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La libertà di non essere sfruttati
di David Harvey
La destra si erge a difesa delle libertà individuali. Ma essere liberi veramente significa sottrarre le nostre vite ai vincoli rigidi del capitalismo. Un'anticipazione dal nuovo libro di David Harvey
Il tema della libertà è stato sollevato mentre tenevo alcune lezioni in Perù. Gli studenti erano molto interessati alla domanda: «Il socialismo comporta che la libertà individuale debba essere sacrificata?». La destra è riuscita ad appropriarsi del concetto di libertà come proprio e a usarlo come arma nella lotta di classe contro i socialisti. Bisogna evitare la sottomissione dell’individuo al controllo statale imposto dal socialismo o dal comunismo a tutti i costi, sostengono.
Ho risposto che nell’ambito di un progetto socialista di emancipazione non bisogna rinunciare al concetto di libertà individuale. Il raggiungimento delle libertà individuali è, ho sostenuto, uno scopo centrale di tali progetti di emancipazione. Ma questo risultato richiede la costruzione collettiva di una società in cui ognuno di noi abbia adeguate possibilità di vita e possibilità per realizzare ciascuna delle proprie potenzialità.
Marx e la libertà
Marx diceva cose interessanti su questo argomento. Una di queste è che «il regno della libertà inizia quando il regno della necessità viene lasciato indietro». La libertà non significa nulla se non hai abbastanza da mangiare, se ti viene negato l’accesso a un’adeguata assistenza sanitaria, alloggio, trasporti, istruzione e simili. Il socialismo deve soddisfare le necessità di base in modo che le persone siano libere di fare ciò che vogliono.
Il punto finale di una transizione socialista è un mondo in cui le capacità e i poteri individuali sono completamente liberati da desideri, bisogni e altri vincoli politici e sociali.
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Il frutto marcio del Recovery Fund
di coniarerivolta
La situazione dei contagi in Italia e in Europa peggiora di giorno in giorno. Il sistema sanitario, sfiancato da anni di austerità, mostra, oggi come durante la scorsa primavera, tutte le sue difficoltà nel gestire la nuova fase dell’emergenza. Nuove chiusure hanno riguardato alcune attività commerciali e alcuni sciacalli continuano opportunisticamente a tirare in ballo il MES, affermando con franchezza che sarebbe la via per legare le mani alla politica economica. La cronaca politica, tuttavia, con un afflato messianico, è da mesi impegnata a cantare le magnifiche sorti e progressive del Recovery Fund. Di questo strumento ci siamo già occupati, mostrandone tutte le criticità. Ora, tuttavia, sembra che sia la sua stessa impalcatura a scricchiolare. È infatti arrivata dalla Spagna, seguita a ruota dal Portogallo e forse dalla Francia, la notizia che il governo di Pedro Sanchez vuole rinunciare ai circa 70 miliardi di prestiti che le spetterebbero dal Recovery Fund pur rimanendo interessato ad ottenere i circa 72 miliardi di contributi a fondo perduto. Anche alla luce di ciò, riteniamo opportuno ripassare quale sia la struttura di questo programma, quali le insidie e a quale punto sia la sua implementazione.
Come abbiamo già avuto modo di raccontarvi, il Recovery Fund è un programma di finanziamento di 750 miliardi di cui 360 miliardi di prestiti e 390 di contributi a fondo perduto, da spalmare nel triennio 2021-2023. Tuttavia, come sappiamo, il diavolo si annida nei dettagli. Nonostante le cifre roboanti, il Recovery Fund, da un lato, rappresenta un programma di rilancio economico del tutto inadeguato rispetto alla gravissima crisi e dall’altro, invece, si qualifica come un efficace lubrificante dei meccanismi di controllo europeo sulle politiche nazionali portando con sé un pesante e certo carico di austerità e riforme.
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Social e capitalismo crepuscolare (living in a box)
di Roberto Fineschi
Funzionamento e funzione dei social nelle dinamiche del capitalismo crepuscolare
Che cosa ci sia dietro ai social è ormai noto a chiunque lo voglia sapere. [1] Mi permetto di fare una breve sintesi di letture e visioni in una prospettiva personale legata ad altre riflessioni recentemente sviluppate sul capitalismo crepuscolare.
1) Costruire la “scatola”
I proprietari di Facebook, Twitter e compagnia cantante sono degli scienziati sociali. Non è una mia nomina ad honorem, lo sono veramente, in particolare sono esperti di psicologia sociale e “comportamentismo”. La nuova alleanza che hanno instaurato è con web designers ed esperti di calcolo, progettisti questi ultimi dei fantomatici algoritmi. Vediamo come funziona questa triplice alleanza.
1.1) Lo scienziato sociale
I comportamentisti mettono sul tavolo la loro psicologia sociale, ovvero lo studio del comportamento umano spontaneo, automatico, precosciente. Forti di evidenze sia teoriche sia sperimentali sulle modalità di reazione a stimoli di diverso tipo, individuano reazioni standard, soprattutto quelle legate alle pulsioni più profonde e condizionanti dell’animale uomo (piacere, dolore, paura, rabbia, autoconservazione, socialità, appartenenza ecc.). Studiano come innescare delle reazioni automatiche, utilizzando scientemente stimoli che attivino queste pulsioni profonde. In particolare sono interessati a produrre comportamenti in tutto e per tutto identici a quelle che chiamiamo “abitudini”, ovvero che si ripetono senza il ripetersi di uno stimolo esterno, ma che vengono compiuti “spontaneamente” da chi agisce: lo stimolo viene in sostanza introiettato.
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Il partito dei lavoratori e gli utili idioti del Capitale
di Antonio Martino
Quando Alberto Asor Rosa pubblicò nel 1977 il suo Le due società: ipotesi sulla crisi italiana nemmeno la fantasia del più fervido indiano metropolitano avrebbe potuto immaginare lo scenario di questi giorni. L’ipotesi di un virus in grado di paralizzare la vita del potentissimo e liberissimo Occidente, infatti, poteva affascinare un lettore di Urania, e non certo un compagno di movimento. Oltre quattro decenni dopo la fantascienza è realtà: anzi, parafrasando Marx, è farsa. Tralasciando l’enorme massa di argomenti sulla (pessima) gestione e sui (falsi) rimedi contro la (scontata, essendo in autunno) seconda ondata, vorremmo concentrarci sull’analisi sociale delle conseguenze della crisi, in accordo con quanto già scritto in merito al problema della classe rivoluzionaria.
