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Il paradigma immunitario
di Rocco Ronchi
La pandemia ha causato capogiri ai filosofi, a quelli italiani in particolare. Talvolta l’effetto è stato un capitombolo, talaltra un surplus di lucidità e di autocritica intelligenza. Purtroppo le cadute rovinose sono state enfatizzate dai media, con grave disdoro della filosofia che si è così trovata accomunata alle peggiori farneticazioni complottiste, mentre i miglior contributi che il pensiero ha offerto alla comprensione del presente sono stati, come sempre, bellamente ignorati. Va subito detto che il mal di testa non si doveva al fatto che, a causa della pandemia, la filosofia si misurava con qualcosa di nuovo, di inatteso e di stupefacente. La vertigine nasceva piuttosto dal contrario: da un eccesso di conferma dell’ipotesi di fondo intorno alla quale il cosiddetto italian thought si era costituito e grazie alla quale aveva acquisito negli ultimi trent’anni un prestigio internazionale.
L’ipotesi “biopolitica” di un potere che dal piano esclusivamente “politico” si estende alla vita biologica, assumendosela in carico, gestendola e amministrandola, era verificata puntualmente dai fatti di cui tutti siamo stati testimoni e che è inutile, per la loro evidenza, elencare. L’ipotesi di una “governamentalità” che eccede la dimensione giuridica dello Stato, ponendo l’esecutivo in un costante “stato di eccezione”, era confermata dalle decisioni prese, quasi all’unisono, dai governi “democratici” per fronteggiare l’epidemia. Insomma, tutto quanto era stato teorizzato come critica di una tendenza che percorreva la modernità trovava una scioccante conferma nell’attualità. E siccome il più clamoroso esempio storico che si adduceva a suffragio della ipotesi era la biopolitica nazista, ecco allora che il nazismo poteva diventare l’inevitabile termine di paragone del presente.
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Rieducational Channel. Il lockdown come dispositivo di rieducazione politica
di Stefania Consigliere, Alessandro Pacco, Cristina Zavaroni
Un’ipotesi fin troppo facile
Il fenomeno è noto e spaventoso: a fronte di quanto sta accadendo, la gran parte dei nostri connazionali non trova niente da obiettare, neanche quando il governo manda uomini armati alle fermate degli autobus per controllare il GP dei ragazzini. Qui come altrove, i meno alienati abbassano gli occhi e tirano dritto; gli altri neppure vedono.
Si è parlato di strage delle coscienze, di immensa vergogna, di maledizione pandemica. Un’ottava piaga biblica che ha colpito in modo strano, trasversale a qualsiasi categoria socio-economica, lasciando a terra moltissimi fra quelli che credevamo più attrezzati, resistenti, attenti: l’antagonismo e la “sinistra di movimento”, insomma, ivi inclusa larga parte del femminismo, delle forze LGBTQ+ e delle realtà solidali con i sans papiers, che sembrano cadute in una sorta di rimozione a getto continuo di ciò che, pure, è sotto i nostri occhi. Troia brucia, ha scritto Wolf Bukowski, ma guai alle Cassandre che lo dicono.
Cos’ha reso possibile un simile cedimento politico, cognitivo, psichico ed emotivo? In una serie di quattro testi scritti fra agosto e novembre 2021 (si trovano qui: 1, 2, 3, 4), il compagno Nicola ha identificato alcune cause strutturali profonde: (1) l’incrocio fra la precarietà esistenziale degli ultimi decenni e l’ideologia individualista, che induce a puntare tutto sul magic bullet vaccinale per poter tornare il prima possibile a produrre e consumare; (2) lo sbarramento mediatico opposto agli scienziati dissidenti che li ha indotti, spesso, a portare i loro argomenti su siti alternativi destrorsi; (3) la scomparsa del movimento operaio e della sua contronarrazione; (4) la confusione fra la collettività che protegge, e che è da proteggere, e lo Stato; (5) la confusione fra la libertà individuale di destra (quella dell’individuo borghese di sfruttare e consumare) e la pura e semplice libertà di vivere; (6) l’infantile entusiasmo per il presunto blocco dell’economia di una parte della compagneria, incapace di avvedersi che quel “blocco” significava solo la vittoria di alcune, specifiche bande del capitalismo contro altre ormai obsolete.
