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Breve storia del neoliberismo (con alcuni antidoti)
di Jason Hickel
Una acuta analisi storica del neoliberismo traccia le tappe dell’affermazione di questa teoria economica elitistica, che contro ogni logica sostiene politiche rivelatesi disastrose. Godendo, nonostante questo, di uno status privilegiato nel dibattito scientifico, al punto che i suoi esponenti ormai lo considerano l’unico approccio legittimo. Il neoliberismo non è sempre stato l’unico modo di concepire la realtà: la sua prepotente affermazione è in realtà il frutto di deliberate scelte politiche da parte di specifiche classi sociali. Oggi è sempre più evidente che le ripetute, insensate politiche di austerità, il sottosviluppo perenne dei paesi periferici del mondo, e le crisi che investono l’umanità come disoccupazione, emergenze sanitarie e crisi migratorie, sono direttamente o indirettamente correlate alle politiche neoliberiste. E allora, come si spiega questa prevalenza, e in che modo è possibile cambiare prospettiva?
* * * *
Come docente universitario trovo spesso che i miei studenti danno per scontata l’ideologia economica dominante odierna – il neoliberismo – come naturale e inevitabile. Ciò non sorprende, dato che molti di loro sono nati nei primi anni ’90, quindi il neiliberismo è l’unica cosa che hanno conosciuto. Negli anni ’80, Margaret Thatcher dovette darsi da fare per convincere la gente che “non c’era alcuna alternativa” al neoliberalismo. Ma oggi questa convinzione è già radicata; è nell’aria, parte del corredo pratico della vita quotidiana, e generalmente accettata come dato di fatto sia a destra che a sinistra. Ma non è sempre stato così. Il neoliberismo ha una storia specifica, e conoscerla è un importante antidoto alla sua egemonia, poiché dimostra che l’ordine presente non è naturale né inevitabile, ma che è invece recente, che ha un’origine precisa e che è stato progettato da persone particolari con interessi particolari.
Per la maggior parte del XX secolo, le politiche di base che costituiscono l’ideologia economica oggi ritenuta standard sarebbero state respinte come assurde. Politiche simili erano state sperimentate in passato con effetti disastrosi, e la maggior parte degli economisti era passata ad abbracciare il pensiero keynesiano o qualche forma di socialdemocrazia.
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Lenin e la situazione rivoluzionaria
di Renato Caputo
È il fine stesso della lotta rivoluzionaria a imporre gli strumenti necessari per la sua realizzazione
Sebbene nessuno possa, necessariamente, sapere a priori se le condizioni rivoluzionarie oggettive si tradurranno in atto, il compito fondamentale dell’avanguardia – abdicando al quale perderebbe la propria ragione d’essere – è secondo Lenin: “svelare alle masse l’esistenza della situazione rivoluzionaria, mostrarne l’ampiezza e la profondità, svegliare la coscienza rivoluzionaria del proletariato, aiutarlo a passare alle azioni rivoluzionarie e creare organizzazioni corrispondenti alla situazione rivoluzionaria” [1], dal momento che in tali momenti risulta decisiva, in primo luogo, “l’esperienza dello sviluppo dello stato d’animo rivoluzionario e del passaggio alle azioni rivoluzionarie della classe avanzata, del proletariato” [2]. In ogni caso l’avanguardia potrà adempiere al proprio compito solo tenendosi pronta all’evenienza che si produca una situazione rivoluzionaria, anche perché, spesso, come insegna la storia, essa si viene a creare per “un motivo ‘imprevisto’ e ‘modesto’, come una delle mille e mille azioni disoneste della casta militare reazionaria (l’affere Dreyfus), per condurre il popolo a un passo dalla guerra civile!”[3].
Il partito rivoluzionario, per poter affrontare dei mutamenti repentini del corso storico indipendenti dalla propria volontà e che possono sfuggire alla propria capacità di previsione, deve essere addestrato ad utilizzare ogni forma di lotta, sapendo di volta in volta selezionare la più adeguata alla fase. Così, ad esempio, la Rivoluzione di Febbraio si è imposta, in una situazione di partenza molto arretrata, ovvero il dominio dell’autocrazia zarista, proprio grazie al suo aver coinvolto, in modo interclassista, ceti sociali anche molto differenti fra loro come la media e alta borghesia liberal-democratica e il proletariato urbano egemonizzato dai socialisti.
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Le paure della buona coscienza
di Rolando Vitali
«ll modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza.» K. Marx. Per la critica dell’economia politica
Sta accadendo, ancora una volta: stiamo attivamente costruendo la base di consenso della reazione e nemmeno ce ne accorgiamo. Stiamo già scivolando nella contrapposizione tra civiltà e barbarie, tra diritti umani e nazismo ecc. che vede la repubblica dei buoni e dei giusti da una parte, e l’abiezione dei disumani dall’altra. Ma come facciamo a non renderci conto che facendo nostra questa divisione non solo contribuiamo al consolidamento dell’egemonia salviniana, ma soprattutto contribuiamo anche ad impedire che una reale alternativa politica progressista possa costruirsi?
Ormai è sempre più chiaro come, ancora una volta, la maggior parte delle forze progressiste italiane si trovi del tutto disarmata nell’interpretare la fase attuale senza cadere in forme di subalternità esiziali per ogni capacità di costruire un’alternativa autonoma. Ancora una volta assistiamo alla totale incapacità di esprimere una posizione politica non subalterna. Ancora una volta siamo schiacciati tra due forme di reazione diverse: liberismo liberale da una parte e liberismo autoritario dall’altra. E stiamo più o meno tutti contribuendo gioiosamente a consolidare questa contrapposizione, ancora una volta…
Da una parte, coloro che scivolano progressivamente nella galassia reazionaria, attratti dalla forza gravitazionale della sua indubitabile effettualità: questi ultimi guardano tutto sommato con soddisfazione al cosiddetto “cambio di rotta” impresso da Salvini e dall’attuale governo, identificandosi supinamente non solo alla narrazione dell’avversario che vuole i migranti prima causa della contrazione dei salari, ma soprattutto alla dicotomia tra universalismo astratto e particolarismo reazionario.
