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Giorni che rischiarano decenni I
Giornalisti, scoop o truppe mediatiche?
di Norberto Natali
Riceviamo e volentieri pubblichiamo
L’obiettività e la neutralità sono due categorie molto diverse.
La prima è possibile e necessaria, è la premessa essenziale per un approccio scientifico alla realtà, deve e può essere perseguita anche con una logica di parte: per esempio, si può difendere apertamente l’interesse di una classe ma con obiettività, in primo luogo ammettendo da che parte si sta.
La neutralità, invece, è un’illusione, è già una manipolazione non obiettiva (“ideologica”) del proprio ruolo: specie nella società divisa in classi, è una pura illusione la “neutralità” della stampa ma anche di altre sovrastrutture (la giustizia, la cultura, ecc.), invocarla o attribuirsela è il primo indizio della mancanza di obiettività. La stampa, per esempio, è borghese anche quando espone o denuncia quanto vi è di negativo e sbagliato nella società capitalista, perché si limita all’indicazione di singoli fatti isolati, slegati dal resto e generalmente li presenta come dovuti a disfunzioni casuali o ad occasionali “colpe” di singoli, anch’essi considerati isolatamente.
La stampa borghese evita accuratamente di far comprendere ai lettori che tanti mali della società, in realtà, sono effetto (più o meno indiretto) di una comune causa originaria: per esempio il potere della borghesia, l’assetto capitalistico della società e la decadenza che esso genera. A maggior ragione, è cura della stampa borghese fare in modo che i suoi utenti non prendano coscienza che tanti guai collettivi potrebbero avere una soluzione duratura, ampia e profonda: ad esempio, con la rivoluzione, la sostituzione della classe al potere, il superamento del capitalismo.
Non sorprende che la stampa borghese, quindi, sia proprietà (diretta o indiretta) sul piano internazionale, di un piccolissimo gruppo di monopolisti, e che questi trovino anche il modo di guadagnarci economicamente, da tale proprietà, non solo politicamente ed ideologicamente.
Qui non si lamenta, dunque, la mancata “neutralità” della stampa borghese, né la sua proprietà e neanche l’esagerazione con cui manipola l’orientamento pubblico oltre i limiti fin qui descritti: in Italia in particolare (con il decisivo aiuto della gran parte della sinistra che ha rinunciato, oltretutto, a contrapporre una stampa di classe, proletaria, come ce n’era fino ad alcuni decenni fa) è riuscita a nascondere ogni conflitto ed interesse di classe.
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Democracy and its crises. Le lezioni berlinesi di Charles Taylor
di Paolo Costa
[Dal 17 al 19 giugno 2019 Charles Taylor ha tenuto a Berlino la prima edizione delle Benjamin Lectures, istituite dallo Humanities and Social Change Center, diretto da Rahel Jaeggi. Tema delle tre lezioni era la crisi delle democrazie contemporanee. Negli stessi giorni, sempre nella capitale tedesca, l’Istituto Italiano di Cultura ha organizzato una settimana di eventi entro la cornice del progetto DediKa per celebrare Giorgio Agamben]
Ho l’impressione, a volte, che non si rifletta a sufficienza sul peso che il culto delle celebrities ha anche nella ricerca scientifica – e sulla stranezza di tutto ciò.
Lo scambio tra celebrità e sapere è noto e reciprocamente vantaggioso. La celebrity intellettuale porta in dotazione un condensato di reputazione che non è più oggetto di discussione e tale reputazione cristallizzata gratifica di luce riflessa anche l’istituzione che riesce a reclutarla. La celebrity, a sua volta, se non ha scrupoli, può massimizzare l’Effetto San Matteo di cui gode per default e ricevere in cambio denaro, opportunità e, last but not least, vagonate di adulazione. Questo caso da manuale di ingiustizia epistemica ribadisce una delle leggi più affidabili della socialità umana: the rich are bound to get richer and the poor to get poorer: that’s the way it is.
Soprattutto per istituzioni che faticano oggi a legittimarsi, come i centri di ricerca umanistici, la notorietà – un indicatore incontestabile del fatidico “impact factor” – è spesso l’unico surrogato plausibile dell’utilità percepita, ovvero delle remuneratività.
Ma vi siete mai messi nei panni di una celebrity? Si direbbe un esperimento mentale interessante. Se la reputazione scientifica è meritata, questa dovrebbe andare di pari passo con l’umiltà. Il detto socratico “so di non sapere”, non è infatti un tributo alle buone maniere o, peggio ancora, un gesto di falsa modestia. È il riconoscimento prudente della sproporzione tra l’estensione e la profondità delle grandi questioni filosofiche che stanno sullo sfondo di qualsiasi indagine scientifica e la portata reale delle capacità della mente umana, o meglio delle episodiche performance cognitive di una persona in carne e ossa.
Ora, immaginate che un nuovo Centro di ricerca, con sede in una prestigiosa capitale europea, vi inviti a tenere un ciclo di lezioni pubbliche su una questione cruciale della contemporaneità – ad esempio, la crisi della democrazia – voi come vi disporrete psicologicamente all’evento?
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Non c'è democrazia senza conflitto
di Ivano Volpi
Il testo riproduce la relazione di Ivan Volpi (Potere al Popolo Udine) fatta a Gorizia il 16 giugno 2019 nel corso dell’incontro organizzato da Senso Comune Udine “Fare la Democrazia”
Democrazia e conflitto: i primi pensieri vanno al sessantotto, alla Guerra di Liberazione, alla lotta degli operai per le otto ore lavorative. Ma nel mondo d’oggi che cosa significa pensare al binomio democrazia e conflitto? Il mondo d’oggi è un mondo capitalistico, perché capitalistica è la forma di vita che viviamo, un vita che ha adottato un idea di società a cui è stato dato il nome di neoliberismo: un’idea che ha visto la luce e si è espansa attraverso uno dei modellamenti della natura umana più drastici e radicali di sempre. Il neoliberismo permette di fare la democrazia, o meglio ancora di fare la democrazia che vorremmo? Tollera l’esistenza di quegli elementi conflittuali che potrebbero essere l’ antivirus del processo democratico? Con ragionamenti suggestioni e alcuni accostamenti cercheremo di capirlo.
Ho parlato di neoliberismo come di un’ idea di società, una visione del mondo; quattro sono i pilastri che sostengono questa costruzione. Il primo pilastro è il METODO, quello che si rifà all’individuo: parliamo di individualismo metodologico in quanto al centro dell’agire c’è solo l’individuo; solo l’ individuo ha una sua reale consistenza ed esistenza reale nella storia. Quale la diretta conseguenza di questo? L’indebolimento della rete che gli individui creano, la società, classi sociali, i corpi intermedi.
Il secondo pilastro è la GERARCHIA. Quando presupponiamo la debolezza delle classi sociali ma che conta solamente l’individuo ne consegue che l’unica libertà che deve essere tutelata in assenza di corpi sociali da preservare e difendere, è quella individuale o, come si sente spesso dire, dell’”agente rappresentativo”; sull’ individuo deve essere declinata la libertà non su costruzioni ideologiche di sinistra, come la classe lavoratrice o gli sfruttati. La società non esiste diceva la Thacher. Il conflitto, dicono i liberisti, non ha senso perché ci mettono gli uni contro gli altri. Una volta queste libertà venivano chiamate diritti borghesi e oggi possiamo definirle diritti civili. Centrando i discorsi e i ragionamenti sui diritti civili non possiamo che constatare che si rimane imprigionati dalla stessa ideologia che fa da vestito alla democrazia liberale che stiamo criticando. Senza i diritti sociali i diritti civili sono solo accessori luccicanti.