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Classe per sè o classe per altri?
di Circolo Internazionalista “Coalizione Operaia”
È passato esattamente un anno dalla pubblicazione del nostro opuscolo su “Il marxismo e la questione fiscale”, terreno di lotta politica del proletariato sul quale, nel corso dell’ultimo anno, più di qualche sedicente “rivoluzionario” ha goffamente sdrucciolato. Non abbiamo la pretesa di ritenere che la graduale sordina calata su quella che sembrava dover diventare la madre di tutte le rivendicazioni politiche di classe – la “million tax” – sia merito nostro. Una rivendicazione che risponde ad interessi di strati sociali storicamente a rimorchio, che non ha nessun aggancio con la dinamica delle lotte reali del proletariato, che non risponde alle esigenze di questa lotta, ma soprattutto che non è in cima all’agenda politica borghese, non ha gambe proprie sulle quali camminare, e viene via via lasciata cadere dagli stessi che se ne fanno promotori, per essere magari sostituita da altre parole d’ordine “asso pigliatutto”. Altrettanto irreali, altrettanto sterili. Non è affatto escluso che la “patrimoniale di classe” ritorni alla carica, una volta che “l’aria che tira” alimentata dai mantici della classe dominante la riporti anche solo marginalmente nel dibattito. Per ora, nel bilancio da stilare ad un anno dalla battaglia contro le pretese di “marxificare” la “million tax”, possiamo solo riscontrare con moderata soddisfazione che quel tentativo è stato prontamente e severamente rintuzzato. Di seguito pubblichiamo il testo della relazione di presentazione al nostro opuscolo.
* * * *
Nonostante la chiarezza cristallina della nostra posizione in merito alla questione fiscale, siamo stati “bollati” dai propugnatori di una politica fiscale massimalista (leggi: Tendenza internazionalista rivoluzionaria, sic!) di “indifferentismo”, una banale etichetta di comodo, falsa fino all’inverosimile, che prova miseramente a distogliere l’attenzione dall’intrinseca inconsistenza di qualsiasi proposta di “million tax classista”.
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Note sulla vicenda del Quirinale e sull’Italia che verrà
Intervento di Fausto Sorini
Vale la pena ritornare sulla vicenda del Quirinale, a cui Marx21.it ha dedicato il suo editoriale del 30 gennaio (1). Essa si sta rivelando assai disvelatrice di tendenze e contraddizioni di fondo della società italiana, di processi e progetti politici differenziati che la attraversano e spaccano coalizioni e partiti anche al loro interno. E allungano lo sguardo sul futuro politico del Paese, dato che l’attuale configurazione del quadro politico italiano appare tutt’altro che stabilizzata.
L’Italia è un Paese rilevante nell’equilibrio geo-politico euro-atlantico (imperniato su Stati Uniti, Ue e Nato) ed euro-mediterraneo (Israele, Medioriente, Nord Africa); tanto più in un contesto di nuova guerra fredda, in alcune aree già calda. Anche sul piano della stabilità economica, scioccata dalla pandemia, l’Italia è paese tutt’altro che secondario negli equilibri e nella tenuta dell’euro e dell’Unione europa.
Che cosa vogliono quindi i “poteri forti”, italiani ed esteri, dall’Italia?