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Mutamenti dello scenario geopolitico e geoeconomico
Giuseppe Molinari intervista Andrea Fumagalli
Con l’intervista a Raffaele Sciortino abbiamo avviato una riflessione sui mutamenti degli scenari geopolitici e geoeconomici mondiali che si stanno determinando. L’interesse è quello di ricomprendere le mosse di breve periodo in un piano di lungo corso e inscrivere le tattiche adoperate dagli attori globali in una strategia complessiva. La partita che si sta giocando è molto più profonda di quello che può sembrare ad un occhio non attento: ad essere in palio, infatti, sono le stesse gerarchie capitalistiche. Questa volta ne parliamo con Andrea Fumagalli, a partire dai passaggi che si sono definiti negli ultimi tempi.
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Che scenario si sta dando sul piano mondiale dal punto di vista geopolitico e geoeconomico? Pensi che il dominio economico e finanziario statunitense stia giungendo al termine? E’ possibile immaginare un processo di “de-dollarizzazione” considerato anche il sempre maggior peso che sta assumendo il renmimbi cinese?
Io credo che siamo di fronte ad una fase di passaggio nella definizione degli equilibri geoeconomici e geopolitici. Ma, oggi più che mai, a mutare sono i secondi, visto che la messa in discussione delle gerarchie geoeconomiche è già avvenuta nel corso degli ultimi 15 anni, con il cambiamento dei rapporti economici tra Occidente (impersonato soprattutto dagli U.S.A. dopo il grande sviluppo tecnologico della Net Economy e della Silicon Valley) ed Oriente (essenzialmente Cina ed India). Da questo punto di vista, oggi possiamo dire che l’economia cinese ha una dinamica sicuramente più efficiente rispetto a quella statunitense, anche per via delle caratteristiche del sistema cinese, che utilizza un misto di elementi di modernità e di antichità. La modernità sta nella capacità di assumere la leadership nella dinamica tecnologica: le statistiche dell’Ocse ci rivelano come, sin dal 2007/2008, la Cina sia il paese che investe di più nel mondo in R&S e come, dal 2010/2011, l’economia cinese sia trainata dai settori a più alto impiego di tecnologia.
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Cos’è, per noi, la sovranità?
di Francesco Valerio della Croce*
Note di contributo alla discussione congressuale del PCI sul tema della sovranità
Queste righe vengono scritte all’indomani della terribile notizia della morte del compagno Domenico Losurdo. Ed è, quindi, impossibile non prendere le mosse da alcuni spunti importanti della sua elaborazione nel nostro approccio ad un tema che tiene sempre più banco nel dibattito politico nazionale ed internazionale: quello relativo alla sovranità e alle problematiche che essa attraversa (questione nazionale, sovranità costituzionale, sovranità democratica, ecc.).
Assai brevemente, è opportuno ricordare parole fondamentali del prof. Losurdo pronunciate alla prima assembla di lancio dell’Associazione per la Ricostruzione del Partito Comunista, a fine dicembre del 2014:
“Per primo il comunismo italiano ha saputo capire la questione nazionale. Per primo Antonio Gramsci ha saputo capire che l’universalismo, l’internazionalismo, deve essere al tempo stesso collegato alla questione nazionale. Gramsci ha detto che Lenin è stato un grande internazionalista, anche perché era profondamente radicato sul terreno nazionale russo. E se appunto noi non riusciamo a capire questo collegamento tra internazionalismo e questione nazionale, certo non capiamo il socialismo dalla caratteristiche cinesi ma rinnegheremmo anche la storia e il patrimonio del movimento comunista e del Partito Comunista Italiano.“
Con queste parole, il prof. Losurdo ci ha ricordato il legame indissolubile tra questione nazionale ed internazionalismo, un elemento costante della teorizzazione e della prassi del movimento comunista internazionale, con un peculiare avamposto nella piena consapevolezza di tale inscindibile nesso da parte della storia del comunismo italiano, a partire dai contributi di Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti a riguardo.
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Il rosso e il nero
di coniarerivolta
Pubblichiamo un intervento sul complesso intreccio tra immigrazione e lotta di classe. Molti, troppi, propongono una stretta sui flussi migratori invocando Marx: Marx si maneggia con cura, e quindi proviamo a fare un po’ di chiarezza
L’arrivo di Matteo Salvini al Viminale ha portato, in maniera non sorprendente, a un imbarbarimento del dibattito riguardo agli sbarchi di immigrati. Ci sono pochi dubbi sul fatto che i propositi e gli atti bellicosi del Ministro dell’Interno siano soprattutto un modo per nascondere l’inconsistenza del governo gialloverde riguardo all’atteggiamento da tenere nei confronti dell’Unione Europea: appena si è trattato di scegliere se prendersela con le istituzioni che in questi anni ci hanno condannato a recessione, disoccupazione e bassi salari, o con gli immigrati, la Lega non ha avuto dubbi. Per condurli a miti consigli, è bastato poco.
Ciò che è più sorprendente è che molti, a sinistra, sembrano essere d’accordo con le dichiarazioni e le scelte del ministro leghista, in maniera più o meno esplicita. La ragione per questa innaturale convergenza tra persone sedicenti di sinistra e un ministro notoriamente razzista e di destra va ritrovata nel fatto che, secondo gli esponenti di questa strana corrente di pensiero gli immigrati contribuirebbero automaticamente alla riduzione dei salari dei lavoratori autoctoni. Per giustificare questa conclusione, essi ricorrono addirittura a Marx e al suo concetto di “esercito industriale di riserva”. Gli immigrati contribuirebbero ad alimentare tale “esercito”, offrendosi di lavorare per un salario sensibilmente inferiore rispetto a quello dei lavoratori italiani, e finirebbero per far ridurre i salari di tutti i lavoratori.
Chiaramente, non si può negare che il fenomeno migratorio ponga oggettivamente grandi difficoltà quando si ragiona in termini di lotta di classe. Non ci si può nascondere il fatto che un grande afflusso di immigrati possa essere sfruttato in modo tale da favorire il capitale a scapito dei lavoratori (immigrati e non). Vedremo, però, che molti dei ragionamenti utilizzati per adottare una posizione di irrigidimento e regolamento dei flussi migratori poggiano su basi incerte, se non palesemente sbagliate.
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L’Italia e lo scherno tedesco
di Von Thomas Steinfeld
Il 16 giugno scorso la Suddeutsche Zeitung, un giornale tedesco di qualità secondo solo alla FAZ, ha pubblicato un articolo sull'Italia che cita Chi non rispetta le regole? L'articolo è molto confuso e ci tratta comunque da sconfitti, anche se sul finale mostra qualche apertura. Anche la citazione del libro non sembra coglierne il senso
L’Italia si sta autodistruggendo? Dal punto di vista tedesco, a molti sembrerebbe di si. Ma non per gli italiani.