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Nicaragua, i costi della guerra a quarant'anni dalla rivoluzione
di Geraldina Colotti
I costi. Non siamo più capaci di assumerci i costi: soprattutto nelle sinistre dei paesi capitalisti, dove pur ti insegnano a calcolare, ovvero a lucidare le scarpe del padrone, fin da quando emetti il primo vagito come “cittadino consumatore”. Intendiamo i costi dei cambiamenti veri, quelli che – da Spartaco a Lenin – hanno consentito agli oppressi di strozzare gli oppressori stringendogli al collo le loro catene. “Non importa se non mangiamo per un mese, perché non mangiamo da 44 anni”, gridava il popolo nicaraguense mentre lottava per liberarsi dalla morsa della dittatura somozista, la più longeva del continente.
Nell'anno che precede la vittoria del Frente sandinista, avvenuta il 19 luglio del 1979, mentre l'insurrezione popolare avanza, le forze imperialiste fanno di tutto per ottenere la resa della popolazione: oltre al cibo, manca la luce, l'acqua. Le scuole sono chiuse. Gli studenti hanno usato i banchi per costruire barricate, hanno scambiato i libri con armi di qualunque tipo: bombe artigianali, pistole, pietre...
Pochi mesi prima, il dittatore Somoza ha ricevuto in prestito dagli Stati Uniti 20.160.000 dollari per l'acquisto di armi con le quali ha promesso di liquidare “gli insorti, i sovversivi”. L'allora presidente USA Jimmy Carter gli ha inviato una lettera di congratulazioni per i miglioramenti ottenuti nel campo dei... diritti umani. Intanto, un ex reduce dal Vietnam pubblica apertamente sui giornali statunitensi un appello per reclutare mercenari da impiegare contro i sandinisti. Oltre 1000 rispondono all'appello altrettanto apertamente, senza che nessuna autorità intervenga per impedirlo.
Allora il mondo è ancora diviso in due blocchi, la lotta al comunismo è senza quartiere. Dal Cile al Brasile – che, insieme all'Argentina, alla Spagna, alla Francia e a Israele fornisce armi e mercenari a Somoza – sale l'allarme contro “il castro-comunismo che, grazie alla lotta contro Somoza in Nicaragua, sta mettendo un piede irremovibile nel continente”. I fautori delle democrazie di tipo occidentale, com'è allora quella venezuelana del presidente Carlos Andrés Pérez chiedono l'intervento dell'OSA per porre fine alla “guerra civile”.
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Libra, Trump, Facebook e il resto
di Vincenzo Comito
Zuckerberg e soci vogliono lanciare la loro moneta elettronica nel 2020 facilitando scambi online e accesso al credito. In Cina Alibaba e Tencent da anni forniscono servizi simili, ma per il gigante Libra si dovrà aspettare: non si può autorizzare una rete di pagamenti internazionale privata senza contrappesi
I due tempi del progetto
L’annuncio fatto recentemente da parte di Facebook, insieme ad un certo numero di altri soci quasi tutti statunitensi (tra i quali citiamo soltanto Uber, Lyft, Visa, Mastercard, eBay), relativo al prossimo lancio di una moneta elettronica, la Libra, da un certo punto di vista e per quanto riguarda almeno i suoi primi passi annunciati non apporta apparentemente quasi niente di nuovo.
Ma bisogna distinguere in realtà un primo e un secondo tempo ideali nell’iniziativa, anche se dal punto di vista pratico non si riscontra una separazione netta tra i due momenti.
Nel primo e più immediato passo, che dovrebbe decollare nel 2020, Facebook pensa alla creazione di una nuova struttura, denominata Calibra. Si tratta in sostanza di un’app, che consiste in un sistema di pagamenti inserito nei suoi servizi di messaggistica, in modo tale che gli utilizzatori possano facilmente e con poco costo inviare del denaro a parenti e amici in patria e all’estero, o anche fare acquisti; inoltre, secondo le dichiarazioni dei promotori, si aprirebbe la possibilità di offrire dei servizi finanziari di base a quei 1,7 miliardi di persone nel mondo che non dispongono di alcun conto bancario.
Ma lo sbocco finale del progetto, il suo ideale secondo tempo, consisterebbe in ben altro, nell’affermazione cioè di una moneta elettronica privata a livello mondiale, mentre la nuova iniziativa diventerebbe anche la più grande organizzazione finanziaria del mondo.
L’organizzazione che gestirà il progetto afferma in effetti che “il mondo ha bisogno di una moneta globale, digitale, che metta insieme le caratteristiche delle monete migliori: stabilità, bassa inflazione, larga accettazione a livello mondiale, flessibilità”.
La Libra potrebbe alla fine, così, tendere a scavalcare le banche centrali, i regolatori del settore finanziario nonché gli attuali sistemi monetari dei vari paesi (Stoller, 2019). Si tratterebbe di un progetto molto audace, ma d’altro canto di un’enorme e intollerabile concentrazione di potere; quello che può meravigliare è che si sia avuto l’ardire di proporlo alla luce del giorno, basandosi probabilmente sulla grande forza di mercato e sullo sperato potere di lobbying del gruppo proponente, che almeno sino mad oggi hanno fatto sì che i grandi gruppi dell’economia numerica statunitense abbiano goduto di una sostanziale impunità.
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Dalla leadership al leaderismo
di Carlo Galli
Che in politica l’obbedienza vada alla norma razionale, e non al comando di un singolo, è l’idea chiave della filosofia politica moderna. Non il Principe ma lo Stato rappresentativo, non Machiavelli ma Hobbes, è il cuore di questo modo di pensare, che non lascia spazio teorico alla figura verticale del capo perché si concentra sul contratto orizzontale di tutti con tutti: i cittadini devono obbedienza a un sovrano rappresentativo artificialmente creato, del quale non interessano le doti personali ma la struttura e il comportamento razionale; un sovrano che può essere anche un parlamento, che si esprime attraverso leggi neutre e universali. Anche la tradizione marxista ritiene, in linea di principio, che la politica non sia spiegabile con l’agire di grandi personalità, ma con leggi storiche oggettive, con processi e forze reali impersonate in soggetti collettivi, borghesi e proletari, che sono gestite da partiti e apparati, e che sono conosciute dalla scienza dialettica.
Eppure, nella concretezza storica non ci si è mai liberati dalla figura del leader. La personalizzazione del potere è talmente pervasiva che si potrebbe scrivere la storia come una successione di capi: il potere politico ha quasi sempre il volto e il corpo del leader, che guida e conduce. Nella modernità non avviene senza leader la costruzione degli Stati, che hanno bisogno di idee, interessi e passioni socialmente diffuse ma che devono anche essere interpretate da singole grandi personalità, capaci di prendere decisioni di portata storica, di rappresentare i bisogni del tempo. Così Napoleone dopo la battaglia di Jena era per Hegel lo Spirito del mondo che entrava a cavallo a Berlino; così Italia e Germania sono nate da Cavour e da Bismarck; la tradizione comunista si è affermata grazie alla persona di Lenin, e poi ha inventato il culto di Stalin. Nei grandi momenti fondativi, o nelle grandi crisi rivoluzionarie, nel leader si concentra l’essenza storica di un Paese: Mussolini, secondo una leggenda, nel 1922 porta al re l’Italia di Vittorio Veneto; Hitler incarna la paura e la sete di revanchedella Germania; Roosevelt ha guidato una nazione fuori dalla depressione e ne ha fatto una potenza imperiale; De Gaulle nel 1940 impersona la Francia; Stalin nella seconda guerra mondiale difende l’esistenza non solo dell’Urss ma della madre Russia; Churchill si identifica con l’epopea dell’Impero britannico. Tutti leader che intercettano e suscitano, nel bene e nel male, nella libertà o nella dittatura, lo spirito di un Paese, l’essenza storica di uno Stato.
