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Le difficoltà del sindacalismo alternativo in questa fase
di Michele Castaldo
Ci sono stati nei giorni scorsi dei fatti gravissimi da parte delle istituzioni dello Stato democratico, cioè della polizia e della magistratura contro il SI Cobas, un piccolo sindacato nel quale sono confluite le necessità di lavoratori della Logistica, a maggioranza immigrati di colore, per difendersi contro le infami condizioni di lavoro. Stabilite le debite distanze con la democrazia repubblicana e le sue leggi, che vengono utilizzate a fisarmonica, cioè secondo le circostanze e le convenienze della pressione del dio capitale, guardiamo al di qua della linea di confine, cioè fra quanti in un modo o in un altro si richiamano alla difesa delle necessità del proletariato e alle sue difficoltà in un momento molto complicato per gli oppressi e sfruttati in ogni angolo del pianeta per una crisi capitalistica senza precedenti nella storia moderna. Lo dobbiamo fare senza spocchia, senza presunzione, senza una stupida difesa di bottega, ovvero senza fanciullesco estremismo, cercando di relazionarci correttamente ai fatti piuttosto che predeterminare la nostra opinione sui fatti per volgerli a nostro favore.
Il 22 marzo prossimo – salvo sorprese dell’ultima ora sempre possibile – ci sarà uno sciopero generale indetto dalle organizzazioni storiche del proletariato italiano Cgil, Cisl, Uil contro Amazon su una piattaforma ovviamente non rivoluzionaria e molto interlocutoria, è inutile nascondercelo.
Come si dovrebbe comportare un piccolo sindacato come il SI Cobas che negli ultimi anni si è esposto oltremodo nel settore della Logistica ed ha costruito le sue “fortune” in termini di credibilità con costi altissimi in termini di repressione dei propri quadri, dirigenti e militanti?
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I giganti della rete dietro la repressione in India; e poi nel mondo
di Giacomo Marchetti
In calce un articolo di Naomi Klein da Intercept
Rispetto a ciò che sta accadendo in India, ciò che colpisce è il miope eurocentrismo di un gran parte del movimento ecologista – e non solo – occidentale, nonostante la repressione contro il vasto movimento che sostiene la lotta dei contadini indiani abbia coinvolto anche Disha Ravi – una ventenne fondatrice di Friday For Future – e la condivisione di massa di un “toolkit” (versione digitale di un manuale di base per l’attivismo politico) elaborato da Greta Thumberg.
Eppure il caso giudiziario della ventenne ecologista e dell’altra giovane sindacalista Nodeep Kaur sono solo la punta dell’iceberg della profonda torsione autoritaria in corso in India, nel tentativo di stroncare il più grande movimento sociale mondiale del XXI secolo.
Forniamo due cifre sulle due più recenti iniziative nazionali basandoci su ciò che riporta la Monthly Review Online. Nella giornata di blocco stradale del 6 febbraio (Chakka Jaam) sono stati mobilitati milioni di contadini in più di 3.000 centri, in più di 600 distretti dell’Unione. Mentre alla giornata di blocco delle ferrovie (rail roko) del 18 febbraio sono stati interessati 600 centri, nella maggior parte degli Stati indiani. Come riporta la storica rivista statunitense: “è stato per l’India il blocco ferroviario più esteso della storia recente”.
Le questioni che vengono poste ci riguardano da vicino visto che, tra l’altro, l’India è un laboratorio per ciò che saranno i socials nord-americani nel futuro e di come l’informazione sia diventata uno dei principali campi di battaglia nella guerra asimmetrica che contrappone le élites mondiali ed il resto del pianeta.
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Dentro e contro l’ipotesi autonoma
Alcune note sul libro L’hypothèse autonome di Julien Allavena.
di Michele Garau
Di libri sull’autonomia e il 77 in Italia ce ne sono tantissimi. Perlopiù tutti vertono sulla stessa ricostruzione lineare ed univoca, salvo alcune meritevoli eccezioni. Si tratta di una storia fatta di «c’era un volta», di nomi, date e luoghi che si inanellano senza intoppi. Prima ci sono i «Quaderni rossi» e «Classe operaia», la monumentale tradizione dell’operaismo italiano, con i suoi padri nobili ed i suoi scismi. Poi viene «Potere operaio», la crisi dei gruppi e la ricomposizione intorno ad un nuovo soggetto. Un susseguirsi di firme e sigle, una successione di date ed eventi fondatori: nel 1962 gli scontri di Piazza Statuto e nel 69 la rivolta di corso Traiano, nel 73 l’occupazione di Mirafiori e finalmente il 77. Il 7 aprile del 79, con centinaia di militanti inquisiti ed arrestati, arriva il brusco epilogo di tutta la vicenda. La storia dell’«Autonomia» come filiazione nobile della più lunga «sequenza rossa» italiana. Infine c’è l’eredità cumulativa delle categorie teoriche, anch’esse in un perfetto continuum: dall’«operaio massa» all’«operaio sociale», dal sistema taylorista della catena di montaggio alla «fabbrica diffusa» della metropoli.
Da questa sfilata vien fuori il profilo di una realtà politica con i suoi testi sacri, i suoi leaders e le sue correnti interne: quella che salacemente, nel 1980, la rivista «Insurrezione» chiamava «PAO» (Partito dell’Autonomia Operaia). È lo stesso Negri, d’altronde, ad evocare sulle pagine di «Rosso», nel 1978, il progetto di costituire un «Partito dell’autonomia»: in questo modo suggellando una parabola che, come alcuni hanno sottolineato, era cominciata dentro «Potere operaio», nel 1970, con la proposta di un «Partito dell’insurrezione», ed ha dunque come proprio filo conduttore una considerazione dell’autonomia e dell’autorganizzazione delle lotte del tutto strumentale alla priorità di una centralizzazione organizzativa d’avanguardia.