Che ci sia un “Europa dei Vinti”, e’ chiaro dall’inizio della cosiddetta crisi finanziaria, cioe’ da circa 10 anni. Da allora, la ricchezza dei paesi che si sono uniti nella comune moneta europea (euro) cresce poco, almeno se confrontata con quella della Cina o degli Stati Uniti.
Prima questo era diverso: fino a quando c’era stata una crescita degna di questo nome, ogni singolo stato della comunita’ aveva potuto crescere, qualcuno di piu’, qualcuno di meno. Ma da quando non cresce quasi piu’ niente, vince solamente colui che lo fa a spese degli altri. Vinti e vincitori divergono palesemente e questo e’ tanto piu’ evidente quanto piu’ rigide sono le regole della competizione alle quali gli uni e gli altri si sono impegnati a sottostare. E quando un paese appartiene ai vinti, anno dopo anno: come possiamo dirci veramente sorpresi, se questo paese non vuole piu’ impegnarsi a rispettare le regole, o addirittura sogna di abbandonare la competizione? Questa e’ la condizione in cui si trova, dopo le ultime elezioni, la terza economia dell’Unione Europea: l’Italia.
Il paese ha trascurato “dieci anni di competitivita’ ” ha sostenuto di recente Hans Werner Sinn, uno dei piu’ famosi economisti tedeschi. Dal punto di vista italiano, le ragioni del fallimento sono altre. Perche’ là (in Italia) la storia del paese, dopo la seconda guerra mondiale, viene presentata come una catena di enormi sforzi collettivi, e cioe’ l’aver acquisito quella capacita’ di essere competitivi – che si misura (compete) con i successi dei paesi del nord e della Germania in particolare.
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False scelte: globalismo o nazionalismo
di Greg Godels*
Nel novembre del 2008, nel mezzo della più grave crisi economica mondiale dalla Grande Depressione, scrissi che l'era dell'internazionalismo globale - la cosiddetta "globalizzazione" - stava volgendo al termine. Le "forze centrifughe" agendo in senso autoconservativo si attivavano, separando alleanze, blocchi, istituzioni comuni e forme di cooperazione:
«La crisi economica ha invertito il processo post-sovietico di integrazione internazionale, la cosiddetta "globalizzazione". Allo stesso modo che durante la Grande Depressione, la crisi economica ha colpito le diverse economie in modi difformi l'una dall'altra. Nonostante gli sforzi per integrare le economie mondiali, la divisione internazionale del lavoro e i livelli diversi di sviluppo precludono una soluzione unificata alla crisi economica. I deboli sforzi nell'azione congiunta, nelle conferenze, nei vertici, ecc, non possono avere successo semplicemente perché ogni nazione ha interessi e problemi diversi: condizione che diventerà sempre più acuta man mano che la crisi si intensifica... È altamente improbabile che l'Unione [europea] troverà soluzioni comuni. In effetti, il disfacimento dell'UE è una eventualità.»
Un decennio dopo, dovrebbe essere evidente che questo pronostico anticipava l'ascesa e la crescita del nazionalismo economico, una tendenza politica che minaccia di spazzare via le istituzioni e le politiche del globalismo del libero mercato. Proprio come il fallimento del consenso keynesiano nel fronteggiare la nuova crisi negli anni '70 determinò l'ascesa del fondamentalismo di mercato (il cosiddetto "neoliberismo") e il suo successivo consolidamento internazionale come consenso questa volta alla "globalizzazione", così lo shock del 2007-2008 ha portato alla ribalta le debolezze, le carenze e i fallimenti del fondamentalismo di mercato. Di conseguenza, la politica dei mercati globali aperti ingaggia ora una lotta per la vita o la morte contro il nazionalismo economico. In larga misura, gli stati capitalisti più grandi si stanno ritirando verso un interesse nazionale aggressivo e intensificano la competizione globale.
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Sorteggiare i governanti?
Da "Solar Lottery" di Philip Dick a David Van Reybrouck
di Damiano Palano
Criticando una vecchia idea e nuove sperimentazioni
Con una delle sue provocazioni, Beppe Grillo ha in questi giorni proposto di designare i membri del Senato mediante un sorteggio e non con le elezioni. Il sorteggio fu in effetti a lungo lo strumento privilegiato dalle democrazie antiche e dalle repubbliche medievali, che diffidavano delle elezioni, ritenute strumenti destinati a favorire i gruppi sociali più abbienti. E anche di recente varie voci (tra cui quella di David van Reybrouck) hanno sostenuto l'opportunità di integrare i meccanismi elettivi con il ricorso al sorteggio, e alcune sperimentazioni hanno tradotto in pratica (con molti limiti) questa idea.
A proposito di questa discussione, "Maelstrom" ripropone un articolo, apparso in origine sulla rivista "Spazio filosofico", dedicato proprio a una lettura del pamphlet "Contro le elezioni" di van Reybrouck e all'ipotesi di tornare a sorteggiare i detentori delle cariche pubbliche.
* * * *
Rileggendo oggi Solar Lottery di Philip K. Dick, è quasi scontato riconoscere come già in quel primo romanzo fossero presenti molti dei motivi che avrebbero in seguito contrassegnato la produzione dello scrittore americano. Risulta in effetti evidente sin dalle prime pagine come la sua idea della science-fiction tendesse a fuoriuscire dal perimetro di una letteratura di genere destinata allora prevalentemente a un pubblico di giovani (e giovanissimi) lettori, e come la sua raffigurazione di un remoto futuro fosse in realtà una critica della società americana degli anni Cinquanta. Ma più di sessant’anni dopo la sua pubblicazione, si può forse intravedere in Solar Lottery anche una sorprendente prefigurazione delle società dell’inizio del XXI secolo e dei processi che investono le democrazie occidentali. In quel vecchio romanzo Dick immaginava infatti che le società occidentali avessero adottato il sistema della lotteria non solo per distribuire le merci ma anche per assegnare il potere politico.