Partiamo dal dato reale: chi preme per il cd. lockdown è di norma un soggetto che ha dalla propria parte la sicurezza del posto di lavoro e un certo benessere accumulato. Viceversa, chi si oppone è sovente un piccolo imprenditore- proprietario di attività al dettaglio e di commercio minuto, piccole imprese con pochi dipendenti-, un libero professionista o una partita iva. Dal punto di vista strutturale, la linea di faglia è tra garantiti e non, tra lavoratori dipendenti (pubblici e privati di grandi imprese) e unità produttive autonome. In più, l’enorme massa dei disoccupati e dei precari che tende naturalmente a salvaguardare quegli scampoli di normalità fittizia. Si può perciò affermare, generalizzando, che la gestione delle misure di contenimento (sic) del virus siano un’immensa cartina di tornasole della divisione in classi della società italiana.
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Cosa ci si deve aspettare?
intervista a Leonardo Mazzei
Pubblichiamo l’intervista che Leonardo Mazzei ha rilasciato per la prestigiosa testata tedesca Makroskop
D. Il governo cerca di imporre un secondo lockdown che colpisce anche i diritti politici. Quale è il ragionamento del governo, delle èlite in generale – e le reazioni su scala popolare?
R. Proprio oggi, domenica 25 ottobre, è uscito il nuovo Dpcm (Decreto del presidente del consiglio dei ministri) che punta a restringere ulteriormente la libertà di movimento ed attacca il diritto al lavoro di milioni di persone, in particolare quelli dei servizi turistici e della ristorazione. A differenza di quanto avvenuto a marzo, adesso la linea del governo è quella della chiusura progressiva. Ma continuando così alla fine il risultato non sarà molto diverso. Questa strategia viene perseguita con un Dpcm a settimana. Un modo che, se da una parte mostra le difficoltà di Conte, dall’altro sembra fatto proprio per generare, oltre alla paura, un’assoluta incertezza sul futuro. Il precedente Dpcm, del 18 ottobre, ha stabilito di fatto la sospensione del diritto a riunirsi in luoghi pubblici. Contro questa lesione dei diritti democratici, attaccati in parallelo a quelli sociali, manifesteremo il 31 ottobre davanti alle prefetture dei capoluoghi di regione. Il ragionamento delle èlite sembra chiaro: siccome la crisi è gravissima ed il malessere sociale è alle stelle, la sola tecnica di governo che può funzionare è la strategia della paura. E’ una linea che presenta dei rischi anche per il blocco dominante, ma che finora – come dimostrato anche dai risultati delle elezioni regionali di settembre – ha funzionato. Che continui a funzionare è invece tutto da vedersi. Proprio a causa del clima di paura, la reazione popolare è stata finora modesta. Ma a tutto c’è un limite. E i fatti degli ultimi giorni, a Napoli e non solo, ci dicono che le cose stanno finalmente cambiando.
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L'istruzione
di Elisabetta Frezza
Testo dell’intervento al convegno Euro, mercati, democrazia… e conformismo EMD 2020, svoltosi a Montesilvano (PE) nei giorni 17 e 18 ottobre 2020
questa vis riformista, e iconoclasta, che si è abbattuta sull’istruzione italiana ha sortito l’effetto paradossale che la scuola pubblica, nata come straordinario strumento per sollevare le masse dalla ignoranza, si è intestata ufficialmente il compito di assicurare l’ignoranza di massa
La scuola c’entra, eccome, con il conformismo.
In quanto bacino di raccolta e di smistamento delle giovani generazioni, la scuola è un ganglio fondamentale nella edificazione del mondo nuovo degli uguali, obbedienti e pacificati perché cresciuti senza velleità di pensiero. Che la scuola si sia intestata questo compito palesemente antitetico alla propria ragion d’essere è uno dei tanti paradossi che ci sono inflitti nel tempo delle verità invertite, del bi-pensiero e della ubriacatura delle parole in libertà. Un paradosso esiziale della cui esistenza, e soprattutto della cui gravità, pochi si rendono conto.
Per parte mia, consegnerò qualche riflessione che attinge a quello che, in fondo, è il movente che mi ha spinto in questi anni ad approfondire alcuni aspetti legati alla scuola e alla educazione, ovvero l’esperienza diretta come madre di cinque clienti dell’istruzione pubblica italiana distanziati di un triennio l’uno dall’altro: un’esperienza che ho vissuta in una prima fase quasi passivamente ma, dopo un paio di giri di ricognizione, in modo via via più disincantato, non fosse altro che per l’esito impietoso del confronto diacronico tra le varie istantanee scattate allo stesso soggetto lungo l’arco di qualche lustro.
Quella signora un po’ agée, ma ancora piacente e ancora feconda che era la scuola italiana – un tempo ammirata da tutti come modello di eccellenza sulla scena mondiale – si è rapidamente deturpata.
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La pandemia come metafora della crisi epocale della società capitalista
di Giorgio Paolucci
Basta capitalismo! Via libera a un altro mondo, a un’altra umanità
Ospedali al collasso, locali pubblici, fabbriche e uffici chiusi, volti coperti da mascherine, miliardi di persone chiuse in case, bare accatastate in attesa di una sepoltura. Siamo in stato di guerra si ribadisce a ogni pie’ sospinto: guerra sanitaria, economico-finanziaria, politica e sociale. Una guerra che non ha precedenti perché non provocata dagli uomini ma dalla natura contro l’umanità nella sua interezza. Per alcuni sarebbe una sorta di sua rivalsa contro la smisurata volontà di potenza dell’uomo che lo induce a pretenderne il possesso come pure cosa inanimata e non cuore pulsante della vita e di cui egli stesso è figlio e parte integrante. Comunque, un accidente, una sorta di gigantesca meteorite caduta dal cielo imprevista e imprevedibile.