-Rigidà fedeltà euro-atlantica nello scontro globale con Russia e Cina (altro che Via della Seta e cooperazione pacifica euro-asiatica o euro-mediterranea);
-che il Paese non crolli economicamente e riduca il debito pubblico, senza sostanziali redistribuzioni della ricchezza nazionale a danno dei gruppi dominanti e dei ceti sociali medio-alti;
-che riduca e contenga la spesa sociale (pensioni, scuola e sanità pubblica);
-che resti fedele ai parametri liberisti della Ue, sia in fase di austerità che in fase di politica più espansiva. E quindi NO ad un ruolo preminente del pubblico nella vita economica, piena libertà d’azione al capitale finanziario e alle banche, nessuna nazionalizzazione o primato del pubblico in tale settore;
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Una lettura critica di “Antithesi/cognord. La realtà della negazione e la negazione della realtà”1
di Claudio Paolantoni
Il testo è stato tradotto in italiano qui e ripreso qui
L’obiettivo polemico del testo in esame è “l’approccio negazionista nei confronti della pandemia” abbracciato da “molti dei nostri compagni e amici all'interno dell'ambiente radicale” “mentre non pochi di loro sono gradualmente scivolati nel pensiero cospirazionista e in assurdità sconvolgenti.”
Quindi l’obiettivo è il “negazionismo”. Ma a un certo punto del testo, a pag. 29, si passa alle “tendenze negazioniste/novax” senza avvertire particolare necessità di distinzione tra i due aspetti, o di argomentazioni diverse per contrastarle. In queste note starò in buona parte al gioco, per quanto rischioso possa essere.
L’arma delle polemica, il lungo filo rosso del documento, è inchiodare queste tendenze alla loro presunta matrice “individualista”. E’ proprio questa matrice che renderebbe intercambiabili negazionismo e antivaccinismo. L’ opera viene compiuta in gran parte dandone per scontato un presupposto, cioè che tali opposizioni siano dettate dal solo anelito alla “libertà individuale”, o alla “autodeterminazione” (che a loro volta, per definizione, sarebbero sempre nemiche della vera libertà, cosciente del vincolo sociale), altre volte articolando delle critiche puntuali (ma inconsce dei propri presupposti).
Il documento è fortemente ispirato a una “teoria” dello Stato nel merito della quale non ritengo di avere la necessità, e neanche le competenze, per entrarvi2. Pertanto mi limiterò a considerarla per quello che sembra esserne il suo precipitato nel contesto del tema affrontato:
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La rivoluzione oltre il comunismo novecentesco
di Fabio Ciabatti
Enzo Traverso, Rivoluzione. 1789-1989: un’altra storia, Feltrinelli, Milano 2021, edizione Kindle, pp. 585, € 19,90; edizione cartacea p. 464, € 39,00.
I militanti dei partiti comunisti del secolo scorso erano convinti di marciare nel senso della storia e per questo di appartenere a un movimento che trascendeva il loro destino individuale. Convinzione che li aiutava a combattere anche nei momenti più tragici e a riprendere la lotta dopo ogni sconfitta. L’esperienza di questo tipo di soggettività, legata alla costellazione pratico-teorica del comunismo novecentesco, si è esaurita, sostiene Enzo Traverso nel suo ultimo libro Rivoluzione. 1789-1989: un’altra storia. I movimenti anticapitalisti emersi negli ultimi anni, infatti, non appartengono a nessuna delle tradizioni della sinistra del passato, fatte salve alcune affinità con l’anarchismo. Generalmente disinteressati ai grandi dibattiti strategici della tradizione rivoluzionaria e indifferenti ad una dimensione teleologica della storia, hanno inventato nuove forme di organizzazione e sperimentato nuove forme di vita basate sull’autogestione, sulla riappropriazione dello spazio pubblico, sulla partecipazione, sulla deliberazione collettiva, sull’inventario dei bisogni e sulla critica della mercificazione dei rapporti sociali. “In quanto orfani, devono inventare la propria identità. Questa è a un tempo la loro forza, perché non sono prigionieri di modelli ereditati dal passato, e la loro debolezza, perché mancano di memoria”.1 Per questo “se le rivoluzioni del nostro tempo devono inventare i propri modelli, non possono farlo su una tabula rasa, senza incarnare una memoria delle lotte passate, sia le conquiste, sia le assai più frequenti sconfitte”.2 Non si tratta di conservare feticisticamente un retaggio inviolato di prassi e teorie, ma di fare una duplice operazione attraverso l’elaborazione critica della storia: superare il passato e, al contempo, salvare il significato di quell’esperienza storica chiamata rivoluzione.
