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Chi controlla i controllori?
di Pierluigi Fagan
Tema caldo, di recente lanciato e rilanciato, è la prossima catastrofe nell’ambito del lavoro determinata dall’erosione della funzione umana da parte delle macchine. La retorica tecno-futurista induce a pensare che l’intelligenza artificiale stia per replicare l’umano ma piuttosto che replicare le funzioni superiori sono invece quelle inferiori, il calcolo, la elaborazione dei dati, la sequenza lineare di if…than ad essere replicate e visto che le macchine non hanno disturbi emotivi o limiti biologici, le svolgeranno senz’altro meglio degli umani stessi. Potremmo allora dire che più che scoprire quanto intelligenti stanno diventando le macchine, stiamo verificando quanto ancora è stupida ed alienante la routine di molti lavori umani. Senz’altro però, questa componente routinaria ed esecutiva che compone ancora la totalità o grande parte o piccola parte di molti lavori, vedrà l’implacabile sostituzione dell’umano con l’informatico-meccanico. Sebbene inizialmente molti lavori non saranno cancellati ma progressivamente mixati tra umano e info-maccanico, alla fine il saldo netto sarà in termini di posti di lavoro. Quello che giustamente preoccupa è la stretta relazione tra l’enorme quantità di ore lavoro umane sostituibili, l’incentivo del profitto che deriva dalla comparazione tra costo del lavoro umano e costo del lavoro info-meccanico e il tempo estremamente breve in cui tutto ciò sta accadendo. Ulteriore preoccupazione, sembra che gli esperti del problema prevedano a breve una sorta di salto quantico delle performance dei robot e dei software[2], una di quelle rivoluzioni stile “periodo Cambriano”[3] per le quali, ricombinandosi i fattori, il risultato è di molti gradi superiore alla somma delle parti[4].
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Nessuno è perfetto nella società delle norme
“Il soggetto delle norme” di Pierre Macherey
di Marco Ambra
Che cosa significa essere un soggetto della società delle norme? Quali sono le strutture che definiscono il modo in cui si diventa soggetto? A questi interrogativi prova a rispondere l’ultimo libro tradotto in Italia del filosofo Pierre Macherey
Nella prima stagione di The Leftovers il protagonista della serie, Kevin Garvey, capo della polizia della sperduta cittadina americana di Mapleton, cerca disperatamente di mettere in scena la propria routine quotidiana, nello stesso modo in cui si svolgeva prima che un inspiegabile e inquietante evento, la sparizione nel nulla del 2% della popolazione mondiale, sconvolgesse la vita di tutti. Così, rapiti come lui dall’angosciante sparizione di massa, vediamo Kevin indossare gli indumenti da runner per estenuanti sessioni di corsa mattutina, oppure ancora assistiamo ai suoi maldestri tentativi di addomesticare un cane randagio o di fare una ramanzina alla figlia adolescente. In altre parole chief Garvey tenta un nostalgico e impossibile ritorno alla normalità che precede la catastrofe. Cosa lo spinge, in un mondo in cui il senso della vita umana è stato fatto a brandelli da un avvenimento incomprensibile, a rifugiarsi nella propria divisa da poliziotto? Perché, ritornando al nostro contemporaneo, i movimenti centripeti della modernità, distruttori di Templi e Leggi, hanno lasciato sulla scena un’imprevisto bisogno di servitù volontaria?
È a questa e ad altre domande che cerca di rispondere Il soggetto delle norme, testo piacevole – cosa rara per la filosofia politica – di Pierre Macheray, pubblicato da ombre corte per la cura di Girolamo De Michele, voce anche di una conversazione con l’autore riportata a chiusura del libro.
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Può accadere di nuovo?
Il campo di battaglia per una rivoluzione teorica in economia
di Antonella Palumbo
Per la nostra serie ‘Experts on Trial’, Antonella Palumbo sostiene la necessità di liberarsi di trite parole d’ordine ‘scientifiche’ che mascherano in realtà scelte sociali e politiche
Sul blog dell’Institute for New Economic Thinking l’economista italiana Antonella Palumbo strappa al neoliberismo – posizione teorica oggi dominante – l’abusata veste di unico metodo scientifico utilizzabile per l’analisi economica. Al contrario, questo quadro teorico, con la sua fede cieca nel mercato e l’orrore ideologico per ogni intervento dello Stato – è solo uno dei tanti possibili che si sono avvicendati nella storia ed è caratterizzato non da una presunta oggettività scientifica, ma da precise scelte politiche e sociali. Se oggi si mostra al capolinea, per gli evidenti disastri che ha provocato e l’incapacità di rispondere ai problemi più urgenti e gravi che affliggono la società, significa che è ora di trovare un nuovo quadro teorico, anche riprendendo idee del passato che possono servire come basi per un pensiero nuovo.
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Banche pubbliche: da utopia politica ad esigenza imprescindibile
di Fulvio W. Bellini
Lo scontro tra la Banca Centrale Europea e la Germania
Nel precedente articolo sulla Industrie 4.0 si sottolineava come la Germania stia realizzando una sua politica industriale, ne abbiamo visto obiettivi e metodologia. Ci siamo poi soffermati sulla declinazione italiana di una possibile Industrie 4.0, chiudendo l’articolo sulla crisi del Monte dei Paschi di Siena. In questo articolo analizzeremo infatti il ruolo imprescindibile che il sistema bancario debba svolgere nel quadro di una politica industriale in Italia.