Così non c’è questione che vada via via ponendosi che non venga ricondotta al Covid-19, quel nemico terribile ed invisibile che non risparmia nessuno. Ormai non si contano più i neologismi composti con la combinazione del termine “Covid-19” o “corona” in ogni campo: scientifico, medico-sanitario ed economico-sociale. Il tutto per costruire una narrazione secondo cui non vi sarebbe alcuna relazione fra la devastante crisi che si annuncia con l’antefatto, vale dire con lo stato delle cose prima del diffondersi della pandemia.
E così, fatto del tutto eccezionale nella storia moderna, una guerra scoppia prima della crisi.
Si potrebbe obiettare che la storia non si ripete mai uguale a sé stessa e che per ogni cosa c’è sempre una prima volta.
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“Il Parlamento cancelli i provvedimenti che vietano le manifestazioni di protesta”
Daniele Nalbone intervista Emiliano Brancaccio
Per l’economista le proteste di Napoli sono solo l’inizio: la crisi del Covid distrugge i vecchi equilibri sociali ed è destinata a scatenare un’onda caotica di rivendicazioni. Per scongiurare tentazioni repressive occorre mettere in chiaro che il diritto costituzionale di manifestare va posto allo stesso livello del diritto alla salute
“Siamo sull’orlo della più violenta ‘doppia depressione’ nella storia del capitalismo. I vecchi equilibri sociali stanno saltando, dobbiamo attenderci un’onda caotica di rivendicazioni che metterà a dura prova l’intero assetto democratico. In questo scenario, chiedo al governo e al parlamento di assumere un impegno: la tutela costituzionale della libertà di riunione e di manifestazione pubblica deve esser situata allo stesso livello della salvaguardia della salute. Non sono più ammissibili decreti e ordinanze che vietino assembramenti e cortei a causa del covid. Le autorità dovrebbero piuttosto impegnarsi affinché tutte le manifestazioni di protesta si effettuino liberamente, in condizioni di rischio sanitario adeguatamente contenuto”. Per Emiliano Brancaccio, docente di politica economica all’Università del Sannio e voce critica del pensiero progressista, la crisi scatenata dal coronavirus è destinata a minacciare il sistema dei diritti su cui reggono le attuali liberaldemocrazie. Una tesi che l’economista documenta nel suo ultimo libro, in uscita il 12 novembre, dal titolo eloquente “Non sarà un pranzo di gala” (a cura di Giacomo Russo Spena, edito da Meltemi), di cui la rivista Il Ponte ha pubblicato un estratto che sta già facendo discutere. Con questa intervista a MicroMega, rilasciata all’indomani delle proteste di piazza a Napoli, Brancaccio commenta l’ipotesi di un nuovo lockdown, analizza i rigurgiti di crisi sanitaria ed economica e lancia un appello in difesa dell’articolo 17 della Costituzione, che sancisce il diritto di manifestare pubblicamente.
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Professor Brancaccio, il Fondo Monetario Internazionale ha sostenuto che un lockdown generale potrebbe ripristinare la fiducia dei cittadini e aiutare così la ripresa economica. Lei ha criticato questa presa di posizione. Perché?
Il FMI non ha fornito evidenze a sostegno di questa tesi ardimentosa. Anzi, i suoi stessi dati indicano il contrario: i lockdown più duraturi sono statisticamente correlati con le crisi economiche più profonde e persistenti.
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Non siamo tutti sulla stessa barca: gli effetti dell’austerità nella seconda ondata
di coniarerivolta
Interrogato sulla possibilità di una nuova chiusura massiccia delle attività sociali ed economiche a fronte del dilagare della pandemia nel Paese, il presidente del Consiglio Conte ha più volte dichiarato che non vi sarà e non vi dovrà essere un nuovo confinamento paragonabile a quello della scorsa primavera. Al di là dei proclami di principio, da cosa dipende davvero la possibilità di evitare nuove soluzioni così drastiche come quelle sperimentate in Italia e altrove tra marzo e aprile senza dover assistere impotenti alla morte – evitabile – di migliaia di persone?
Dopo un’estate relativamente quieta con numeri di contagi molto bassi, la realtà ci mostra, purtroppo, che l’emergenza è tutt’altro che finita: il vaccino, da un lato, è verosimilmente ancora lontano e ha inevitabili tempi di sperimentazione non comprimibili; e la circolazione del virus, dall’altro, ha ripreso la sua corsa con i tristi effetti che già si stanno verificando e che andranno a manifestarsi sempre più nelle prossime settimane.
Che fare dunque? La domanda potrebbe sembrare di esclusiva competenza sanitaria e non piegabile a considerazioni di tipo politico ed economico. In realtà, però, così non è per due ordini di ragioni.
In primo luogo, perché la stretta necessità o meno di un intervento emergenziale come il confinamento è inscindibilmente legata al grado di preparazione di un sistema socioeconomico e sanitario di fronte alla pandemia; in secondo luogo, perché ogni diversa soluzione, o anche solo tamponamento dell’emergenza sanitaria, ha ripercussioni differenti sui diversi strati sociali e ha dunque immediate implicazioni politiche.
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La Cina pensa che gli Stati Uniti siano al capolinea
di Julian Gewirtz (Foreign Affairs) – Giacomo Marchetti
Il conflitto tra USA e Cina ha assunto la forma di un guerra fredda di nuovo tipo.
Le cose cambieranno poco se, in un ipotetico passaggio di poteri a Washington – che non si annuncia per niente lineare e forse non proprio pacifico –, vincerà Joe Biden.
Certo, lo sfidante democratico vuole ripristinare la leadership nord-americana all’interno di una cornice multilaterale abbandonata durante questi anni dall’attuale inquilino della Casa Bianca, costringendo gli Stati Uniti a trovare una forma di confronto non antagonista su alcuni dossier: dall’Accordo di Parigi sul Clima in cui vuole rientrare all’Organizzazione Mondiale della Sanità di cui vuole fermare il processo di uscita, oltre a ri-raggiungere l’UNESCO.
Biden è una atlantista convinto ed intende rafforzare il ruolo della NATO, così come la cooperazione con la UE che saranno probabilmente gli assi della propria politica di pressione sulla Cina.
