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La teoria dei cicli di Kondratiev specchio della crisi globale
di Alexander Aivazov e Andrej Kobyakov
L'economia globale è davanti a una "onda lunga" di recessione
La teoria dell'onda lunga di Kondratiev viene ricordata solo nei casi di crollo
La crisi finanziaria che è scoppiata negli Stati Uniti e che dopo ha coinvolto tutto il mondo, richiede adeguate misure da parte della comunità globale. Ma quali azioni dovrebbero essere considerate adeguate in questo caso? Per rispondere a questa domanda dobbiamo prima identificare le vere ragioni sottostanti che hanno creato la crisi, e stimare la sua lunghezza e profondità. Gli economisti liberali dogmatici continuano a convincerci che in diversi mesi, o almeno in uno o due anni, tutto si "calmerà", il mondo tornerà ad un progressivo sviluppo, mentre la Russia si sposterà verso un modello economico dell'innovazione. È veramente così?
Più di 80 anni fa l'importante economista russo Prof. Nikolai D. Kondratiev descrisse e dimostrò teoricamente l'esistenza di grandi cicli di sviluppo economico (45-60 anni), all'interno dei quali le "riserve dei maggiori valori materiali" globali vengono nuovamente riempite, cioè in cui le forze produttive mondiali messe assieme a ogni ciclo trascendono verso un livello più alto.
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Crashkurs — appunti sulla crisi finanziaria
Gruppo Krisis
Perché lo scoppio della bolla finanziaria non è da imputarsi all’avidità dei banchieri e non è possibile alcun ritorno al “capitalismo del welfare”
Una nuova “leggenda della pugnalata alle spalle” (cfr. http://it.wikipedia.org/wiki/Dolchstosslegende) sta facendo il giro del mondo: la “nostra economia” sarebbe caduta vittima della sconfinata avidità di un pugno di banchieri e speculatori. Ingozzati dalla conveniente moneta della Banca Centrale degli USA (la Federal Reserve) e coperti da politici irresponsabili, costoro avrebbero portato il mondo alle soglie dell’abisso, mentre gli “onesti” verrebbero una volta di più presi per il naso.
Niente è oggettivamente più falso e ideologicamente più pericoloso di questa diffusa rappresentazione che passa attraverso tutti i canali dell’opinione pubblica. Le cose stanno esattamente al contrario. Il mostruoso rigonfiamento dei mercati finanziari non è la causa della miseria, bensì è esso stesso un tentativo di contrastare la crisi fondamentale con la quale la società capitalistica lotta già dagli anni ‘70. In quel periodo giunse a termine, con il boom economico successivo alla seconda guerra mondiale, un lungo periodo di crescita dell’economia reale, reso possibile dalla generalizzazione del modo di produzione industriale e dal suo ampliamento verso nuovi settori come la produzione dell’automobile. Per la produzione di massa degli anni ‘50 e ‘60 erano necessarie grosse quantità di forza lavoro, che da essa traevano il proprio salario che a sua volta permetteva loro di fruire della massa delle merci. Da allora l’ampia e diffusa razionalizzazione dei settori chiave della produzione per il mercato mondiale, che ha sempre più sostituito la forza lavoro con processi automatizzati, ha distrutto questo meccanismo e con esso i presupposti per un nuovo boom economico sorretto dall’economia reale. La crisi capitalistica classica è stata soppiantata dalla fondamentale crisi del lavoro.
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Dalla fabbrica degli oggetti alla fabbrica delle parole
di Marcello Cini
Facendo riferimento alle considerazioni sull'origine del profitto nel processo di accumulazione del capitale da me esposte in un precedente articolo su Liberazione, è intervenuta, sul manifesto, Rossana Rossanda. Con molta simpatia e stima osserva tuttavia che, "insistendo sul ‘luogo' di accumulazione del capitale e negando con buone ragioni che essa avvenga ormai soprattutto sul tempo di lavoro. [io scorderei] che non è sul dilemma di dove si formi, ma sulla mercificazione della forza lavoro, la sua spersonalizzazione e riduzione a cosa, che è cresciuta la rivolta del proletariato industriale".
Non mi pare tuttavia che questa sia la differenza fra i nostri punti di vista. Anzi è proprio dalla certezza che la "mercificazione della forza lavoro - come dice la stessa Rossanda - si è estesa... sull'insieme della produzione materiale e immateriale, su gran parte della riproduzione e sul complesso dei rapporti umani", che parte il mio tentativo di contribuire a dar vita a una sinistra "senza aggettivi" come nuovo soggetto politico. Il punto essenziale è tuttavia per me distinguere fra produzione di merce materiale e produzione di merce immateriale, perché è fondamentalmente diverso nei due casi il meccanismo di accumulazione del capitale attraverso lo sfruttamento della forza-lavoro.
Il lavoro, nella fase della produzione delle merci materiali nelle fabbriche capitalistiche del XX secolo, è infatti oggettivo, parcellizzato, quantitativamente misurabile come somma dei tempi di atti elementari successivi prestabiliti, compiuti dall'operaio tipo, indifferenziato, impersonato dallo Charlot di Tempi Moderni. Questa forma specifica del lavoro in questa fase del capitalismo spiega perché la mitica "classe operaia" del Novecento non è stata un'invenzione ideologica, ma un soggetto sociale reale concreto, creato e tenuto insieme dalla presa di coscienza dei singoli operai che soltanto per mezzo suo avrebbero potuto contrastare, in nome di tutti, gli interessi e i poteri del capitale, di fronte al quale ognuno di loro era soltanto un erogatore di lavoro astratto, inesistente come persona dotata di proprietà e di capacità individuali.