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Dal socialismo reale al socialismo possibile
Appunti sul socialismo del secolo XXI
di Carlo Formenti
Anticipo il mio contributo al libro di autori vari "Dopo il neoliberalismo. Indagine collettiva sul futuro" che sarà in libreria fra due giorni per i tipi di Meltemi
I. Un eventuale socialismo del secolo XXI non somiglierà alle utopie otto/novecentesche
Nessun nuovo progetto di trasformazione del mondo in senso socialista sarà praticabile senza tagliare i “rami secchi” che appesantiscono il tronco della cultura marxista (1). In particolare:
1. Va ripudiata la metafisica della storia che ritiene la transizione dal capitalismo al socialismo un’ineluttabile “necessità”. Al dogma secondo cui il capitalismo, dal momento che produce il suo “affossatore” – cioè il proletariato – sarebbe gravido di una nuova formazione economico-sociale, va sostituito l’auspicio che, date certe condizioni, l’affossatore potrà forse svolgere tale funzione, ma ciò non è scontato: in un modo o nell’altro il capitalismo certamente finirà, ma l’autodistruzione della società non è meno possibile della nascita di una società migliore.
2. Anche l’identità dell’affossatore andrebbe ridefinita. La cultura marxista non si è mai seriamente impegnata in tal senso: il Soggetto rivoluzionario è sempre stato assunto come un dato apriori, mai sottoposto a verifiche empiriche. Lo stesso Marx, descrivendo il capitale-automa rispetto al quale gli operai sono ridotti a organi viventi, lascia chiaramente intendere che la “classe in sé” non è in grado di emanciparsi dalla condizione di forza lavoro, di capitale variabile incorporato nel capitale al pari delle macchine, dei metodi e delle tecniche organizzative. Dunque, se non si colma il vuoto di analisi empirica di cui sopra, e se non si aggiornano le idee di Lenin e Gramsci sul partito rivoluzionario, non si va da nessuna parte.
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Bataille e la Teoria del valore-lavoro
di Leo Essen
I
In primo luogo Bataille si rivolge al valore-uso, e mostra il suo incardinamento nell’economia ristretta. Dunque, mostra come sia vana la proposta, presente, per esempio, in Pasolini e in Marcuse, di rifiuto del valore-scambio e di un ritorno al valore-uso. Il valore-uso non solo è il puntello del valore-scambio, come pensa Marx, ma è esso stesso, in quanto prodotto, momento di quel processo di valorizzazione che si compie (Aufheben) nel ritorno (ROI) dell'investimento.
In secondo luogo, e soprattutto, Bataille si rivolge proprio all’investimento, mostrando come ogni investimento, in quanto passaggio dall’intenzione all’atto, dalla cattiva possibilità all’attualità, è il momento mediano di un processo che lega l’inizio alla fine, che tiene in pugno, o pretende di tenere in pungo, il futuro.
In terzo luogo, Bataille si volge all’utilità e dice che è utile il prodotto che non ha altre possibilità se non quelle computate dall’inizio, e che dunque l’utilità del neo-classicismo pone il mercato, e non viceversa.
L’operaio, dice Bataille, produce un bullone per il momento in cui il bullone servirà a sua volta a montare una macchina di cui qualcun altro godrà sovranamente, nelle sue passeggiate contemplative.
Non bisogna leggere in questa posizione il disprezzo per il lavoro manuale che si trova, per esempio, in Oscar Wilde. Bataille non vuol contrapporre il lavoro manuale al lavoro artistico o intellettuale e dire che il lavoro manuale è servile mentre il lavoro artistico o il lavoro di ingegno è libero (sovrano). Non vuole nemmeno dire che il lavoro manuale è asservito alla direzione di un altro, del padrone, mentre il lavoro artistico è autonomo.
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L’università in scatola
Intervista a Federico Bertoni
In Sudcomune. Biopolitica Inchiesta Soggettivazioni, n. 1-2, 2016 (Ed. Deriveapprodi)
L’intervista a Federico Bertoni, in occasione della pubblicazione del suo importante lavoro Universitaly. la cultura in scatola, è stata condotta nell’ambito dell’inchiesta sugli studenti e le trasformazioni dell’Università che l’Associazione sudcomune e il “Laboratorio sulle transizioni, i mutamenti sociali e le nuove soggettività” dell’Università di Roma 3 hanno iniziato nel corso del 2016. Universitaly è un libro che coglie nel segno, che descrive chiaramente “dall’interno” i principali elementi della crisi universitaria (ossia della formazione dell’università neoliberale in Italia) ed offre le categorie adeguate alla sua comprensione, nonché diversi spunti critici per il suo superamento.
* * * *
SUDCOMUNE: La lettura di Universitaly è importante per diversi motivi, tra cui il fatto che le trasformazioni indotte dalle recenti riforme universitarie sono lette dall’interno, da un prof. che ama il suo lavoro e vorrebbe “mettere in comune” il suo sapere. In «Cominciò tutto così», uno dei primi paragrafi del libro, si legge che quando hai cominciato a insegnare, ai primi anni del 2000, «il ’68 era ormai lontano come il giurassico. Stava iniziando l’era dell’eccellenza». Più in avanti nel testo, a proposito del corpo docente scrivi: «Siamo in piena mutazione: ci stiamo trasformando a tutti gli effetti in amministratori, ingranaggi della macchina ed esecutori solerti di ingiunzioni burocratiche, azioni che compiamo in gran parte attraverso i dispositivi informatici (…) Non vogliamo capire che l’evoluzione del sistema universitario ha cambiato la natura stessa delle responsabilità: il nostro compito primario non è più contribuire al progresso della conoscenza e condividerla con gli studenti, ma reagire puntualmente alle ingiunzioni ed eseguire i comandi in modo rapido, completo e preciso».