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Movimento e tempo in Aristotele
di Franco Piperno
Continua la pubblicazione dei contributi di Franco Piperno dedicati alla questione del tempo e, in particolare, alla relazione sotterranea tra tempo comune e tempo scientifico. Questo rapporto era già stato indagato attraverso il racconto delle «due imprese di Pigafetta» (https://www.machina-deriveapprodi.com/post/le-due-imprese-di-pigafetta). Ora l’autore si rivolge alla fisica aristotelica per sviluppare una considerazione sulla nozione di tempo naturale, cioè fisico
Premessa
Il tempo, l’idea del tempo, è spesso la qualità fondatrice di una concezione comune del mondo. Il tempo, il tempo comune, il tempo pubblicamente misurabile ordina le azioni sociali secondo il «prima» ed il «dopo». Il tempo rende, così, intelligibile il movimento. Ma, come ogni concetto fondatore, il tempo, spesso, diviene cosa; e ci appare come realmente esistente. Anzi ci appare talvolta, paradossalmente, più reale che le cose. Le idee comuni, le idee costitutive del senso comune, trovano la loro sostanza nell’accordo sociale; questo significa che un concetto fondante del senso comune è reale solo perché è condiviso da una moltitudine di individui. Un’idea totalitaria, poi, cioè un’idea unanimemente accettata, fa nido nello spirito dell’individuo, diviene così un concetto irriflesso, quasi un istinto – in modo che l’idea appaia meno come un mezzo di dare ordine al mondo che un frammento del mondo, il più vero forse.
Il tempo come la causa, il numero o la libertà, è un’idea, anche se si tratta di un’idea-paradigma. Ma un’idea di questa natura appare all’individuo come cosa del mondo malgrado si tratti di un simbolo per ordinare le cose del mondo. E come le cose del mondo si sottrae alla riflessione critica e all’interrogazione: perché quel che esiste è ovviamente considerato ragionevole. Infatti i paradigmi concettuali non si aprono alla critica che durante le crisi sociali. Una crisi sociale è prima di tutto una crisi della comune concezione del tempo.
La temporalità, cioè il modo d’apprendere il cambiamento, è un’esperienza necessariamente collettiva, essa caratterizza non solamente una società ma perfino una comunità.
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Studenti e operai uniti nella lotta…?
Appunti per una mobilitazione studentesca
di Sandro Moiso
La nostalgia non è mai una buona compagna di viaggio, sia nella vita che in politica, pertanto le riflessioni che seguono esulano da eventuali rimpianti per una stagione apparentemente finita da decenni. Detto questo, però, è inevitabile registrare come in una società che non ha mai perso le caratteristiche di sfruttamento e comando sulla forza lavoro che già erano state alla base delle rivolte operaie degli anni Sessanta e Settanta, in un contesto in cui alcune caratteristiche del lavoro precarizzato sono penetrate sempre di più anche all’interno dei percorsi scolastici contraddicendo la favoletta della formazione culturale dei futuri cittadini, sia ridiventata possibile sperare in una ripresa dell’unità di intenti tra settori del mondo del lavoro e studenti, soprattutto delle scuole superiori, come è riscontrabile oggi a partire dalle mobilitazioni che hanno coinvolto gli stessi in almeno trenta città italiane dopo la tragica morte, durante l’ultimo giorno dello stage di alternanza scuola-lavoro, di un giovane diciottenne, Lorenzo Parelli, in un’azienda dislocata in provincia di Udine.
