte di dimensioni antropologiche irriduci­bili alle sole dinamiche capitalistiche e rivoluzionarie, forse il filone di ri­cerca sulla moltitudine e il negativo sembra maggiormente precipuo e fe­condo: come può essere declinato in nuove forme della teoria politica?

Nei primi anni del nuovo secolo si è affermata la moltitudine come una categoria prensile sui fenomeni. Una delle tante defini­zioni possibili di moltitudine è quella in cui i tratti di fondo della natura umana, cioè i tratti distintivi della nostra specie, diventano materia di lotta politica. Il che non vuol dire che la politica diventi improvvisamente un fenomeno naturale, al contrario sto dicendo che la politica ha come suo oggetto e materia prima le disposizioni che possono assumere alcuni tratti della natura umana, caratteriz­zata da eccesso di pulsioni, da instabilità, da una catena di ambiva­lenze, da un certo grado di pericolosità e viscosità. In un certo senso la repubblica della moltitudine, in quanto sfera pubblica post-statuale, ha il problema – non eterno ma contingente – di dare una forma istituzionale, di democrazia radicale e non rappresenta­tiva, a questi tratti instabili e potenzialmente instabili dell’essere umano. Da qui il tema della moltitudine e del negativo: il problema è come ripensare il negativo al di fuori degli schemi dialettici, e tut­tavia pensarlo. È interessante perché non si tratta di un discorso su come sarà la società dei nipoti, ma su che cosa fare domani, pen­sando con serietà a quali forme istituzionali non più statuali, sovra­ne e al di fuori della dimensione capitalistica possono autogoverna­re un animale così rischioso, fronteggiando cioè il male interno e non solo quello esterno. Ciò negli anni Ottanta e Novanta si è manifestato come corruzione e adesione della moltitudine al nuovo ordine produttivo; all’inizio del nuovo secolo nei fenomeni della guerra, del terrorismo, dell’atomizzazione, dell’indifferenza.

Rispetto a quello che dice Tronti, penso anch’io che la dimensio­ne geopolitica sia centrale. Quello che mi parrebbe un errore quan­do si parla di Europa o di sistema-mondo sarebbe non considerare il punto in cui una minoranza agente può contare con iniziative, ma­gari anche molto limitate, ma esemplari e riproducibili. C’è stato al­ meno un momento dopo Genova in cui il movimento poteva, e può anche ora, rappresentare un soggetto che diviene conflittuale, con forme di lotta adeguate, è capace di operare una sorta di tratta­tiva globale con il radicalismo islamico, di promuovere e tentare delle Brest-Litovsk. Ma ciò è possibile nella misura in cui sono stati sperimentati degli equivalenti contemporanei dello sciopero che fanno inciampare la produttività in Europa. È questo che crea l’elemento di forza, temibilità e potenza sociale di un movimento, che lo candi­da poi anche a chiedere armistizi, a fare diplomazia dal basso. Dun­que, questo gioco di faglie e di polarità di cui parla Tronti acquista un senso propriamente politico se un attore finora di poco peso riesce a parlare avendo alle spalle il potere sociale di interdizione e di offesa che deriva dall’aver colpito l’economia capitalistica contemporanea.

 

Abbozzando in modo stenografico, quali sono le letture consigliate, le bibliografie utili e soprattutto i filoni di ricerca fecondi per affrontare i nodi aperti che tu hai individuato?

Come già dicevo, nella moltitudine entrano in gioco politica­mente, in una situazione storica unica e contingente, certi elemen­ti di fondo della nostra specie. Dunque, una delle questioni impor­tanti sul piano teorico è di puntare all’integrazione di materialismo naturalistico – che si occupa di come è fatta la mente umana all’interno della filogenesi, dei suoi elementi di base immancabili e inva­rianti, dalla capacità di autoriflessione a quella di linguaggio – e del materialismo storico – ossia il pensiero critico della storia, dei rap­porti di produzione e della società, non la paccottiglia ideologica. Di questa unificazione non vi è un’esigenza astratta, ma propriamente politica. In altri termini, bisogna superare il Chomsky e il Fou­cault che si contrapposero nel dialogo sulla natura umana del 1971. E paradossalmente valorizzare qualcosa che è avvenuto dopo Ge­nova: parlando di migranti, di proprietà intellettuale, di ambiente, era messa a tema politicamente la natura umana. Per fare questo è però necessario che siano vere entrambe le cose, cioè sia il politica­mente, sia la natura umana. Dunque, c’è il problema che l’operai­smo liberi le forze che sono state congelate dalle scienze cognitive, come in altro tempo liberò le forze che erano prese dalle ideologie neocapitaliste o delle tecniche. Questo è il problema se si vuole avere il general intellect come soggettività.


Paolo Virno (1952-2025) ha insegnato filosofia del linguaggio all’Università Roma Tre e ha fatto parte del comitato scientifico della collana editoriale «Forme di vita» (DeriveApprodi). È autore di numerosi lavori, tra cui Grammatica della moltitudine (DeriveApprodi, 2003), Convenzione e materialismo (I edizione Theoria, 1986; II edizione DeriveApprodi, 2011); Saggio sulla negazione. Per un’antropologia linguistica (Bollati Boringhieri, 2013), Dell’impotenza. La vita nell’epoca della sua paralisi frenetica (Bollati Boringhieri, 2021), Negli anni del nostro scontento. Diari della controrivoluzione (DeriveApprodi, 2022). Suoi testi sono presenti in Sentimenti dell'aldiqua. Opportunismo, paura, cinismo nell'età del disincanto (DeriveApprodi, 2023) e Nel sottosopra degli anni Ottanta. Le contraddizioni di un decennio (MachinaLibro, 2024).
I suoi libri sono tradotti in più di venti lingue.
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