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Riflessioni su "Addio al lavoro?" e note a margine sul concetto di classe-che-vive-di-lavoro
di Bollettino Culturale
Le trasformazioni nel mondo del lavoro hanno influenzato la sua forma di essere, raggiungendo dimensioni oggettive e soggettive dei soggetti collettivi o della classe-che-vive-di-lavoro, come suggerisce l'autore. Il punto di riferimento di questo testo sono gli anni '80, un periodo in cui il libro “Addio al lavoro? Le metamorfosi e la centralità del lavoro” sottolineava che gli effetti non erano limitati al mondo sottosviluppato, ma abbracciavano anche il mondo sviluppato. La rottura degli schemi produttivi ha portato con sé un inasprimento dei livelli di degrado dei soggetti, rendendoli flessibili, allo stesso tempo ha portato allo smantellamento delle organizzazioni sindacali, che si basavano sul modello tradizionale di accumulazione, in cui il lavoro aveva ancora un certo potere contrattuale nell'ambito industriale e una relativa partecipazione ai profitti aziendali. Antunes presta particolare attenzione alla contraddizione strutturale tra capitale-lavoro, tenendo conto di come il nuovo regime di accumulazione ha ridefinito le forme di sfruttamento, nonché indebolito le forme tradizionali di lotta.
Grazie al suo lavoro è possibile osservare come il taylorismo-fordismo ha cessato di essere il principale modello di organizzazione del lavoro, iniziando a fondersi con forme più flessibili di accumulazione, a cui vengono assegnate varie denominazioni, come: "neofordismo", "neo-taylorismo", "postfordismo".
Diverse sono le caratteristiche di questo nuovo modello: specializzazione flessibile; deconcentrazione industriale; nuovi modi di controllare la forza lavoro; rottura o flessibilizzazione di ogni vincolo; controllo della qualità totale…
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La discussione entro Nuova Direzione
Osservazioni sulle note di Riccardo Bernini
di Alessandro Visalli
Nell’ultimo mese, in vista della seconda assemblea di Nuova Direzione, è stato avviato un dibattito che per ora ha visto un primo intervento di Carlo Formenti[1] e di Alessandro Visalli[2], ed una replica nel merito e molto articolata di Riccardo Bernini[3].
Il pezzo di Formenti, che apre la discussione, ricostruisce sinteticamente il contesto nel quale aveva preso forma il progetto organizzativo di Nuova Direzione, il cui scopo era di tentare di addensare le varie forze che nel quinquennio dal 2014 al 2019 avevano via via sviluppato una critica alla arrendevole posizione delle sinistre italiane ed internazionali verso la mondializzazione e i progetti di governance sovranazionale (sopra tutti l’Unione Europea). Ovvero di proporre una piattaforma che muovesse dalla sovranità costituzionale, superando anche le esitazioni e compromessi della piattaforma di “Patria e Costituzione” che, pure, alcuni dei protagonisti, come i due primi scriventi, avevano contribuito attivamente a promuovere[4]. Nuova Direzione era, insomma, solo l’ultimo anello di una catena di tentativi, variamente prodotti entro diverse associazioni, per ricostituire nel paese un punto di vista socialista, orientato alle ‘periferie’ (ovvero al mondo del lavoro debole, agli ambienti sociali periferici e alle relative soggettività), e potenzialmente egemonico[5].
Il principale elemento diagnostico che mosse quella serie di tentativi era che si era aperto, con la crisi del 2008-13, in tutto il mondo occidentale, un “momento Polanyi” nel quale lo scollamento tra i luoghi più dinamici dell’economia e i relativi ceti internazionali privilegiati e la grande maggioranza si era reso manifesto e provocava ormai una divaricazione non contenibile.
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Tanti auguri Rosa Luxemburg
di Marcello Musto
Rosa Luxemburg nasceva 150 anni fa. Si sentiva a casa sua «in tutto il mondo, ovunque ci siano nubi e uccelli e lacrime umane», innovò il marxismo e capì che la classe operaia doveva lottare contro la guerra e la militarizzazione della società
Quando nell’agosto del 1893, al Congresso di Zurigo della Seconda internazionale, dalla presidenza dell’assemblea fu menzionato il suo nome, Rosa Luxemburg si fece spazio senza indugiare tra la platea di delegati e militanti che riempivano la sala stracolma. Era una delle poche donne presenti al consesso, ancora giovanissima, di corporatura minuta e con una deformazione all’anca che la costringeva a zoppicare sin dall’età di cinque anni. Nei presenti, il suo apparire sembrò destare l’impressione di trovarsi dinanzi a una persona fragile.
La questione nazionale
Stupì tutti, invece, quando, dopo essere salita su una sedia, per farsi ascoltare meglio, riuscì ad attirare l’attenzione dell’intero uditorio, sorpreso dall’abilità della sua dialettica e affascinato dall’originalità delle sue tesi. Per la Luxemburg, infatti, la rivendicazione centrale del movimento operaio polacco non doveva essere la costruzione di una Polonia indipendente, come veniva ripetuto all’unanimità. La Polonia era ancora tripartita tra gli imperi tedesco, austro-ungarico e russo; la sua riunificazione risultava di difficile attuazione, mentre ai lavoratori andavano prospettati obiettivi realistici che avrebbero dovuto generare lotte pratiche nel nome di bisogni concreti.
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Draghi, il Principe all’inizio degli anni ’20
di Rodolfo Ricci
Le élites, non sono necessariamente di destra o di sinistra. L’importante è che stiano sopra. Stando in alto possono mediamente osservare con imparzialità ideologica da che parte conviene pendere. La funzione delle élites è quella di riprodurre se stesse, cioè di riconfermare la dimensione sintetica dell’Alto e quella del Basso. E di proiettarla in avanti nel tempo con strumenti di diversa natura, nonché variabili rispetto ai mutevoli contesti; per questa proiezione sono preferibili strumenti egemonici, fondati su qualità riconosciute o riconoscibili, per esempio sull’autorevolezza, piuttosto che quelli quantitativi (forza, denaro, ecc.) o normativi o prescrittivi, che costituiscono sempre possibilità di ultima istanza.