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I migranti e la lunga notte dell’Europa
di Antonio Lettieri
Il Consiglio europeo che doveva affrontare la questione ha dovuto accettare il principio che si tratta di un problema comune per evitare il veto dell’Italia, ma ha demandato tutto alla volontarietà dei vari paesi. Subito dopo Macron e Merkel con le loro dichiarazioni hanno in pratica dissolto l’accordo. Nessuno potrà stupirsi se al prossimo Consiglio l’Italia porrà il veto, aprendo una crisi che forse potrebbe salvare l’Ue dalla sua pratica autodistruttiva
All’apparenza la riunione del Consiglio europeo del 28-29 giugno si è conclusa sul punto delle migrazioni, che era il principale, con un nulla di fatto. In realtà, ha brutalmente rivelato il volto duro e ostile dell’Europa nei confronti del più grande dramma del nostro tempo. L’Italia si era battuta per far passare il principio che la questione delle migrazioni non riguarda solo l’Italia, ma L’Europa. “Chi attraversa il Mediterranee, ha sostenuto Giuseppe Conte, intende entrare in Europa”.
Per far passare questo principio, che sembrerebbe ovvio, ha minacciato il veto dell’Italia sulle conclusioni del Consiglio. Poi, il principio è entrato nella risoluzione finale, affermando che gli stati membri dell’UE avrebbero, su una base “volontaria”, aperto le loro porte ai migranti. La clausola della volontarietà era obbligata dal fatto che. come si sapeva in partenza, i paesi di Visegrad, sotto la guida dell’ungherese Orban, non avrebbero accettato l’ obbligo di suddivisione dei flussi migratori. Germania e Francia avevano alla fine accettato il principio del coinvolgimento dell’UE che, nei fatti, superava la minaccia del veto italiano alla risoluzione finale – veto che avrebbe aperto una crisi esistenziale nel funzionamento dell’UE.
Il negoziato, per molti versi drammatico, si era concluso dopo una lunga notte, all’alba del 29 giugno, con un voto unanime, quando, nelle ore immediatamente successive, Macron, che aveva concordato col capo del governo italiano il documento finale, faceva sapere che la Francia non avrebbe accolto nessun migrante. E che sarebbe spettato ai paesi dove i migranti sbarcavano organizzare campi “chiusi”, in pratica campi di detenzione, adatti a impedirne il passaggio verso altri stati dell’Unione. Quanto alla Germania, Angela Merkel si dichiarava solo parzialmente soddisfatta, ribadendo l’obiettivo di rinviare nei paesi di primo approdo gli immigrati passati, senza esserne autorizzati, in Germania: una pretesa irragionevole accettata da Grecia e Spagna, ma respinta dall’Italia.
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Storia e impotenza politica [*1]
Mobilitazione di massa e forme contemporanee di anticapitalismo
di Moishe Postone
Tutti sanno che l'inizio degli anni '70 ha coinciso con un'era di massicce trasformazioni strutturali dell'ordine mondiale, spesso descritte come il passaggio dal fordismo al post-fordismo (o, più esattamente, dal fordismo al capitalismo neoliberista globalizzato, passando per il post-fordismo). Questa trasformazione della vita sociale, economica e culturale, che si è tradotta nello smantellamento dell'ordine centrato sullo Stato, tipico della metà del XX secolo, è stata altrettanto radicale di quanto fu la precedente transizione che portò dal capitalismo liberale del XIX secolo alle forme burocratiche del XX secolo, segnate dall'interventismo statale.
Questo processo ha portato dei profondi cambiamenti non solo nei paesi capitalisti occidentali, ma anche nei paesi comunisti, e ha portato al collasso dell'Unione Sovietica e del comunismo europeo, così come a delle trasformazioni radicali in Cina. In seguito a questo, molti hanno ritenuto che avrebbe sancito la fine del marxismo e, più in generale, la fine della validità teorica della teoria critica di Marx. Tuttavia, questi processi di trasformazione storica, allo stesso tempo, hanno riaffermato l'importanza cruciale della dinamica storica e dei cambiamenti strutturali su grande scala. È precisamente questa problematica, che si trova al cuore della teoria critica di Marx, ciò che sfugge a tutte le principali dottrine formulate immediatamente dopo la fine del fordismo - quelle di Michel Foucault, di Jacques Derrida e di Jürgen Habermas. Tutte le recenti trasformazioni finiscono per farle apparire come delle teorie retrospettive, che concentrano la loro critica sull'epoca fordista, ma che non sono adeguate all'attuale mondo post-fordista. Sottolineare la problematica della dinamica e delle trasformazioni storiche, permette di chiarire sotto un'angolazione differente un certo numero di questioni importanti.
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Come si esce dall’euro
di Joseph Stiglitz
Un articolo del Premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz su Politico affronta senza più giri di parole il tema dell’uscita dell’Italia dall’euro. Date le resistenze tedesche a riformare (radicalmente) l’eurozona come sarebbe necessario per salvare la moneta unica, all’Italia restano poche alternative all’uscita, se non vuole sprofondare nell’inferno greco. L’Italia per ora si è impegnata a restare nell’euro, ma le cose possono cambiare rapidamente, e il nuovo governo ha dimostrato di non avere paura di agire, cosa di cui Stiglitz sembra essersi accorto
Qual è il modo migliore per uscire dall’euro? La domanda torna sul tavolo dopo la nascita del governo euroscettico in Italia. Sì, è vero che i principali ministri si sono impegnati a mantenere il paese nel blocco europeo della moneta unica, ma questi impegni non devono essere visti come immutabili. Devono essere considerati nel contesto più ampio della posizione contrattuale italiana. Il nuovo governo vuole chiarire che non è lì per far saltare tutto per aria. Preferirebbe restare nell’eurozona, ma vuole anche il cambiamento.
I nuovi leader italiani hanno ragione nel ritenere che l’eurozona abbia assolutamente bisogno di una riforma. L’euro è stato difettoso fin dalla sua origine. Per paesi come l’Italia, l’euro ha tolto due meccanismi fondamentali di aggiustamento: il controllo sui tassi di interesse e il tasso di cambio. E al posto di sostituire questi meccanismi con qualcos’altro, l’euro ha introdotto rigidi parametri sul debito e sul deficit, cioè ulteriori impedimenti alla ripresa economica.
Il risultato per l’intera eurozona è stato quello di una minore crescita, soprattutto per i paesi più deboli. L’euro avrebbe dovuto, nelle intenzioni, portare grande prosperità, e questo avrebbe dovuto rinnovare gli impegni verso l’integrazione europea. In realtà ha fatto proprio l’opposto. Ha aumentato le fratture all’interno dell’Unione europea, soprattutto tra creditori e debitori.