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Perché il Movimento 5 stelle ha perso le elezioni europee?
di Vincenzo Alfano
Analisi del voto e correlazione con le domande del reddito di cittadinanza per provincia
Il reddito di cittadinanza è stata la policy-bandiera per il MoVimento 5 Stelle sin dalla campagna elettorale per le elezioni politiche del 2018. Difatti la promessa di attuazione del reddito pare esser stata un elemento decisivo per l’affermazione di quel partito nelle urne. Dopo l’attuazione, i cosiddetti grillini hanno appena un anno dopo visto drammaticamente ridimensionarsi il loro elettorato. E’ ciò dovuto ad un malcontento per l’attuazione della politica? Era questa stata sopravvalutata sin dall’analisi dell’esito del 2018? Oppure le elezioni politiche e quelle europee non sono davvero comparabili? Questo articolo si propone di fare chiarezza sul fenomeno rispondendo a queste domande, proponendo un’analisi formale della correlazione tra voti e domande del reddito di cittadinanza per provincia.
Introduzione
Le ultime elezioni europee, svoltesi appena pochi giorni fa nel nostro Paese, hanno visto un radicale cambio nelle preferenze accordate dagli elettori ai principali partiti. In particolare, il grande sconfitto è il MoVimento 5 Stelle (d’ora in avanti M5S), primo partito alle elezioni politiche di appena un anno prima, e solo terzo partito alle europee, avendo perso circa sei milioni di voti.
Fig. 1 Voti alle politiche del 2018 per il M5S nelle diverse province italiane. Elaborazione da dati Ministero degli interni
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Quando il PCI non era europeista
di Alessandro Pascale
Di recente Luca Cangemi ha pubblicato un prezioso libro che meriterebbe ampia diffusione. Si intitola Altri confini. Il PCI contro l'europeismo (1941-1957) [1], edito per DeriveApprodi, con prefazione di Giorgio Cremaschi. Fin dal titolo si capisce il contenuto dell'opera, il che costituirà una sorpresa per chi non conosce la storia del PCI; purtroppo sono molti i “compagni” odierni che non hanno avuto la pazienza o il tempo per farlo. Penso soprattutto ai più giovani della “generazione erasmus” che crescono in un clima di sfrenato filoeuropeismo e che assorbono come spugne, e non senza una certa indifferenza, qualsiasi amenità raccontata dai media e dalla gran parte del ceto politico attuale.
L'opera in questione invece ha il pregio di ricordare, in maniera snella (un centinaio di pagine ben scritte) un'altra storia di cui proverò a tracciare i contenuti essenziali, limitando al minimo ulteriori osservazioni.
Il peccato originale
Occorre innanzitutto partire dalla “decisiva matrice statunitense” della comunità europea (poi UE), così come ricordato ad esempio da Lucio Caracciolo, direttore della prestigiosa rivista Limes [2]. Il perché è presto detto: l'unità dell'Europa occidentale era necessaria in funzione antibolscevica nell'ambito della guerra fredda, scatenata dagli USA fin dal 1945. Di tutto ciò ha dato prova inoppugnabile Filippo Gaja in un libro troppo spesso dimenticato come Il secolo corto(1994).
Ci sono certamente altre ragioni per cui l'Europa sia nata con il consenso delle classi dirigenti europee: ad esempio quella di garantire gli interessi coloniali europei, in un momento, quello del dopoguerra, in cui sono in centinaia di milioni in tutto il mondo ad alzare la testa per emanciparsi dal brutale dominio occidentale: “l'unità dell'Europa diventa quindi funzionale a questa resistenza geopolitica e ideologica, che si esercita soprattutto contro le lotte anticoloniali dei popoli dell'Africa e dell'Asia” [3]. All'epoca i comunisti hanno consapevolezza della questione, e ricordano fin dal 1944 come le iniziative ‘europeiste’ degli anni '30 fossero “di origine fascista”, miranti a costruire nient'altro che “una diga antisovietica” [4].
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I limiti del Cosmopolitismo
La sovranità nazionale nel conflitto tra democrazia e capitalismo
di Alessandro Somma
Il cosmopolitismo mira a promuovere la pace e dunque a rappresentare un argine al ripetersi dei conflitti che hanno caratterizzato il secolo breve. L’esperienza ha mostrato come il superamento della sovranità nazionale abbia alimentato lo sviluppo di un ordine economico neoliberale, in quanto tale minaccioso per la giustizia sociale e in ultima analisi per la pace. Di qui la necessità di un recupero della dimensione nazionale non certo per affermare identità escludenti, bensì per ripristinare un accettabile equilibrio tra democrazia e capitalismo
1. Sovranità nazionale, pace ed emancipazione sociale
Il cosmopolitismo inteso come teoria e pratica relativa alla dissoluzione della sovranità nazionale, pur potendo vantare radici affondate in un tempo lontano1, assume la valenza attuale in tempi relativamente recenti: quando si combina con quanto Norberto Bobbio chiamava pacifismo attivo, ovvero con il riconoscimento che la pace non costituisce «un’evoluzione fatale della società umana», bensì «il risultato dello sforzo intelligente e organizzato dell’uomo diretto allo scopo voluto»2. È invero per effetto delle due guerre mondiali che matura la convinzione che lo Stato nazionale rappresenta un ostacolo insormontabile al perseguimento di quello scopo, e anzi costituisce un catalizzatore di insanabili conflitti. Il tutto nell’ambito di riflessioni in cui il cosmopolitismo, che pure è concetto ambiguo e poliedrico3, assume spesso e volentieri le vesti del federalismo europeo, la cui traiettoria intellettuale intreccia continuamente le tematiche pacifiste.
Certo, in ambito cosmopolita si riconosce che lo Stato nazionale era nato per liberare i popoli e che da questo punto di vista, almeno per un certo periodo, si è effettivamente rivelato essere «un potente lievito di progresso». Si aggiunge però che lo Stato ha ben presto cessato di essere strumento per la realizzazione di fini per divenire fine a se stesso, assumendo addirittura i connotati di «un’entità divina, un organismo che deve pensare solo alla propria esistenza ed al proprio sviluppo». Di qui la tendenza invincibile a provocare conflitti bellici e a vivere la pace unicamente come momento preparatorio di quei conflitti, tendenza stigmatizzata con particolare veemenza nel celeberrimo Manifesto di Ventotene:
«Lo Stato, da tutelatore della libertà dei cittadini, si è trasformato in padrone di sudditi tenuti a servizio, con tutte le facoltà per renderne massima l’efficienza bellica.