D’altra parte gli studenti medi, nelle spontanee manifestazioni avvenute dopo la morte di un loro coetaneo sul luogo di lavoro in cui avrebbe dovuto apprendere elementi utili ad una formazione professionale, cui le scuole statali sembrano aver abdicato da molti anni a questa parte, hanno evidenziato un elemento che da troppo tempo, al di là dei falsi piagnistei sindacali e governativi, caratterizza il mondo del lavoro italiano, ovvero il fatto che in questa democratica repubblica sono da contare almeno tre morti al giorno sui posti di lavoro. Cifra che il periodo di allerte ed emergenze pandemiche non ha certamente contribuito a far diminuire.
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Gli studi “randomizzati”sulle cure per il Covid-19 da fare a casa: un po’ pochini e un po’ poco raccontati
di Michele Di Mascio
Una recente intervista sulle cure per il Covid da fare a casa, andata in onda in prima serata, evidenzia come questo tema venga tuttora trattato senza accennare minimamente al senso di frustrazione che imperversa da due anni, in una parte della società civile e della stessa comunità scientifica, per via dei tempi sorprendentemente lunghi con cui decollano o procedono gli studi controllati su questi arsenali, sotto i fari spenti dei main stream media.
È stato uno dei temi affrontati, da me e da altri, per esempio nell’incontro di Politiche Pandemiche (Torino, 8 Dicembre 2021) che conta finora più di duecentomila click su Youtube o nell’udienza di Senato pubblica avanzata dal senatore americano Ron Johnson Covid-19: A Second Opinion (Washington, 24 Gennaio 2022), che ѐ stata seguita in streaming da più di un milione e quattrocentomila persone. Condivido tutto quello che ѐ stato detto in questi incontri? No, ma non condivido nemmeno tutto quello che altre\i portavoci della comunità scientifica hanno espresso in questi due anni attraverso i main stream media, senza per questo però abbracciare militanze oltranziste per soffocare i loro punti di vista, mentre, va ricordato, Facebook ha inflitto censura all’incontro italiano decidendo di oscurarlo durante lo streaming dell’8 Dicembre scorso. Chissà perchѐ…
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Il dottor Remuzzi, direttore dell’Istituto Mario Negri, spiega in un'intervista andata in onda qualche giorno fa1 che se si interviene sul paziente infettato da Sars-Cov-2 prima che la risposta immunitaria per contrastarlo diventi aberrante, si ha un’alta probabilità di prevenire l’insorgenza ed esacerbazione della malattia da Covid evitando così di finire in ospedale- In altre parole, esiste una finestra temporale di intervento farmacologico subito dopo il contagio, per trasformare in benigno l’intero corso dell'infezione da Covid.
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Rosa Luxemburg e il debito come strumento imperialista
di Eric Toussaint
Il 2022 sarà un anno molto difficile per i paesi dominati e controllati del Sud del mondo, specie per quelli più indebitati con l’estero. Per almeno due ragioni: i 42 paesi che avevano aderito alla sospensione del pagamento delle rate per il 2020 e il 2021, dovranno ricominciare a pagare; molti di questi paesi vengono colpiti duramente dall’aumento del prezzo del petrolio e del gas. Nel complesso i 74 paesi più poveri del mondo dovranno versare ai loro creditori (i sanguisuga di sempre, ossia le vecchie potenze coloniali, a cui si è aggiunta la Cina) 35 miliardi di dollari – secondo la Banca mondiale si tratta di un aumento del 45% sul 2020. Un onere pressoché insostenibile, per cui più della metà di questi paesi sarà costretto a chiedere la ristrutturazione del debito estero – che comporta sempre, come ha mostrato Chossudovsky, l’appesantimento del debito e della dipendenza economica e politica. Tra i paesi più a rischio insolvenza Sri Lanka, Ghana, Tunisia, Salvador, ma altri – come il Libano – sono già alla bancarotta.
Ecco perché ci è sembrato utile riprendere (e tradurre) dal sito del CADTM (Committee for the Abolition of Illegitimate Debt) questo articolo di E. Toussaint che espone in modo piano l’analisi della funzione imperialista dei prestiti internazionali compiuta da Rosa Luxemburg nel suo L’accumulazione del capitale. E’ utile precisare che, per noi, da cancellare è l’intero debito estero dei paesi dominati e controllati dalle potenze imperialiste, non una sua parte.
