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Il popolo non esiste
di Michele Filippini
Una riflessione per sottrarre il pensiero di Laclau alle derive sovraniste e alla subalternità alla destra
È ormai difficile negare che l’Italia si trovi in un “momento populista”, caratterizzato dall’emergere di forze politiche nuove, nuovi discorsi politici e nuova costruzione di senso comune. Si tratta di una fase che, in altri tempi e con altra sensibilità, Antonio Gramsci aveva chiamato «guerra di movimento», un «interregno», una fase di passaggio verso la successiva stabilizzazione egemonica di un ordine. La rapida ascesa di partiti e personalità nuove (M5S, Salvini), l’altrettanto rapida caduta di altre (Monti, Renzi), l’elevata mobilità elettorale (il M5S che in pochi anni balza al 32,7% o la Lega che passa dal 4% al 32% dei sondaggi odierni) e la politicizzazione estrema di alcuni temi (Europa, migranti, sicurezza) sono tutti segnali di una fase di intensa ridefinizione dello spazio politico, dei soggetti in campo e delle loro parole d’ordine.
In un contesto come questo sembra perdere di significato la contrapposizione che aveva sostenuto quasi tutte le battaglie contro il neoliberismo degli ultimi anni: quella tra un discorso radicale-democratico di attivazione e contestazione del potere, e uno istituzionale governamentale di contenimento attraverso la spoliticizzazione. Al contrario, oggi più che mai il discorso del potere è un discorso populista e radicale, mentre la sua contestazione sembra relegata al piano della critica morale e paternalista. La crisi del neoliberismo ha riattivato le “faglie politiche” sulle quali si costruiscono i soggetti collettivi, e la destra razzista e i qualunquisti nostrani hanno compreso meglio di chiunque altro le opportunità di quest’apertura.
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Lenin. Unità e coerenza del suo pensiero
Postilla all’edizione italiana 1967
di György Lukács
Originariamente apparso in italiano in Lenin. Unità e coerenza del suo pensiero, Einaudi , Torino 1970, ora in L’uomo e la rivoluzione, Edizioni Punto Rosso, Milano 2013
Questo volumetto fu scritto subito dopo la morte di Lenin, senza lavori preliminari, per il bisogno spontaneo di fissare teoricamente ciò che allora mi sembrava essenziale, il centro della sua personalità intellettuale. Perciò il sottotitolo Unità e coerenza del suo pensiero, indicante che intendevo soprattutto riprodurre non il sistema oggettivo, teorico, di Lenin, ma quelle forze motrici, di tipo oggettivo e soggettivo che avevano permesso questa sistemazione, la loro incarnazione nella persona e negli atti di Lenin, senza neppure tentare di spiegare per esteso e per intero questa unità dinamica nella sua vita, nella sua opera.
Se oggi c’è un certo interesse per scritti di questo genere, lo si deve soprattutto alle circostanze particolari di questi tempi. Da quando è cominciata la critica marxista del periodo staliniano, con essa è sorto anche un interesse per le tendenze d’opposizione degli anni venti. Ciò è comprensibile anche se, dal punto di vista teorico e concreto, spesso si commettono eccessi. Per quanto falsa fosse la soluzione data da Stalin e dai suoi seguaci alla crisi allora in corso della rivoluzione, non si può dire che a quel tempo qualcuno offrisse un’analisi, una prospettiva capace di servire anche da orientamento teorico per i problemi delle fasi successive. Chi oggi vuole collaborare utilmente alla rinascita del marxismo deve considerare gli anni venti su un piano puramente storico, come un periodo passato e concluso del movimento operaio rivoluzionario. Solo così potrà valutare giustamente le sue esperienze e i suoi insegnamenti in rapporto alla fase attuale, essenzialmente nuova. Proprio la figura di Lenin, come è regola nel caso di grandi uomini, ha talmente incarnato il suo tempo che i risultati, e soprattutto il metodo delle sue affermazioni e dei suoi atti, possono conservare una determinata attualità anche in circostanze ampiamente mutate.
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Homo Sacer
Antonio Lucci intervista Giorgio Agamben
Il 25 ottobre 2018 è uscita in edizione unica per i tipi Quodlibet l’opera che ha tenuto Giorgio Agamben impegnato per vent’anni, vale a dire il progetto Homo sacer. Questo, apertosi con il volume omonimo, uscito nel 1995, si è concluso, infatti, con quello che porta la numerazione IV.2, L’uso dei corpi, uscito nel 2014. Nei volumi che fanno parte di quest’opera sono stati definiti e introdotti nel dibattito filosofico concetti che poi diverranno patrimonio comune (anche nel loro essere stati spesso oggetto di critiche) della filosofia contemporanea: quello di “sacertas”, di “nuda vita”, di “campo”, di “forma-di-vita”, la dicotomia “bios/zoe”, per nominarne solo alcuni. L’enorme successo in particolare del primo volume del progetto nel mondo anglosassone ha creato le premesse per la diffusione dei dibattiti avanzati da Agamben a livello planetario (Agamben è al momento, con ogni probabilità, il filosofo italiano più conosciuto all’estero), tra i cui effetti di ritorno vi è anche quella che poi sarebbe stata definita Italian Theory, ossia un movimento di autoriflessione e di interrogazione della filosofia italiana sulle proprie categorie fondative, che ha investito anche (e soprattutto) il mondo anglofono – interessato a comprendere come un pensatore come Agamben potesse essere posto in dialogo con altri autori, sempre italiani, che hanno animato i dibattiti teorico-critici dei decenni scorsi (tra tutti Toni Negri e Roberto Esposito).
L’intervista che segue, che si concentra principalmente sul progetto Homo sacer e sulla struttura del volume in uscita, è frutto di una riflessione di chi scrive riguardo alle questioni “architettoniche” dell’opera agambeniana. Oltre a dovere un sincero ringraziamento a Giorgio Agamben per l’occasione di dialogo, vorrei in questa sede ringraziare l’amico Carlo Salzani per i preziosi suggerimenti che mi hanno portato alla formulazione di alcune delle domande presentate.