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La feconda lezione di Ludovico Geymonat
di Eros Barone
Rigore scientifico, coraggio civile e spirito critico di un pensatore non conformista
Soltanto nell’amore e nella morte non si può fingere. Chi nell’amore cerca di fingere, può illudersi di amare, ma non ama. Chi sta morendo non finge più, perché “ciò che diranno gli altri” ormai non lo interessa… L’amore e la morte hanno dunque, davvero, qualcosa in comune, come ritennero molti poeti. Hanno in comune quello stato d’animo di “ebbrezza”, per cui l’individuo rinuncia totalmente a voler “apparire ciò che non è”; per cui comprende l’inutilità di persistere nella finzione, la vanità di ogni giudizio che non sia fondato sulla pura realtà.
Ludovico Geymonat, I sentimenti.1
Lo scopo di questo articolo è sia quello di mostrare in che senso Ludovico Geymonat occupi un posto importante nella cultura filosofica italiana del ’900, sia quello di delineare la figura di un intellettuale non conformista e di un pensatore influenzato dal marxismo.
Geymonat nasce a Torino nel 19082 ; presso l’università subalpina segue, oltre alle lezioni del grande logico e matematico Giuseppe Peano, i corsi di due filosofi positivisti, Erminio Juvalta e Annibale Pastore; nello stesso ateneo si laurea dapprima in filosofia (1930) e poi in matematica (1932), ponendo le premesse di quella fusione critica tra le due discipline che farà di lui un filosofo matematicamente dotato ed un matematico filosoficamente dotato.
Per il giovane studioso rigore e coraggio rappresentano i caratteri distintivi di una scelta di vita che lo porterà, all’inizio degli anni ’30, ad assumere, in filosofia, una posizione critica verso il neoidealismo italiano e, in politica, all’abbandono dell’università, causato dal rifiuto d’iscriversi al partito fascista.
Emerge fin da queste prime prove filosofiche e politiche un connotato della sua personalità d’intellettuale non conformista: lo stretto legame fra la teoria e la prassi. Un legame che nell’Italia di allora, per un giovane che proveniva da quella borghesia intellettuale per cui l’opposizione al fascismo era una scelta morale prima ancora che politica, era destinato a configurarsi come una testimonianza etica ed una protesta nobile ma impotente, giacché solo con la Resistenza potrà esplicarsi in un’azione politica e sociale.
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Il lavoro tra frammentazione e ricomposizione
di Fabio Ciabatti
Figure del lavoro contemporaneo, introduzione e cura di Carlotta Benvegnù e Francesco E. Iannuzzi, postfazione di Devi Sacchetto, Ombre corte 2018, pp. 167, € 12,75
Diversità e frammentazione appaiono come la cifra principale del mondo del lavoro contemporaneo. Allo stesso tempo, però, l’integrazione crescente dei processi economici all’interno delle catene del valore, nelle quali coabitano regimi lavorativi estremamente diversi, aumenta l’interconnessione tra le molteplici figure del lavoro. Detto altrimenti, il luogo di lavoro non costituisce lo spazio in cui le diversità si appianano, ma esso può costituire un momento di convergenza. E’ questo, in breve, il filo conduttore di Figure del lavoro contemporaneo, un libro composto da otto ricerche sul campo, realizzate da giovani studiosi e studiose, che hanno come protagonisti facchini, portuali, lavoratrici del sesso, operai e operaie del circuito elettrodomestico, del comparto moda, delle imprese recuperate, migranti impiegati nel settore agricolo del Sud Italia, lavoratori e lavoratrici di piattaforme digitali.
Nell’introduzione, i curatori Benvegnù e Iannuzzi chiariscono che i lavoratori e le lavoratrici non vengono considerati come mero oggetto di processi che passano sopra le loro teste. Il tentativo, con esiti sensibilmente differenti in base ai casi studiati, è quello di porre l’attenzione sulla loro agency. Ciò, nell’intenzione degli autori, contribuisce sia a superare visioni eccessivamente pessimistiche sull’insufficienza delle risposte organizzate da parte dei lavoratori sia ad analizzare simultaneamente la sfera della produzione e della riproduzione, considerando anche quest’ultima come punto di emergenza di soggettività e resistenze.
Per comprendere l’agency della forza-lavoro contemporanea, proseguono i curatori, è importante capire che le trasformazioni delle forme organizzative e tecnologiche non seguono un percorso lineare di rottura e sostituzione delle fasi precedenti, ma generano forme ibride di organizzazione e regolazione del lavoro. Ad essere integrate e rifunzionalizzate sono composizioni di manodopera eterogenee sulla base di differenze e di attributi sociali quali genere, origine etnica, nazionalità, cultura e stili di vita.
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I danni che la direttiva sul copyright farà alle nostre libertà
Cosa possiamo fare per contrastarla
di Bruno Saetta
Ci sono voluti 10 anni perché Stephanie Lenz ottenesse giustizia in un tribunale. Dieci anni, dopo aver postato su Youtube il video nel quale mostrava con l'orgoglio di una madre il proprio figlioletto, Holden di 18 mesi, che balla nella propria cucina sulle note di una musica di sottofondo, poco udibile. 29 secondi di video, che però vengono cancellati dalla Universal, perché quella musica di sottofondo è niente di meno che il brano di Prince, Let's go crazy.
La signora Lenz non si dà per vinta, e inizia una battaglia legale contro la multinazionale. Il classico caso Davide contro Golia, che assume importanza perché ciò che la Universal vuole vietare è un comportamento comune a milioni di persone. Ogni giorno milioni di genitori scattano foto e fanno riprese ai figli per condividerli online con parenti e amici lontani. Ma quelle riprese spesso contengono contenuti protetti: parti di brani musicali, loghi sulle magliette, sculture o edifici nello sfondo.
Nel corso del processo, portato avanti dalla EFF (Electronic Frontier Foundation), la domanda era semplice: un titolare dei diritti ha l'obbligo di valutare se ad un contenuto si applicano le eccezioni al copyright? Oppure può disinteressarsene tranquillamente e limitarsi a dire che quella musica poco udibile in sottofondo, quel logo sulla maglietta della persona ritratta è nella sua titolarità, e quindi l'intero video va buttato giù?
Ci sono voluti 10 anni perché si chiudesse il caso. Oggi Holden va alla scuola media. Domani, in Europa, potremmo avere un problema simile.