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Complessità, globalità e ignoranza
Fondamenti epistemologici della conoscenza ecologica
di Nanni Salio*
Controversie, conflitti ambientali, tecnoscienza
La tecnoscienza è diventata una delle fonti principali di controversie e di conflitti (Daniel Sarewitz: How science makes environmental controversies worse, www.cspo.org/ourlibrary/documents/environ_controv.pdf). Si osserva, da tempo, che su problemi sufficientemente complessi, scienziati, tecnici ed esperti sono sempre in disaccordo tra loro.
Le controversie scientifiche si trasformano in conflitti sociali quando si passa dal campo della ricerca a quello dell’applicazione, che coinvolge la cittadinanza nel processo decisionale.
Pur essendo sempre esistiti, a partire dagli anni ’70 i conflitti ambientali sono diventati particolarmente frequenti sia nei paesi ricchi, ad alta industrializzazione, sia in quelli poveri, ancora prevalentemente agricoli (si veda: Joan Martin Alier, The Environementalism of the Poor, Edward Elgar, Cheltenham 2002. In rete è disponibile la traduzione dell’interessante Introduzione, con il titolo: L’ambientalismo dei poveri. Conflitti ambientali e linguaggi di valutazione, www.ecologiapolitica.it/web2/200401/articoli/Alier.pdf). Nel primo caso, può succedere che i conflitti degenerino in episodi di violenza su scala locale, solitamente di intensità relativamente contenuta. Nel secondo, essi si trasformano sovente in veri e propri conflitti armati o addirittura in guerre, tanto che si parla correntemente di “guerre per l’acqua” (Vandana Shiva, Le guerre dell’acqua, Feltrinelli, Milano 2003), “guerre per il petrolio” (Ugo Bardi, La fine del petrolio, Editori Riuniti, Roma 2003; Benito Li Vigni, Le guerre del petrolio, Editori Riuniti, Roma 2004; Michael Klare, Blood and Oil, Metropolitan Books 2004) e più in generale “guerre per le risorse” (Michael Klare, Resource Wars, Owl Books 2002; dello stesso autore: Is Energo-Fascism in Your Future? The Global Energy Race and Its Consequences (Part 1), www.truthout.org_2006/011507H.shtml; “Petro-Power and the Nuclear Renaissance: Two Faces of an Emerging Energo-Fascism” (Part 2), www.truthout.org/docs_2006/printer_o11707G.shtml dei quali esiste una traduzione parziale con il titolo “Potere nero”, in Internazionale, n. 679, 9/15 febbraio 2007, pp. 22-27).
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Il crollo finanziario: non avete ancora visto nulla
di Mike Whitney
“I problemi che abbiamo oggi non saranno mai risolti dalla stessa cultura che li ha creati” – Albert Einstein
Obama non ha ancora prestato giuramento e già le ragazze pon-pon di Wall Street stanno festeggiando il suo primo grande trionfo. Secondo gli esperti, venerdì il mercato azionario si è esibito in un recupero di 494 punti perché – state a sentire – è stato annunciato che Timothy Geithner sarebbe stato nominato Segretario al Tesoro di Obama.
Che assurdità. L’improvviso cambiamento di rotta nelle azioni aveva più a che vedere con la chiusura dello scoperto che altro, ma è meglio non mettersi d’intralcio in una bella notizia. Ad ogni modo, l’impennata dell’ultimo minuto alla Borsa di New York non è riuscita a fermare un’altra settimana di bagni di sangue che è terminata con la caduta degli indici Dow Jones e S&P 500 di un altro 5 per cento. Ciò non significa che Geithner non sia un ragazzo sveglio e con del talento. Lo è davvero e lo è anche la sua controparte alla Casa Bianca, Lawrence Summers. Ma il battage mediatico è decisamente eccessivo. Geithner non trascina i mercati e non rappresenta “il cambiamento in cui potete credere”. In effetti, è un protetto di Henry Kissinger, un membro del Council on Foreign Relations e ha lo stesso lignaggio politico del suo predecessore, Henry Paulson. Fanno entrambi parte della confraternita dominante e le loro visioni del mondo sono pressoché identiche. Non c’è dubbio che Geithner sarà più competente ed efficiente di Paulson ma, di nuovo, chi non lo sarebbe stato? Paulson potrebbe essere il più grande fallimento al Tesoro da quando Andrew Mellon aveva fatto naufragare il paese durante la Grande Depressione. Il recente nervosismo sul Programma di Aiuto per i Beni in Difficoltà (TARP) ne è stato la dimostrazione.
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Diritti universali (anzi, occidentali)
di Danilo Zolo
La Dichiarazione universale dei diritti umani, approvata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948, viene considerata in Occidente come uno dei principali indicatori del progresso storico dell'umanità. È con questo significato che nei prossimi giorni verrà celebrata la sua ricorrenza sessantennale. Secondo numerosi autori, la Dichiarazione universale ha un grande merito sul piano etico, giuridico e politico: ha "fondato" i diritti umani e li ha resi "universali". La Dichiarazione del 1948 - si sostiene - ha mostrato che un sistema di valori può essere "fondato", e quindi universalmente riconosciuto, sulla base di un accordo internazionale sulla sua validità. Non è necessario alcun altro "fondamento".
Non ci sono dubbi che la Dichiarazione universale dell'Assemblea Generale ha profondamente trasformato la dottrina dei diritti umani. I diritti non sono più concepiti come un complesso di rivendicazioni sociali riconosciute e protette all'interno di un singolo Stato: essi coinvolgono e impegnano tutti gli Stati e tutti i popoli del pianeta. Sono parte del diritto internazionale generale.