Torniamo un attimo in Germania. Lo scorso anno abbiamo assistito varie volte allo scontro tra esponenti di primo piano dell’establishment tedesco (il ministro delle finanze Wolfgang Schaeuble, il governatore della Bundesbank Jens Weidmann) ed il governatore della Banca Centrale Europea Mario Draghi. Il motivo del contendere è stato sovente quello dei bassi tassi d’interesse che negli ultimi mesi si sono tradotti in tassi negativi sui depositi delle banche presso la BCE. Ovviamente i mass media hanno fatto il loro solito mestiere teso a non far comprendere nulla all’opinione pubblica: nessun approfondimento e nessuna obiettività, ma tifo da stadio per Shaeuble se fossero stati media tedeschi e per Draghi se fossero stati media italiani. Proviamo a mettere in ordine degli elementi oggettivi, e proviamo a darci una nostro punto di vista.
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La vittoria del No e le riforme di cui ci sarebbe davvero bisogno
di Francesco Pallante
La schiacciante vittoria del No al referendum costituzionale del 4 dicembre scorso dimostra, anzitutto, che negli ultimi decenni la classe politica si è data una priorità – la riforma della Costituzione – che non è sentita come tale dalla cittadinanza. Dopo il referendum del 2006, per la seconda volta in dieci anni il corpo elettorale ha largamente respinto un progetto di revisione, smentendo quanto gran parte degli esponenti politici hanno continuato a ripetere (ripetersi?) sulle riforme attese da trent’anni che questa volta non ci si può permettere di veder fallire. Evidentemente, lo smantellamento del sistema dei partiti ha reso i rappresentanti incapaci di percepire le reali priorità dei rappresentati. Solo così si può spiegare come Matteo Renzi abbia voluto cercare proprio sul terreno della revisione costituzionale la legittimazione elettorale che credeva gli mancasse e, soprattutto, come sia stato possibile che un partito che si dice di centrosinistra abbia inchiodato per mesi il Paese su un tema tanto avulso dalla gravissima crisi economica e sociale in atto.
L’analisi del voto non è semplice. Una lettura comune attribuisce la vittoria del No proprio al disagio sociale diffuso nel Paese. Il voto contrario alla riforma, in quest’ottica, sarebbe prevalso in quanto espressione dell’insoddisfazione per l’andamento generale delle cose.
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L’opportunità della crisi
di Sergio Bellucci
C’è un gigantesco spazio politico nuovo per la liberazione umana. Una opportunità che sembra oscurata dalla potenza della crisi, dalle minacce di guerra e che, invece, è lì, solo a osservare la realtà con occhi curiosi e un po’ ipermetropi.
Certo non lo si può mettere a fuoco nel sottile distinguo che divide, in maniera spesso poco comprensibile, la miriade di sigle che attraversano la galassia della politica. E non solo nel nostro paese. Destra e sinistra – che continuano ad esistere al di là della distribuzione degli eletti tra gli scranni dei parlamenti dell’Occidente – rispondono in maniera diversa alla trasformazione profonda che attraversa il mondo. Una crisi che è disvelamento dei limiti raggiunti dall’attuale modello di vita. Una struttura imposta all’umanità da processi economico-sociali che stanno mostrando tutti i loro limiti e infliggendo tutti i dolori possibili all’umanità intera, a tutta la sfera del vivente, all’ecosistema del pianeta.
C’è una politica che pensa sia possibile rimettere in sesto equilibri sociali o economici e che mai, in realtà, erano stati raggiunti o gradi di libertà indivi duali e collettivi mai realmente vissuti. Una politica che si affanna in quello che autodefinisco come “realismo”, “concretezza” ed è, in realtà, il più grande degli inganni e la più spettacolare delle illusioni.
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Una storia italiana
Dieci anni di Mps dall'acquisto di Antonveneta
di Luca Fantuzzi
Pare che - dopo qualche settimana di incomprensioni - finalmente la BCE abbia abbassato le proprie pretese su Montepaschi (ricapitalizzazione da 6 miliardi e mezzo invece che quasi 9) al fine di rendere l'intervento statale compatibile, secondo la visione della Commissione, con le norme sugli Aiuti di Stato. Siccome nulla è gratis, il minor apporto di risorse statali dovrebbe essere controbilanciato da una significativa riduzione degli attivi di Mps, riduzione che si traduce - ovviamente - anche nel ridimensionamento della rete e, dunque, del numero dei lavoratori.
I possibili esuberi sono stimati addirittura in 5.000.
Questa "cura dimagrante", tra l'altro, sarebbe funzionale alla successiva cessione del Monte dallo Stato ai privati (altro dogma della Commissione UE, soprattutto in caso di banche del Sud Europa), sia che del Monte si faccia uno spezzatino, sia che qualche grande player non ne acquisisca la totalità (cosa che, peraltro, a mio avviso, è assai poco probabile).
In ogni caso, cinquecento anni di storia di chiudono qui, dopo dieci anni di patimenti.