L’ egemonia della scolastica capitalistica è stata fondamentalmente il denaro e il suo gioco infinito di accumulazione inteso come grazia che designa i suoi possessori e interpreti; non è detto che esso debba continuare ad essere il mezzo preferibile in un contesto oscillante e declinante di sistema. Alla fine, ciò che le élites debbono preservare è la dimensione di potere e di dominio, non lo strumento che ad esse serve per raggiungerlo.
Un concetto più interessante, da questo punto di vista, perché ancora più neutro e naturale, è quello della “competenza”, che rimanda all’antica qualità sciamanica di intercettare le forze superiori. Nella sua versione laica, legata alla scienza e alla sua manipolazione, si tratta di un concetto scalabile, a prima vista, non legato per forza alla finanza, né all’appartenenza a uno specifico settore sociale o confraternita, quindi non appare attaccabile, se non in seconda istanza, come “di parte”.
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Il complesso rapporto tra storia ed evoluzione
di Francesca Romana Capone
Il saggio Storia ed evoluzione di Edmund Russell, offre lo spunto per ragionare, in termini più ampi, sull’intreccio che ha legato l’evoluzione biologica e quella culturale sin dalla comparsa delle idee di Darwin. Proprio un “eretico” di inizio Novecento, Pëtr Kropotkin, con il suo Il mutuo appoggio, di recente ripubblicato in italiano, aiuta a mettere in evidenza alcuni nodi problematici nella relazione di “scambio” tra storia e biologia evoluzionistica
È la natura che guida la storia?
“Unificare le conoscenze di storia e biologia all’interno della storia evoluzionistica ci permette di comprendere il passato meglio di quanto non possano fare le due discipline prese singolarmente”1 . È questa la principale conclusione del saggio Storia ed evoluzione. Un nuovo ponte tra umanesimo e scienza di Edmund Russell, pubblicato di recente da Bollati Boringhieri. Un testo che si offre soprattutto come un programma di ricerca: partendo dal presupposto che l’uomo non solo è effetto, ma anche causa di processi evolutivi (si pensi, ad esempio, ai batteri resistenti agli antibiotici, oltreché alle specie vegetali e animali consapevolmente selezionate), Russell si propone di far convergere gli strumenti dello storico e dell’evoluzionista nell’analisi della storia umana. È infatti convinzione dello studioso che uno sguardo capace di cogliere aspetti quali la coevoluzione delle specie o la diversa velocità dell’evoluzione genetica e culturale, sia in grado di offrire spiegazioni più profonde di alcuni fenomeni storici.
Lo studioso affronta in via preliminare alcuni aspetti più o meno noti della teoria evoluzionistica: dai diversi tipi di selezione già ipotizzati da Darwin (naturale, metodica, inconscia, sessuale)2, al problema dell’estinzione, dall’impatto dell’uomo sulle altre specie, fino alla coevoluzione dell’essere umano e delle piante e animali che condividono il suo ambiente. Fin qui si tratta di mettere insieme considerazioni già abbastanza note, legate all’importanza della domesticazione o al devastante impatto umano sulla biodiversità cioè, in ultima analisi, agli effetti dell’evoluzione antropogenica – ovvero determinata dall’uomo – sul nostro mondo.
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Assalto al cielo (e ritorno). Sulla teologia politica di Mario Tronti
di Federico Battistutta
Mario Tronti, si sa, ha sempre avuto il coraggio di muoversi in partibus infidelium, tentando di avanzare sul terreno nemico, appropriandosi del suo pensiero per rovesciarlo in un’altra direzione. In questo percorso, a partire dagli anni Ottanta, inizia quello che Federico Battistutta definisce il «terzo momento» della sua ricerca, cioè lo sviluppo del filone teologico-politico. È comprendendone i motivi e gli scopi che possiamo leggere le riflessioni trontiane sullo spirito libero – uno spirito che nulla a che vedere con le pappette del cuore new age: «stare in pace con sé, oggi, vuol dire entrare in guerra con il mondo». Oppure sulla profezia, vale a dire la capacità di vedere e dire quello che gli altri non vedono e non dicono: non la visione idealizzata dell’utopia, bensì la forza sovvertitrice di un realismo rivoluzionario; non un pensiero rivolto al futuro, ma l’anticipazione di un altro presente possibile. In questo percorso Tronti è sempre guidato dal suo sguardo irriducibilmente unilaterale, dalla parzialità del punto di vista – non quello degli ultimi, ma di chi rifiuta di esserlo; non il grido di debolezza delle vittime, ma l’urlo di guerra di una forza collettiva; non l’interesse generale di salvare il mondo, ma l’interesse di parte di metterlo sottosopra. In questo cammino trontiano, più che ricercare cesure nette, è meglio provare a osservare la misteriosa curva della sua retta.
Consigliamo di accompagnare il saggio con la lettura di M. Tronti, Noi operaisti, DeriveApprodi, Roma 2009.
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Per preghiera, dovete intendere qualcos’altro rispetto al canto nella Chiesa cristiana: pregando si grida, si geme, si prende d’assalto il cielo.
Jacob Taubes
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L’alternativa c’è
Leandro Cossu intervista Pino Cabras
Abbiamo intervistato Pino Cabras, deputato sardo eletto nel 2018 col MoVimento Cinquestelle, “dissidente” della fiducia al Governo Draghi e fondatore della componente del gruppo misto “L’Alternativa c’è”.