Prima della fondazione delle Nazioni Unite i diritti erano concepiti come l'esito di lotte sociali e politiche all'interno di specifici ambiti storici e territoriali. Ed erano garantiti dalla permanente militanza dei cittadini coinvolti nelle rivendicazioni e nelle battaglie politiche secondo una concezione conflittualistica dei diritti, in larga parte ereditata dalle rivoluzioni borghesi, dal socialismo e dal sindacalismo.
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Senza uguaglianza la democrazia è un regime
di Gustavo Zagrebelsky
Riproduciamo qui un magnifico articolo del grande giurista Gustavo Zagrebelsky, ex presidente della Corte Costituzionale, pubblicato su «la Repubblica» del 26 novembre 2008. Pur lasciando del tutto inalterato questo testo di chiarezza esemplare, lo abbiamo collegato a un percorso di approfondimento con numerosi link. La bella riflessione di Zagrebelsky sulla «Costituzione in bilico» merita la massima attenzione dei lettori.
Poiché tra i cinque punti del documento d’intenti del progetto televisivo Pandoratroviamo la «difesa della Costituzione e della legalità democratica» e la «difesa dei diritti sociali e civili dei cittadini», la combinazione Costituzione-Uguaglianza esplicitata da Zagrebelsky ci appare il tasto più importante del nostro telecomando.
Regime o non-regime? Un confronto su questo dilemma, pur così tanto determinante rispetto al dovere morale che tutti riguarda, ora come sempre, qui come ovunque, di prendere posizione circa la conduzione politica del paese di cui si è cittadini, non è neppure incominciato. La ragione sta, probabilmente, in un’associazione di idee. Se il "regime", inevitabilmente, è quello del ventennio fascista, allora la domanda se in Italia c’è un regime significa se c’è "il" o "un" fascismo; oppure, più in generale, se c'è qualcosa che gli assomigli in autoritarismo, arbitrio, provincialismo, demagogia, manipolazione del consenso, intolleranza, violenza, ecc.
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Sovvenzionare l'auto? No, grazie
Guido Viale
L'automobile ha dominato l'evoluzione economica, sociale, ambientale e culturale del secolo scorso: paesaggi ormai tutti segnati da viadotti, svincoli, nastri di asfalto, stazioni di servizio; vita urbana che trascorre in mezzo a ingorghi e tempi morti e solitudine imposti dal traffico; aria infestata dai miasmi degli scappamenti e dal rombo dei motori e il frastuono dei clacson; salute minata dall'inquinamento e dagli incidenti stradali; bilanci comunali prosciugati dalla gestione di circolazione e servizi di trasporto pubblico imprigionati da auto in sosta e in movimento; bilanci familiari divorati dalla spesa per mantenere una, due, o tre auto. L'auto è penetrata fin dentro l'immaginario individuale e collettivo e continua a essere l'oggetto dei desideri di chi già ce l'ha, di chi non l'ha ancora e di chi non la potrà mai avere; dal primo al quarto mondo. Perché realizza un sogno antico come il mondo: non essere più fante ma cavaliere.
Ma l'automobile ha improntato anche l'organizzazione del lavoro del secolo scorso (non a caso è stata chiamata fordismo) e tutte le strutture sociali e politiche che il fordismo ha prodotto direttamente o reso possibili indirettamente: dequalificazione e parcellizzazione del lavoro; separazione tra esecuzione, direzione e controllo; piena occupazione e alti salari (o quasi) e consumi di massa; welfare state e dilatazione della spesa pubblica. E poi, ipertrofia dei settori a monte della sua produzione: siderurgia, meccanica, elettronica, gomma, ecc.; di quelli impegnati a farla circolare: costruzioni, riparazioni, marketing; e dell'industria del petrolio: prospezioni, estrazione, navigazione e cantieri navali, raffinazione, ecc.. Per tutte queste connessioni l'automobile rischia di essere la palla al piede della irrinunciabile transizione a un mondo che dovrà fare a meno dei combustibili fossili.
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Lo Stato della Globalizzazione
Benedetto Vecchi intervista Saskia Sassen
Un'intervista con Saskia Sassen, in Italia su invito de Il Mulino e alla vigilia dell'uscita del suo ultimo libro «Territori, autorità, diritti». Il mutamento dello stato nazionale e l'emergere di una terra di nessuno «né globale né locale» dove si sviluppa l'azione dei movimenti sociali
Un testo ambizioso quello di Saskia Sassen su Territorio, autorità, diritti tradotto da Bruno Mondadori (pp. 596, euro 42. Quando il libro uscì negli Stati Uniti ne scrisse Sandro mezzadra il 3 Febbraio 2007). Ambizioso perché l'autrice si pone due obiettivi: da una parte spiegare la formazione dello stato moderno; dall'altra cercare di definire i contorni e le forze operanti in quel processo che vede lo stato-nazione essere uno dei maggiori protagonisti della globalizzazione, all'interno però di un paradosso: rimanere un protagonista rinunciando ad alcuni aspetti della sovranità nazionale. Per la studiosa di origine olandese vanno quindi respinte le tesi che annunciano la prossima e irreversibile scomparsa dello stato nazionale, ma allo stesso tempo muove forti critiche verso le posizioni che considerano lo stato-nazione l'ultima trincea per respingere l'attacco del capitalismo neoliberista, salvaguardando così le specificità economiche, sociali e politiche «locali», che comprendono gli istituti del welfare state. Né crede, come afferma in questa intervista, che l'attuale crisi economica favorisca una brusca frenata alla globalizzazione. Anzi, considera i provvedimenti presi dai vari governi nazionali, dagli Stati Uniti all'Inghilterra, dalla Germania all'Italia, propedeutici al mantenimento dello status quo, accelerando tuttavia quelle forme di coordinamento sovranazionale che individuano nei governi nazionali lo strumento per applicare localmente decisioni prese a livello globale.