* * * *
Nei prossimi giorni (4 e 5 luglio) la proposta di riforma della Direttiva Copyright sarà discussa dal Parlamento europeo in seduta plenaria. Di seguito passerà al Consiglio dell’Unione europea, per poi tornare al Parlamento per l’approvazione definitiva (dicembre o gennaio 2019).
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Appunti per un rinnovato assalto al cielo. II
Ancora una volta su forma merce, valore d’uso e valore di scambio
di Paolo Selmi
Citare il barbone di Treviri non è più di moda, me ne rendo conto, ma una critica al modo di produzione capitalistico senza appoggiarsi, senza partire dal contributo marxiano, non avrebbe alcun senso: chi lo ha fatto negli ultimi trent’anni di fine della storia, ha solo perso del gran tempo. Proviamo però a fargli fare un viaggio nel tempo, fino ai giorni nostri. Marx non si occupava di fotografia, né faceva radiografie, ma queste due lastre le avrebbe trovate alquanto interessanti:
Radiografia di una reflex meccanica a pellicola totalmente manuale:
Radiografia di una reflex digitale professionale:
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“Flat tax”, “reddito di cittadinanza”, immigrazione e austerity
Chiarimenti sui temi caldi del momento
di Nicoletta Forcheri
Una campagna denigratoria basata sulle solite fake news è stata scatenata da una opposizione fittizia che non fa onore alla democrazia e che, arrampicandosi sugli specchi, ha passato al setaccio l’intervento di insediamento alle camere di Conte, pur di trovare appiglio, non su quanto è stato detto, ma addirittura sulle parole non pronunciate (“mancava Nazione o Patria, mancava Scuola, mancava Pace, mancava Banca”!), per scagliarsi in un processo alle intenzioni tanto più veemente quanto più periclitante laddove il concetto era stato comunque compiutamente espresso, anche in assenza della parola.
Sulle espressioni presenti, però, ce ne sono 2 che richiedono chiarimenti: flat tax e reddito di cittadinanza. Queste espressioni sono ingannevoli, e per onor del vero, questa volta non sono i giornalisti che le hanno stravolte, sono gli uffici stessi dei partiti, rispettivamente Lega e M5S ad averle ideate e propagandate! Come dire, un modo per prestare il fianco alle facili accuse di “populismo”, parola per la verità completamente sdoganata dal Premier Conte. Chapeau!
Ma sono espressioni improprie in quanto “il reddito di cittadinanza” dei pentastellati è un semplice sostegno al reddito dei lavoratori disoccupati e suboccupati, conformemente a quanto avviene in tutti i paesi europei tranne in Grecia, sarebbe quindi meglio chiamarlo “assegno di disoccupazione” e assegno di “integrazione al reddito dei suboccupati”, del resto sancito dalla Costituzione.
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La cravatta di Tsipras. Quale morale dalla crisi greca?
di Sergio Cesaratto
Ma che piccola storia ignobile che mi tocca raccontare…
“Atene respira” recitava il titolo de il manifesto del 23 giugno, l’agitprop di Tsipras in Italia. La Grecia “comincia a tornare ad essere padrona del proprio destino” scrive Roberto Musacchio su FB (22/6) che proclama che “serve una battaglia di liberazione dell'Europa”, in linea con Alfonso Gianni, sempre su il manifesto, secondo cui la “questione del debito non è solo greca o italiana, ma riguarda gli equilibri e il futuro dell’Europa e a tale livello va complessivamente affrontata”. Insomma, la Grecia ce l’ha fatta, ora cambiamo l’Europa. Purtroppo le cose non stanno così e tali enunciazioni sembrano le cronache di quel giornalista di Saddam che proclamava la vittoria coi carri americani dentro Bagdad.
Atto primo - Dalla tigre greca alla crisi e al primo “salvataggio”
Vale la pena ricapitolare un po’ l’accaduto di questi dieci o vent’anni. Com’è tradizionale per i paesi in ritardo, negli anni dell’euro pre-crisi la piccola Grecia ha fondato la sua crescita sull’indebitamento estero. Come abbiamo più volte spiegato (Cesaratto 2018), tassi di cambio fissi favoriscono i prestiti centro-periferia. Così fu nel gold standard, così è stato nell’euro. Tale modello andava benissimo alla mercantilista Germania (e alla Francia) che poteva così disporre di un piccolo ma prezioso mercato per le proprie esportazioni (e infatti la Merkel andava a braccetto con Karamanlis, il primo ministro greco di centro-destra nel 2004-9). A differenza della Spagna, dove era una bolla edilizia a guidare la crescita, in Grecia era soprattutto la spesa pubblica ad assolvere a questo compito. La crisi da indebitamento scoppia nel 2009-10, quando il socialista Papandreu rivela il conti falsificati dalla precedente amministrazione in un contesto minato dalla grande recessione.
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Chi sono i sovranisti-costituzionalisti e cosa vogliono veramente
di Alessandra Ciattini
Mondializzazione e sovranismo: due strategie per mantenere in vita il sistema capitalistico?
Scrive il sociologo francese Jean-Claude Paye su Voltairenet.org che lo scontro tra i democratici e la maggioranza dei repubblicani può essere interpretato come il “conflitto tra due tendenze del capitalismo statunitense, quella portatrice dei valori della mondializzazione e quella che sprona per rilanciare lo sviluppo industriale di un paese economicamente in declino”. Questo conflitto nasce per il fatto che negli ultimi vent’anni, a causa della grave crisi della Russia e dell’arretratezza della Cina, gli Stati Uniti sono stati l’unica superpotenza, ruolo ormai messo in discussione dal risorgere e dall’avanzamento dei paesi rivali. Questo cambiamento di situazione richiede da parte degli Stati Uniti un ripensamento della strategia internazionale, se vogliono rimanere sempre al vertice, come pretende la loro classe dirigente.
La scelta adottata da Trump è quella di rilanciare il suo paese in declino, deindustrializzato a causa della libera circolazione dei capitali e della mondializzazione neoliberale (imposte e volute dalle loro transnazionali), portando avanti politiche di carattere protezionistico – come si è visto negli ultimi tempi –, mandando in frantumi le istituzioni multilaterali (per esempio, il ritiro dalla Commissione dei diritti umani), cercando di stabilire trattati bilaterali, che beneficino l’economia statunitense (come sostiene Alberto Negri); inoltre, come vari analisti scrivono, tentando di ridurre il disavanzo commerciale con la Cina e con la Germania, favorendo il ritorno dei capitali fuggiti e finanziando il rinnovamento delle infrastrutture deteriorate da anni di abbandono.