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Antonio Gramsci, “Notarelle sul Machiavelli”
di Alessandro Visalli
Antonio Gramsci, ottenuto in carcere il permesso di scrivere, all’inizio del ’29, stende pochi anni dopo le sue “Notarelle” sul “Principe” di Machiavelli. Gli obiettivi della scrittura sono molteplici: dal tempo dei suoi studi filologici all’Università di Torino voleva scrivere del capolavoro del fiorentino ma, soprattutto, ora si pone il problema di indagare il rapporto del partito politico con le classi e lo Stato (Quaderno 4, 1930); cioè, di pensare “non il partito come categoria sociologica, ma il partito che vuole fondare lo Stato”.
È interessante rileggere oggi questa densissima riflessione di Gramsci, anche correndo il rischio della riattualizzazione e dunque del tradimento (ma non si può leggere senza inserire dei fili), perché è, attraverso lo schermo della trattazione del Principe, lo sforzo di confrontarsi con un momento di “crisi organica” e con l’insorgere in questa di momenti ‘cesaristi’ o ‘boulangeristi’[1], facendo leva sul “partito” e la ripresa della politica. Al momento ‘boulangerista’ si risponde con l’azione politica e la “filosofia della praxis”. Al “momento populista”, con il “momento politico” che ne incorpora tuttavia alcuni elementi: è in parte autonomo rispetto all’economico[2] e legato ad una componente emozionale e volontaristica, interamente connesso all’azione (l’obiettivo è sempre la “praxis”, l’azione pratica). Il “partito-principe” è, cioè, il suscitatore, quando se ne danno le condizioni, di una “volontà collettiva nazionale-popolare”, ed al contempo è “l’organizzatore di una riforma intellettuale e morale” e quindi di una “forma superiore di civiltà moderna”.
Il Partito, vero “intellettuale collettivo”, attraverso quella che chiama l’azione della filosofia della prassi, si impegna a trasformare il senso comune[3] di strati sociali ampi, potenzialmente egemonici perché maggioritari, ma al momento disgregati, e, in quanto “filosofia della prassi”, al contempo e necessariamente li muove all’azione collettiva. Questa azione, prendendo in qualche misura una certa distanza dalle forme più ingenue del marxismo, si muove a livello della “soprastruttura” ma non senza “una precedente riforma economica”. Anzi, continua subito, “il programma di riforma economica è il modo concreto in cui si presenta ogni riforma intellettuale e morale”. Le due cose, la riforma morale ed intellettuale, in seguito dirà di conoscenza, si connette internamente, indissolubilmente, all’azione. Questa serve a quella e quella senza questa non è possibile, né utile.
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Cos'è impolitico? Risposta a Senso Comune
di Moreno Pasquinelli
Confesso di essere restato alquanto sorpreso nel leggere che proprio noi di P101 saremmo "impolitici". La critica ci è stata rivolta da Matteo Masi sul sito di Senso Comune in un articolo che perora la necessità di avere un "credibile Piano A" di riforma dell'Unione europea e quindi di averne uno "B" di riserva nel caso l'eurocrazia risponda a pesci in faccia e si sia costretti ad uscire.
Non è l'accusa di "impoliticità" in sé che stupisce, quanto la ragione che ne starebbe a fondamento.
Ma sentiamo quel che ad un certo punto scrive il Masi:
«Sul versante “no-euro” permangono allo stesso modo criticità speculari. Prendiamo ad esempio proprio l’articolo di sollevazione che criticava quello di Cesaratto, verso la fine leggiamo: “Ma tutto ciò avrebbe senso solo a partire da una valutazione positiva sulla riformabilità dell’Unione europea e dell’euro. Riformabilità che invece non esiste, che è pari a zero. Non lo diciamo noi, lo dicono i fatti da tanti anni ormai". Questo atteggiamento, per quanto giustificato dai fatti, risulta impolitico tanto quanto avere il piano A senza credere nella necessità di un piano B». [sottolineatura nostra]
Per il Masi dunque la nostra linea politica — uscire dalla Ue per riconquistare piena la sovranità nazionale e popolare — per quanto giustificata DAI FATTI sarebbe "impolitica".
Questo asserto contiene una sfrontata contraddizione logica: una affermazione e la sua negazione non possono essere ambedue simultaneamente completamente vere. Non posso dire, ad esempio, Senso Comune è un movimento morto ma è vivo. O è morto o è vivo. Per dirla con Aristotele: «È impossibile che il medesimo attributo, nel medesimo tempo, appartenga e non appartenga al medesimo oggetto e sotto il medesimo riguardo».
Quand'è infatti che una qualsivoglia posizione è da considerarsi "impolitica"? Quando essa non poggia sulla "Analisi concreta della situazione concreta (Lenin). Quando, in estrema sintesi, non è realistica e confonde (ci direbbe Hegel) "l'essere col dover essere".
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Ripensare la politica al tempo del neoliberismo
di Chiara Giorgi
Il destino della democrazia: un volume appena pubblicato da ETS, a cura di Emanuele Profumi e Alfonso M. Iacono, raccoglie interventi di filosofi, sociologi e antropologi che si interrogano su come re-immaginare la politica per ricreare la società di fronte alle macerie del neoliberismo
Politica, possibile, alterità. Tre termini che possono guidarci oggi nel ripensare l’alternativa, nella riformulazione di un progetto politico capace di proiettare il presente nel tempo aperto del futuro, del possibile-divenire. Tutti i contributi ospitati nel volume riescono infatti a tenere insieme l’analisi del tempo presente e la prefigurazione di un ordine alternativo rispetto a quello neoliberista, offrendo materiali preziosi per sottrarci a ciò che più costituisce la cifra del nostro vivere: un imperante presentismo in cui il tempo del neoliberalismo ci continua a schiacciare, sancendo l’impossibilità della dimensione progettuale[1].
Le tre domande dalle quali parte l’introduzione di uno dei curatori – Emanuele Profumi – sono allora: quale società desideriamo, come possiamo cambiare quella che abbiamo ereditato? E da qui, come ripensare la politica, strumento necessario del cambiamento comune, consapevole e possibile? Come riarticolare il nesso tra «la politica e la (ri)creazione della società», tra politica e democrazia?
Per far ciò è innanzitutto necessario porsi due altrettanto basilari interrogativi: a che punto siamo arrivati, in quale stato di malessere ci troviamo e dove vogliamo andare, che cambiamenti immaginiamo e progettiamo?
Rispetto alla prima questione, molti contributi offrono spunti di rilievo per ricordarci, sulla scorta di una letteratura sempre più corposa in tema, le caratteristiche fondamentali del presente. Vale la pena ripercorrere alcune di queste caratteristiche, nella consapevolezza che è proprio questa disamina a rendere possibile un ripensamento della politica, a fronte del suo svuotamento, del suo impoverimento e neutralizzazione, a fronte di una politica ridotta a mezzo fine a se stesso.
Molti saggi (Iacono, Profumi, Fadini, Galanti, Sintomer, Santoro, Pla) ci consentono di fotografare la situazione attuale, la crisi della democrazia, della rappresentanza politica, del costituzionalismo, della mediazione dei grandi soggetti collettivi, degli stessi fondamenti delle costituzioni del Novecento.