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La globalizzazione? scientificamente infondata e concretamente perversa
Vittorangelo Orati
Esaminiamo i fatti che segnalano il rallentamento della vis capitalistica in termini di performance del ritmo di crescita.
Il primo fenomeno che si impone per la sua rilevanza è quello della progressiva “finanziarizzazione” del tardo capitalismo globalizzato. In termini generali per “finanziarizzazione” deve intendersi la tendenza immanente al capitalismo di ottenere profitto attraverso la riduzione quanto più possibile sino a saltarla, della fase della produzione, della creazione di valore (in realtà plusvalore) o valorizzazione del capitale. Marx la ebbe già ad individuare nella sua vivisezione del concetto di “valore di scambio” in quanto contrapposto al “valore d’uso” di una “merce”. Valore d’uso già in germe metabolizzato dalla logica del capitalismo come incidente necessario per ottenere il massimo profitto.
l teatro ove il fenomeno della finanziarizzazione trova la sua sede elettiva è la Borsa (contro cui si sono schierati i più conseguenti liberali ancorché agli estremi opposti della corrente “interventista” (Keynes) e “antinterventista” (Einaudi), la cui logica essenziale di “circo Massimo” della speculazione, rivelò a Marx il memento mori della carica progressiva del capitalismo nel senso visto.
Propagandato come il più efficiente dei mercati, la Borsa, in cui si acquistano e vendono capitali in forma meramente cartacea, che dovrebbe permettere l’afflusso di risparmio alle imprese direttamente dai risparmiatori senza la mediazione o intermediazione del sistema bancario, è in realtà il più grande Casinò del mondo dove si scommette (al rialzo o al ribasso) sulle sorti delle aziende. Di più, ove si scommette a spirale sugli esiti di tutte le scommesse che si succedono nel tempo futuro (“derivati”). La propaganda a questo punto dice che le “scommesse” fanno da sfigmomanometro della salute economica (produttiva) delle aziende, rappresentata dai loro “titoli” (azioni e/o obbligazioni) in Borsa. La realtà, dice da sempre, che le performance economico-produttiva è il solo giudice di ultima istanza di un fenomeno che nelle sue sublimazioni cartacee in Borsa si alimenta per gran parte di se stesso. Come ebbe a dire Keynes che accumulò una fortuna in proposito, in Borsa non vince chi prevede con sufficiente approssimazione l’andamento reale delle performances economiche delle società quotate, bensì chi indovina l’orientamento della maggioranza dei “giocatori”, che è quello che determina il corso dei titoli, corso mosso, in poche parole, dall’obiettivo di massimizzare la differenza di prezzo tra ciò che si è acquistato e ciò che si vende!
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La grande depressione del XXI secolo: il crollo dell'economia reale
di Michel Chossudovsky
La crisi finanziaria si sta aggravando, con il rischio di scompaginare seriamente il sistema dei pagamenti internazionali. Questa crisi è molto più grave della Grande Depressione. Ne sono interessati tutti i principali settori dell’economia globale. Le ultime voci riferiscono che il sistema delle Lettere di Credito e del trasporto internazionale, che costituiscono la linfa del sistema commerciale internazionale, sono potenzialmente a rischio.
Il “salvataggio” bancario proposto nel cosiddetto Programma di Aiuto dei Beni in Difficoltà (TARP) non è una “soluzione” alla crisi ma la “causa” di un ulteriore crollo.
Il “salvataggio” contribuisce ad un ulteriore processo di destabilizzazione dell’architettura finanziaria. Trasferisce grandi quantità di denaro pubblico, a spese del contribuente, nelle mani di finanzieri privati. Porta ad un aumento vertiginoso del debito pubblico e ad una centralizzazione senza precedenti del potere bancario. Inoltre, il denaro del salvataggio è utilizzato dai giganti finanziari per mettere al riparo le acquisizioni societarie sia nel settore finanziario che nell’economia reale.
A turno, questa concentrazione senza precedenti di potere finanziario conduce al fallimento interi settori industriali e dell’economia dei servizi, portando al licenziamento di decine di migliaia di lavoratori. Le alte sfere di Wall Street sovrastano l’economia reale. L’accumulo di grandi patrimoni di denaro da parte di una manciata di conglomerati di Wall Street e dei loro hedge fund associati viene reinvestito nell’acquisizione di beni reali. La ricchezza di carta viene trasformata nella proprietà e nel controllo dei beni produttivi reali, tra cui l’industria, i servizi, le risorse naturali, le infrastrutture e via dicendo.
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Finale di partita
La moneta fittizia che consuma la fiducia
Luigi Cavallaro
La crisi che ha colpito il capitalismo non è dovuta a una superfetazione della finanza rispetto l'economia reale. La sua genesi va infatti cercata nel ruolo del credito nel funzionamento stesso del sistema capitalistico. Un sentiero di lettura a partire dal crack delle borse
«Questa contraddizione erompe in quel momento delle crisi di produzione e delle crisi commerciali che si chiama crisi monetaria. Essa avviene soltanto dove si sono sviluppati pienamente il processo a catena continua dei pagamenti e un sistema artificiale per la loro compensazione. Quando si verificano crisi generali di questo meccanismo, quale che sia l'origine di esse, il denaro si cambia improvvisamente e senza transizioni: da figura solo ideale di moneta di conto, eccolo denaro contante. Non è più sostituibile con merci profane. Il borghese aveva appena finito di dichiarare, con la presunzione illuministica derivata dall'ebbrezza della prosperità, che il denaro è vuota illusione. Solo la merce è denaro. E ora sul mercato mondiale rintrona il grido: "Solo il denaro è merce!". Come il cervo mugghia in cerca d'acqua corrente, così la sua anima invoca denaro, l'unica ricchezza».