In Parlamento sono state presentate alcune proposte per la costituzione di una Commissione di inchiesta sul sistema bancario italiano in generale e su Mps in particolare. A mio avviso, c'è poco ancora da scoprire (a meno di non fra finta di non vedere).
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Le figure di Panzieri
Lettura di Sul primo numero di «Quaderni rossi» [Paesaggio con serpente, 1984]
di Filippo Grendene
L’esperienza dei Quaderni rossi rappresenta una tappa centrale nello sviluppo del movimento operaio italiano: i sei numeri, usciti fra 1961 e 1965, forniscono le basi per un’interpretazione rinnovata del panorama nazionale, mutato in seguito al picco di crescita degli ultimi anni Cinquanta e al conseguente ‘ammodernamento’ di apparato produttivo industriale e relazioni lavorative. L’analisi condotta dai Quaderni, ancorata soprattutto al piano teorico – la rilettura di Marx – e a una pratica – l’inchiesta operaia – rivestirà un’importanza centrale per tutto il ciclo di lotte che si apre nel 1962 con Piazza Statuto per chiudersi nel decennio successivo. In questo percorso Fortini assume un ruolo non secondario: attraverso il proprio intervento saggistico contribuisce ad aprire, assieme a coloro che intervengono sui «Quaderni» – «rossi» e, da un’altra prospettiva, «piacentini» – e sulle moltissime riviste nate nel corso degli anni Sessanta, uno spazio politico a sinistra del PCI, occupato da organizzazioni di vario stampo, orientamento, dimensione.
Raniero Panzieri, fondatore dei Quaderni rossi, muore nel 1964, all’età di 43 anni. Di formazione filosofica, intreccia per molti versi la propria esperienza intellettuale a quella di Franco Fortini, all’interno delle residue possibilità di movimento che, nel quinquennio 1956-1961, la posizione filosovietica del PCI e le aperture al centrosinistra del PSI lasciano agli intellettuali italiani:
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La scomparsa della sinistra in Europa
di Alessandro Visalli
Aldo Barba, Massimo Pivetti, “La scomparsa della sinistra in Europa”, Imprimatur, 2016
Qualche parola preliminare: il libro di Barba e Pivetti è di quelli che bisogna leggere. Nella sua bella recensione Sergio Cesaratto, un economista “eterodosso” sraffiano, lo chiama “di gran lunga la più importante provocazione intellettuale alla sinistra degli ultimi anni”, e sono d’accordo. Si può leggere insieme al lavoro di scavo profondo che compie Michéa, e di cui abbiamo appena cominciato a dire nella lettura di “I misteri della sinistra”. Ma anche il libro del 1986 di Paggi e d’Angelillo; altri esuli.
Una provocazione, dunque.
Un “pamphlet”, si sarebbe detto una volta, un genere letterario che tratta di un argomento di attualità (e quale più di questo), in modo ‘di parte’ e con intento polemico. Quindi con uno stile irriverente, espressione di una pulsione morale irresistibile davanti ad una situazione intollerabile; tale da far vedere l’acquiescenza, la pigrizia intellettuale e la cecità morale ed emotiva di chi, pur avendo per così dire ‘davanti agli occhi’ i fatti denunciati non se ne avvede. Elemento tipico del genere, e coerente nell’ambito dei suoi scopi, è anche l’invettiva personale. L’attacco condotto contro persone e posizioni, senza produrre in proposito accurate valutazioni di contesto, o scandagli dello sviluppo delle posizioni stesse, della loro articolazione, delle prove.
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Elezioni, perchè abbiamo sbagliato
Nuovi scenari
di Leonardo Mazzei
Ormai è quasi certo: salvo incidenti, non impossibili ma al momento improbabili, si voterà nel 2018. In diversi articoli, a partire dalla fatidica data del 4 dicembre, avevamo invece sostenuto il contrario. Cosa è cambiato nelle ultime settimane? Esaminare le ragioni che portavano alla previsione delle elezioni anticipate, e quelle che oggi vanno invece in direzione opposta, può essere utile per mettere a fuoco alcuni elementi di novità.
Perché, ben sapendo che forze non indifferenti stavano lavorando per il rinvio, ritenevamo comunque probabili le elezioni a giugno? Essenzialmente per quattro motivi:
Primo, perché questo avrebbe consentito di risolvere la questione del governo prima della prossima legge di bilancio. Legge che potrebbe rivelarsi assai pesante, in termini di consenso, per le forze della maggioranza governativa, ed innanzitutto per il Pd.
Secondo, perché il gruppo di potere che si raccoglie attorno a Renzi aveva tutto da guadagnare nell'anticipo e tutto da perdere nel rinvio. Pur uscita sconfitta e ridimensionata dalle urne referendarie, questa cricca manteneva infatti una notevole forza nel Pd e nella compagine governativa.
Terzo, perché il governo Gentiloni era nato con il dichiarato scopo di arrivare al voto una volta definita la questione della legge elettorale.