Sebbene Trump si proponesse misure più energiche, non ha potuto fare di più che beneficiare i redditi più elevati [1], tendenza inaugurata da Reagan, e agevolare il ritorno dei capitali detassati, per fare un favore alle transnazionali, che andranno ad ingrossare gli investimenti finanziari, non trovando altre possibilità di valorizzarsi.
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Psicanalisi e rivoluzione
di Felice Cimatti
Nell'ambito del suo meritorio progetto di pubblicazione delle opere di Enzo Melandri, la casa editrice Quodlibet ha recentemente rimesso in circolazione un aureo libriccino, L'inconscio e la dialettica, originariamente uscito per Cappelli nel 1983. La nuova edizione del testo è accompagnata da una “Postfazione” di Felice Cimatti, che qui pubblichiamo per gentile concessione della casa editrice
Credere che il prendere coscienza, la
“consapevolizzazione” corticalmente intesa,
sia un atto spontaneo, positivo, tale
da non richiedere spiegazioni, e anzi da
approvarsi senza restrizioni – tutto questo
non è che un pregiudizio spiritualistico
[…]. In tal modo si rischia di rendere
gratuito […] il suo complemento: l’atto
del non voler prendere coscienza, che è
ben altrimenti significativo[i].
Il problema che Melandri affronta in questo saggio è in prima battuta di tipo conoscitivo, cioè ha a che fare non direttamente con un particolare problema empirico, bensì con due questioni connesse: a) il problema di come si possa venire a conoscenza di quel problema e b) come si possa, eventualmente, trattarlo. In seconda battuta Melandri solleva un problema etico, come vedremo nella parte finale di questa postfazione. Il saggio si apre con la formulazione esplicita della questione: «Un problema centrale della dialettica è la questione se l’oggetto del discorso possa essere contraddittorio o no». La dialettica, scrive Melandri nella Linea e il circolo, è il pensiero la cui «formula generale […] potrebbe essere: “né A, né B”» (LC, p. 798). Un oggetto del discorso contraddittorio è invece un oggetto che è contemporaneamente A e non-A. Un oggetto del genere non sembra pensabile in modo sensato. Se però lo si pensa dialetticamente, allora diventa «possibile scappare “tra le corna” del dilemma». In effetti il tentativo di evitare la contraddizione “paralizza” il pensiero, perché appunto lo immobilizza o sulla posizione A o su quella non-A. Sostenere invece «né A, né B» significa, in realtà, che «A e B possono ben rappresentare dei contrari. Ma i contrari […] non sono mai direttamente contraddittori» (LC, p. 802), e questo permette al pensiero di non congelarsi nella contraddizione.
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Contro l’ideologia della Flat Tax
di coniarerivolta
Lega e 5Stelle hanno costruito una fetta consistente del loro consenso sulla base di fumose ed incoerenti promesse di allentamento del giogo dell’austerità europea, che schiaccia l’Italia da quasi un decennio. Nonostante le fanfaronate, negli ultimi giorni il governo gialloverde sta tuttavia mostrando con estrema nettezza il suo vero volto: becero e demagogico nella gestione del fenomeno migratorio, completamente intriso di quell’indigesto misto tra liberismo sfrenato ed adesione disciplinata all’austerità europea sul piano economico. Il Ministro Tria richiama all’ordine ogni velleità, invocando la più stretta e inderogabile disciplina di bilancio ed affermando che fino al 2019 nulla che comporti costi aggiuntivi potrà essere approvato; nel mentre Salvini ed il suo circo di pseudo-economisti e rinnegati rilanciano, pur rimandandone l’entrata in vigore ad un futuro migliore, uno dei cavalli di battaglia della campagna elettorale: la flat tax.
È questo, senza dubbio, il provvedimento più sfacciato ed esplicito nel suo tentativo di effettuare una redistribuzione di reddito dai poveri a favore dei ricchi, un provvedimento che, allo stato attuale, prevedrebbe due sole aliquote fiscali – al 15% e al 20% – per i redditi delle persone fisiche, cui si affiancherebbe un’aliquota unica o doppia (non è ancora chiaro) per tutte le tipologie di reddito di impresa, più bassa sia dell’attuale Irpef che dell’attuale imposta sulle società di capitali (IRES).
Salvini in persona ha provveduto ad esplicitare fuor d’ogni tecnicismo il significato politico e sociale della riforma fiscale che il governo ha in cantiere. Le sue parole, rilasciate pubblicamente alcuni giorni fa sono state chiarissime: “Chi guadagna di più deve pagare meno tasse. Se uno fattura di più, risparmia di più, reinveste di più, acquista una macchina in più, crea lavoro in più. Non siamo in grado di moltiplicare pani e pesci. Il nostro obiettivo è che tutti riescano ad avere qualche lira in più nelle tasche da spendere”.
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Tecno-capitalismo o libertà
di Lelio Demichelis
Rompere e cambiare il senso delle parole non è una pratica nuova della grande narrazione di cui il capitalismo ha bisogno per riprodursi. Oggi l’ideologia californiana del platform capitalism si basa su retoriche sulla libertà individuale, della personalizzazione dei consumi e della democratizzazione dei dati
Le grandi narrazioni non sono finite, anzi. Sbagliava Jean-François Lyotard quando sosteneva che la loro fine fosse un derivato inevitabile dello sviluppo “delle tecniche e delle tecnologie che a partire dalla seconda guerra mondiale hanno posto l’accento sui mezzi piuttosto che sui fini dell’azione; oppure del rinnovato sviluppo del capitalismo liberale, [che ha liquidato] l’alternativa comunista e valorizzato il godimento individuale dei beni e dei servizi” (in La condizione post-moderna).
Ogni potere in verità – oggi quello di tecnica e di capitalismo, di cui quello populista è un accessorio – vive sempre creando e poi replicando la propria auto-narrazione, funzionale alla diffusione e alla legittimazione del proprio potere; che è potere grazie al sapere linguistico che produce e che oggi passa dalla Silicon Valley e dal capitalismo delle emozioni come fabbriche dell’immaginario collettivo.
Un potere/sapere per produrre/modificare l’antropologia umana, per costruire un uomo nuovo funzionale, ben funzionante e a produttività crescente. L’industria culturale magnificamente analizzata da Horkheimer e Adorno (in Dialettica dell’illuminismo – sempre attuale, anche con YouTube e Netflix – è un’industria della spettacolarizzazione per la distrazione di massa, ma appunto una industria antropologica.