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Il voto della fiducia al governo Draghi non è di certo il primo che vede lei e gli altri “dissidenti” prendere una posizione non allineata rispetto al resto del gruppo parlamentare ma di sicuro più coerente al programma del MoVimento Cinque Stelle per le elezioni del 2018. Penso, per esempio, alla riforma del MES votata a metà di dicembre dello stesso anno. L’espulsione a seguito del voto contrario al Governo Draghi è stato il culmine di un processo di snaturamento del MoVimento iniziato da quando è diventato partito di governo?
Il M5S ha esaurito assai più presto del previsto la propria spinta propulsiva che derivava dagli anni in cui era il “partito della crisi”, ossia la forza politica che rappresentava milioni di cittadini sommersi da quel che definisco l’Europeismo Reale e che premevano per un’alternativa al rigorismo dei “dittatori dello spread”. Il problema è che assieme a una retorica che suonava rivoluzionaria, il M5S non esprimeva anche una progettualità altrettanto coraggiosa e intransigente rispetto al cuore delle decisioni, ossia la politica economica. In un certo senso ci si accontentava di governare i milioni di euro, ma i miliardi li governava lo stato profondo: cioè le tecnostrutture burocratiche, una cinghia di trasmissione fra Bruxelles e Francoforte e le opache decisioni economiche di quei palazzi romani inaccessibili alla classe dirigente grillina, concentrata sulla “scatoletta di tonno” di Montecitorio, in parte già svuotata.
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Chi ha paura di Jacques Camatte?
di Federico Corriente
Il lettore potrà rendersi conto che l’invarianza dichiarata-proclamata all’inizio, quella della teoria del proletariato, è già inclusa in un’altra assai piú vasta: la ricerca di una comunità umana, il cui complemento è la messa in risalto della distruzione delle antiche comunità e l’addomesticamento degli uomini e delle donne cosí come la lotta contro di esso, una delle condizioni storiche perché il tentativo di fondare una comunità umana possa realizzarsi. («Communauté et devenir», 1994)
I. Inizi di Jacques Camatte nella sinistra comunista italiana e prime opere. Rottura con il pc-int
Gli inizi di Camatte si trovano nel Partito Comunista Internazionale (PC-Int), uno tra gli eredi del Partito Comunista Italiano originale, che l’Internazionale Comunista finí per espellere intorno all’anno 1928. In quanto ai dati biografici, è curioso che quasi non ve ne siano: Camatte è riuscito a rendersi molto piú «anti-spettacolare», di Guy Debord, ad esempio. Il poco che sappiamo è che nacque vicino a Marsiglia nel 1935 e che lavorò come professore di Scienze della Vita e della Terra in varie località del sud della Francia (Tolone, Brignoles e poi Rodez) fino al 1967. Quanto alla sua iniziale militanza nella Frazione Francese della Sinistra Comunista Internazionale, entrò nel gruppo di Marsiglia nel 1953. Un paio d’anni piú tardi, conobbe a Napoli Bordiga (che visse fino all’anno 1970), con il quale concorderà un gran numero dei suoi primi testi.
Nel 1957 il gruppo francese della Sinistra Comunista Internazionale cominciò a pubblicare la rivista Programme Communiste, sotto la direzione di una donna, Suzanne Voute — germanista e traduttrice di gran parte dell’opera di Marx per le edizioni Gallimard e La Pléiade, in collaborazione con Maximilien Rubel — che arrivò da Parigi per stabilirsi nel Sud e farsi carico della direzione del gruppo. A quanto sembra, segnò subito la personalità di Camatte (non è azzardato supporre che Camatte abbia imparato il tedesco da lei). Suzanne Voute precedentemente aveva animato la Frazione Francese della Sinistra Comunista Internazionale sino agli anni 1949–1950, quando il suo compagno sentimentale, l’ex membro del POUM Albert Masó («Véga»), portò la grande maggioranza della FFGCI nelle file di «Socialisme ou Barbarie».
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Il governo di unità militare
di Andrea Turco
La nomina a commissario per l'emergenza del generale Figliuolo rinnova il mito per cui l'unica organizzazione efficace è quella militare, cioè autoritaria. E per le forze armate il Covid si conferma un affare che aumenta finanziamenti e visibilità
In una scena famosa del film Vogliamo i colonnelli – feroce satira di Mario Monicelli che immagina un colpo di Stato in Italia sull’esempio del regime greco a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta – un gruppo sgangherato di nostalgici fascisti e vecchi arnesi dell’esercito si ritrova ad arringare giovani uomini bianchi che nelle intenzioni dovrebbero costituire la manovalanza del golpe. Il più esagitato è l’onorevole Giuseppe Tritoni, interpretato da Ugo Tognazzi. Le sue parole, a distanza di quarant’anni, risultano paradigmatiche:
Ordine, Obbedienza, Disciplina! Basta con l’anti-storica uguaglianza. Ma che vuol dire? Ma perché un ingegnere deve essere uguale a un muratore… madonna di un dio! Soltanto i coglioni sono uguali l’uno all’altro.
Di quel film, zeppo di riferimenti nemmeno troppo velati al principe Junio Valerio Borghese e alla destra del Movimento Sociale Italiano, quella appena riportata è una delle battute invecchiate meglio. Alla pari dell’invocazione del titolo. Nel dibattito pubblico, almeno in quello mainstream, di fronte alla millantata indisciplina del popolo italiano si finisce prima o poi fatalmente per invocare l’esercito. Ancor di più nell’era Covid che stiamo vivendo. Il governo Draghi ha accelerato questo processo. Il fatto più emblematico in questo senso è il recente affidamento della gestione dell’emergenza Coronavirus al generale di corpo d’armata Francesco Paolo Figliuolo, dal 2018 comandante logistico dell’Esercito italiano.
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Covid-19: liberarsi dall’immaginario capitalista?