* * * *
Antonio Lucci: Giorgio Agamben, escono in questi giorni, per Quodlibet, in un’edizione unica i nove volumi di Homo sacer, un lavoro che l’ha tenuta occupata, praticamente, per vent’anni. Lei stesso, nella prefazione all’ultimo dei volumi della serie, L’uso dei corpi, sosteneva che un’opera «può essere solo abbandonata», rifiutando, all’epoca, di mettere la parola “fine” al progetto. In questa edizione completa, Lei vede, a tre anni di distanza dalla pubblicazione dell’ultimo volume del progetto, un lavoro definitivamente chiuso, o qualcosa ancora passibile di integrazioni?
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Le sinistre ai tempi del colera1
(promemoria per populisti smemorati)
di Daniele Benzi
…però bisogna farne altrettanta per diventare così coglioni, da non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni (Fabrizio De André, Storia di un impiegato)
Sono arrivato in America Latina dieci anni fa cercando di sottrarmi alla penosa situazione di disoccupazione e precariato che è toccata alla maggior parte della mia generazione. Ma anche per sfuggire alla sgradevole sensazione di frustrazione ed impotenza che, soprattutto dopo le legnate prese al G8 di Genova nel 2001, mi provocava l’insignificanza politica e l’enorme frammentazione delle sinistre radicali in Europa e in particolare nel mio paese. Molti europei, in effetti, precari e frustrati come me, non certo grandi scienziati o strateghi della rivoluzione come a volte si sono presentati in Venezuela, Bolivia o Ecuador, sono arrivati in America Latina richiamati, o più spesso incantati, dalle sirene della “svolta a sinistra”.
Per formazione e interessi di ricerca, nel bene e nel male ho sempre guardato alla “marea rosa” da un punto di vista regionale e globale, non come una somma di processi e casi nazionali. Ciò mi ha permesso di osservare quotidianamente, specialmente vivendo abbastanza a lungo in un paese periferico nell’economia mondiale come l’Ecuador, certi condizionamenti strutturali e le complessità geopolitiche in cui si sono trovati i governi “progressisti” che spesso sfuggono ai movimenti dal “basso”. Non per questo, tuttavia, la mia posizione e il mio giudizio sono stati più indulgenti o meno critici sui loro limiti, incoerenze e contraddizioni che li hanno condotti alla situazione penosa in cui ci troviamo oggi.
In questo senso, secondo me il dibattito sulla “fine del ciclo” progressista che l’anno scorso e quest’anno ha infiammato inutilmente, credo, molti intellettuali e militanti, intrecciandosi purtroppo con i fatti tragici in Venezuela, è un dibattito chiuso.
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Drago buono, san Giorgio no buono
In margine ai travagli di Travaglio, Di Maio, Draghi…
di Fulvio Grimaldi
Ampia fiducia, massimo rispetto… ma decchè?
Li conoscete, questi mantra, vero? Che uno si senta inquisito a torto o a ragione, non c’è verso che non dichiari urbi et orbi “Ampia fiducia nella magistratura”. Che è, un po’, una captatio benevolentiae di chi dovrà processarlo e, molto, tentativo di accreditarsi all’opinione pubblica illibato al 100%. Dai sodali del dichiarante ciò provocherà plauso commosso, dai suoi avversari ghignante spernacchiamento. Personalmente, per quanto avrei ben donde di dichiararmi fiducioso nella magistratura, visto che l’ho scampata indenne da ben 150 procedimenti per reati di stampa (diffamazioni, apologia di reato e simili) quando ero direttore di Lotta Continua, come da più recenti querele giudicate infondate o temerarie, mi morderei la lingua prima di pronunciare quella formuletta che riconosce ai magistrati un’assoluta purezza di intenti e atti. Per un Borelli e un Davigo abbiamo avuto un Carnevale (“l’ammazzasentenze”), per un Di Matteo, un De Magistris, un Robledo e un Woodcock, abbiamo avuto il famigerato “porto delle nebbie romano” e magistrati perseguitati fino al CSM. E che CSM! Dunque, c’è poco da giurare sulla perfezione di chicchessia, né del primo potere dello Stato, né del secondo e neppure del terzo. E pur sempre lo Stato capitalista della borghesia.
Carta vince, carta perde
E se Marco Travaglio viene condannato a 95mila euro per aver diffamato il padre dell’ex-premier, uno che entra ed esce da inchieste giudiziarie come fossero il bar sotto casa e a Virginia Raggi tocca vivere sotto un gragnuola di denunce e procedimenti, fino ad ora tutti a vuoto; e se i responsabili di grandi avvelenamenti collettivi, di stragi da amianto o da uranio, di bombardamenti su civili serbi, la fanno franca; e se nelle nostre carceri i colletti bianchi sono meno che in qualsiasi altro Stato europeo, a dispetto dei nostri primati in mafia, corruzione, evasione…
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Quando sovranismo fa rima con socialismo
di Carlo Formenti
Che certi termini abbiano assunto questo significato deteriore non è avvenuto a caso. Si tratta di una reazione del senso comune contro certe degenerazioni culturali, ecc., ma il ‘senso comune’ è stato a sua volta il filisteizzatore, il mummificatore di una reazione giustificata in uno stato d’animo permanente, in una pigrizia intellettuale altrettanto degenerativa e repulsiva del fenomeno che voleva combattere>>: così Gramsci nei “Quaderni” (Quaderno 8, § 28, p. 959 dell’edizione critica Einaudi).
Proviamo ad applicare questa citazione all’uso che oggi viene fatto di termini come populismo e sovranismo da parte dei partiti tradizionali, di destra come di sinistra. La parola populismo, che occupa da tempo un ruolo non marginale nella storia del moderno dibattito politico - nel corso della quale ha assunto valenze e significati diversi - è stata “emulsionata” dal linguaggio contemporaneo dei media, i quali l’hanno ridotta a puro strumento di propaganda politica, anatema da scagliare contro ogni forma di opposizione al pensiero unico liberal liberista. Quanto a sovranismo – che è un neologismo di origine relativamente recente (si riferisce originariamente ai movimenti che rivendicavano l’indipendenza del Québec dal resto del Canada) -, ha subito in tempi brevi un destino analogo: è stato adottato dalla langue de bois mediatica per analoghi fini propagandistici, per accreditare cioè l’associazione automatica fra ogni posizione politica che rivendichi la riconquista della sovranità nazionale e l’uscita dall’Unione europea e i nazionalismi di destra.