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Nel suo libro intitolato L’accumulazione del capitale, pubblicato nel 1913, Rosa Luxemburg dedicò un intero capitolo ai prestiti internazionali per mostrare come le grandi potenze capitaliste dell’epoca utilizzassero i crediti concessi dai loro banchieri ai paesi collocati alla periferia [del mercato mondiale] al fine di esercitare il proprio dominio economico, militare e politico su di essi.
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L’altra pandemia
Scienza, informazione e fake news al tempo del coronavirus
Ogni tempo ha il suo fascismo: se ne notano i segni premonitori dovunque la concentrazione di potere nega al cittadino la possibilità di esprimere ed attuare la sua volontà.
Primo Levi
Una delle virtù della democrazia - ineliminabile - consiste nel fatto che ciascuno deve essere esposto alla maggior quantità possibile di opinioni diverse.
Stefano Rodotà
La propaganda è in democrazia quello che il manganello è in uno stato totalitario.
Noam Chomsky
L’ignoranza afferma o nega rotondamente, la scienza dubita.
Voltaire
Parte 1
La guerra dei numeri
L’epidemiologia del COVID-19
Il COVID-19 è una malattia “mortale”?
Letalità, mortalità ed eccesso di mortalità.
La letalità del COVID-19 nel mondo
Il 3 marzo 2020, il direttore dell’OMS (Tedros Ghebreyesus) affermava, durante una conferenza stampa, che il SARS-CoV-2 avesse una letalità1 del 3,4%. Questo valore è stato sistematicamente smentito dalla letteratura scientifica e dalle evidenze epidemiologiche. Ecco alcuni, autorevoli, esempi:
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► Uno studio di marzo 2020, pubblicato su The Lancet - una delle riviste mediche più importanti al mondo - e condotto da ricercatori afferenti al prestigioso Imperiai College di Londra, stimava la letalità media (ogni età) del COVID-19 in Cina allo 0,6%.1
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Il "bisogno di pazienti" e quel labile confine tra sanità pubblica e privata
di Eugenio Donnici
Ogni qualvolta ci troviamo ad affrontare un grave problema di salute, entriamo nei meandri di un percorso labirintico, là dove diventa difficile trovare una via d’uscita.
Medicus curat natura sanat, recita l’aforisma, per dire che le conoscenze e le tecnologie di cui dispone la medicina attuale, non di rado, non sono sufficienti a riportare il paziente sulla via della guarigione.
Sia come sia, il tema della salute, anche e soprattutto per le tensioni generate dalla crisi pandemica, ritorna continuamente al centro del dibattito pubblico, con il rischio di diventare l’oggetto di una contesa inestricabile tra varie fazioni in lotta, sullo sfondo di un pervasivo processo di privatizzazione del SSN, nato nel 1978 dalla soppressione delle “Casse Mutue” e ispirato ai principi di universalità, equità e uguaglianza.
Tali principi, con l’ascesa delle forze liberiste e il conseguente cambio del paradigma economico-sociale, nel corso degli anni Ottanta seguirono un percorso accidentato e travagliato, al punto che finirono per sgretolarsi, quando vennero emanati i primi provvedimenti sulle privatizzazioni delle strutture sanitarie pubbliche.
In realtà, i diritti sociali, tra cui quello alla salute, garantiti e riconosciuti dalla nostra Costituzione, avevano già iniziato a scricchiolare a metà degli anni Settanta. In quel periodo, infatti, si era aperta la breccia attraverso cui si diffondeva l’idea che le prestazioni private a pagamento erano superiori a quelle gratuite. Forse, coloro che hanno una certa età dovrebbero ricordare le prese in giro degli oculisti o dei dentisti delle mutue e l’esaltazione dei pregi di quelli privati.