Naïm Kharraz (*) intervista Isabelle Stengers
Isabelle Stengers, filosofa che studia la produzione del sapere, in questa intervista rilasciata all’Atelier des Droits Sociaux [sotto il testo originale, in francese] sviluppa il modo in cui l’immaginario capitalista mette in pericolo scienze, democrazia e ambiente. Spiega come quest’immaginario abbia potuto provocare risposte nate nel panico più assoluto durante la pandemia del Covid 19. E ci ricorda che è essenziale continuare a sviluppare la nostra capacità di immaginario solidale per contrastare ciò che provoca le catastrofi, oggi la pandemia e disastri ecologici futuri.
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Durante il confinamento, tutta una serie di persone è stata dimenticata. Possiamo citare i-le lavoratori-trici del sesso, i senzatetto, i-le migranti… Questa dimenticanza é volontaria? È il risultato di un’ideologia? O questa dimenticanza è inevitabile in tutte le società organizzate come la nostra?
«Non credo affatto che sia un problema legato ad una società che possa rendere inevitabile qualcosa. Ci sono molti modi di costruire una società. Quello che è stato fatto ai nostri anziani per esempio, con il pretesto che erano vulnerabili, sarebbe del tutto inconcepibile in società più tradizionali, dove si rispettano gli anziani. E rispettarli non significa rinchiuderli. Ma in ogni caso penso che la parola “dimenticare” sia quella giusta perché questo confinamento deve essere capito partendo da una reazione di panico. E quando c’è panico, si dimenticano molte cose! Si reagisce sotto l’influenza di un’emergenza che impedisce di pensare.
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Lo “sconfittismo” di G. La Grassa funzionale al neoliberismo
di Salvatore Bravo
Fallimenti e ricostruzioni teoriche
Gianfranco La Grassa (Conegliano, 19 gennaio 1935) è un post-marxista definizione generica e nel contempo embrionale, perché la galassia del post-marxismo è abitata da un mondo plurale, in cui convivono una molteplicità di posizioni e tendenze, ma non è ancora chiaro quale prevalga. È un pensatore che segna il passaggio dal crollo del marxismo a una nuova postura di sinistra ancora incerta, quindi, dai tratti indefiniti, benché usi le categorie marxiane per leggere il presente. Il punto di partenza di La Grassa è il constatare il sostanziale fallimento del comunismo reale, poiché la classe operaia non è stata capace di gestire l’apparato industriale. Di fondo vi è un limite teorico di Marx e del marxismo che ha “ridotto” la contrapposizione tra capitale e salario a semplice opposizione giuridica tra proprietari e non proprietari. La realtà storica effettiva, invece, non è semplice antitesi giuridica, ma opposizione tra capacità di gestione manageriale della proprietà (dominanti) e sulla sponda opposta l’incapacità decisionale dei subalterni (dominati), i quali sono subalterni non solo per la condizione economica, ma specialmente perché sono esclusi dai circuiti decisionali delle imprese e del capitale. Il comunismo reale ha palesato tale “privazione culturale” con l’effetto che la rivoluzione è ricaduta su se stessa, si è burocratizzata, ha nuovamente escluso gli operai ed i contadini dalla gestione del potere. Il lavoratore collettivo produttivo ipotizzato da Marx, quale punto nodale per la messa in atto del comunismo non si è materializzato, poiché si è riformata una nuova classe di gestori del potere economico di cui la classe operaia è stata suddita.
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Ancora su specialismo e competenze. Una replica opportuna
di Francesco Coniglione
Questo articolo replica a quello pubblicato ieri di Di Remigio e Di Biase, Il primato della teoresi
Ringrazio innanzi tutto Paolo Di Remigio e Fauste Di Biase per il loro intervento, che pone in modo intelligente alcune questioni che nel mio articolo erano rimaste sottintese e che non avevo avuto modo di approfondire visto la sua destinazione primaria (ricordo che era nato come un post su Facebook, poi ripubblicato come tale su Roars). E devo anche dire che se per un aspetto l’articolo citato richiede delle precisazioni da parte mia, per il resto non posso che essere d’accordo con i due autori nella critica che loro fanno alla “barbarie pedagogica” e alla necessità di rivendicare il ruolo della “teoresi”. E in merito potrei citare diversi miei articoli (pubblicati anche su Roars – basta scorrerne l’indice), in cui ho rivendicato le stesse cose.
Ma veniamo al merito del principale rimprovero fattomi: io avrei confuso competenza e specializzazione scientifica, sicché ho trattato “il rapporto tra conoscenza e competenza come se coincidesse con il rapporto tra conoscenza universale e conoscenza particolare”. L’impressione che io abbia confuso questi due aspetti potrebbe derivare dal fatto che non li ho esplicitamente distinti, ritenendo tale opportuna differenziazione implicitamente data. Pertanto non ritengo tale omissione particolarmente grave: in fondo la conoscenza specialistica è la condizione necessaria per avere delle competenze, anche se da sola non è sufficiente.
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Controlli ai flussi di capitali: un’opzione eretica?
di Matteo Di Lauro
Nel suo ultimo libro Emiliano Brancaccio evoca spesso la limitazione della libera circolazione di capitali come strumento per prevenire la destabilizzazione delle economie da parte di capitali esteri[1]. Come spesso è accaduto nella storia recente, è stata la libera circolazione di capitali e merci che ha portato a crisi della bilancia dei pagamenti. Ne è un esempio la crisi del debito sovrano che, nonostante il nome fuorviante, è stata invece causata da forti squilibri nella bilancia dei pagamenti all’interno dell’Eurozona.
Ma torniamo alla libera circolazione dei capitali. È un’ipotesi estremista e priva di esempi storici?