Sostituite alla generica «merce» la parola «derivato» (o magari, se siete esterofili, termini come bond o collateralized debt obligation) e in questo passo del Capitale di Karl Marx avrete una rappresentazione fedele della crisi attuale. Una crisi nient'affatto semplice e che, nonostante tutti si sforzino di non accostare al famigerato 1929, rischia preoccupantemente di assomigliargli, soprattutto per il radicale fraintendimento della sua natura.
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Recensione a Lo Stato dei diritti di Luigi Cavallaro
Luigi Cavallaro, Lo Stato dei diritti. Politica economica e rivoluzione passiva in occidente, prefazione di Giorgio Lunghini, Napoli, Vivarium, 2005, pp. 280, € 32,00. Isbn: 88-85239-92-7.
Fin dal 1859 Marx caratterizzò la società nella quale predomina il modo di produzione capitalistico come una “enorme raccolta di merci”, e la merce singola quale forma nella quale, in tale società, si presenta il prodotto del lavoro. Il concetto di merce all’interno della sistematica marxiana ha un significato fondamentale, dal quale attraverso l’iniziale opposizione di cui essa è sinolo, – valore d’uso e valore – si sviluppa l’intero sistema della critica dell’economia politica.
Proprio prendendo le mosse dalla forma semplice assunta dal prodotto del lavoro, Cavallaro argomenta la necessità di pensare la forma di società, quale si è costituita nei paesi occidentali dal secondo dopoguerra fino verso la fine degli anni settanta, come una società nella quale hanno convissuto conflittualmente due differenti modi di produzione, quello capitalistico della produzione di merci e quello statuale della produzione di diritti.
L’idea forte che sottende tutto il libro è quella
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Le tesi di Bertinotti
Rossana Rossanda
Le tesi che Bertinotti ha presentato in questi giorni (cfr. Matteo Bartocci sul manifesto del 13/11) tentano di superare la collisione tra le due anime di Rifondazione comunista. Lo scoglio su cui urtano non è soltanto loro. E' un punto diventato problematico per tutte le sinistre, moderate o radicali, negli anni '70 e '80, e precipitato con la caduta del muro di Berlino: l'implosione del «socialismo reale» non rende obsoleto il paradigma marxiano della lotta di classe?
Esso aveva sorretto tutto il movimento operaio e pareva confermato dalla rivoluzione del 1917. L'implosione dell'Urss e il capitalismo divenuto sistema unico mondiale davano per finito anche il conflitto sociale. Fine è parola gravida di emozioni. Non alludeva a una attuale impossibilità, ma alla verificata insostenibilità di un errore del concetto stesso che aveva innervato la lotta politica in Europa per oltre cento anni.
«Fine della storia» proclamava Francis Fukujama negli Stati Uniti, «Fine di un'illusione» scriveva Francois Furet in Europa, fine del Novecento hanno scritto in molti, e non solo come del «secolo breve» ma come venir meno delle idee che lo avevano retto, prima di tutte l'affermazione marxiana secondo la quale la libertà politica di ogni cittadino non è possibile finché ne restano disuguali le condizioni. Al contrario, non pochi si sono spostati a sostenere che la libertà di impresa, luogo di condizioni disuguali per definizione, sarebbe la sola garanzia di tutte le libertà.
Non sarà mai sottolineata abbastanza l'influenza che questa ottica, in forme più o meno sottili, ha esercitato su tutte le sinistre. Tanto più che la messa in dubbio del conflitto di classe si dava mentre emergeva la percezione di altri conflitti, due dei quali innovativi: il femminismo, che andava oltre l'emancipazione e l'ecologia come scoperta della devastazione del pianeta ad opera dello sviluppo industriale.
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La sinistra secondo Massimo D’Alema
O è subalterna al riformismo o è inutile
di Dino Greco
In un’intervista a Piero Sansonetti del 30 luglio scorso, Massimo D’Alema, impegnato a contrastare la solipsistica (e autolesionistica) presunzione con cui Walter Veltroni aveva reciso ogni rapporto alla sinistra del PD, svolgeva il seguente ragionamento. Il PD è l’erede del più fecondo patrimonio politico e culturale del PCI: il riformismo. Il PRC, soprattutto quello uscito da Chianciano, rappresenterebbe invece la vocazione minoritaria, la fuga nell’estremismo protestatario, sterile di politica, unito all’arroccamento identitario, figlio di un’altra storia che, in ogni caso, del più grande partito comunista dell’occidente fu la parte più caduca.
Al contrario, D’Alema è propenso a concedere una chance al PRC purchè esso sia disposto ad interpretare il ruolo di una sinistra “compatibile”, enzima edulcorato, stimolo di un centrosinistra rigorosamente imperniato sul PD, utile soltanto in quanto necessario ad evitare che quest’ultimo sia ricacciato nel ruolo duraturo di una strutturale opposizione. Insomma, un PRC visto tutt’al più come contrappeso alle pulsioni più moderate che albergano nel partito di Veltroni. Ma niente di più.
La sinistra, per D’Alema, o è subalterna ad un disegno riformista o non serve a niente.