Biden ha affermato di voler ricongiungersi all’Accordo sul Nucleare sull’Iran ed in generale “rivedere e potenzialmente riformulare l’intero approccio ai Paesi del Golfo”, come ha dichiarato un consulente dell’amministrazione Obama al «Financial Times».
Dalla sua prima visita all’estero da Presidente in Arabia Saudita e Israele nel maggio del 2017, Donald Trump ha consolidato sempre un legame più stretto con la petrol-monarchia araba e con l’entità sionista: dall’uscita dall’accordo sul nucleare firmato da Obama nel 2015 alla spinta per la “normalizzazione” dei rapporti con Israele da parte di alcuni Stati Arabi (EAU, Barhain e probabilmente Sudan), per non parlare della vendita di ingenti quantitativi di armi usati nella guerra in Yemen.
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L’unità dei comunisti può poggiare su un’unica base: quella del marxismo-leninismo
di Eros Barone
«Prima di unirsi, e per unirsi, è
necessario innanzi tutto definirsi risolutamente e
nettamente» (Lenin).
Abbiamo assistito alla fine di una fase iniziata, almeno in Italia, con il collaborazionismo delle sinistre sedicenti “radicali” (Prc e Pdci) rispetto alla borghesia e la loro progressiva delegittimazione rispetto al proletariato: epoca che si è conclusa con la loro scomparsa dal parlamento. La bancarotta politica, ideologica e morale delle formazioni opportuniste, non meno che la costituzione del Pd, partito della borghesia imperialista, avrebbero dovuto indurre ad una seria riflessione coloro che avevano sopravvalutato il grado di permeabilità di tali formazioni rispetto a posizioni autenticamente comuniste, ossia marxiste-leniniste, e che non si rendono ancora conto che una fase della storia del movimento di classe, legata alla nozione otto-novecentesca di ‘sinistra’, si è definitivamente chiusa.
Ciò è reso ancor più evidente dalla presenza, dentro la ‘sinistra’, di una cultura anticomunista e pro-imperialista sempre più diffusa, che ostacola fortemente lo sviluppo di un metodo e di una teoria capaci di superare il movimentismo e la pura protesta: quel movimentismo e quella protesta che sono, per dirla con Mao Ze Dong, come i palloni che, quando piove, si afflosciano. Quella che il Partito Comunista ha intrapreso è dunque una ‘lunga marcia’ verso i lavoratori, verso le fabbriche, verso gli uffici, verso le periferie, verso le scuole e le università: i tanti luoghi nei quali nessuno sa più quali siano le grandi ragioni di un partito comunista fondato sul socialismo scientifico.
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André Gorz, “Addio al lavoro”
di Alessandro Visalli
Nel 2000 il filosofo francese André Gorz risponde all’intervista di Margund Zetzamann, spiegando[1] le ragioni per le quali nel suo “Miseria del presente, ricchezza del possibile”[2] invitava a liberarsi dell’obbligo del lavoro. Gorz, che si toglierà la vita di lì a sette anni, sul lavoro aveva a lungo riflettuto cercando costantemente la via per l’autorealizzazione del singolo dentro gli angusti spazi della gabbia d’acciaio della moderna società industriale e capitalista (ma anche socialista reale). Già nel 1967, scriveva che in entrambe le società “l’individuo, in quanto produttore e in quanto cittadino, è spodestato di ogni potere reale (che non può essere altro che potere collettivo) sulle decisioni e sulle condizioni produttive che modellano la sua vita di lavoro e la sua vita fuori del lavoro. Subendo la società più che crearla consapevolmente, essendo incapace di identificarsi con la sua realtà sociale, l’individuo tende a ripiegare nella sfera privata come la sola sfera in cui egli è sovrano” [3]. Ma questo “spodestamento”, continuava, avviene in quanto lavoratore. Egli, “privato di iniziativa, di responsabilità e di valorizzazione sociale nel suo lavoro, tende a cercare una compensazione nel non-lavoro”. Tema, questo, sul quale è larghissima la riflessione e lo resterà a lungo.
Da queste formulazioni durante gli anni ottanta passerà alla proposta di riconoscere i limiti propri alla razionalizzazione e fermare la mercatizzazione sulla soglia di quel che è socialmente sostenibile. In altre parole, di fermare l’integrazione funzionale sulla soglia dell’integrazione sociale e puntare sulla “riduzione metodica, programmata, massiccia della durata del lavoro (senza ridurre il reddito)”[4]. A questo stadio la proposta pratica, su cui a lungo insisterà, è di stabilire l’erogazione di un reddito di secondo livello che integri un tempo di lavoro effettivo calante e socialmente prestato.
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Respirare il mondo: la rivolta di Donatella
di Marcello Tarì
Che la rivolta sia qualcosa che riunisce in sé esigenze economiche, politiche e soprattutto esistenziali e perciò sia un evento che ha dignità di essere pensato dalla filosofia non è un fatto scontato. È scontato che se ne occupino, per questioni strettamente disciplinari, la storia o la sociologia, ma della rivolta in quanto tale, con tutto il suo portato di urla, di fiamme e di ebbrezza, è davvero raro che filosofi e filosofe se ne occupino, specie alla nostra latitudine. Questo “occuparsene”, ponendola al centro e non ai margini della riflessione filosofica, è di per sé una delle qualità principali del nuovo saggio di Donatella Di Cesare che esce in questi giorni per Bollati Boringhieri, Il tempo della rivolta. È un piccolo libro ma così denso da impedire l’impresa di parlare in un breve articolo di tutto quello che vi è contenuto, bisogna leggerlo e con attenzione insomma.
Negli ultimi anni il tema della rivolta si è fatto sempre maggiore spazio nella cronaca dando vita a molti e inconcludenti dibattiti sui media, ma soprattutto ad alcuni importanti testi fra i quali ricorderei, per la loro incisività, senz’altro L’insurrezione che viene e i seguenti libri dei Comitato Invisibile, editi in Italia lo scorso anno da Nero, e il saggio di Joshua Clover, Riot Strike Riot. The New Era of Uprisings (Verso, 2016), purtroppo mai tradotto in italiano. Se il primo testo del Comitato, apparso nel lontano 2007, si può dire seminale e percorso da una tensione che non si può che definire profetica, quello del marxista Clover interveniva al culmine del ciclo di rivolte che hanno scosso il mondo lo scorso decennio, cioè le rivolte arabe, quelle delle piazze in Europa e di Occupy negli USA.