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Nuovi panopticon nell’era dei Big Data
di Datamark e Daniele Gambit
“Facebook ha collezionato il più vasto insieme di dati mai assemblato sul comportamento sociale umano. Alcune delle tue informazioni personali ne fanno probabilmente parte.” — MIT Technology Review, 13 Giugno 2012
Un’espropriazione si compie ogni giorno in tutto il Mondo, nei luoghi pubblici, nelle strade, negli spazi dell’intimità personale, costituendo una — nuova — accumulazione originaria, centro nevralgico di nuovi processi di capitalizzazione. È l’espropriazione dell’informazione. Istituzioni, companies, centri di ricerca privati, analisti di marketing, polizia, intelligence, tutti si sono buttati in una caccia al tesoro diffusa e onnipresente, elaborando mezzi di analisi, inventando nuove fonti: a volte collaborando tra loro, a volte dichiarandosi guerra (o fingendo di farsela, come è successo tra Apple, Microsoft e US durante lo scandalo Datagate).
Mai come ora, nella storia dell’umanità, si è disposto di una quantità così grande di informazioni su fenomeni e comportamenti sociali, sia nel macroscopico — andamenti finanziari, scelte aziendali, valute — che nel microscopico — interessi personali, spostamenti di individui, informazioni biografiche-, con tutto quello che può comportare dal punto di vista del controllo sociale per le istituzioni di potere e l’analisi (e il controllo) dei desideri per il mercato.
La quantità di dati raccolti, esponenziale nel tempo, ha portato alla necessità di coniare un termine specifico — Big Data — per indicare questa mole di informazioni.
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Il conflitto sociale che viene, tra guerra e populismo
di Sandro Moiso
Emilio Quadrelli, SULLA GUERRA. Crisi Conflitti Insurrezione, Red Star Press 2017, pp. 276, € 18,00
“Oggi la guerra non è più una tendenza
bensì un dato di fatto” (E. Quadrelli)
Seguo con estremo interesse e, ormai, da più di dieci anni il lavoro di pubblicista di Emilio Quadrelli. A partire, almeno, da quegli straordinari reportage pubblicati dieci anni fa su “Alias”, supplemento settimanale del “Manifesto”,1 in cui l’autore dava voce alle donne protagoniste delle rivolte delle banlieues oppure delle violenze collegate alla presenza militare della Nato nei Balcani, soltanto per citarne due dei più interessanti.
Ne ho sempre apprezzato la ricerca militante unita ad una passione che è raro trovare persino nel pensiero antagonista e di sinistra. Non sempre ho completamente condiviso i presupposti teorici ed ideologici2 su cui basa le sue analisi, ma ho comunque sempre ritenuto le sue narrazioni e proposte un buon punto di partenza per discutere delle contraddizioni del presente e delle prospettive della società e delle lotte di classe in questa fase di senescenza dell’imperialismo occidentale.
Tale impressione mi è stata confermata dal testo edito di recente dalla Red Star Press che affronta, senza mezzi termini, il problema della guerra in cui siamo già immersi. Anche se, troppo spesso, molti sembrano non essersene ancora accorti.
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Quale ritorno a Marx per riflettere sul nostri tempi?
Laurent Etre intervista Edgar Morin e André Tosel
Con grande dispiacere apprendiamo la notizia della scomparsa del filosofo comunista francese André Tosel, studioso di Marx e Gramsci. Per ricordarlo vi proponiamo una doppia intervista che Laurent Etre sul quotidiano comunista «l’Humanité» realizzò con André Tosel e Edgar Morin nel giugno 2010
Con la crisi, il riferimento a Marx cessa di essere un tabù. Le opere sull’autore del Capitale si moltiplicano, così come i ‘dossier’ speciali nei giornali e nelle riviste.
Senza mettere sullo stesso piano le numerose pubblicazioni consacrate a Marx in questi ultimi mesi, non si può nemmeno non interrogarsi su questo ritorno di interesse così repentino. Quando riviste quali “Le Nouvel Observateur” o “Le Point”, ciascuno con la propria sensibilità, si occupano di Marx, ciò fornisce l’indicazione che si apre qualche crepa in un paesaggio mediatico ancora dominato dall’ideologia del capitalismo come orizzonte insuperabile della storia.
“Si può ben dire che ciò a cui noi assistiamo non è soltanto la fine della guerra fredda o di una fase particolare del dopoguerra, ma la fine della storia in quanto tale: l’universalizzazione della democrazia liberale occidentale come forma finale del governo umano” scriveva nel 1989, anno della caduta del muro di Berlino, il capofila di questa concezione, l’americano Francis Fukuyama. Vent’anni dopo, nell’ottobre 2008, alcuni newyorchesi manifestano davanti alla Borsa di Wall Street brandendo dei manifesti con su scritto: “Marx aveva ragione!”. Il suo ritorno sarebbe la conseguenza meccanica della caduta degli idoli neoliberali? Rimanere a questo livello della riflessione sarebbe non voler vedere che si attribuisce a Marx un’altra concezione della fine della storia, “la società libera e senza classi”, da opporre a quella – riconosciuta fallimentare – di Fukuyama. Questo postulato della fine della storia è stato largamente strumentalizzato per legittimare il potere dei regimi autoritari all’epoca del “socialismo reale”.