Chi non si accontenta di tali semplificazioni, e nutre salutari sospetti nei confronti degli interessi che le ispirano, dispone ora di due nuovi strumenti di approfondimento critico: sono usciti, a breve distanza l’uno dall’altro, i libri di Thomas Fazi e William Mitchell (“Sovranità o barbarie. Il ritorno della questione nazionale”, ed. Meltemi) e di Alessandro Somma (“Sovranismi. Stato, popolo e conflitto sociale”, ed. DeriveApprodi) che smontano, il primo le narrazioni sull’inesistenza di alternative al mondo globalizzato, il secondo quella che attribuisce alla Ue il ruolo di baluardo della democrazia contro il ritorno dei nazionalismi.
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“Scritti sull’alienazione” di Karl Marx
di Paolo Missiroli
Recensione a: Karl Marx, Scritti sull’alienazione. Per la critica della società capitalistica, Testi scelti e introdotti da Marcello Musto, Donzelli, Roma 2018, pp. 160, 18 euro (scheda libro)
Esattamente duecento anni or sono, in una non enorme casa nel centro di Treviri, una non grande città nell’allora non esteso Regno di Prussia, nasceva Karl Marx.
Non eccessivamente ricca la sua famiglia, non troppo noto il suo cognome, non incredibilmente colti i suoi genitori. Tutte le caratteristiche per descrivere l’inizio di una vita nella media, si direbbe. Invece, come tutti sanno ancora oggi, infinita sarebbe stata la sua fortuna. Di Marx appena ventiquattrenne si diceva:
“Immaginati Rousseau, Voltaire, d’Holbach, Lessing, Heine e Hegel fusi in una sola persona. Ecco il dottor Marx.”
Questo ragazzo di Treviri avrebbe ridisegnato i confini del mondo e dell’analisi di esso.
Ma forse, ancora più dell’Ottocento, è il Novecento il secolo di Marx. Dopo quel secolo (breve o lungo che sia stato), cosa possiamo farcene di Marx? Perché continuiamo a parlare di lui? Come è possibile che molti, leggendo le sue pagine oggi, rimangano ancora folgorati dalla realtà di cui parla, che essi percepiscono come la loro realtà, la nostra realtà? In fondo, spesso lo si sente dire, Marx è morto nel 1883. Tutto quello di cui parla non è forse (ammesso che fosse vero il suo dire) finito, terminato? Per andare avanti, non bisogna forse, dimenticare Marx?
È curioso come, al contrario di questi discorsi, lo spirito di Marx soffi più forte, oggi, nel 2018, che poco più di una decina di anni fa. Marx scorre potente nel pensiero contemporaneo, per alcuni non abbastanza, certo, ma ha di nuovo un peso.
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Pianificabilità, pianificazione, piano
di Ivan Mikhajlovič Syroežin
Capitolo 2 - All’origine della pianificabilità
Introduzione di Paolo Selmi
L’immagine di copertina questa volta ha più a che vedere con il sottoscritto e col suo appuntamento al buio, dopo oltre venticinque anni di spensierata e ignorante lontananza, con il magico mondo della matematica. Tutto sommato, sono contento di essermi difeso con onore anche in questa parte non semplice. In questo capitolo, infatti, il buon Syroežin pensa bene di portarci in corda doppia su passaggi non agevoli, almeno per me. Tuttavia, oltre a ringraziare il fatto di non andare malaccio nella materia, di avere quindi un fondo atletico minimo (anche se, riprendendo il manuale di analisi di quinta, ho avvertito un groppo alla gola non indifferente), oltre che non mollare mai per natura (nonostante spesso mi sentissi molto più come il tizio in maglione della foto, più che quello in camicia), ringrazio anche il fatto che il Nostro corre poco, verrebbe da dire quasi il minimo sindacale, si ferma ad aspettare, e nel prosieguo delle sue dimostrazioni riprende concetti già espressi poc’anzi, quasi a volerti incoraggiare, a dire che si, hai capito bene, oppure che no, è meglio se rileggi di nuovo quel manuale che ti sei bellamente scordato, e recuperi prima qualche concetto di base perso per strada.
Questa foto mi è piaciuta, come penso anche che sarebbe piaciuta a un grande della fotografia del secolo scorso, Robert Doisneau, anche per altri motivi: questa scena di vita quotidiana universitaria, di giovani sovietici ripresi durante la preparazione di un esame sicuramente “tosto”, non si stanno facendo le scarpe tra di loro, puntando a quella spietata scrematura del péloton, frutto di una “selezione naturale” che può fare da noi Analisi I, Lingua e Letteratura Giapponese I, o il Mortirolo, piuttosto che lo Zoncolan, presi a trenta all’ora sin da sotto le pendici. Al contrario, si aiutano. C’è chi ci arriva subito e chi ci metterà decisamente di più, tuttavia alla fine con il dovuto impegno ci arriveranno tutti. Anche questo è socialismo, e ho avuto la fortuna e l’onore di sperimentarlo in prima persona studiando cinese con professori cinesi e italiani in tempi molto diversi da questi.
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Indietro non si torna... purtroppo
di Alfonso Geraci e Marco Palazzotto
Dopo Nuovo PCI e Sinistra Anticapitalista, anche il PRC ha abbandonato il progetto PAP. Il documento votato dal CPN di Rifondazione non suscita entusiasmi, ma anche noi – che abbiamo condiviso per un anno il cammino di Potere al Popolo – abbiamo lasciato PAP dopo la votazione sui due statuti contrapposti, ritenendo (con motivazioni e preoccupazioni in buona misura diverse da quelle espresse dalla mozione di cui sopra) che si sia giunti a un capolinea, e che PAP abbia costruito e “blindato” un meccanismo di funzionamento sbagliatissimo e che rende molto difficile se non impossibile al singolo militante partecipare coscientemente ed efficacemente alla vita dell’organizzazione. Queste nostre riflessioni intendono avviare un dibattito, per cui auspichiamo che sia i compagni che proseguiranno il percorso di PAP che quelli che l’hanno abbandonato vogliano intervenire. [AG, MP]
Potere al Popolo prevede il potere al popolo?
La festa appena cominciata è già finita… (Sergio Endrigo)
Lo scorso 9 ottobre si sono concluse le consultazioni svolte nella piattaforma informatica di Potere al Popolo che hanno sancito, secondo il comunicato dello stesso movimento (qui maggiori dettagli ), la vittoria dello statuto 1 – sostenuto dalle componenti dell’Ex OPG occupato “Je so’ pazzo” e Eurostop – sullo statuto 2 – sostenuto invece dal PRC, ritirato all’ultimo momento dagli estensori e rimasto comunque online per il voto dopo la decisione della maggioranza del coordinamento nazionale provvisorio.