In realtà è vero l’esatto opposto, la storia dell’economia moderna si è quasi sempre caratterizzata da un controllo sui capitali da parte degli stati e gli ultimi 30 anni nella storia europea costituiscono un’eccezione a un diritto da sempre esercitato da parte degli stati di controllare i flussi di capitale. Per quanto la vulgata tenda a farci credere che viviamo in una situazione di normalità, questa è solo un’illusione. Qui mi limiterò a parlare delle misure atte alla limitazione della circolazione dei capitali in Europa, e di quanto, fino a pochi anni fa, fossero ampiamente praticate dalla maggior parte degli stati occidentali.
L’architettura monetaria di Bretton Woods concepiva esplicitamente l’introduzione di controlli ai flussi di capitale e gli stati europei dopo la Seconda guerra mondiale erano particolarmente avversi alla liberalizzazione dei flussi di capitali in quanto questi avrebbero influenzato il tasso di cambio e costretto in alcuni casi a dover far fronte a pressioni esterne al tasso di interesse.
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Pandemia, ricerca e miopia
di Lucio Russo
Nel 1963 Giuseppe Saragat dette il via a una feroce campagna di stampa contro Felice Ippolito che, dirigendo il CNEN, aveva osato spendere danaro pubblico nella ricerca nucleare, portando l’Italia a livelli competitivi in questo settore. L’11 agosto di quell’anno, in un articolo sul “Corriere della Sera”, Saragat si chiedeva: “Perché non aspettare che questa competitività sia realizzata da paesi che hanno quattrini da spendere?”
È ben noto che Saragat vinse su tutta la linea: Ippolito fu processato e condannato a 11 anni di carcere per reati risibili (dalla concussione per avere un giorno accompagnato il figlio a scuola con l’auto del CNEN al versamento allo stato di una grossa somma senza avere ottenuto preventivamente la prescritta autorizzazione) e la ricerca nucleare applicata italiana fu azzerata [1]. Parallelamente al processo Ippolito fu celebrato il processo contro Domenico Marotta, che aveva diretto l’Istituto Superiore di Sanità portandolo a livelli mai più raggiunti (si può darne un’idea ricordando che nel 1947 il biochimico svizzero Daniel Bovet lasciò la direzione dell’Istituto Pasteur di Parigi per venire a lavorare a Roma presso l’ISS, dove svolse le ricerche che nel 1957 gli avrebbero fruttato il premio Nobel, e nel 1948 lo raggiunse il biochimico tedesco naturalizzato britannico Ernst Boris Chain, che il premio Nobel l’aveva già ricevuto).
Non voglio qui cercare le cause profonde di quell’attacco vincente alla ricerca applicata italiana, di cui paghiamo ancora le conseguenze (l’ho fatto altrove); qui mi limito a sottolineare l’argomento che Saragat riteneva fosse condivisibile dal pubblico: perché spendere danaro per fare ricerca invece di usufruire gratis della ricerca altrui?
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I molteplici significati del Recovery Fund
di Fulvio Bellini
Premessa: le parole sono importanti
Il termine “Recovery Fund” in Italia è sulla bocca di tutti. Politici, giornalisti, imprenditori di questo paese si stanno rendendo conto che si è ormai raggiunto il fondo di una crisi strutturale che è iniziata negli anni novanta dello scorso secolo. Tuttavia, quando le soluzioni a mali lasciati crescere per decenni non si intravedono, è uso della classe dirigente invocare lo “stellone italico”, versione laica della “divina Provvidenza” che tanto ruolo ha avuto nella nostra millenaria cultura cattolica, una “volontà superiore” cioè che ridia speranza per il futuro. Nell’era della Pandemia da Covid-19 lo “stellone italico” si chiama “Recovery Fund”. Ma siccome la nostra classe dirigente è notoriamente provinciale, anche se usa con dovizia locuzioni inglesi, riesce a mistificare definizioni espresse nelle lingue straniere. In Italia, il fondo UE lo si chiama “Recovery Fund” ma la sua denominazione ufficiale è “Next Generation EU”: questa spontanea trasformazione lessicale da parte della nostra informazione di regime cela un retro pensiero che è opportuno evidenziare. In italiano “Recovery Fund” significa “fondo di ripresa o di recupero”; “Next generation EU” significa “prossima generazione dell’Unione europea”. Vogliono dire la stessa cosa? Ufficialmente sì, ma a ben pensarci ci si può scorgere un dettaglio rivelatore. La classe dirigente italiana intende il Recovery fund come qualcun altro che metta tanti soldi per riparare i danni che il liberismo in salsa italica ha causato negli ultimi trent’anni.
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Il lavoro e i piani bellicosi del Governo Draghi
di coniarerivolta
Ancora non ci sono certezze su quella che sarà la politica economica e sociale del governo Draghi. Allo stato attuale, l’esecutivo guidato dall’ex Presidente della BCE non ha ancora adottato provvedimenti tali da indicare quelle che saranno le sue mosse, sebbene alcune nomine di consiglieri economici non facciano dormire sonni tranquilli. Ben presto, però, ne sapremo di più.
Blocco dei licenziamenti e integrazioni salariali: si avvicinano le scadenze
Tra circa un mese, infatti, scadrà il blocco dei licenziamenti, da ultimo prorogato dalla Legge di bilancio fino al 31 marzo. Lo stesso giorno, inoltre, è il termine ultimo di copertura della cassa integrazione ordinaria con causale Covid-19, mentre per la cassa integrazione in deroga la scadenza è prevista, attualmente, per il 30 giugno. In entrambi i casi, però, il periodo massimo di cassa integrazione è fissato in dodici settimane.
Ricordiamo brevemente che cos’è la cassa integrazione. Si tratta di un meccanismo di integrazione salariale, pensato per garantire ai lavoratori un sostegno economico nel momento in cui, a causa delle ridotte esigenze produttive delle imprese presso le quali sono stati assunti o durante fasi di riorganizzazione e di crisi aziendale, vengono lasciati a casa per alcuni periodi, o il loro orario lavorativo si riduce. Durante questi periodi, ai lavoratori viene versato un trattamento economico che ammonta all’80% della retribuzione globale che sarebbe loro spettata per le ore di lavoro non prestate.