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La dottrina della verità senza la dottrina della città
Per una critica della teoria heideggeriana della tecnica
di Roberto Finelli
1. La de/formazione heideggeriana della «questione della tecnica»
Proporre visioni del mondo e dell’essere umano a partire dalla categoria o dal principio dell’Essere significa, come insegnava quel grande maestro di filosofia antica e di laicismo che è stato Guido Calogero, riproporre questioni improponibili ed arcaiche, che muovevano da metafisiche antiche legate alla transustanziazione ed ipostasi del verbo «essere», ossia di una parola, in un presunto fattore di realtà1.
Non a caso la storia della metafisica dell’Essere e della sua trascendenza si conclude con la filosofia moderna, specificamente con la Critica della ra- gion pura di Kant e la sua riduzione della realtà dell’essere all’esistenza, cioè alla percezione di un alcunché che si dà attraverso il modificarsi dell’apparato sensibile del corpo. Ma appunto, proprio a partire dall’estinzione del problema e della tematica dell’essere nella modernità e dalla sua riduzione a fantasma di antiche metafisiche e religioni, si può assai meglio intendere la poderosità dell’operazione culturale compiuta da Martin Heidegger nella prima metà del Novecento con la riproposizione del principio dell’Essere a principio di senso dell’intera realtà, umana e non umana, e insieme l’intento di far valere tale rinnovata dottrina dell’Essere come la massima espressione egemonica della filosofia dell’intero Novecento.
Com’è ben noto, Heidegger ha potuto compiere la sua gigantesca impresa, non attraverso una mera riproposizione dell’antico, bensì attraverso la sua partecipazione, a livelli assai rigorosi di acquisizione, alla fenomenologia di Husserl da un lato, quale teoresi moderna più avanzata sulla struttura della soggettività, e dall’altro alla tradizione della filosofia scolastica e del suo impianto ontologico, anche qui secondo modalità di studio e di conoscenza di grande estensione e profondità. Né v’è dubbio alcuno che la genialità del pensatore di Messkirch sia consistita proprio nella capacità di mediare queste due aree di competenza filosofiche, così lontane ed eterogenee tra loro, e di concepire in tal modo, prima, una originalissima fenomenologia ontologica della soggettività con Sein e Dasein e, poi, una metafisica della storicità dell’Essere nella seconda fase del suo pensiero.
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Bilancia dei pagamenti e squilibri nell’eurozona: cosa occorrerebbe fare
di Rosaria Rita Canale
Abstract: In this article the divergences within the euro area are examined in the light of balance-of-payments imbalances recorded in the TARGET2 balances of the individual countries. It emerges that countries with positive values of the target balances (surpluses) have lower interest rates than the Euro area average and countries with negative values (deficits) have higher than average rates. Furthermore, an inverse relationship also emerges between balance of payments balances and poverty. The centralized measures of monetary policy and quantitative easing, together with fiscal restrictions for countries in deficit seem not to have resolved these differences and a new strategy is proposed to reduce divergences. This strategy, inspired by the post-war Keynes plan, should include expansionary measures for the creditor countries, such as: 1) fiscal expansion; 2) increase in money wages and 3) direct foreign investment in countries in difficulty.
Dalla crisi economica ad oggi si sono registrati all’interno della zona Euro squilibri preoccupanti fra i paesi che sembrano non poter essere colmati dalle straordinarie misure espansive di politica monetaria condotta a livello centralizzato dalla BCE. Come è noto poi la politica fiscale – che è affidata ai singoli stati -non può essere usata come strumento di stabilizzazione, se non da quei paesi che rispettano le regole fiscali imposte dai trattati e che quindi non ne hanno un gran bisogno.
Queste differenze fra i singoli paesi sono evidenti negli squilibri della bilancia dei pagamenti. La zona Euro è assimilabile ad un insieme di paesi legati fra loro da un tasso di cambio irrevocabilmente fisso. Tuttavia, dal momento che esiste solo una moneta, in alternativa all’acquisto e alla vendita di riserve in valuta estera è stato concepito un meccanismo di compensazione di nome TARGET[1] – evolutosi nel novembre 2007 in TARGET2 (T2). Con T2 i paesi con un surplus della bilancia dei pagamenti ricevono, attraverso la banca centrale nazionale, il credito netto derivante dal deficit della bilancia dei pagamenti degli altri paesi. Il costo del debito dei paesi in deficit è rappresentato dal tasso di rifinanziamento sulle operazioni principali fissato attualmente dalla BCE allo 0,25%. Perciò questo meccanismo di compensazione agisce come una sorta di linea di credito concessa ai paesi che stanno vivendo una crisi della bilancia dei pagamenti che rende l’Eurozona più resiliente come unione valutaria rispetto al gold standard o ai più tradizionali sistemi di ancoraggio al dollaro (Klein 2017).
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Strappare nuovamente il possibile all’oblio
di Andrea Cerutti
Recensione a L’operaismo politico italiano di Gigi Roggero (DeriveApprodi)
L’operaismo politico italiano, appena uscito per la collana Input di DeriveApprodi, è composto dalla trascrizione di sei lezioni sull’operaismo dalle origini sino alle diramazioni più recenti – una, interamente dedicata alla figura di Romano Alquati, tenuta da Guido Borio, le altre da Gigi Roggero – e termina con un’utile intervista riepilogativa dell’autore curata da Davide Gallo Lassere.
Le lezioni sono rivolte a giovani militanti politici. Lo stile è quindi diretto senza fronzoli, fedele allo “stile operaista” e, sin dalle prime pagine, traspare l’intento – in linea con l’indicazione di Walter Benjamin – “di strappare nuovamente la trasmissione del passato al conformismo che è sul punto di soggiogarla”; il conformismo dei vincitori che vogliono relegare il passato dei vinti all’eterno oblio o alla neutralizzazione accademica affinché smetta di disturbare il racconto delle magnifiche sorti e progressive.
Questo passato è l’operaismo, ovvero l’ultimo ed estremo tentativo di cui si ha notizia di usare il pensiero di Marx secondo una prospettiva pratico-rivoluzionaria e non come sistema teorico atto ad interpretare il funzionamento del sistema capitalistico.
Si parte opportunamente dalle genealogie dell’operaismo: Danilo Montaldi, Galvano Della Volpe, il gruppo francese di «Socialisme ou barbarie». Con una giusta avvertenza: «quello che … ci interessa evidenziare è il carattere di transizione degli anni Cinquanta. Attenzione, però: solo ex post possiamo attribuire un carattere storicistico e teleologico al termine transizione. Ex ante, nel vivo di quella fase, con lenti normali avremmo visto smarrimento, caoticità, rassegnazione … la transizione non ci viene consegnata dalla Storia; la transizione viene conquistata da un agire contro la Storia» (pp. 19-20). Roggero vuole dirci che lo stesso smarrimento, la medesima rassegnazione in cui siamo immersi può essere ribaltata, «è proprio nelle fasi in cui sembra non accadere nulla che va agita la capacità di anticipazione e giocata la scommessa rivoluzionaria.
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Il “declino” in Italia
di Sergio Bologna
Relazione presentata a Torino il 1.12.2018 in occasione della presentazione del numero speciale di “Primo Maggio” (cfr. Altronovecento n.36).
Quando inizia la letteratura sul “declino” in Italia?