Posto che serve a produrre industrialmente, per l’individuo e per la nuova massa degli individui, le forme/modelli e le norme di vita necessarie e congrue al funzionamento e all’accrescimento illimitato del profitto (per il capitalismo) e del proprio apparato (per la tecnica).
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Imperfetto passato
di Stefano Chiodi
C’è una crudele ironia nella coincidenza tra il mezzo secolo dal Sessantotto e un’attualità che si colloca al nadir della tensione alla palingenesi personale e collettiva, della radicale espansione della sfera delle libertà e delle possibilità che dell’annus mirabilis fissarono la costellazione simbolica e politica. Risentimento, insicurezza, paura: sono questi all’opposto i segni della nostra attualità, con le sue forme intrattabili di diseguaglianza ed esclusione, i conflitti interminabili, il vuoto di alternative, di fronte ai quali le soluzioni bugiarde dei populismi, con la loro subdola e in apparenza irresistibile manipolazione del discorso pubblico, si presentano come paradossale risposta alla crisi dell’ordine neoliberista e al suo mantra There is no alternative.
Il presente insomma sembra davvero offrire davvero poche giustificazioni a una commemorazione irrimediabilmente sfasata rispetto alle urgenze che la incalzano. Proprio per questo, anziché giudicare con la fosca e disillusa misura dell’attualità le idee di un anno che si è venuto sempre più trasformando, mano a mano che i decenni si accumulavano, in un evento sbiadito o in un’eredità imbarazzante, potremmo chiedere invece al Sessantotto, liberato dalla zavorra del senno-di-poi, di auscultare il nostro presente, di sondarne le concrezioni avvelenate, di parlarci nella sua lingua. Come guarderebbero i giovani in rivolta del “maggio” un mondo che ha realizzato alcune delle loro aspirazioni più visionarie e rovesciato in una contraddittoria distopia quasi tutte le altre?
Potrebbero magari aiutarci a rendere meno patetico il residuo attaccamento al mito di un Sessantotto ideale eterno, ad esempio, o ad attutire il senso di colpa per il suo fallimento. Oppure a dare ragione a chi, come Tony Judt nel suo ultimo, accorato libro (Ill Fares the Land, Penguin 2010; in italiano, Guasto è il mondo, Laterza 2011), rivendicava lo spazio comune come luogo di una politica orientata alla coesione della comunità, anziché un insieme di singole giuste cause, totalizzanti e astratte, con cui la sinistra occidentale ha mimetizzato la sua sostanziale adesione al sistema neoliberista.
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Sul populismo di sinistra
di Renato Caputo
È possibile un populismo di sinistra?
Dinanzi ai successi del populismo, ci si interroga
se per tornare a vincere ci sia bisogno del cosiddetto populismo di sinistra
Come è noto, l’attuale governo italiano si autodefinisce, per bocca del suo stesso presidente e garante del contratto fra le due anime che lo compongono, populista. Quello di Salvini è esplicitamente un populismo di destra, di stampo essenzialmente sciovinista, che contrappone il popolo italiano – occultando così le contraddizioni al suo interno fra le diverse classi sociali – agli stranieri immigrati. In tal modo nasconde la contraddizione oggettiva fra l’interesse dei capitalisti a sfruttare la forza-lavoro, per estrarre il massimo plus-valore, e l’esigenza dei salariati di minimizzare tale sfruttamento.
Ciò favorisce evidentemente la classe dominante, che porta avanti anche inconsapevolmente la lotta di classe dall’alto, semplicemente facendo funzionare senza opposizioni significative il modo di produzione capitalista e le sovrastrutture liberali, che hanno proprio questo fine intrinseco. Anche se tale fondamento, in quanto tale, non appare, anzi, è occultato dal “naturale” carattere di feticcio che assume la merce, il denaro e lo stesso capitale, che non appaiono come prodotti del lavoro salariato, ma degli strumenti per il suo dominio. Inoltre il populismo nazionalista di destra tende a offrire al malessere della maggioranza dei ceti sociali subalterni – che subiscono, senza nemmeno avvedersene, il dominio della classe dominante e la sua lotta di classe condotta in modo sempre più unilaterale dall’alto – un capro espiatorio molto più facile, almeno apparentemente, da combattere, ovvero gli stranieri che aspirano a prendere il loro posto di lavoro, la loro porzione di “Stato sociale” e che, in ogni caso, con la loro semplice presenza rendono il proletario e il sottoproletario italiano più facilmente ricattabili.
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Appunti per un rinnovato assalto al cielo. I
Riportando tutto a casa
di Paolo Selmi
“L'intelligence, c'est de chercher dans quelle
mesure on peut mettre un petit peu de raison
dans cette absurdité.”
(Jean-Luc Godard, “Monologue”,
Une femme mariée, 1964)
Premessa
Si narra che, qualche millennio fa, un pensatore cinese di nome Kong(fu)zi (孔(夫)子, o Confucio per gli amici), in un periodo di crisi abbastanza simile all’attuale, se non peggio, inaugurasse la sua proposta politica (non ancora divenuta ideologia e pensiero dominante di un continente) “rettificando i nomi” (zheng ming 正名): “Se i nomi non sono corretti, le parole non corrispondono alla realtà; se le parole non corrispondono alla realtà, gli affari non giungono a compimento”1 … insomma, secondo il pizzetto più famoso e osannato del Paese di Mezzo, nulla si sarebbe mai potuto veramente cambiare se non si eliminano prima le ambiguità di fondo esistenti. Era un atto di grande coraggio allora, quando denunciare un’usurpazione di trono poteva equivalere alla perdita della propria testa; è un atto di grande coraggio oggi, quando palesi atti di arroganza che fanno straccio del diritto internazionale sono auto-legittimati da caratteri di “eccezionalità”2 che valgono solo per uno Stato (e per i lacché di turno), così come quando “fare chiarezza” su una proposta politica di trasformazione socio-economica e possibile transizione al socialismo equivale, sicuramente, a inimicarsi tanti soggetti, alcuni tradizionalmente noti (i primi di cui sopra) e altri, molto probabilmente, ancora considerati “amici”, “alleati”, se non addirittura lao dage (老大哥), “grande fratello maggiore”, al posto del defunto riferimento sovietico.
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