Hanno votato a favore dello statuto 1 circa 3300 persone su più di 9000 iscritti e quindi il 37% circa degli aventi diritto, e pari al 55% degli utenti attivi.
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Per una critica socialista dello Stato liberale di diritto: note sparse
di Mattia Gambilonghi
1. Origini e caratteri essenziali
Principale punto d’approdo di quel filone contrattual-razionalistico che, agli albori della modernità, aveva cominciato a ridisegnare la politica in senso individualistico e antiorganicistico, ponendo al centro del proprio progetto il Soggetto per eccellenza – quello borghese – e definendo i termini di una mediazione razionale tra individui capace di dar vita ad un artificio politico – lo Stato – incaricato di tutelare questi ultimi e i loro diritti naturali, lo Stato liberale di diritto rappresenta la forma di Stato che contrassegnerà lo scenario europeo dalla Rivoluzione francese alla fine della Seconda guerra mondiale.
Il fatto di nascere e svilupparsi da un lato in reazione all’ordinamento cetuale e particolaristico proprio dell’Ancien regime, e dall’altro al fine di razionalizzare politicamente e dare una veste di diritto pubblico ad una società mercantile che vede oramai il motore del proprio sviluppo in quello “scambio di equivalenti” reso possibile dalla reciprocità strutturalmente connessa all’istituto giuridico del contratto – autentico perno delle società proto-liberali e proto-capitalistiche[1] –, fa sì che i caratteri che sin da subito contraddistingueranno lo Stato liberale di diritto siano quelli dell’astrattezza, della generalità e dell’uniformità, veri e propri «punti salienti [del] programma politico-ideologico» della Rivoluzione francese[2]. La modernità giuridica sente infatti in maniera quasi ossessiva la necessità di “semplificare tutto”, riprendendo le parole del giurista di età napoleonica Jean-Étienne-Marie Portalis: non più la molteplicità di corpi, fonti del diritto e regimi giuridici, ma una società (presunta) omogenea composta da individui dotati di una eguale capacità giuridica. È evidente come il carattere dell’astrattezza investa in primo luogo i tratti e le qualità proprie dei soggetti politico-giuridici posti al centro dei nuovi ordinamenti, dei soggetti che idealtipicamente ricalcano una precisa e storicamente determinata figura sociale, quella dell’individuo-proprietario, il bourgeois[3].
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Marx un cane morto?
di Salvatore Bravo
L’accettazione del sistema sociale vigente quale unico possibile è il volto abbagliante dietro il quale si cela la sua verità, l’abbaglio è il disorientamento, il turbocapitalismo vive e si espande nella caduta del senso critico, nella rinuncia individuale e di massa al riorientamento disalienante verso la condizione disumana a cui, tutti, sono sottoposti, malgrado le innegabili differenze delle condizioni materiali. Naturalmente la sua ideologica fatalizzazione consente al capitale trasformato in motore della Storia collettiva ed individuale di essere il vero protagonista delle storie, in quanto la storia è nel concreto il luogo delle scelte individuali che si aprono all’alterità per fondare la comunità. Le storie con il vociare del possibile sono sostituite con velocità crescente di ordine geometrico dal capitale, il quale divenuto ipostasi non riconosciuta, ed in forza omologatrice delle storie individuali. Le vite divengono in quanto abitate dal capitale indifferenziate, non hanno che gli stessi attributi del valore di scambio, così come le merci sono valore di scambio e dunque astratte perché hanno perso il valore d’uso, nella stessa maniera i soggetti sono posti tutti sulla stessa linea indifferenziata, essi sono tempo astratto, e quindi il valore di ciascuno passa per le forche caudine della rinuncia alla propria individualità in favore di criteri astratti di quantificazione. Il tempo di lavoro di ciascun individuo è sottoposto alla legge comune a tutti, ogni individualità è soppressa, svuotata perché serva del tempo astratto, ovvero del tempo dedicato alla produzione ed al consumo coatto.
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Considerazioni su Potere al popolo dopo la votazione sugli statuti
di Enzo Gamba
Il progetto politico mantiene la sua validità ma rimane il rischio di perdere, per l’ennesima (forse l’ultima?) volta, una grande occasione
In questo ultimo anno, complici le iniziative fiorite e sfiorite al Brancaccio, si è dibattuto molto sul problema di quale dovesse essere il progetto politico dell’immediato futuro per la sinistra di classe e per i comunisti in particolare. Era necessario ragionare e discutere per chiarire ciò che si dovesse fare, al fine di invertire l’andamento della lotta di classe - ormai agìta quasi sostanzialmente solo dal capitale - di ricompattare la classe dei lavoratori salariati e subordinati (gli sfruttati) e dei loro possibili alleati sociali, per cominciare a cambiare e risalire la china.
Si era fatta strada tra molti compagni l’idea che dovessimo pensare ad una ipotesi politica che individuasse in un “movimento politico organizzato” il soggetto politico unitario che, sulla base di un “programma minimo”, di fase, agisse e si muovesse sulla scena politica della lotta di classe nel nostro paese; movimento politico dove i comunisti avrebbero potuto nuovamente riprendere il legame con la classe e riattivare nel contempo il loro patrimonio teorico politico. Né quindi un nuovo partito ideologico dei comunisti, né l’ennesimo tentativo di “intergruppi” sotto l’etichetta delle “sinistre unite”, né una federazione associativa di vari e diversi movimenti perlopiù monotematici. L’avvio di un percorso unitario con la nuova proposta di Potere al Popolo! sembrava rispondere non solo a queste esigenze, ma rappresentava una concreta articolazione di tale progetto politico. Il Manifesto fondativo di PaP era lì a dimostrarlo e anche le principali organizzazioni comuniste avevano dato il loro fattivo assenso.
Ciò che però è successo in PaP in questi ultimi tempi impone, oggettivamente, di entrare nuovamente nel merito della questione, non tanto delle posizioni che si sono confrontate, ma degli elementi e aspetti peculiari del progetto politico che, a nostro avviso, avrebbero dovuto e dovrebbero sostanziare PaP e che sotto traccia hanno condizionato in modo negativo il confronto.