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Lo sciopero geniale
L’8 marzo delle donne e la sollevazione globale contro il neoliberalismo
∫connessioni precarie
Lo sciopero dell’8 marzo è stato la prima sollevazione globale contro il neoliberalismo. Per comprenderne appieno il significato esso deve essere guardato dalla giusta distanza: chi lo guarda solo dalla sua città o dal suo spezzone di corteo non vede quello che è veramente accaduto. La sua misura, che in realtà è la sua dismisura politica, sta tutta nel suo carattere globale. La dismisura politica si coglie nell’impossibilità di ridurlo a una festa rituale. Sta nella molteplicità di terreni investiti da uno sciopero sociale transnazionale che ha ridefinito la pratica sociale dello sciopero ben oltre le minime esperienze che lo hanno preceduto. Dismisura è la scelta di milioni di donne che, coinvolgendo moltissimi uomini, si sono mobilitate invocando e praticando lo sciopero. Solo partendo da questa dimensione politicamente e non solo geograficamente globale si può comprendere la molteplicità di rivendicazioni e di pratiche che si sono espresse al suo interno.
Corri, corri, corri Taypp… Stiamo arrivando! Hanno cantato in coro decine di migliaia di donne e di uomini per le strade di Istanbul, attaccando il «governo di un sol uomo» di Recep Taypp Erdogan. In Turchia l’8 marzo delle donne è stato il legittimo erede di Gezi Park, perché è diventato una manifestazione di massa contro un governo che sta sequestrando ogni libertà.
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Gli USA di Trump: il tramonto della seconda globalizzazione?
Intervista-recensione di Carlo Formenti
Nel merito del dibattito aperto dal nostro ebook pubblicato lo scorso febbraio Gli USA di Trump: il crepuscolo della seconda globalizzazione? raccogliamo volentieri e pubblichiamo il giudizio in proposito di Carlo Formenti, professore aggregato all'Università del Salento e studioso dei movimenti e dei nuovi media, che nei suoi ultimi lavori ha scandagliato il fenomeno populista e lo spazio di possibilità e problematiche che apre nella fase e nella ridefinizione delle attuali categorie politiche e della demarcazione amico/nemico. Il suo intervento continua il dibattito iniziato su numerosi media di movimento quali Radio BlackOut, Radio Onda d'Urto, Radio Onda Rossa e Radio Ciroma, confronto che continuerà su queste pagine e con altre iniziative in programma.
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Che giudizio dai dello sforzo di analisi che la redazione di Infoaut ha compiuto sulla vittoria elettorale di Trump?
Credo che si tratti di un contributo importante: l’ebook di Infoaut contiene un corposo dossier (più di 150 pagine) che raccoglie, fra gli altri materiali, articoli redazionali, interviste e traduzioni di articoli americani, spaziando su un largo ventaglio di argomenti; per citare solo quelli che ritengo più rilevanti: composizione di classe del voto, sconfitta dei media mainstream e delle grandi macchine elettorali di partito, crisi della globalizzazione, interpretazioni contrastanti delle cause della sconfitta da parte delle sinistre, scenari del conflitto politico e sociale nell’America di Trump.
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Popolo-nazione e populismo
La lotta per l’egemonia in Gramsci e Laclau
di Pasquale Voza
Spontaneità e direzione consapevole: la lotta per l’egemonia in Gramsci
1) In riferimento alla morfologia nuova dei processi economico-sociali e politici dopo il 1917-21, dopo quella che si doveva considerare l’ultima guerra di movimento, vale a dire la Rivoluzione d’Ottobre, Gramsci – come sappiamo – indicava nella guerra di posizione l’insieme delle forme della lotta politica, delle «forme dello scontro di classe» (1), così come esse si sviluppavano dentro e in rapporto a questi processi: per tale via segnalava la novità radicale della «quistione egemonica» intervenuta dopo il declino dell’«individualismo economico» e dopo la penetrazione e la diffusione inaudita della politica e dello Stato nella trama “privata” della società di massa.
Proprio in connessione con la novità radicale della «quistione egemonica», la concezione dello «Stato allargato», se non comportava per Gramsci la messa in mora o l’attenuazione della concezione dello Stato «secondo la funzione produttiva delle classi sociali», significava una complessificazione radicale del rapporto tra politica ed economia, una intensificazione molecolare di un primato della politica inteso come capacità, come potere di produzione e di governo di processi di passivizzazione e di standardizzazione. A questo riguardo, si deve dire che l’attenzione gramsciana ai fenomeni del cesarismo moderno, del capo carismatico, del ruolo della burocrazia in connessione con le funzioni dello «Stato-governo» (attenzione nutrita di riferimenti a Michels e a Max Weber) chiamava in causa, al fondo, proprio il profilarsi della nuova complessità post-liberale dei rapporti masse-Stato, produzione-egemonia.
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Intervista a Bashar al Assad
Due quotidiani italiani pubblicano in evidenza ampi stralici dell'intervista concessa dal Presidente siriano alla stampa internazionale. Con la sconfitta del jihadismo internazionale finisce la censura della stampa mainstream verso la Siria di Assad? [Da notare comunque la plateale manipolazione di Feltri nel titolo, mentre nel corpo dell'intervista Hassad non ha mai parlato di diritti umani...] Di seguito gli articoli del Fatto e dell'Avvenire.