Sarebbe interessante fare una ricerca ad hoc, perché – se non ricordo male – non è stata una qualche corrente “riformista” ad iniziare questo percorso, sono stati ambienti culturali contigui a Confindustria. Un percorso che poi si è incamminato su un terreno dove il tema del “declino” è diventato quasimainstream al punto da condizionare lo sguardo all’indietro (come dimostra l’Annale Feltrinelli dello scorso anno intitolato l’Approdo mancato). Senza riuscire a temperare tuttavia lo slancio cieco dell’onda mediatica che esaltava le magnifiche sorti e progressive del modello neoliberale e pretendeva piena, incondizionata fiducia in esse.
La classe capitalistica, la cui inettitudine viene continuamente messa in luce dalla letteratura sul “declino”, persevera nella sua autoreferenziale esaltazione della propria missione di classe dirigente, scaricando tutte la responsabilità del “declino” sulla politica.
Ma né gli uni né gli altri, né gli storici o gli analisti del “declino” né il padronato nel suo complesso s’interrogano se sia o meno il caso di rivedere il giudizio dato sui comportamenti antagonistici di classe degli Anni 70, anni di emancipazione e di produzione d’intelligenza operaia.Suquel ciclo di lotte continua invece a pendere il giudizio di condanna come un momento di follìa collettiva, d’insensatezza. Io credo che la lettura di quegli anni dovrebbe rivalutare come chiave interpretativa quella battuta di Mario Tronti, che tanto fece sorridere allora quando fu pronunciata, e cioé che “la lotta operaia impone lo sviluppo capitalistico”. La vicenda Fiat dal 1980 al 2002 è la controprova della giustezza di quella affermazione: là dove la lotta operaia tace, là dove il suo silenzio si fa prolungato, il capitalismo s’infogna in una crisi mortale. Sconfitti gli operai nell’ottobre 1980 e dopo ventidue anni di pace sociale, la Fiat e con essa l’industria italiana dell’auto, erano a terra.
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I retroscena delle grandi manovre geopolitiche ed economiche nello scacchiere internazionale
intervista a Demostenes Floros
Mysterion si arricchisce di un nuovo spazio di approfondimento che affronta le più importanti questioni geopolitiche ed economiche odierne. L’intervista che segue è stata rilasciata qualche settimana fa (prima delle elezioni europee) ad un giornale tedesco, il “Deutsche-wirtschafts-nachrichten”, dall’esperto di geopolitica Demostenes Floros, il quale l’ha gentilmente concessa al nostro blog. In Italia soltanto la nostra rubrica e la pagina Facebook di Pandoratv.it di Giulietto Chiesa pubblicano questa preziosa intervista (l’originale in tedesco si può trovare attraverso il seguente link: https://deutsche-wirtschafts-nachrichten.de/2019/06/12/peking-wird-sich-dem-druck-des-weissen-hauses-nicht-beugen/). Senza rivelare i particolari dell’articolo mi permetto di fare una breve e personale considerazione sul tema qui sotto discusso in rapporto alle grandi manovre storiche che si stanno sviluppando, e delle quali questo contributo può offrire una chiara, lucida e importante chiave interpretativa dei rapporti di forza all’interno dello scacchiere internazionale, e inoltre anche un utile spunto di riflessione. L’oggetto di questa intervista, a mio avviso, va inserito in un contesto più ampio che tenga conto dell’importantissimo mutamento tecnologico a cui sta andando incontro il Pianeta e in particolare l’Occidente, e va legato ad uno scenario più strettamente militare molto pericoloso che ha fatto rinascere una nuova corsa agli armamenti nucleari. Per farla breve, stiamo attraversando una crisi gravissima e senza precedenti e alcuni delle riflessioni e dei fatti riportati sotto possono aiutarci a capire in che direzione e verso stiamo andando. Buona lettura.
* * * *
Gli Stati Uniti d’America hanno vietato a tutti gli altri paesi di acquistare petrolio iraniano. Quale leva hanno gli USA per far rispettare tale divieto?
In primo luogo, è opportuno precisare che le sanzioni comminate all’export di greggio iraniano a partire dal 5 novembre 2018 sono misure imposte unilateralmente dagli Stati Uniti e non dall’ONU quindi, non rispecchiano le norme del diritto internazionale.
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Che cos'è la verità? Questione d'immaginazione
di Roberto Paura
Nel Vangelo di Giovanni, durante l’interrogatorio di Ponzio Pilato, Gesù dichiara di essere venuto al mondo “per rendere testimonianza alla verità”, specificando che chiunque lo ascolti è dalla parte della verità. La risposta non sembra colpire il governatore romano, che si limita a rispondere con una domanda retorica: “Che cos’è la verità?”. A quella domanda Gesù non risponde, almeno secondo l’evangelista, né Pilato sembra attendersi una risposta. Probabilmente l’ha rivolta a sé stesso, lui che dev’essere stato educato allo scetticismo di Pirrone, al relativismo di Protagora, al nichilismo di Gorgia nelle scuole filosofiche di Roma: eccolo, quest’uomo presuntuoso che, come tutti gli ebrei, pretende di possedere la verità, di poter persino annunciare – è di nuovo Giovanni a mettergli in bocca queste parole – di essere via, veritas et vita.
Una domanda ancora attuale
Riletto ai giorni nostri, questo passaggio è più attuale che mai: Pilato è lo scettico nichilista postmoderno, che ha imparato nei suoi lunghi studi che la verità è sempre relativa, dipendente dal contesto, dalla cultura, dall’epoca e così via; Gesù il dogmatico metafisico che annuncia ostinato l’esistenza di un’unica, sola verità. Ma se fino a poco tempo fa questi diverbi potevano interessare solo i filosofi o i teologi, oggi il problema della verità è diventato addirittura un “rischio esistenziale”, a voler dar retta alle analisi del World Economic Forum, che inserisce il problema della postverità, neologismo entrato nei dizionari anglosassoni nel 2016, nel suo annuale rapporto sui rischi che corre la nostra civiltà (WEF, 2017).
Addirittura? Sembra un po’ eccessivo. Dopotutto, le bugie di Pinocchio non hanno mai fatto male a nessuno; lo scetticismo di Pilato, certo, ha mandato a morte Gesù, mettendo a rischio il progetto di salvezza di Dio (hai detto niente), ma qui siamo di fronte a un problema più triviale e più attuale, che riguarda questo mondo. Cosa sta succedendo?
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Quando la Socialdemocrazia tedesca tradì se stessa
Bad Godesberg e il ripudio della democrazia economica
di Alessandro Somma
Nel 2019 ricorrono due importanti anniversari tondi che i tedeschi stanno celebrando con una certa enfasi: cento anni fa veniva promulgata la Costituzione di Weimar, la prima in Europa a parlare di diritti sociali e di democrazia economica, mentre settant’anni fa vedeva la luce la Costituzione di Bonn, l’unica nata dalla sconfitta del fascismo a non menzionare i diritti sociali e la democrazia economica.
Un altro anniversario tondo è stato invece tenuto un poco in sordina. Sessant’anni or sono il Partito socialdemocratico tedesco (Spd) varava il Programma di Bad Godesberg che formalizzava l’accettazione dell’economia di mercato e con ciò il ripudio della democrazia economica come suo orizzonte programmatico.