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L'elogio di Salvini a Bolsonaro
Una discussione tra Piemme e Fabrizio Marchi
* * * *
Che ci dice l'elogio salviniano di Bolsonaro
di Piemme
Fabrizio Marchi su l'interferenza dice l'essenziale del neopresidente del Brasile Jair Bolsonaro:
«Bolsonaro è la sintesi del peggio che possa esistere al mondo. Ammiratore di Hitler per sua stessa ammissione, nostalgico delle feroci dittature militari (sponsorizzate e armate dagli USA) che per quasi mezzo secolo hanno letteralmente insanguinato l’intero continente latinoamericano, ultra filosionista (in una delle sue primissime dichiarazioni ha annunciato la decisione di chiudere l’ambasciata palestinese), ultraliberista in politica economica, omofobo, integralista religioso (più per opportunismo che per fede…), seguace fanatico delle sette evangeliche che dagli Stati Uniti stanno da tempo colonizzando l’America Latina, filo americano, antisocialista e anti comunista viscerale, appoggiato da Trump, Bannon, e naturalmente da Netanyahu e da tutta la destra e l’estrema destra sud e nord americana, israeliana ed europea, Bolsonaro è il simbolo della “riscossa” reazionaria in America Latina».
Non dice, Marchi, le immense responsabilità che un quindicennio di governi del PT lulista hanno avuto nel causare la vittoria di questo energumeno — politiche liberiste che hanno accresciuto a dismisura le già enormi diseguaglianze sociali, una gestione nepotistica e corruttiva del potere.
Ma non è questo adesso il punto; condividiamo del pezzo del Marchi il ribrezzo per lo sconcio e sguaiato appoggio che Salvini ha promesso a Bolsonaro.
Con l'esaltazione di Bolsonaro Matteo Salvini ha compiuto un'altro passo o strappo per attestare la sua Lega nel campo della destra reazionaria —alla faccia di certi amici che ce la menano col discorso che sarebbe finita la "dicotomia sinistra-destra": la verità è che più la sinistra si imputridisce e s'inabissa nel campo liberale, più le destre avanzano, per di più secernendo le pulsioni più antidemocratiche.
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Disarmare il capitale
L'alternanza scuola-lavoro secondo Roberto Ciccarelli
di Tiziana Drago
È intorno al centro traumatico del culto del capitale che ruota l’ultimo libro di Roberto Ciccarelli, Capitale disumano. La vita in alternanza scuola lavoro, manifestolibri, 2018. La mostruosità di un universo tutto risolto in un profitto onnivoro e feroce, il massacro dei desideri individuali e collettivi, quel groviglio di vulnerabilità, acredine e impotenza che imbriglia i tentativi di disarticolare la bulimia del sistema. E, insieme, l’impresa titanica di immaginarne lo sgretolamento. Chi non avesse letto i precedenti lavori dell’autore (Forza lavoro. Il lato oscuro della rivoluzione digitale, DeriveApprodi, 2018 e, insieme a Peppe Allegri, La furia dei cervelli, Manifestolibri, 2011 e Il quinto stato. Perché il lavoro indipendente è il nostro futuro, Ponte Alle Grazie, 2013) troverà ora una porta di accesso non meno preziosa a un immaginario così angolato e delineato e insieme così proliferante e inesauribile. Nel presente inasprito e rancoroso che ci tocca, questa dedizione incondizionata e in controtendenza è un ethos limpido e inattuale, una forma del desiderio di cui è difficile trovare esempi, proprio perché assoluta e non negoziabile: cosa rarissima in un mondo in cui desiderio e adattamento sono diventati sinonimi. D’altra parte, i bei libri si coniugano sempre al futuro e ci chiedono di interrogarci, più che su cosa siamo stati, su cosa potremmo ancora essere («questo libro è un esercizio etico per prendere le distanze da ciò che siamo, aprendoci alle possibilità non ancora determinate dalle verità di qualcuno e imposte alla vita degli altri, ma presenti nel nostro vivere insieme»: p. 11).
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Rotta di collisione
intervista a Leonardo Mazzei
Il rifiuto italiano di piegarsi ai diktat della Commissione europea e lo scontro che ne deriva è una delle questioni più dibattute in Germania. Il sito tedesco Makroskop ha rivolto a Leonardo Mazzei alcune domande. Qui sotto l'intervista
La commissione europea ha rifiutato il budget italiano definendolo una “deviazione senza precedenti” dai patti. Perché questa durezza?
La "deviazione senza precedenti" è un'esagerazione evidente. Negli ultimi quarant'anni solo 4 volte il rapporto deficit/pil è stato più basso del 2,4% previsto dal governo per il 2019. Anche nei due anni della massima austerità (governo Monti) questo rapporto fu al 3%. La posizione della Commissione europea, che oggi è arrivata a bocciare il Documento programmatico di bilancio italiano, si spiega solo politicamente. Si vuole colpire in maniera dura un governo che, pur senza attuare una netta svolta verso politiche espansive (come sarebbe stato invece necessario), ha deciso però un'inversione di tendenza rispetto alle politiche austeritarie.
La risposta italiana sembra ferma. È inevitabile una escalation?
La maggioranza di governo non può permettersi una retromarcia. Sarebbe un disastro politico. Essa sta cercando di realizzare dei risultati concreti - pensioni, reddito delle fasce più povere, fisco - senza arrivare allo scontro frontale con l'UE. Ma questa ricerca di un compromesso non è stata accolta a Bruxelles, anzi. L'escalation sembra dunque l'ipotesi più probabile.
Rimane comunque uno spazio per un compromesso? Conte ha detto che forse posticiperanno alcune spese. Un cambio di alcuni decimali non sembra decisivo.
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Il governo piccolo-borghese e antioperaio degli ‘amici del popolo’
di Eros Barone
Per comprendere l’evoluzione (o l’involuzione) della situazione politica del nostro paese, occorre prendere le mosse dalla ristrutturazione dei ‘vincoli esterni’ (UE, USA e BRICS) che, oggi come non mai, ne condizionano il decorso. Da questo punto di vista, la legge di bilancio del governo per il 2019 e l’uso politico delle variabili economico-finanziarie (lo ‘spread’ e il ‘rating’) sono lo specchio fedele di contraddizioni e conflitti del tutto interni alle diverse frazioni della borghesia capitalistica , legati a contrastanti indirizzi politici concernenti il rapporto con i mercati internazionali e con gli attuali schieramenti imperialisti. La crisi economica mondiale ha infatti acuito le fratture esistenti nel sistema capitalistico sia a livello verticale, tra la grande impresa monopolistica e la piccola e media produzione nazionale, sia a livello orizzontale, tra le diverse frazioni (industriale, finanziaria, commerciale) del grande capitale. Pur con tutte le mediazioni che ancora si interpongono (ma che sono destinate a ridursi via via che lo scontro si inasprisce), la Lega e il Movimento 5 Stelle sono per l’essenziale, in quanto “nomenclatura di classi sociali” (Gramsci), 1 l’espressione di tali contraddizioni.