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Meme col fucile. Un’antropologia del collasso
di Jack Orlando
Una recensione a «Kill All Normies» di Angela Nagle
«Che cosa ottieni se metti insieme un malato di mente solitario come me e una società che lo abbandona e poi lo tratta come immondizia?», chiede il Joker di Todd Philipps, prima di dare da sé la risposta: «Ottieni il cazzo che ti meriti».
Se ne è fatto un gran parlare di quel film. Di quel personaggio che più che da un fumetto è sembrato uscire dallo specchio del bagno di casa. Delle possibili letture, immancabilmente cieche, di destra o di sinistra del suo agire torbido, sconclusionato eppure familiare.
Familiare perché incarnava l’emarginazione strutturale e la sofferenza psichica che scivolano verso la violenza, il bravo bambino che diventa lupo mannaro. Un loop visto ripetersi a coazione fuori e dentro gli schermi. Perché è evidente a chiunque che la civiltà capitalistica moderna non faccia altro che incedere producendo scarti umani, affastellandoli gli uni sugli altri come le macerie ai piedi dell’Angelo della Storia. E dove vanno quegli scarti, quando non entrano in carcere, in comunità, in obitorio o in psicanalisi?
Si ritirano nell’ombra, si leccano le ferite e covano odio e rancore per una vergogna a cui è difficile trovare un responsabile. L’emarginazione comporta ontologicamente un ripiegamento su se stessi come la natura umana comporta la ricerca del proprio simile. Ed ecco sorgere comunità di esclusi e falliti che mangiano dallo stesso piatto amaro e parlano la stessa lingua sgradevole dando le spalle al resto del mondo, autocompiaciuti e vicendevolmente esaltati.
E in un mondo dove il social network è diventato parte integrante della socialità, assumendone a volte l’unica forma, dove altro potevano ritrovarsi questi soggetti? Rassicurati dall’anonimato, confortati da una dimensione comunitaria che non necessita di rapporti umani, felici della assoluta libertà di parola che queste idrovore di parole garantiscono.
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Tech Worker, lavoro tecnologico e identità. Nuovi orizzonti e nuove forme di conflitto
di Simone Robutti
Questo articolo presenterà un’analisi utile a comprendere la nuova ondata di organizzazioni, scioperi e proteste che attraversa il settore dell’Information Technology(IT), in particolare in USA e Nord Europa, scritta dal punto di vista di un Tech Worker. La speranza è quella di dare trasparenza a questi fenomeni e permettere di comprenderne più a fondo le peculiarità, le similarità con strutture e processi passati e presenti ma anche le profonde differenze sia sul piano della prassi che sul piano dell’identità
Nota: in questo articolo si utilizzerà il termine “Tech Worker” per identificare esclusivamente figure tecniche o creative impegnate nello sviluppo di software, hardware e artefatti tecnologici in genere. Questo uso del termine differisce da quello, ad esempio, di Tech Workers Coalition che definisce Tech Worker chiunque sia coinvolto nel processo di produzione di una tecnologia. Questa scelta è fatta per meglio mapparsi sulla nascente identità del Tech Worker, che sebbene venga forzosamente allargata a figure molto diverse tra loro per scopi strategici, ad oggi ha trazione principalmente tra figure tecniche. Questa non è una critica all’obiettivo di creare solidarietà tra diverse categorie di lavoratori ma esclusivamente una semplificazione fatta per dare chiarezza alle idee qui esposte. Alcune mansioni associabili a questa definizione di Tech Worker sono: grafici, programmatrici, designer, sistemisti, architetti del software, tester, quality assurance, copywriter.
Il Capitale Digitale è un colosso dai piedi d’argilla. La testa d’oro, la parte più visibile, è quella di Mark Zuckerberg, Sundar Pichai o di Jeff Bezos che iniziano a trattare con gli Stati-Nazione da pari. Ormai insidiati nelle strutture produttive, logistiche e burocratiche di ogni paese, hanno reso dipendenti non solo i consumatori ormai inseparabili dai loro schermi (incluso il sottoscritto) ma anche tutti i tessuti sociali di cui fanno parte. Una rimozione repentina di Google Search, Google Cloud Platform o Amazon Web Services avrebbe un impatto traumatico su tanti settori industriali, al punto che l’Unione Europea insegue il sogno di un Cloud indipendente e di servizi web liberi dalla giurisdizione americana non solo come stimolo al settore digitale del vecchio continente ma anche e sopratutto come strumento di indipendenza tecnologica.
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Homo pandemicus
Ideologia COVID e nuove frontiere del consumo.
di Fabio Vighi*
L’attuale emergenza sanitaria dovrebbe suggerirci una riflessione sul potere dell’ideologia in un’epoca troppo frettolosamente definita post-ideologica. La caduta del muro di Berlino, ça va sans dire, non ci ha liberati dalle ideologie. Piuttosto, il sentirci affrancati da pressioni ideologiche ci rende vulnerabili a un non-pensiero unico tarato sull’anonima brutalità del calcolo economico. Con la globalizzazione e l’emancipazione dalle Grandi Narrazioni ci siamo consegnati a forme sempre più subdole di manipolazione che intercettano la dimensione viscerale del nostro essere. La dissoluzione dei vecchi legami simbolici ci ha proiettato nella dittatura piatta e invisibile dell’economia, contrabbandata come libertà. Questa pretestuosa libertà si risolve, essenzialmente, nell’obbligo di produrre e consumare valore (merce).