Democrazia economica
La democrazia economica è stata a lungo un cavallo di battaglia dei Socialdemocratici tedeschi, che coniarono l’espressione ai tempi della Repubblica di Weimar nell’ambito del movimento sindacale[1], per indicare una forma di risocializzazione dell’economia non ridotta alla mera richiesta di un primato della politica. Quel primato era per molti aspetti una realtà: all’epoca i Paesi capitalisti avevano in massima parte riconosciuto la pianificazione come ineludibile[2], motivo per cui occorreva impegnarsi per renderla un’attività frutto di decisioni partecipate. Di qui il primo fondamento della democrazia economica: l’individuazione attraverso il circuito democratico delle scelte produttive complessive e di lungo periodo (Gesamtwirtschaftsplan)[3].
Non si trattava di superare il capitalismo. La pianificazione comportava il coinvolgimento del Parlamento nelle scelte complessive circa il «cosa produrre», per realizzare l’interazione tra meccanismo concorrenziale e meccanismo democratico. Il «come produrre» restava invece ancorato ai fondamenti che contraddistinguono il capitalismo: esso «può e deve essere affidato all’economia di mercato, che presumibilmente si muoverà in modo sensato e proficuo fondandosi sulla libera concorrenza»[4].
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A cento anni dal biennio rosso
I moti per il caro-viveri
di Domenico Moro
Lo studio della storia del movimento operaio e rivoluzionario è importante non solo per ricordare le proprie radici e affermare la propria identità ma anche e soprattutto come ammaestramento per le scelte politiche tattiche e strategiche per l’oggi e per il futuro.
Proprio in questo inizio di estate 2019 cade il centenario dell’inizio del biennio rosso (1919-1920), che rappresenta uno dei momenti di più alta tensione rivoluzionaria delle classi subalterne italiane degli ultimi cento anni, sia per la profondità sia per la diffusione delle lotte sul territorio nazionale. Per certi aspetti, molto probabilmente il biennio rosso rimane superiore anche rispetto agli altri due altri grandi movimenti delle classi subalterne, sia quello sviluppatosi durante la Resistenza, che fu limitato al Centro-Nord e con caratteristiche anche di lotta di liberazione nazionale oltre che di lotta di classe, sia quello che ebbe luogo tra il 1969 e il 1977-80, cioè tra l’Autunno caldo e l’occupazione della Fiat.
Il biennio rosso si articola in una serie di eventi, che hanno inizio nel giugno-luglio 1919 con i moti per il caro-viveri e proseguono con la lotta per la terra, con l’ammutinamento dell’Esercito e culminano con l’occupazione delle fabbriche nel 1920. Dedichiamo questo primo articolo ai moti per il caro-viveri, ma prima è necessario chiarire i precedenti e il contesto in cui nasce il biennio rosso.
Il contesto generale e la Prima guerra mondiale
Così come in Russia la rivoluzione del 1917 fu preceduta dalla sua “prova generale” del 1905, anche in Italia i sommovimenti del biennio rosso furono preceduti, prima dello scoppio della Prima guerra mondiale, da un importante moto insurrezionale, la cosiddetta settimana rossa (1914). La stessa entrata in guerra dell’Italia fu contrassegnata da una importante opposizione da parte popolare, in cui la lotta alla guerra si unì alla lotta per il pane. Di particolare importanza furono gli avvenimenti accaduti durante la guerra, nel 1917.
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Dopo il disastro
Note su A Sinistra di Giorgio Cesarale
di Marco Gatto
I.
Al lettore italiano mancava una sintesi puntuale delle traiettorie teoriche in campo a sinistra. Non mi riferisco a semplici mappe da fruire per uno sterile aggiornamento disciplinare, ma a un tentativo molto complesso di restituzione di un universo filosofico e critico assai vario, la cui multiformità è essa stessa un problema su cui interrogarsi. Giorgio Cesarale, nel suo A Sinistra. Il pensiero critico dopo il 1989 (Roma-Bari, Laterza, 2019), lo fa con grande acume e propone una chiave di lettura assai netta, suggerendoci in che modo interpretare i percorsi della riflessione radicale più recente.
Prima di illustrare la prospettiva messa in campo dall’autore, mi permetto di indugiare sullo stato dell’arte. Più di un decennio fa, uno studioso brillante come Göran Therborn, in un libro dilemmatico dal titolo From Marxism to Post-Marxism?,1 aggiornava le tesi storiografiche di Perry Anderson (il cui noto resoconto de Il dibattito nel marxismo occidentale, datato 1977, rappresentava un tentativo di analizzare il grande turning point che avrebbe condotto alla crisi politica del marxismo) e constatava che il pensiero critico di matrice materialistica stava approssimandosi a una fase di mutazione molto consistente, nel corso della quale avrebbe interrogato la sua effettiva validità interpretativa. In Therborn poteva leggersi, fra le righe, la convinzione che il post-marxismo (ormai divenuto l’involucro del pensiero antagonistico tout court) si fosse ormai arreso all’evidenza di una postmodernità che ne aveva trasformato le modalità analitiche, relegandolo a una delle infinite possibili ermeneutiche del contemporaneo. E, in effetti, se il marxismo tradizionale è divenuto una sorta di “bene culturale” da conservare nei manuali di filosofia, la tradizione novecentesca – chiamiamola pure del marxismo occidentale – ha impresso una spinta a questa sterilizzazione politica, conducendo spesso il discorso politico verso ambiti assai ristretti, a volte solo e soltanto culturali.
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Sviluppi della “teoria della dipendenza”
di Alessandro Visalli
Nell’arco di quasi quattro anni sul blog sono state prodotte molte letture in qualche modo riconducibili allo sviluppo storico della “teoria della dipendenza”, una complessa tradizione che matura tra gli anni cinquanta e sessanta e si concentra sulle relazioni tra i paesi in sviluppo (o “sottosviluppati”) e quelli dominanti (o “imperialisti”), la forma sociale capitalista è letta in tutto il suo sviluppo in chiave di interconnessione mondiale, ma con una significativa evoluzione nel tempo.
Gli autori centrali che abbiamo letto sono stati chiamati a volte “la banda dei quattro”, per la forte comunione di intenti che li caratterizzava, pur entro significative differenze. Della “banda” non è presente Immanuel Wallerstein (ma rimedieremo) e c’è l’inserimento di un autore meno centrale come Hosea Jaffe, ma, soprattutto di un libro decisivo nella costruzione di almeno parte delle radici intellettuali, quello di Baran.
Chiaramente si tratta di un lavoro in itinere, del tutto incompleto e parziale, che richiederà almeno il completamento di altre letture di Jaffe, della linea interpretativa di critica del ‘capitalismo monopolistico’ (scuola marxista americana), con altri testi di Baran, ma anche di Sweezy e O’Connor, e di qualche altro libro secondario di Samir Amin e dello stesso Giovanni Arrighi, ma anche Leo Huberman, Gunnar Myrdal e Terence Hopkins.
In ordine cronologico bisognerebbe partire dalla lettura del saggio di Paul Baran, “Il surplus economico”, del 1957, che si inserisce a pieno titolo in una linea genealogica di autori e saggi marxisti sull’imperialismo che vede superare ed inglobare l’analisi marxiana del colonialismo (che pure anticipa molti temi) con le analisi di Lenin, “L’imperialismo, fase suprema del capitalismo”, del 1916, anticipate da John Hobson, “Imperialism, a study”, del 1902, Rudolf Hilferding, “Il capitale finanziario”, del 1910, e Rosa Luxemburg, “L’accumulazione del capitale”, del 1913. Si può ricordare anche il libro di Henryk Grossmann “Il crollo del capitalismo”, 1929, che tra le controtendenze equilibranti indica il mercato mondiale, ovvero la “ricostruzione della redditività con il dominio del mercato mondiale”, e quindi la “funzione economica dell’imperialismo”.