L’attuale fase politica si situa dunque nel quadro di una “crisi organica” 2 della mediazione istituzionale di tipo tradizionale e segna una nuova tappa dello sforzo che da tempo vede impegnate alcune frazioni del blocco dominante sul terreno della ricerca di un’alternativa endosistemica al l’europeismo, cioè alla subordinazione dell’eurozona all’asse capitalistico franco-tedesco, quale si è espressa attraverso il ‘connubio’ dei due partiti (PD e FI) con cui, a partire dagli anni novanta del secolo scorso, le classi dominanti, ‘giocando’ sulla regolazione del vincolo europeistico, hanno realizzato una certa unità e difeso i loro interessi economici.
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Contro la trappola della rassegnazione
Leggere e rileggere Luca Rastello
di Paolo Ortelli
Di Luca Rastello si è scritto e detto moltissimo, post mortem. Lo conoscevano in pochi, forse perché era mosso dall’amore per la verità e aveva uno spirito avverso a ogni conformismo e, quindi, alle logiche da cui dipende la visibilità mediatica. Ha vissuto molte vite – giornalista culturale, reporter, analista politico, viaggiatore, narratore, filosofo, redattore, operatore solidale– e ogni volta ha saputo reinventare sé stesso. Ha lottato fino alla fine contro la sua malattia, e lo ha saputo raccontare in maniera per niente retorica nel suo ultimo libro (pubblicato postumo, nel terzo anniversario della sua morte avvenuta nel 2015) “Dopodomani non ci sarà”, romanzo che si presenta più come un laboratorio di scrittura, una miniera di riflessioni filosofiche e politiche, spiazzanti e memorabili. Figura complessa, irriducibile e da riscoprire per i più, l’opera di Rastello rappresenta un prisma formidabile attraverso cui guardare il presente e per «non cadere mai nella trappola della rassegnazione e dell’accettazione»
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Di Luca Rastello si è scritto e detto moltissimo – post mortem. Le parole che, per esempio, hanno speso per lui intellettuali come Goffredo Fofi, Nicola Lagioia, Alessandro Baricco, Roberto Saviano, Walter Siti, Wu Ming, Giorgio Vasta, si riservano solo ai grandi del pensiero e della letteratura.
Non è un caso che Un passo più in là, documentario sulla sua vita trasmesso da RaiStoria, inizi con una domanda: «Perché erano così in pochi a conoscerlo?». E si potrebbe aggiungere: perché soltanto dopo la sua morte, avvenuta il 6 luglio 2015, è diventato un “mito” letterario?
Lo conoscevano in pochi perché Luca Rastello era mosso dall’amore per la verità (anzi, per le tante verità possibili), da una sconfinata curiosità e un senso purissimo della giustizia; aveva uno spirito inflessibilmente critico e perciò avverso a ogni conformismo, alle orazioni civili e alle logiche markettare da cui dipende la visibilità mediatica.
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Il ritorno del partito
di Paolo Gerbaudo
Perché sono tornati i partiti di massa? Perché sono ancora il modo migliore affinché coloro che non hanno potere, possano sfidare i potenti. Pubblichiamo la traduzione di un articolo dal sito della rivista americana Jacobin
E’ un luogo comune osservare come l’epoca post crisi sia definita dall’ascesa di movimenti populisti sia sul fronte della sinistra che su quello della destra, nel mezzo di una crescente polarizzazione politica. Tuttavia, non è stata sufficientemente sottolineata la centralità del partito nell’arena politica. In Occidente, e in Europa in particolare, stiamo assistendo ad una rinascita del partito politico. Sia i vecchi partiti, come quello Laburista in Gran Bretagna, che quelli nuovi, come Podemos in Spagna e la France Insoumise, hanno visto una crescita enorme nel corso degli anni, ponendosi tra l’altro al centro di importanti innovazioni organizzative. Dal momento che per molti anni sociologi e politologi hanno concordato nel preannunciare la perdita del primato del partito politico in una società digitale sempre più globalizzata e diversificata, questa rinascita della forma partitica è degna di nota. In effetti, l’attuale ritorno della sinistra ha di fatto smentito queste previsioni. La tecnologia digitale non ha rimpiazzato il partito. Gli attivisti l’hanno piuttosto utilizzata al fine di sviluppare meccanismi innovativi per fare appello ai cittadini, pur riaffermando la forma partitica quale strumento principale per la lotta politica.
Previsioni maldestre
Il fatto che i partiti politici stiano tornando nuovamente alla ribalta, è innanzitutto evidente dal crescente numero di membri all’interno dei partiti, una chiara svolta rispetto al progressivo calo di adesioni a cui hanno dovuto assistere molti partiti storici europei all’inizio degli anni Ottanta. In Gran Bretagna, il Partito Laburista sta per raggiungere i 600.000 membri, dopo aver raschiato il fondo nel 2007, alla fine del mandato di Tony Blair, con appena 176.891 adesioni.
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Alienazione e nuove forme di lavoro
di Lelio Demichelis*
L’alienazione, sebbene mascherata, è presente più che mai anche nelle nuove forme di lavoro. Secondo Lelio Demichelis, il compito della sociologia e dell’economia oggi è costruire uno scenario alternativo, umanistico ed ecologicamente responsabile
L’alienazione, questa sconosciuta. Non se ne parla più, come se fosse magicamente scomparsa dalla scena. Come se le retoriche neoliberali dell’essere imprenditori di se stessi e di vivere la propria vita come un’impresa in competizione con gli altri – unitamente alle retoriche del condividere, del fare community, dei social, dello smart-working e dello smart-job, dello smart-phone e delle smart-cities e, prima ancora, dell’economia della conoscenza e del capitalismo intellettuale (sic!) – avessero davvero cancellato quella ‘cosa’, l’alienazione appunto che per un secolo e mezzo aveva invece caratterizzato pesantemente e drammaticamente le forme e le norme capitalistiche di produzione e di organizzazione del lavoro. L’alienazione, la sua riconoscibilità e il suo contrasto erano – una volta – i fattori-base per la costruzione di quella coscienza di classe senza la quale, diceva Marx, era difficile immaginare una soluzione alternativa al capitalismo – o anche solo a democratizzarlo, come avvenuto nel post-1945.