Ora, alla disinvoltura con cui D’Alema avoca a sé la migliore tradizione comunista si dovrebbe rispondere che non c’è identitarismo più sterile e malato di quello che si nasconde dietro il termine “riformismo”, artifizio letterario verso il nulla, scorciatoia verso la più indeterminata delle formule: la modernità, vero equivoco ideologico. O, per meglio dire, espressione della sudditanza ad un pensiero e ad una pratica politica essi sì ossificati, perché interamente racchiusi nella realtà data, assunta come immutabile nelle sue strutture portanti. Un pensiero di risulta, parassitario, rinunciatario, capace solo di mitigare, correggere, blandire lo stato di cose presente: è il “menopeggismo”, fatalmente nemico non solo del comunismo, nel senso marxiano del termine, bandito dalle categorie dalemiane come un’aporia, ma refrattario ad ogni ipotesi di radicale trasformazione.
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Un paese innamorato del feudalesimo
Considerazioni sulla stabilizzazione monetaria 1992-2008
Pasquale Cicalese*
In memoria di Sbancor
(...) L’intrinseca fragilità dell’equilibrio raggiunto dovrebbe suggerire l’accelerazione dei processi di privatizzazione, il conseguimento di un surplus primario più elevato, il completamento della riforma previdenziale e vincoli di spesa efficaci per le Regioni e gli enti locali. (...) Bisogna recuperare e consolidare i risultati del risanamento (...) stabilizzando il surplus primario a livelli compatibili con una riduzione adeguata del rapporto debito-PIL (...). Ciò comporta fare minore affidamento per la crescita sulla domanda interna. Vincenzo Visco
Think you’ve had enough- Stop talking, help us get ready Think you’ve had enough- Big business, after the shakeup David Byrne, Big Business
1. Sinistri manovratori
Tutto scritto, roba arci-nota, pubblicata nel 2004. Passano due anni. Siamo nella primavera del 2006, o forse nel 1926. Prodi è nuovamente al Governo con una maggioranza risicatissima. Dopo cinque anni di disastri del centro-destra, il centrosinistra non riesce nemmeno ad ottenere una maggioranza solida. Formato il Governo, ritornano l’ossessione deflazionista, le compatibilità con la Commissione Europea e la Banca Centrale Europea, le due istituzioni più antidemocratiche che ci siano nell’eurozona, baluardi dell’imperialismo tedesco. Dopo il banchiere centrale Ciampi, principale responsabile, con Prodi, Amato e Dini, dei disastri economici degli anni ’90, viene nominato al Ministero dell’Economia il bocconiano banchiere centrale Padoa Schioppa. Questi lancia subito l’allarme; i conti pubblici presentano una fortissima criticità, e informa gli italiani che siamo nell’emergenza come nel 1992. A giugno si fa la ricognizione dei conti pubblici con la Commissione Faini. Dopo qualche settimana arriva il verdetto: il deficit/pil nel 2006 è stimato al 4,1%, escludendo una serie di spese non conteggiate. Nello stesso periodo la Corte di Giustizia europea sentenzia che l’iva sulle auto aziendali deve essere detratta, una pillola avvelenata del precedente ministero Tremonti; la spesa prevista è di circa 16,4 miliardi di euro, una batosta.
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Perché Abbiamo la Testa Piena di Elefanti, Padri Severi ed altri Fantasmi
Un esercizio di logica dell’argomentazione
di Girolamo De Michele
Trascrizione della lezione aperta tenuta a Ferrara, Piazzetta Municipale, 11 novembre 2008, ore 17.00
1. George Lakoff in nuce, ovvero: perché non è possibile non pensare all’elefante fucsia (e neanche a Maurizio Gasparri).
Prima di cominciare, vorrei chiederVi di sottoporvi a un breve esperimento mentale. Qui davanti a me c’è una sedia vuota: vi chiedo di non pensare, per 15 secondi, che a questa sedia siano seduti un elefante fucsia e Maurizio Gasparri. Potete pensare a qualsiasi altra cosa, ma non all’elefante e a Gasparri.
[seguono 15 secondi di silenzio]
Fatto? Bene: vedo dalle vostre facce che non ci siete riusciti. Non per mancanza di volontà: non era possibile che ci riusciste.
La prima parte di questa lezione è la spiegazione del perché. Per brevità farò affermazioni apodittiche, di cui mi scuso: in prossime occasioni [o utilizzando la bibliografia in appendice, n.d.a.] potremmo forse approfondire questi argomenti.
Quando parliamo, i nostri linguaggi riflettono la nostra visione del mondo. Questa visione si concretizza in insiemi concettuali, o frame, che veicolano una metafora: usare un linguaggio che riflette la propria visione del mondo è ciò che George Lakoff chiama framing. Queste metafore si radicano nel profondo della nostra mente, ed hanno la caratteristica di rimanervi anche quando i contenuti che veicolano sono andati via. Lakoff sostiene che il radicamento è addirittura sinaptico: possiamo dubitarne, ma non è poi necessario arrivare a questo livello neuro-linguistico per accettare il fatto che le metafore restano anche quando i contenuti sono andati via. Come l’immagine dei due animali che vi ho messo davanti agli occhi, e che non andava via anche quando voi cercavate di non pensarci.
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Per la critica della democrazia politica
di Mario Tronti
Avete fatto molto bene ad assumere il tema della democrazia attraverso una riflessione lunga, attraversandolo dal punto di vista teorico e attraverso gli autori che lo hanno approfondito. E concordo anche sulla preoccupazione che c’è nell’assumere questo tema attraverso una formula così decisa: per la critica della democrazia. Avete detto senza aggettivi. In realtà se dovessimo comporre tutta la definizione dovremmo dire: per la critica della democrazia politica. Che non è una aggiunta come le altre, ma è la specificazione del tema. E io la assumo in assonanza ad un’altra formula che è molto attinente a questa, molto simile, possiamo dire quella originaria. Voglio insistere sulla critica, che è poi la mossa marxiana che ha assunto l’atteggiamento alternativo e antagonistico verso la società capitalistica. L’assonanza è appunto per la critica dell’economia politica. Dirò poi del nesso che vi è tra democrazia ed economia, di come sia cresciuto e si sia sviluppato fino ad una sorta di scambio e nello stesso tempo di identificazione tra le due dimensioni.