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Bashar Al Assad: “Jihadisti colpa dell’Europa. I diritti umani? Un lusso”
di Stefano Feltri
Il presidente della Siria - “La crisi dei rifugiati effetto degli errori dell’Occidente Dobbiamo cacciare nemici e ribelli, poi si potrà parlare di politica e del resto”
La Siria è così piena di ritratti di Bashar Al Assad – in strada, sui muri, in albergo – che a tutti sembra già di conoscerlo. Eppure l’uomo che ti stringe la mano nel palazzo presidenziale costruito dal padre Hafez, a parte la cravatta rigorosamente di Hermès, ha poco in comune con il leader dallo sguardo indomito dell’iconografia di regime. Si è anche tagliato i baffi, forse per sembrare più occidentale. Dall’alto del suo metro e novanta, fissa con occhi azzurri spalancati i giornalisti che ha voluto incontrare nel tentativo di spiegare all’opinione pubblica internazionale la sua versione sulla catastrofe siriana. Raggiungere Assad non è semplice, è stato possibile solo accompagnando una delegazione di Europarlamentari che, a titolo personale, cerca di riattivare un’azione diplomatica europea sullo scenario siriano, per superare l’attuale isolamento (tra i promotori due italiani, Fabio Massimo Castaldo del Movimento 5 Stelle e Stefano Maullu di Forza Italia).
Mentre parla, Assad intreccia le lunghe dita – solo le mani rivelano i suoi 52 anni – la sua voce è così sottile che bisogna protendersi verso di lui per non perdere le parole, quasi coperte dai clic delle macchine fotografiche del regime, le uniche autorizzate a riprendere il presidente.
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Lavoratori e classe operaia mondiale
di Karlo Raveli
Ho trovato nell’interessante articolo di Curcio ‘Capitalismo digitale. Controllo, mappe culturali e sapere procedurale’ diversi ingredienti importanti per una riscoperta del SENSO e del POTERE politico del concetto marxiano di classe. Come strumento teorico necessario e forse indispensabile per poter finalmente transitare a una tappa storica decente dell’umanità, prima che si autoestingua nel crescendo attuale di brutalità ecologiche e sociali.
Tra questi elementi ne sceglierò qui di seguito solo un paio, attorno ai temi della proprietà e dell’alienazione. Per tentare di scoperchiare ancora una volta il corpo mummificato di quella “classe lavoratrice” (che NON È una classe) intrappolata nei feretri teorici di tutte le ideologie marxiste lavoriste. Cioè di coloro “per i quali oggi arranchiamo nella difficoltà di non applicare, in una maniera ingenua o pigra, le chiavi interpretative che si sono sviluppate nell’Ottocento e nel Novecento”.
Infatti tra tutti i bei mattoni posti in risalto dall’articolo, almeno un paio rimettono in evidenza – quasi involontariamente direi – due dei TRE pilastri essenziali del discorso originale marxiano sulla classe: l’appropriazione privata dei beni comuni – da parte di esigue minoranze al potere – ed i processi d’alienazione con cui riproducono i loro valori e sistema.
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L’Europa, da trent’anni al fianco della finanza
di Thomas Fazi
Sul fronte della finanziarizzazione dell’economia – dalla liberalizzazione dei flussi di capitale alla deregolamentazione dei sistemi bancari nazionali – l’Europa ha anticipato di diversi anni gli Stati Uniti. Gettando le basi della crisi attuale
La crisi finanziaria del 2007-9 può essere considerata una conseguenza di quel trentennale processo di finanziarizzazione – termine di cui esistono diverse definizioni ma che per semplicità possiamo identificare con il peso e il potere crescenti assunti dalla finanza e dal capitale finanziario nell’economia – che fu la risposta (indubbiamente geniale) del capitalismo alla stagnazione dei salari provocata dalla guerra vittoriosa ingaggiata dal capitale nei confronti del lavoro nel corso e per mezzo di quella che è stata definita la “controrivoluzione neoliberista”. In sostanza, la crescente erosione dei salari e del potere d’acquisto dei lavoratori in diversi paesi occidentali fu “compensata” dall’aumento esponenziale dell’indebitamente privato, ossia da quello che alcuni hanno definito una paradossale forma di “keynesismo privatizzato”. Sarebbe a dire che le banche hanno permesso ai lavoratori, tramite il credito/debito, di mantenere inalterati i loro livelli di consumo, nonostante la stagnazione salariale verificatasi dagli anni ’70 in poi.
Questo processo di finanziarizzazione si è espletato sostanzialmente in due modi: (i) a livello internazionale, attraverso la liberalizzazione dei flussi di capitale, che – è il caso di sottolineare – fu una scelta squisitamente politica e non una conseguenza inevitabile della modernità e del progresso, come spesso viene detto, anche a sinistra; (ii) a livello nazionale, attraverso la liberalizzazione dei sistemi bancari e creditizi nazionali, per mezzo dello smantellamento di tutta quell’architettura regolatoria messa in piedi in alcuni paesi in seguito alla grande depressione e poi in maniera più diffusa in seguito alla seconda guerra mondiale, e che fu una delle architravi del cosiddetto “trentennio glorioso” (che poi tanto glorioso non fu ma quello è un altro discorso).