Resistere alla potenza di fuoco dell’ideologia capitalista è sempre più arduo. La nostra info-sfera centrifuga dati, annunci e comunicati a velocità supersonica. Questi segni ci soverchiano, demolendo le nostre capacità critiche e condannandoci a uno stato di ipnosi semi-permanente. Se a volte troviamo la forza di resistere a questa sopraffazione, ci ritroviamo però ridotti all’impotenza quando si tratta di immaginare nuove configurazioni sociali in grado di garantirci uno spazio di autonomia rispetto ai rapporti socio-economici che ci definiscono. Da qui la percezione di un tempo storico insieme irreversibile e inesauribile, per cui l’intera esperienza umana ripiega in un flusso destinale dove ogni evento è posto e insieme presupposto dalla metafisica del capitale.
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Covid, lo sconforto prima del grande Reset
di Piotr
Uccidere il paziente per uccidere il virus è una soluzione? Uccidere una società per salvarla da una pandemia è la soluzione? Il Covid ci pone di fronte a una gravissima crisi sistemica
Che sconforto.
Da tempo mi domandavo se non sia un po' stupido un governo che spende i soldi in bonus per biciclette e monopattini ma non potenzia i trasporti pubblici. Davvero pensava che le cose fossero equivalenti per la mobilità?
E così ci troviamo nella demenziale situazione di studenti distanziati in aula e accalcati sui mezzi pubblici. I treni regionali possono imbarcare il 100% dei posti. In quelli per pendolari, come i lombardi di Trenord, addirittura si invitano i passeggeri a non mettere oggetti sui sedili perché devono essere tutti occupati, con anche un bel po' di posti in piedi. Gli autobus possono riempirsi per l'80%, cifra già alta e poi chi controlla?
E così finisce che a scuola non ci si infetta in modo significativo, ma andando a scuola sì. E dunque oggi si ritorna all'odiosa, inutile e desocializzante didattica a distanza, senza che la scuola ne abbia colpa.
Ci si infetta sui mezzi di trasporto, sul lavoro, a casa e negli ospedali. Cosa è stato fatto per prevenirlo? Ad esempio cosa si è fatto per non dover ricoverare per motivi sociali positivi paucisintomatici (persone sole, o al contrario che vivono in case sovraffollate, quelle che convivono con anziani, ecc.)? Bonaccini afferma di aver individuato 1.000 posti letto in strutture alberghiere per questi ricoveri di carattere sociale che non richiedono cure mediche, così da non gravare sugli ospedali. Questo in Emilia Romagna. E nelle altre regioni?
E allora, via con altri palliativi, la chiusura dei teatri, delle palestre e dei cinema, già semideserti e tutti dotati di estrattori d'aria (poveretti, una spesa per nulla e una chiusura per niente; questi i dati dell'AGIS per il periodo di riapertura 15 giugno-10 ottobre: spettacoli 2.782, spettatori 347.262, contagiati 1!), i ristoranti che non possono più servire la cena (il pranzo sì, la cena no: perché?), la proibizione di accompagnare a casa la fidanzata di notte, la raccomandazione (che tra poco mi sa tanto diverrà un obbligo) di non muoversi nemmeno coi propri mezzi (e se uno vuole farsi una gita in campagna, in montagna o in un bosco? Che senso hanno queste raccomandazioni quando già ci sono meticolosi divieti per evitare ogni tipo di assembramento?).
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Ragionando sulla domanda effettiva
di Bollettino Culturale
Il principio della domanda effettiva in Kalecki
Dalla critica di Marx alla legge di Say e accettando gli aspetti strettamente economici della teoria del valore e della distribuzione classica, Kalecki cerca di sviluppare una nuova teoria del prodotto e dell'accumulazione. Proporre lo sviluppo degli schemi di riproduzione presentati da Marx e un modo per spiegare le crisi come fenomeni che possono avere effetti a lungo termine a livello normale del prodotto.
La proposta di Kalecki è quindi la seguente: basato su una teoria del valore e della distribuzione basata sulla nozione classica di surplus, il meccanismo che descrive la relazione tra risparmio e investimento e fornisce le basi per una teoria del prodotto si basa sul principio della domanda effettiva.
La formulazione kaleckiana del principio della domanda effettiva prende come punto di partenza l'idea che non vi sia alcuna garanzia che la domanda aggregata possa essere sufficiente ad assorbire il prodotto generato dal normale utilizzo dello stock di capitale esistente. Una delle componenti della domanda aggregata, l'investimento, sarà la determinante del livello di risparmio nel sistema. Kalecki esclude da questa analisi la possibilità che si verifichino squilibri in un settore isolato dell'economia a causa di sproporzioni tra i settori produttivi, poiché la sua idea è di lavorare con un'analisi a lungo termine.
Utilizzando il principio della domanda effettiva per colmare il divario tra una teoria del valore e della distribuzione e una teoria del prodotto, possiamo vedere due percorsi teorici: uno basato su una critica alla teoria della scuola marginalista, ma utilizzando la sua teoria del valore, che è stato utilizzato da Keynes.
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Pechino. Riunione del Comitato Centrale: la Cina si guarda dentro
di Michelangelo Cocco*
Sulla quinta sessione plenaria (plenum) del XIX Comitato centrale del Partito comunista cinese, che si svolgerà a Pechino dal 26 al 29 ottobre, saranno puntati gli sguardi dei potenti del mondo, interessati a capire come la seconda economia del pianeta intenda reagire all’uno-due della guerra commerciale-tecnologica scatenata dalla Amministrazione Trump e della pandemia di coronavirus.
Dopo che il IV plenum (28-31 ottobre 2019) aveva decretato la linea dura contro i ribelli di Hong Kong, questa volta i 204 membri permanenti e i 172 supplenti del CC si concentreranno sulla discussione del XIV Piano quinquennale (2021-2025), che sarà formalmente approvato in primavera dall’Assemblea nazionale del popolo.
Nuova era cinese e opportunità nella crisi
L’economia si riprende dunque il centro della scena. Non poteva essere altrimenti in una fase segnata dal secondo shock globale del capitalismo in poco più di dieci anni. Come già in occasione della crisi finanziaria scoppiata nel 2007, il Pcc proverà a sfruttare la pandemia per rafforzare la sua legittimità a governare come partito unico, ma per riuscirci dovrà compiere decisivi passi avanti riguardo a problemi economici e sociali fondamentali, tuttora irrisolti.