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An-archē e Indifferenza: Tra Giorgio Agamben e Reiner Schürmann
di Malte Fabian Rauch
Il saggio di Malte Fabian Rauch An-archē and Indifference: Between Giorgio Agamben and Reiner Schürmann sarà pubblicato dalla, e consultabile sulla, rivista Philosophy Today, 65:3 (Summer 2021). Questo saggio pionieristico di Rauch tocca uno degli assi di ricerca più fecondi e cari al Laboratorio di Archeologia Filosofica — la relazione tra il pensiero di Giorgio Agamben e quello di Reiner Schürmann — tentando di esortare chi legge al confronto nonché alla rielaborazione (in) comune di questo nesso cruciale e, tuttavia, ancora largamente inesplorato. Di seguito, in anteprima, la traduzione annotata a cura di F. Della Sala e F. Guercio.
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Nelle ultime pagine de L’uso dei corpi di Giorgio Agamben, il concetto di ‘vera anarchia’ si rivela come il punto di fuga politico dell’intero progetto Homo sacer[1]. Reiner Schürmann, il quale era sembrato finora solo un riferimento molto occasionale, appare qui improvvisamente come uno degli interlocutori decisivi di Agamben. Alcuni dei lettori più attenti di quest’ultimo, Jean-Luc Nancy ed Étienne Balibar, hanno sottolineato l’importanza di questo riferimento[2]. E tuttavia nella trattazione generale dell’opera di Agamben tale connessione ha ricevuto per lo più scarsa attenzione. Prova ne è che, per avvicinarsi alla nozione agambeniana di anarchia, seppur l’opera di Schürmann è stata utilizzata, non si è però fatta menzione della sua discussione esplicita[3]. Questo saggio è un tentativo di chiarire l’importanza di questo rapporto – sia per l’effetto che ha avuto sul lavoro di Agamben, sia per la leggibilità del lavoro di Schürmann nel presente.
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Squilibri della bilancia commerciale: il vero tallone d’Achille della MMT?
di Thomas Fazi
In un suo paper Imbalances, what imbalances? A dissentig view il prof. Randall Wray sosteneva, correttamente, che gli squilibri finanziari si equilibrano e che il problema è semmai da ricercare nel fatto che questi "squilibri" segnano, piuttosto, dei rapporti di forza di natura asimmetrica. E' anche su questa premessa che bisognerebbe ragionare ogni qualvolta ci approcciamo all'argomento riguardante gli "squilibri commerciali". In tale ottica riceviamo e con piacere pubblichiamo un articolo di Thomas Fazi che, attraverso una puntuale disamina, tenta di fare chiarezza sulla questione partendo dal punto di vista della MMT. Argomento già affrontato su questo sito a più riprese nel corso degli anni passati (si veda l'articolo "La MMT e i vincoli esterni" e la video intervista al prof. Wray "Lo squilibrio della bilancia dei pagamenti", "Deficit commerciale e debito estero", "Il cambio flessibile è sempre conveniente?").
Thomas con questo lavoro si pone in prima battuta in un'ottica 'oggettiva', analizzando gli aspetti sotto la lente tecnico-economica, per arrivare a concludere correttamente, come anche noi sosteniamo da sempre, che in ultima analisi l'aspetto focale da prendere in considerazione è quello strettamente correlato alle dinamiche afferenti la sfera politica.
Dunque un articolo esauriente e interessante di cui ne consigliamo vivamente la lettura. Complimenti![CSEPI]
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Quando si parla di teoria monetaria moderna (modern monetary theory, MMT), una delle obiezioni più comuni in cui capita di imbattersi, anche tra chi condivide l’assunto di fondo della teoria – ovverosia che uno Stato che dispone della sovranità monetaria (cioè che emette la propria valuta e non vincola quest’ultima a un tasso di cambio fisso) non è sottoposto a vincoli finanziari di alcun tipo in quanto può letteralmente creare tutta la moneta che vuole –, è che la MMT trascurerebbe, o almeno tenderebbe a sottovalutare, la questione dei saldi commerciali.
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Il documento degli ex M5S “L’ Alternativa c’è”
di *******
Primo manifesto di "L'alternativa c'è"
I nostri principi
● Ci sentiamo ancora collegati al programma elettorale col quale siamo stati eletti nel marzo 2018 nel M5S di allora e per il quale i cittadini ci hanno accordato la loro fiducia e riposto in noi la speranza di un cambiamento. Vogliamo restare fedeli a tutto questo e considerare il programma del 2018 come base di partenza per ogni ulteriore sviluppo.
● La nostra azione nasce in opposizione al governo Draghi, ma esprime una più generale opposizione ai governi ‘tecnici’ e al ‘vincolo esterno’ dietro cui si nascondono politiche neoliberiste che applicano il darwinismo sociale all’economia e alla vita delle persone.
● Mettiamo al centro della politica la persona, la comunità e l’ambiente, non il mero profitto. La politica, e dunque il controllo democratico, deve tornare a governare la cosa pubblica.
● La nostra collocazione è oltre gli schieramenti di destra e sinistra storicamente determinati, che non bastano più a interpretare la realtà, la cultura e i processi economici e sociali, né la geopolitica. Non ci interessano le vecchie etichette e le finte contrapposizioni che nascondono compromessi, interessi trasversali e grandi ammucchiate. Vale ancora il concetto: “Un’idea non è di destra né di sinistra. È un’idea, buona o cattiva”. Il nostro programma ha come riferimento il popolo sovrano – che è il primo attore dell’articolo 1 e dell’articolo 3 della Costituzione – e crede in un forte intervento dello Stato nella sfera economica e sociale.
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