Dire critica non è solo l’assunzione della formula, ma anche del metodo. Perché quando Marx diceva per la critica dell’economia politica, come sappiamo, assumeva tutta la tradizione teorica dell’economia politica, quando attraversava e faceva il grande lavoro anche di lettura dei testi degli economisti classici. Questo in un doppio senso: faceva sì critica di quell’elaborazione, ma assumendo poi contemporaneamente la sostanza del discorso. Per la critica dell’economia politica per lui voleva dire formulare la struttura della sua opera maggiore, Il capitale, nonché di tutti gli studi che lo precedevano, che usciranno come Grundrisse. C’era questo doppio livello: impegnarsi in qualcosa che deriva da una lunga storia moderna significa criticarla e assumerla come propria.
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La rivolta del lavoro cognitivo
Marco Bascetta
Forse i media non se ne sono ancora resi conto fino in fondo. Sicuramente il governo, l'opposizione parlamentare e perfino i sindacati sono ben lontani dal percepire quale sia la reale portata di questo movimento. Basterebbe ascoltare, in una qualsiasi delle sue articolazioni, l'assemblea nazionale degli studenti ancora in corso all' Università di Roma per capire che si tratta di una rivolta generale del lavoro cognitivo contro i dispositivi di sfruttamento subiti nei due decenni trascorsi. Contro quella condizione di frammentazione e ricattabilità imposta dall'ideologia e dalla pratica coatta del «capitale umano». Contro quell'idea gerarchica, piramidale, anacronistica della produzione e trasmissione del sapere che l'abusato termine di «meritocrazia» contiene già nella sua etimologia. Sono, quelle che abbiamo sentito riecheggiare nelle aule della Sapienza, le rivendicazioni e il programma di un soggetto che si sente pienamente forza produttiva e non, come lo si vorrebbe, una clientela chiamata all'acquisto della merce formazione. Si chiedono reddito, risorse, potere di decidere
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Politica economica europea
Le riforme necessarie contro crisi finanziaria e recessione
di Ferdinando Targetti
Introduzione
In presenza di libertà di movimenti di capitali i problemi di stabilità finanziaria e di equilibrio macroeconomico mondiale, non possono essere risolti a livello nazionale. A fronte di mercati internazionalizzati il semplice coordinamento è insufficiente, bisogna passare ad un livello di governo sovranazionale.
Questo è oltremodo difficile da conseguire a livello mondo e attribuire ad un organismo mondiale un ruolo di regolatore con poteri amministrativi è irrealistico, così come è irrealistico pensare ad un Tesoro mondiale, anche se c’è molto da fare sul piano di riforma del Fmi e di rafforzamento delle sue capacità di sorveglianza sulla stabilità dei mercati finanziari e sul superamento degli squilibri macroeconomici globali. Tuttavia un passo avanti verso un più corretto processo di governance dell’economia globale può essere realizzato da noi europei.
Finora la politica economica dell’Europa si era limitata alla indipendenza della Bce, al Patto di stabilità e all’uso del bilancio pubblico prevalentemente per la politica agricola comune. Tutto questo è largamente insufficiente sia per finalità di crescita, sia per finalità anticrisi. La risposta europea alla globalizzazione dei mercati e alla crisi finanziaria deve articolarsi in una serie di riforme economiche che si affiancano a quelle politiche e che richiedono, entrambe, la disponibilità a consentire da parte degli Stati nazionali deleghe di sovranità indispensabili per tradurre in pratica obiettivi che appaiono condivisi.
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Prime note per la riflessione dell'Onda
di Franco Piperno
Un’altra università non vuol dire l’università del futuro
1. L’Onda sta mutando la sua fase
Con la massiccia concentrazione del 14 novembre su Roma, si compie un ciclo del movimento, il primo. Tutto era cominciato con un decreto romano, illiberale e statalista che, trattando la formazione come un costo piuttosto che un investimento, tagliava drasticamente la spesa pubblica per scuola e università. Il 14 novembre è così la risonanza sociale provocata da quel decreto.
Ma tanto la pluralità quanto i numeri coinvolti testimoniano, con tutta evidenza, che l’Onda ha già prodotto una eccedenza che è fuori misura rispetto al gesto che l’ha provocata.
In altri termini l’orizzonte parasindacale incentrato sulla questione dei tagli risulta ormai limitato, anzi asfittico; ed emergono forme di vita attiva che hanno compiuto l’esodo dalla temporalità moderna dove il futuro è vissuto nel modo dell’attesa (nuove riforme, nuovi governi, nuove scienze, nuove ricerche, nuovo mondo ecc.) e s’impegnano «a strappare la felicità al futuro» praticando qui e ora il terreno della critica alla divisione disciplinare del sapere: la prassi dell’autoformazione ovvero un’altra università, in grado di richiamarsi all’origine, all’autonomia e unità del sapere.
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La 133 viene ritirata? La vostra condizione non cambia
E’ questa condizione che dovete cambiare
di Sergio Bologna
Nello spirito del ’68 – senza nostalgie nè tormentoni (dopo un incontro all’Università di Siena, organizzato dal Centro ‘Franco Fortini’ nella Facoltà di Lettere occupata, il 6 novembre 2008)
State vivendo un’esperienza eccezionale, l’esperienza di una crisi economica che nemmeno i vostri genitori e forse nemmeno i vostri nonni hanno mai conosciuto. Un’esperienza dura, drammatica, dovete cercare di approfittarne, di cavarne insegnamenti che vi consentano di non restarvi schiacciati, travolti. Non avete chi ve ne può parlare con cognizione diretta, i vostri docenti stessi la crisi precedente, quella del 1929, l’hanno studiata sui libri, come si studia la storia della Rivoluzione Francese o della Prima Guerra Mondiale.