Il 30 luglio scorso (nella riunione dell’Ufficio politico che ha convocato il quinto plenum), nonostante il crollo del prodotto interno lordo (-6,8% nel primo trimestre, +3,2% nel secondo), Xi Jinping e compagni avevano dichiarato centrato il primo dei due obiettivi dei centenari, ovvero la creazione di “una società moderatamente prospera in ogni ambito”, con un Pil pro capite di 10 mila dollari (raddoppiato rispetto al 2010) – in anticipo rispetto all’anniversario della fondazione del Partito, che il 23 luglio prossimo compierà 100 anni.
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Quella luce in fondo al tunnel
PSN e tds a tasso negativo versus mes e RF
di Francesco Cappello
Scegliere tra le possibilità offerte, da una parte dal piano di salvezza nazionale PSN, a cui si affiancano oggi i titoli di stato a tasso negativo (1), e dall’altra da MES e Recovery Fund RF (Next Generation EU), non dovrebbe risultare difficile. Tutt’altro.
Statonote (una delle sei proposte del PSN)
Se aveste la possibilità di stamparvi la moneta che vi serve per concretare i vostri sogni/progetti senza incorrere in alcun effetto collaterale, di sicuro preferireste procurarvi così i soldi che vi servono piuttosto che farveli prestare, anzi, non avreste dubbi in proposito per il semplice motivo che in questo secondo caso sapete bene che i soldi ricevuti in prestito prima o poi dovreste restituirli, per di più maggiorati dagli interessi.
Ebbene, a trovarsi nella situazione precedentemente descritta è niente di meno che lo Stato di cui siamo parte. Lo Stato può immettere nel circuito economico, per tutte le esigenze di spesa del Paese, moneta di stato, legale entro i confini del territorio nazionale, o statonote come preferisce chiamarle Antonino Galloni, presidente del Comitato Nazionale Statonote (CNS), per distinguerle dalle banconote che hanno diversa origine. La prima è moneta non a debito a cui non siamo nuovi per averne già sperimentato l’uso sin dal 1966 (governo Aldo Moro con la consulenza di F. Caffè). La quantità di statonote o biglietti di stato da mettere in circolazione è relativa al fabbisogno dello Stato ossia quella necessaria a mobilitare quei fattori produttivi inespressi a cominciare dalla forza lavoro non più in grado di generare ricchezza perché sprecata nella immobilizzazione propria dello stato di disoccupazione, sottoccupazione inoccupazione ecc.
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Contro “l’unita’ dei comunisti”
di Norberto Natali
Uno stimolante contributo di Norberto Natali che ci auguriamo possa aprire un dibattito a sinistra e fra i comunisti
“Tutti i partiti rivoluzionari e di opposizione sono sconfitti. Scoraggiamento, demoralizzazione, scissioni, sfacelo, tradimento, pornografia invece di politica. Si accentua la tendenza all’idealismo filosofico; si rafforza il misticismo come copertura dello spirito controrivoluzionario”.
(Lenin “L’estremismo, malattia infantile del comunismo” - 1920)
Ero un giovanissimo operaio “borgataro”, senza titoli di studio eppure mi risultava semplice leggere Lenin. Perciò lo facevo con avidità: con poche e semplici parole riusciva a farmi comprendere numerose e complicate questioni. Aveva un linguaggio asciutto, incalzante, trascinante nella sua lucidità logica, tanto da dare l’impressione che sapevi sempre cosa fare.
Le aspre ed inedite difficoltà (minimizzo) dei nostri tempi, in Italia, riportano prepotentemente alla mia memoria quelle vecchie letture. Mi viene da pensare che Lenin -parlando di noi, ora- direbbe più o meno: “la questione essenziale è chiara e inconfondibile. Chi ha a cuore la causa del partito comunista -ossia la causa del proletariato, del rilancio vittorioso della lotta di classe, della salvaguardia della pace e della natura, del socialismo- deve necessariamente (prima di tutto) trovare il modo di attingere le proprie forze tra vaste masse proletarie (in particolare giovani) le quali, al momento, non hanno alcun interesse per la lotta politica e ancor meno simpatia per i comunisti”.
Per lo meno ciò è quello che penso e sarò grato a chi mi aiuterà a capire -eventualmente- se sbaglio.
Nel frattempo, questa mi sembra la premessa migliore per affrontare tre problemi concreti.
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Crisi della globalizzazione e attualità delle teorie della dipendenza
di Carlo Formenti
Secondo Fukuyama, il marxismo sarebbe morto assai prima del 1989, in assenza della miseria del mondo sottosviluppato, fenomeno che ha consentito alla scuola dei teorici della dipendenza di prolungarne la vita, sia pure al prezzo di alcuni “tradimenti” nei confronti della versione “canonica” che i fondatori avevano consacrato fra fine Ottocento e primo Novecento. Il libro di Alessandro Visalli, Dipendenza, da poco approdato in libreria per i tipi dell’editore Meltemi, esordisce citando questa opinione dell’autore della Fine della storia. Sappiamo che poi la storia non è affatto finita, e che il filosofo nippoamericano è stato altrettanto imprudente nel recitare il de profundis per il marxismo, cui la crisi del sistema liberal liberista sta oggi concedendo più di una rivincita, ma questo non è l’unico, né il più significativo, argomento della corposa (400 pagine abbondanti) e documentatissima ricerca che Visalli ha condotto sulla scuola della teoria della dipendenza.
Parliamo di una scuola che rappresenta una delle più affascinanti avventure del pensiero critico dell’ultimo mezzo secolo, un pensiero che, pur con i diversi accenti e sfumature che ognuno dei suoi vari esponenti vi ha incorporato, si è evoluto nei decenni senza mai rinunciare al filo rosso di una tesi di fondo comune: il sottosviluppo non è il prodotto di una carenza di capitali e tecnologie, né di insufficienti livelli di modernizzazione, bensì delle forme specifiche che il modo di produzione capitalistico ha assunto in determinati Paesi, e della loro collocazione nel sistema internazionale. Per argomentare questo punto di vista, Visalli ha scritto un libro difficilmente inquadrabile in un'unica categoria disciplinare, visto che può essere definito come un saggio di storia delle idee e delle teorie economiche, ma effettua frequenti incursioni in campi come la geopolitica, l’antropologia e la politologia.