Oggi, scriveva Luciano Gallino nel 2012, si deve purtroppo constatare che il tema dell’alienazione – fondamentale per cercare di rendere le persone capaci di controllare il lavoro che svolgono, piuttosto che esserne schiave – è scomparso totalmente dal programma di riflessione e dal campo di analisi della sociologia mainstream (sempre più schiacciatasi – aggiungiamo – sulla ricerca quantitativa, divenendo incapace di guardare i processi nell’insieme).
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Una battaglia di Sinistra: riscrivere l’art. 81
di Norberto Fragiacomo
La provocazione “gialloverde” insita nell’ormai celebre rapporto deficit-PIL al 2,4% è stata prontamente raccolta da attori esterni e interni: fra questi ultimi annoveriamo forze politiche liberiste e globaliste (PD, FI ecc.[1]), media ultraeuropeisti e commentatori più o meno schiacciati sulla vulgata sistemica. Tra gli opinionisti sono in parecchi a essere andati fuori tema: c’è chi si straccia le vesti per l’immancabile fascismo ad portas[2] e chi ripete stancamente le usuali giaculatorie sul debito pubblico – ma dalla cacofonia di voci emergono taluni che, più originali, si baloccano con critiche nuove e suadenti. Sta acquisendo credito la seguente posizione: indipendentemente dai suoi contenuti, la manovra in fieri sarebbe incostituzionale perché lesiva dell’articolo 81 Cost. versione 2012, e di conseguenza il Quirinale dovrebbe bocciarla.
Cosa dispone la norma citata? Che “Lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico.” Attenzione: qui non si parla di formale «pareggio» fra entrate e uscite, bensì di equilibrio – vale a dire della necessità che le spese siano finanziate con risorse per così dire buone e comunque proprie, come quelle derivanti dal patrimonio pubblico o il gettito tributario. Il 2° comma difatti precisa che
“Il ricorso all’indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali”, mentre il 6° demanda a una legge rafforzata la fissazione di “contenuto della legge di bilancio (…) criteri volti ad assicurare l’equilibrio tra le entrate e le spese dei bilanci e la sostenibilità del debito”.
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Braccio di ferro tra governo, mercati e UE
Scenari su euro, moneta e democrazia
di Enrico Grazzini
La domanda oggi è: come finirà il braccio di ferro tra il governo giallo-verde da una parte e i mercati e la Unione Europea dall'altra? Il governo Conte riuscirà a far decollare il suo programma economico? Oppure l'aumento dello spread – ovvero del differenziale tra i rendimenti dei titoli di debito italiani e quelli tedeschi - farà fallire le manovre del governo, e forse anche il governo stesso? L'Italia è nella morsa dei mercati finanziari mentre l'Unione Europea è ormai a pezzi e la Commissione UE è in scadenza, ma, come gli animali feriti a morte, è più minacciosa che mai. Di fronte alla crisi italiana ed europea sono possibili diversi scenari sul piano economico e politico. L'incertezza aumenta e gli esiti possono essere drammatici. Un'alternativa però esiste: il governo italiano potrebbe evitare di dipendere esclusivamente dai mercati finanziari e, pur restando nell'eurozona, potrebbe creare dei titoli quasi-moneta per finanziare la sua manovra economica, aumentare i redditi interni e diminuire il debito in euro.
Se l'Italia non pagasse gli interessi sul debito pubblico avrebbe il bilancio in pareggio
Il programma espansivo del governo si propone obiettivi di crescita molto ambiziosi (nelle condizioni attuali, probabilmente anche troppo ambiziosi). Per rilanciare l'economia, il governo punta all'introduzione del reddito di cittadinanza – che in realtà è diventato un reddito per l'avviamento al lavoro da garantire ai poveri e ai disoccupati –, all'aumento delle pensioni minime e al rilancio (insufficiente) degli investimenti pubblici. Inoltre deve anche trovare le risorse per servire l'elevato debito pubblico. Per fare tutte queste cose il governo deve chiedere soldi al mercato finanziario - cioè alle banche d'affari nazionali e internazionali, ai fondi di investimento, fondi speculativi, fondi pensione, assicurazioni, ecc -.
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Le basi ontologiche del pensiero e dell’attività dell’uomo
di György Lukács
La conferenza sulle Basi ontologiche del pensiero e dell’attività dell’uomo fu redatta nei primi mesi del 1968 e doveva essere letta al congresso mondiale di filosofia che si sarebbe tenuto a Vienna nel settembre di quell’anno. Tuttavia, non avendo poi Lukács partecipato a quel congresso, il testo della conferenza fu reso pubblico nel 1969 sia in traduzione ungherese, sia nella stesura originale tedesca. Quanto al contenuto, la conferenza si fonda sulla cosiddetta «grande» Ontologia, il cui manoscritto era allora praticamente già terminato.
Originariamente apparso in italiano in L’uomo e la rivoluzione, Editori Riuniti, Roma 1973, ora Edizioni Punto Rosso, Milano 2013.
I. Chi voglia illustrare in una conferenza, anche soltanto entro certi limiti, almeno i principi più generali di questo complesso problematico, si trova di fronte a una duplice difficoltà. Da un lato bisognerebbe dare un panorama critico dello stato attuale della discussione su tale problema, dall’altro occorrerebbe porre in luce l’edificio concettuale di una nuova ontologia, perlomeno nella sua struttura fondamentale. Per essere in qualche modo esaurienti almeno sulla seconda questione, che è in concreto quella di fondo, dovremo rinunciare a soffermarci, per quanto brevemente, sulla prima.
Tutti sanno che negli ultimi decenni il neopositivismo, radicalizzando le vecchie tendenze gnoseologiche, ha dominato incontrastato con il suo rifiuto di principio verso ogni e qualsiasi impostazione ontologica, considerata non scientifica. E non solamente nella vita filosofica vera e propria, ma anche nel mondo della prassi. Se analizzassimo bene le costanti teoriche dei gruppi dirigenti politici, militari ed economici del nostro tempo, scopriremmo che esse – consapevolmente o inconsapevolmente – sono determinate da metodi di pensiero neopositivistici. Di qui è derivata l’onnipotenza quasi illimitata di tali metodi e di qui, quando il confronto con la realtà avrà condotto alla crisi aperta, si produrranno grandi rivolgimenti a partire dalla vita politico-economica sino alla filosofia nel senso più lato del termine. Ma giacché noi siamo soltanto all’inizio di tale processo, può bastare avervi fatto cenno.