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Siamo tutti Keynesiani
di Paolo Paesani
Paolo Paesani riflette sull’attualità di Keynes, partendo da alcuni contributi recenti sulla sua vita e sulle sue idee. Dopo aver ricordato che con la crisi del 2007 il nome di Keynes è tornato di moda nel campo della politica economica e sui giornali più che nella teoria prevalente, Paesani illustra come potrebbe affermarsi una nuova agenda di ricerca che, traendo ispirazione dal pragmatismo di Keynes, dal suo senso della storia e dalla sua visione etica, fondi “un modo di pensare migliore” che conduca a contrastare disoccupazione e disuguaglianza
“Siamo tutti Keynesiani”. Negli ultimi sessant’anni, questa frase è risuonata più volte alle orecchie dell’opinione pubblica. La prima volta, nel 1965, il magazine Time la attribuì a Milton Friedman che, a quanto sembra, non la prese benissimo. La seconda volta, tre anni dopo, Friedman stesso cercò di rettificare l’affermazione, dichiarando “Tutti usiamo il linguaggio e l’apparato Keynesiano ma nessuno accetta più le conclusioni iniziali di Keynes”. Il 4 gennaio 1971, al termine di un’intervista rilasciata alla rete televisiva ABC, toccò al presidente Nixon affermare “in economia sono un Keynesiano”, e pochi mesi dopo, di nuovo “siamo tutti Keynesiani”. Nel 2009, infine, commentando le azioni adottate dai governi e dalle banche centrali in risposta alla crisi finanziaria, è la volta di Robert Lucas: “Immagino che chiunque, una volta finito in trappola (foxhole nella versione originale), sia un Keynesiano”. In tutti i casi, è curioso che a pronunciare la fatidica frase sia stato un avversario di Keynes, nel campo della teoria economica o in quello della politica. La frase, in questo senso, assume i toni di una dichiarazione di resa, temporanea, riluttante, insincera quanto si vuole, ma pur sempre una resa.
Come ha ricordato di recente Maria Cristina Marcuzzo, “Dopo la crisi del 2007-8, il nome di Keynes è rientrato nella lista degli economisti che si raccomanda di leggere e di cui si ritorna a dire che sarebbe opportuno seguirne le idee. Dopo un bando di circa venticinque anni, trascorsi tra elogi del mercato e test econometrici diretti a dimostrare l’inefficacia o peggio l’irrilevanza delle politiche economiche, Keynes è riapparso sulla scena mediatica, se non proprio in quella accademica dominante, che continua per lo più ad essere la macroeconomia della restaurazione anti-keynesiana iniziata tra gli anni 1970 e 1980”.
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Beppe De Santis e la resa dei conti
di Ernesto Screpanti
“Siamo l’unico paese al mondo in cui le classi dirigenti, a fronte di una sconfitta, non hanno cambiato se stesse mantenendo i partiti, ma hanno cambiato i partiti mantenendo se stesse”. Ovvero, per essere più precisi, hanno preso un partito, che era stato il più grande e prestigioso partito comunista d’occidente, e ne hanno cambiato forma, “dal partito apparatizio al partito superleggero al partito vuoto”. Così Beppe De Santis in La resa dei conti: Alle radici di mafia capitale (Arianna, Geraci Siculo, 2016, Euro 12), un libro intrigante, intelligente e appassionato.
Il sottotitolo però è in parte ingannevole, perché non si tratta tanto di mafia capitale, cioè della mafia politica a Roma, quanto di una mutazione genetica che ha coinvolto l’intera nazione, mutazione di cui quel partito è stato al contempo artefice e interprete. E il lettore che vi si avvicina lo farà alla ricerca di una spiegazione degli eventi storici che stiamo vivendo, alla ricerca delle cause lontane che hanno determinato la trasformazione di quel partito nel “partito delle riforme”, cioè nell’avanguardia (in)cosciente del grande capitale multinazionale in Italia. Il “vuoto” di quel partito è stato lo svuotamento della sua collocazione di classe, anzi, della sua base di classe. Solo svuotandolo del suo popolo si è potuto trasformarlo nel partito del “Jobs act”, della “buona scuola” etc. etc.
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Cosa si racconta di ritorno dall'Eritrea
Marilena Dolce intervista Fulvio Grimaldi
A Milano, la presentazione del film “Eritrea, una stella nella notte dell’Africa” è l’occasione per intervistare l’autore, Fulvio Grimaldi, ritornato dal viaggio in Eritrea dello scorso anno.
Una conversazione per ripercorrere con lui la storia dell’Eritrea, dalla guerriglia degli anni Settanta all’attuale ostracismo internazionale.
Una storia che l’Italia ha accantonato archiviando, insieme all’esperienza coloniale, la ricchezza della terra e l’orgoglio della gente eritrea. Oggi la battaglia e l’impegno dell’Eritrea è per lo sviluppo e la crescita del paese, ma anche di questo in Italia si sa poco. E il film di Grimaldi ce lo racconta.
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“L’Africa è una preda irrinunciabile” per il neocolonialismo, così dici nel film. L’Eritrea, sottraendosi a questa morsa nel 1991, con l’indipendenza, ne sta ancora pagando il prezzo?