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Marx "populista''
Costruzione di un giallo fantapolitico
di Alessandro Mantovani
Nel fantapolitico di Diego Gabutti Un'avventura di Amadeo Bordiga (Milano, Longanesi, 1982), ambientato nel primo dopoguerra, il rinvenimento di una lettera comprovante mercanteggiamenti tra Marx e Bismarck getta sbalordimento e scompiglio nell'ambiente dell'appena nata Internazionale Comunista: la lettera deve rimanere segreta, altrimenti tutta la narrazione su cui i comunisti fondano la loro costruzione crollerebbe come un castello di carte. La satira di Gabutti sbeffeggia così, d'un sol colpo, tanto il vezzo dei marxologi per gli inediti che ribalterebbero, di tempo in tempo, l'interpretazione di Marx, quanto il filisteismo dell' ''ortodossia marxista'', alla quale, come noto, lo stesso Marx, di fronte alle dilettantistiche semplificazioni con cui alcuni suoi zelanti discepoli avevano schematizzato il suo pensiero, si era sempre ironicamente sottratto, giungendo sarcasticamente ad affermare: «io non sono marxista».
Ho il sospetto che per immaginare la sua esilarante storia, Gabutti si sia ispirato, oltre che al ritrovamento, dopo la rivoluzione russa, della famosa Confessione di Bakunin allo zar, anche alla scoperta, nel 1923, di una lettera di Marx a Vera Zasulič sul destino della comune rurale russa. Il giallo consisterebbe, in questo caso, nel fatto che la missiva sarebbe stata niente po' po' di meno che occultata dai cosiddetti fondatori del marxismo russo, Georgi Plechanov, Vera Zasulič e Pavel Axelrod, per i motivi che vedremo appresso.
La storia è già nota da tempo1, ma ogni tanto alcuni marxologi la ripropongono, secondo la sequenza: Marx distante dal ''marxismo'', Engels dogmatizzatore dello stesso, Plechanov discepolo di Engels e maestro di Lenin, Lenin allievo di Plechanov e padre di Stalin; ed ogni volta che succede, qualche sprovveduto critico del bolscevismo, ignaro fino a quel momento, si mette a far grancassa2.
La questione, come si vedrà, non è meramente storiografica, anzi, ha un preciso valore politico. Ma torniamo alla storia della lettera scomparsa. Per narrarla, dobbiamo fare un passo indietro.
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Le scienze umane a Bibbiano
di Paolo Di Remigio
(Pubblichiamo volentieri questa riflessione dell'amico Paolo Di Remigio, che parte dai fatti di Bibbiano per discutere su ciò che sono oggi le scienze umane. M.B.)
1.
A Bibbiano, ma in precedenza al ‘Forteto’ vicino Firenze e poi in provincia di Modena, i bambini sono stati strappati ai loro genitori tramite accuse infamanti in particolare nei confronti dei padri e, dopo un lavaggio del cervello perché si rassegnassero al trauma, ma anche senza che si rassegnassero, affidati a nuovi nuclei familiari o a istituti prezzolati. Psicologi, assistenti sociali, giudici hanno calunniato adulti e rubato bambini, per realizzarne le peggiori angosce, per sacrificare le vite di tutti sull'altare del denaro e degli appetiti perversi. L’ampiezza delle reti di complicità, di reticenza e di disattenzione che permette queste spaventose vicende e vi stende il velo dell’omertà dimostra l’esistenza di potenti forze destabilizzanti, animate da un’ideologia che razionalizza l’odio nei confronti dell’istituzione familiare e il cui terreno di coltura è in certi settori delle ‘scienze umane’ – le scienze delle intenzioni: psicologia, sociologia, antropologia.
Poiché rappresentano un costo sociale, le scienze devono giustificare la loro esistenza. Esse dimostrano di meritare i finanziamenti allargando il campo della conoscenza con scoperte utili. Mentre le scienze della natura fanno scoperte utili e non meno utili si mostrano gli strumenti che le hanno consentite, le scienze dell’uomo sono in una situazione molto più difficile. All'uomo l’uomo è molto più trasparente della natura ed è molto difficile aggiungere qualcosa di nuovo e insieme intelligente dopo l’etica di Platone e Aristotele. La ricerca del nuovo si è diretta innanzitutto verso popoli sconosciuti; ma questo campo è essenzialmente esaurito già nel rinascimento; in seguito saranno disponibili soltanto società sempre più piccole, sempre più semplici, e ormai non ce ne sono più da scoprire[1]. La possibilità di scoperta resta invece intatta nell'ambito dell’eccezione, dell’anormalità, della malattia; qui si apre un campo effettivamente sconfinato per la ricerca, perché nel campo dell’umano si danno infinite eccezioni. Le scienze umane più gravide di conseguenze hanno uno stretto legame con le terapie.
Ne deriva una situazione ambigua. La scienza è conoscenza universale: concerne, secondo la determinazione di Aristotele, ciò che accade sempre o per lo più.
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Valentino Gerratana: il filosofo militante che ci ha ridato Gramsci
di Antonio Floridia
“L’uomo che ci ha ridato Gramsci”, così Guido Liguori, presidente della International Gramsci Society, nell’intervento conclusivo del convegno che ha ricordato, nel centenario della nascita, la figura di Valentino Gerratana, e che si è tenuto a Modica, città di origine dello studioso, il 15 e il 16 giugno.
Il convegno modicano, organizzato da una “scuola di formazione politica” intitolata alla memoria di Virgilio Failla (storico leader e a lungo deputato del Pci nel ragusano, in quella che a lungo è stata la “provincia rossa” della Sicilia), in collaborazione con l’Istituto Gramsci siciliano e quello nazionale, nonché con la Gramsci International Society, ha avuto il merito di collocare la figura di Gerratana nel contesto della sue radici (a partire dalla relazione di Giancarlo Poidomani, storico dell’università di Catania, su “la costruzione del Partito nuovo nella provincia iblea”) e di illuminare passaggi della biografia di Gerratana che sono rimasti a lungo poco conosciuti, quasi oscurati dall’imponente lavoro per l’edizione critica dei Quaderni di Gramsci, a cui il nome di Gerratana rimarrà indubbiamente legato.
Un momento culminante, e anche molto toccante, del convegno si è avuto con una lunga video-intervista di Emanuele Macaluso. Lo storico leader del PCI ha ricordato i suoi rapporti con Valentino Gerratana, conosciuto in Sicilia nei primi anni del Dopoguerra, quando Macaluso era segretario della Cgil siciliana e Valentino – inviato in Sicilia dal partito per affiancare Calogero Li Causi – era il direttore, di fatto, de “La voce della Sicilia”, il quotidiano voluto dal Pci per sostenere la battaglia politica durissima di quegli anni per la democrazia e la “terra ai contadini”. La testimonianza di Macaluso ha sottolineato, tra l’altro, la grande stima che Togliatti aveva maturato nei confronti del giovane intellettuale siciliano.
L’amicizia con Giaime Pintor
La relazione generale introduttiva del sen. Concetto Scivoletto ha ricostruito l’intero percorso biografico di Gerratana.
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