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“Sistema americano”, fascismo e guerra civile
di Sandro Moiso
Andrew Spannaus, L’America post-globale. Trump, il coronavirus e il futuro, con una Prefazione di Giulio Sapelli, Mimesis, Milano-Udine 2020, pp. 190, 15,00 euro
“Per troppo tempo il nostro governo ha abbandonato il Sistema americano” (Donald Trump, 20 marzo 2017)
Andrew Spannaus, giornalista e saggista statunitense che da diversi anni vive in Italia, si è già distinto in passato per un’attenta e precisa disamina anticipata dei motivi che avrebbero portato Trump alla vittoria nella corsa alle presidenziali del 2016 (qui) e delle ragioni del diffondersi del neo-populismo tra gli elettori in Occidente (qui). Ancora una volta, nel testo appena pubblicato da Mimesis nella collana «Il caffè dei filosofi», le sue considerazioni e i dati che egli porta a loro sostegno si rivelano sicuramente interessanti, anche se non sempre pienamente condivisibili da parte di tutti i lettori.
Quello che è certo è che, nell’attuale turbillon mediatico riguardante le elezioni presidenziali americane di quest’anno e le conseguenze socio-economiche della pandemia da Coronavirus, il libro del giornalista americano si pone tra i più utili. Almeno per stimolare un dibattito troppo spesso asfittico, scontato e accecato dalle ideologie e dal politically correct. Un dibattito che, per essere considerato tale, dovrebbe avvertire la presenza di più voci e non soltanto quella della vulgata dominante ovvero delle Sinistre liberal e delle Destre più scontate.
Tre sono i punti principali che il saggio tocca: il primo è quello dello scontro istituzionale (più o meno velato) che si è svolto tra Donald Trump e il deep state rappresentato dalle agenzia per la sicurezza e i funzionari dell’amministrazione fin dagli esordi della sua presidenza. Tema cui si ricollega direttamente il suo tentativo, scarsamente riuscito, di modificare alcune delle linee guida seguite dai governi precedenti in tema di politica estera.
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L'inquietante fiuto dei pazzi
di Commonware
Il complottismo è il sintomo della fine di un’epoca, della perdita di senso, della percezione che il domani non sarà migliore di oggi, che la promessa del progresso è andata a farsi fottere
«È il lato cattivo a produrre il movimento che fa la storia, determinando la lotta».
K. Marx, Miseria della filosofia
«Conquistare può solo colui che conosce la sua preda meglio di quanto questa conosca se stessa».
C. Schmitt, Ex captivitate salus
«Sono bei tempi quelli in cui si distrugge».
M. Tronti, La politica al tramonto
Per amor di chiarezza, tagliamo il discorso con l’accetta. In questa fase vediamo due tipologie di mobilitazioni politiche che, su scala internazionale, stanno raccogliendo una composizione che travalica l’esausto ceto politico delle sinistre e delle destre, movimentiste o meno: da una parte le mobilitazioni che vengono rubricate – in modo spesso riduttivo e talora addirittura fuorviante – sotto l’etichetta della identity politics, ovvero antirazziste (esemplificate ma secondo noi niente affatto contenute dal logo Black Lives Matter), ecologiste (Fridays for future), femministe (Non una di meno), dall’altra quelle che, sintetizzando, sono state definite – con un’accezione perlopiù negativa – complottiste, ovvero mobilitazioni contro la cosiddetta «dittatura sanitaria», vaccini, tecnologia 5G e più in generale contro i sordidi progetti dell’«élite globalista», visibile o occulta che sia. Se le prime, a queste latitudini (e, precisiamo, con significative differenze ad altre latitudini), sono le mobilitazioni che attraggono l’attenzione di una sinistra che si vuole illuminata, le seconde sono espressione di quella che si può chiamare deep society. Entrambe le tipologie, crediamo, sono in buona misura sintomo e manifestazione, per quanto superficiale e in modo tutt’altro che univoco, oltre che nei loro non infrequenti intrecci o scontri, di un processo ben più profondo e strutturale: la crisi dei ceti medi. Dentro questo fenomeno, ormai ben più di una semplice tendenza, occorre porsi strategicamente.
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Perché una nuova Bretton Woods non basterà a superare la crisi economica post Covid
di Enrico Grazzini
La crisi del coronavirus colpisce duro, ma non basta: incombe già una nuova terribile crisi finanziaria globale. Le soluzioni per uscire dalla crisi economica sono, almeno sulla carta, abbastanza semplici: forte sostegno pubblico al welfare e all'economia; cancellazione e/o ristrutturazione delle montagne di debito privato e pubblico; finanziamenti pubblici per le imprese e per sostenere i redditi famigliari; monetizzazione dei debiti pubblici da parte delle banche centrali; riduzione generalizzata dell'orario di lavoro per abolire la disoccupazione dilagante. Queste le misure che i governi del G20[1] riuniti in una nuova Bretton Woods dovrebbero prendere urgentemente per superare la crisi portata dalla diffusione, per ora ancora incontrollabile, del coronavirus. Ma la politica internazionale è ferma e paralizzata dai nazionalismi – prima di tutto quello di Donald Trump -. Per quanto riguarda l'eurozona il Next Generation Plan quasi certamente si rivelerà insufficiente: “troppo poco e troppo tardi”. Allora il governo italiano, senza aspettarsi “aiuti” da nessuno, potrebbe (e dovrebbe) emettere subito dei titoli-moneta complementari all'euro per rilanciare gli investimenti pubblici e privati, finanziare la ripresa e un'Italia verde e sostenibile.
Il mondo post-covid sarà molto più povero, pieno di debiti e di disoccupati
Il mondo post Covid sarà molto più brutto di quello precedente: molte aziende falliranno, molte banche avranno grandi buchi di bilancio, la disoccupazione salirà alle stelle, la povertà colpirà (e colpisce) milioni di persone anche nel ricco mondo occidentale e le diseguaglianze aumenteranno a dismisura, tra le nazioni e dentro le nazioni.
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