Sì l’Eritrea sta pagando un pesante prezzo per essersi sottratta alla nuova colonizzazione che sta toccando e coinvolgendo la quasi totalità dei paesi africani dove sono presenti, salvo pochissime eccezioni, presidi, basi americane o altre forme di collaborazione, addestramento dei militare locali o della polizia. Un apparato per un nuovo colonialismo, per lo sfruttamento dell’Africa, continente ricchissimo di risorse.
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Perché perseverare in politiche economiche irrazionali?
di Renato Caputo
La classe dirigente del nostro paese non perde l’occasione di mostrarsi diligente nell’applicazione di misure, necessarie alla salvaguardia dei rapporti di produzione, che ci stanno conducendo alla rovina
Il capitalismo, nella sua fase superiore di sviluppo, diviene un modo di produzione sempre meno difendibile con argomenti razionali. Come giustificare un sistema in cui gli otto super miliardari censiti da “Forbes”, che certamente non hanno bisogno di lavorare, detengono una quantità di ricchezza superiore a 3,6 miliardi di persone, in massima parte lavoratori, che costituiscono la metà meno ricca della popolazione mondiale? E la situazione sta rapidamente peggiorando, visto che gli stessi dati Oxfam mostrano come nel 2016 l’1% più ricco, che non ha bisogno di lavorare, ha accumulato maggiori ricchezze del 99% che in massima parte lavora, ha lavorato o aspira a farlo.
Tale modo di produzione non è irrazionale solo in quanto ingiusto e fondato sullo sfruttamento, che provoca spaventose differenze di reddito, ma in quanto sta destinando a una rovina sempre più irreversibile il sistema ambientale del nostro pianeta, da cui dipende la sopravvivenza stessa del genere umano. Anche in questo caso la situazione sta rapidamente precipitando, come mostrano due recenti indagini dell’Organizzazione mondiale della sanità che denunciano come il degrado sempre più rovinoso degli ecosistemi comprometta gravemente la salute, in primo luogo dei bambini. L’Oms stima che più di una morte su quattro tra i bambini sotto i 5 anni (1 milione e 700 mila bambini, il 26% dei 5,9 milioni di decessi all’anno) sia imputabile all’inquinamento dell’ecosistema.
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Pensare il 68
di Pier Paolo Poggio
Pensare il 68 a cinquant'anni di anni di distanza presuppone la messa a fuoco di alcune considerazioni preliminari sul 68 come oggetto storico. Le elenco in ordine sparso: esiste una storiografia sul 68 ? E se sì con quali caratteristiche, a livello nazionale-italiano, ovvero internazionale, o locale. Quali che siano le risposte un primo tema parrebbe essere il bilancio della storiografia sul 68; il che però si collega subito a uno dei topos più ricorrenti: quanto è durato il 68, quando iniziato e quando finito? Cosa che rimanda alle diverse partizioni spaziali di cui sopra, tenendo presente che una delle interpretazioni che vanno (andavano ?) per la maggiore sostiene che il 68 è il primo evento storico globale ( rischiando di dimenticare la Seconda guerra mondiale e l'inaugurazione dell'era atomica).
Una volta stabilito che il 68 c'è stato, quale che ne fosse la consistenza, l'importanza, l'estensione, le cause e le conseguenze, bisogna individuare quali sono stati gli attori del 68. Qui ci sono state forse più analisi sociologiche che storiche, in ogni caso è uno dei terreni cruciali, anche perché è un tema, a suo tempo, fortemente influenzato dalle ideologie degli attori in campo. In ogni caso mi sembra ineludibile inserirlo nel progetto di pensare il 68, individuando l'esistenza (o meno) di tale tipo di indagine e per quali aree e contesti.
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Moriremo ordoliberisti?
di Mauro Poggi
Le Monde Diplomatique pubblica un buon articolo sull’ordoliberismo, l’ideologia socioeconomica neoliberista di matrice teutonica che sta alla base del sistema europeo e ne conforma tutta la logica. È un articolo piuttosto lungo, anche a volerlo riassumere come ho cercato di fare. Nonostante ciò, è una lettura che raccomando: conoscere quali sono i postulati in base a cui ci vengono imposte oggi le politiche che riguardano il nostro quotidiano può essere un buon tonico per rinvigorire il nostro spirito critico, infiacchito dalla lunga crisi che quelle stesse politiche hanno prodotto.
Inoltre, è sempre utile constatare che i sostenitori del pensiero unico, quelli che rimproverano agli irriducibili del primato della politica di voler risolvere i problemi di oggi con strumenti culturali vecchi di mezzo secolo, alla fin fine propongono soluzioni basate su teorie nate novant’anni fa.
“Se c’era ancora bisogno della prova del pericolo che i referenda rappresentano per il funzionamento delle democrazie moderne, eccola“. (Der Spiegel, il 6 luglio 2015, commentando la vittoria dell’OXI al referendum greco).
Questa reazione esprime il contrasto fra due concezioni di governo: la prima, propriamente politica, per cui il suffragio popolare dovrebbe prevalere sulle regole contabili e il potere eletto dovrebbe poter scegliere di cambiare le regole se è questo che il popolo gli chiede; la seconda, tecnico-burocratica, che al contrario subordina l’azione di governo e la volontà popolare alla stretta osservanza di un ordine.
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