Ho letto che l’Ufficio di statistica del lavoro degli Stati Uniti prevede che nel 2009 un quarto dei lavoratori americani perderà il posto.
Qui da noi tira ancora un’aria da “tutto va ben, madama la marchesa”, si parla di recessione, sì, ma con un orizzonte temporale limitato, nel 2010 dovrebbe già andar meglio e la ripresa del prossimo ciclo iniziare. Spero che sia così, ma mi fido poco delle loro prognosi. (dopo un incontro all’Università di Siena, organizzato dal Centro ‘Franco Fortini’ nella Facoltà di Lettere occupata, il 6 novembre 2008).
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Il liberismo è una fantasia
di Riccardo Bellofiore
Dopo il fallimento di tutte le strategie messe in campo nell'ultimo decennio, oggi la sinistra, in specie in quella "comunista", ha bisogno di andare a fondo nell'analisi. Cosa non scontata né semplice, perché significa rimettere in discussione letture del capitalismo contemporaneo e dei rapporti di classe politicamente inefficaci, oltre che rozze e ripetitive in molti casi. E rimettersi in discussione fa paura, come evidenzia lo stato desolante della discussione politica dentro e fuori Rifondazione Comunista dopo le elezioni, in cui ci si divide sull'inessenziale e non si affrontano i nodi di fondo.
In un recente articolo (Liberazione, 29 ottobre 2008) Luigi Cavallaro utilizzando la visione del capitalismo di Hyman P. Minsky - un autore, scrive, "il cui nome si ode nuovamente in questi giorni" - ci mette in guardia da chi riduce la crisi recente a conseguenza di una euforia irrazionale e non della "furia liberalizzatrice" degli ultimi due decenni. Le citazioni di Minsky ormai sono una valanga. Dal marzo 2007 si è tornato a parlare dell'approssimarsi di un "momento Minsky", e poi del rischio di un "collasso Minsky" del capitalismo. Questo sorprendente interesse alla riflessione dell'economista statunitense è venuta da subito da opinionisti tanto neoliberisti quanto social-liberisti, e non solo da circoli eterodossi.
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La moneta di conto
Intervista a Massimo Amato e Luca Fantacci*
L’incredibile vicenda dei mutui subprime, alla cui origine c’è la rescissione di ogni rapporto tra debitore e creditore. Il paradosso di una finanza che non riesce a pensare il suo oggetto, la moneta. La proposta originale e “pacifista” di Keynes, rimasta inascoltata a Bretton Woods
La crisi che stiamo vivendo appare contemporaneamente molto profonda nei suoi effetti e poco chiara nelle sue origini, partiamo da qui?
Luca Fantacci. Questa crisi, che è nata in un settore circoscritto di un paese specifico e si è poi estesa anche ad altri settori e ad altri paesi, viene definita come “crisi di liquidità” o “crisi dei subprime”, dove il termine subprime si riferisce a strumenti finanziari nuovi, che miravano ad estendere l’accesso al credito a strati sempre più estesi, in particolare per consentire l’acquisto della prima casa. L’aspetto problematico della faccenda, quello che è poi esploso con la crisi, è stato il modo in cui questo credito è stato erogato. Possiamo, infatti, convenire che permettere di acquistare una casa a chi non l’ha e non se la può permettere sia un obiettivo sociale condivisibile, ma il problema è che questo accesso è stato consentito a credito anche a persone che non avevano nessuna possibilità di generare un reddito tale da ripagare quel credito. Le banche, infatti, erogavano un credito nella prospettiva che potesse essere remunerato e riscattato non a partire dal reddito del debitore, e quindi dal suo lavoro, ma dall’incremento del valore di mercato della casa.
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La psicologia degli uomini d'affari
Intervista a Giorgio Lunghini*
Una crisi, quella finanziaria, che parte da lontano, per poi arrivare alla new economy e alla fine, forse, ai mutui subprime. Una globalizzazione che doveva portare benefici per tutti e invece ha creato crescenti disuguaglianze. Una lezione, quella di Keynes, che è stata del tutto dimenticata.
Come si è arrivati a questa crisi?
E’ una storia abbastanza lunga. Molti pensano che si tratti di una bolla finanziaria esplosa con una crisi sui mercati azionari. In realtà credo che questa sia l’ultima, per il momento, fase di una crisi che aveva colpito gli Stati Uniti da molto tempo e che era stata rinviata grazie a provvedimenti sostanzialmente di Greenspan, allora governatore della Federal Reserve che era riuscito a spostare via via la crisi da un mercato all’altro.
Il contesto nel quale queste crisi nascono e hanno questo epilogo è naturalmente quello della globalizzazione. La globalizzazione era stata vista a lungo come un fenomeno positivo che avrebbe portato prevalentemente benefici e questi benefici avrebbero riguardato un po’ tutto il mondo. Così non è.
La cosa importante da mettere in luce è che la globalizzazione è stata a sua volta un tentativo di reagire e di contrastare crisi precedenti, come già era successo con la globalizzazione degli anni ’15-20, a cui seguì la crisi del ’29 e dei primi anni Trenta. La crisi alla quale questa globalizzazione ha cercato di reagire è la crisi del modello fordista, che a sua volta era stato una reazione -prima americana poi europea- alla crisi degli anni Trenta.
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