Noi in questa sede non ci occuperemo neppure dei tentativi ontologici degli ultimi decenni. Ci limitiamo a dichiarare semplicemente che li riteniamo estremamente problematici, bastandoci rimandare agli ultimi sviluppi di un notissimo iniziatore di questa corrente come Sartre, per accennare almeno a tale problematica e al suo indirizzo.
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Mussolini the original: tra liberalismo e sovranità senza popolo
di Arturo
Fondamentale post "fenomenologico" di Arturo. Inutile dire che nella lettura occorre prendersi il dovuto tempo di riflessione. E non trascurare i links. Neppure uno
1. Continuano a moltiplicarsi, in forme anche grottesche, le accuse di fascismo rivolte al governo, alla maggioranza, ai suoi elettori ma anche agli italiani in generale.
Visto che il fascismo storico fu un impasto confuso di filoni politici diversi – sindacalismo, nazionalismo, combattentismo, idealismo, elitismo, eccetera – esso si presta bene ad analisi che si concentrino sul coté ideologico, individuino questo o quell’elemento astrattamente ritenuto essenziale per ricostruire una genealogia in grado di isolare il virus malefico e formulare atti d’accusa.
Con l’impiego di metodologie siffatte si è riusciti nella notevole impresa di identificare le origini del fascismo nell’opera di De Maistre (Isaiah Berlin), come in quella di Marx (Settembrini). Risultati tanto disparati dovrebbero però far sorgere qualche perplessità sul metodo.
Di puro buon senso mi paiono quindi le riserve in proposito formulate dal più noto storico dell’ideologia fascista, Emilio Gentile:
“Nessuno può prevedere a quali altri esiti potrebbe condurre questo modo di studiare le origini dell’ideologia fascista su un piano esclusivamente teorico-intellettualistico, accentuando ora l’uno ora l’altro degli elementi - o dosando in proporzione differente gli elementi - che si reputano essenziali per definire l’essenza di un «fascismo idealtipico».” (Le origini dell’ideologia fascista (1918-1925), Il Mulino, Bologna, 1996, pag. 19).
2. Da parte nostra, abbiamo provato a ricollocare il fascismo sul terreno dei rapporti materiali e del conflitto sociale. Un approccio che, se non può vantare l’appeal della novità, mi pare ancora fornito di un certo potere esplicativo.
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La crisi dell’Europa e la sinistra che non c’è
di Carlo Galli
I risultati elettorali in Assia e in Baviera confermano il trend di sgretolamento dei partiti dell’establishment, di centro e di centrosinistra. Come la pelle di zigrino il loro spazio politico si riduce senza sosta, e al contempo le loro aspettative di vita.
È un trend iniziato con la Brexit, proseguito con le elezioni italiane del 4 marzo, confermato dalle vittorie politiche delle forze illiberali in parecchi Paesi dell’Europa centrale. È l’inabissarsi del progetto “atlantico” del secondo dopoguerra, che voleva far coesistere l’economia sviluppata, la democrazia liberale sociale, e la costruzione in Europa di istituzioni sovrastatuali. Ed è il tramonto delle élites, e dei partiti, che lo hanno sostenuto e vi si sono identificati.
Inabissamento e tramonto che non sopraggiungono per cause esterne, ma per le interne contraddizioni che sono esplose quando quel progetto atlantico ha incrociato la globalizzazione, quando la civiltà keynesiana si è trasformata in civiltà neoliberista, quando la costruzione europea, tutta funzionalista, si è trasformata nel dominio dell’ordoliberismo, nell’Europa di Maastricht, dell’euro, di Lisbona. Cioè in un’Europa unita dall’euro ma non dalla politica, da regole e discipline ma non dal consenso dei popoli.
Un’Europa minacciosa per l’Inghilterra, che non ne ha sopportato la burocrazia e i vincoli comunque sussistenti – benché non fosse entrata nell’euro – interpretati come costi e imposizioni ben più gravi dei benefici che ne derivavano. E così ha abbandonato la nave prima che affondasse, alle prime avvisaglie delle crepe. Per lei la civiltà atlantica sarà sostituita dalla “relazione speciale” con gli Usa, se Trump ne vorrà ancora sentire parlare.
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Marx e il capitale come rapporto sociale
di Paolo Ciofi*
Ogni qual volta il capitalismo entra in crisi - e ciò si verifica sempre più frequentemente, fino a diventare uno stato permanente - Carlo Marx, dato per morto e sepolto, regolarmente ricompare e oggi il suo spettro aleggia di nuovo in Europa e nel mondo. Al punto tale che Time, settimanale americano con svariati milioni di lettori, è arrivato a scrivere che «Marx aveva ragione». E l’Economist, caposcuola britannico del pensiero liberale, ha affermato di recente che «la principale ragione per cui Marx continua a suscitare interesse è che le sue idee sono più pertinenti oggi di quanto non lo siano state negli ultimi decenni».
Tuttavia, una reticenza permane proprio sulla questione di fondo, ossia sulla natura del capitale. Giacché, scoprendo l’arcano del capitale, vengono in chiaro le ragioni delle sue crisi e le condizioni del suo superamento. Due aspetti inscindibili che hanno fatto di Marx uno dei pensatori più potenti e al tempo stesso un rivoluzionario instancabile, che concretamente lottava per trasformare la realtà: un esempio di coerenza, di alta moralità. La personificazione dell’unità tra teoria e prassi.
Una «immane raccolta di merci», osserva il pensatore e rivoluzioanrio di Treviri, caratterizza la società dominata dal capitale. Ma cos’è il capitale? Non semplicemente una somma di denaro, che a conclusione della produzione e della circolazione della merce, o dell’impiego nella finanza, si trasforma in una somma maggiore di quella investita; e che ci appare nelle più svariate forme di capitale industriale, bancario, fisso, costante, variabile e così via. Fino al capitale cosiddetto umano, in cui nel nostro tempo, ridotti a cose, si identificano gli esseri umani che producono ricchezza.
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