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Les jeux sont faits
Habemus presidentem!
di Alessandro Testa
I giochi sono fatti: il parlamento in seduta comune, rimpolpato dai “grandi elettori” espressi dalle regioni d’Italia, dopo mille schermaglie, moine, finte e controfinte, ha finalmente – seppur con estrema fatica – partorito il topolino del reincarico a Sergio Mattarella. Magno gaudio, tripudio universale per la scampata crisi, per la riconferma di una personalità di “alto profilo”, di un galantuomo “super partes”, a questa carica così importante per la tenuta delle istituzioni. Ma sarà proprio così?
Noi, dobbiamo dirlo con grande sincerità, non lo crediamo. Crediamo invece che queste elezioni abbiano spietatamente riconfermato alcuni elementi chiave di un trend politico ormai in atto da parecchio tempo, un trend politico che sempre più marca la perdita di sovranità della nazione italiana e del suo popolo, un trend politico che si presta a svariate e interessanti considerazioni.
Quali sono dunque le considerazioni che si possono cogliere osservando in filigrana questa convulsa settimana di votazioni e il suo sicuramente non inaspettato risultato finale?
Non certo, permetteteci di sottolinearlo, la facile e ridanciana “critica di costume” su cui molti media mainstream si sono buttati con voluttà: i tradimenti e le ripicche – quasi si trattasse di una telenovela di serie B e non di uno snodo istituzionale importantissimo per gli assetti presenti e futuri della repubblica – e ovviamente le trite ed ormai stantie polemiche sulla presunta “misoginia” della classe politica italiana che non pare in grado di eleggere una donna a posizioni di una qualche responsabilità – come se elevare al soglio quirinalizio una donna espressione del più bieco e sordido affarismo liberista fosse chissà quale conquista di civiltà e progresso sociale.
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L’eredità di Rosa Luxemburg
di Giovambattista Vaccaro (Università della Calabria)
1. Introduzione
Il pensiero di Rosa Luxemburg non ha mai riscosso un particolare interesse nel nostro paese, probabilmente perché, come ha rilevato il suo maggiore studioso e diffusore italiano, Lelio Basso, su di esso hanno pesato due diversi approcci: quello socialdemocratico, che fa della rivoluzionaria polacca il grande avversario di Lenin e il grande difensore della democrazia, e quello comunista, per il quale – specularmente – la Luxemburg aveva sempre torto e Lenin sempre ragione1. Così, nonostante si sia visto in lei uno dei migliori esegeti e volgarizzatori del marxismo2 e l’esponente di un marxismo creativo e ricco di contributi originali3, il giudizio che ha prevalso è stato quello per cui il suo pensiero rimane caratterizzato da un economicismo4 in cui l’analisi slitta dal piano economico a quello geografico, producendo così «acrobazie in materia economica»5 e argomentazioni economiche deboli. Un pensiero che non contribuisce a una teoria politica della rivoluzione, inoltre, perché manca in esso l’attenzione per l’aspetto politico-istituzionale della rivoluzione e la distinzione tra avanguardia e masse6. Questo giudizio non è sostanzialmente cambiato negli anni del ripensamento del marxismo e della strategia del movimento comunista successivi alla catastrofe del ’56, anche se sulla base di argomentazioni diverse, come ad esempio quella, tipica dell’operaismo italiano, che chiama in causa il tramonto della figura dell’operaio professionalizzato e il parallelo sorgere dell’operaio-massa; una novità che avrebbe reso del tutto inattuale e astratta l’ipotesi politica dei consigli operai formulata dalla Luxemburg e ripresa da tutto il Linkscommunismus tedesco degli anni Venti, incapace di scorgere nella ristrutturazione del ciclo capitalistico che modificava l’assetto della forza- lavoro la risposta del capitale all’insubordinazione operaia7.
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Fedeli al sogno
di Fabrizio Bondi
Che c’entra il sogno con la filosofia, verrebbe da chiedersi, imbattendosi in libreria nel volumetto di Umberto Curi intitolato Fedeli al sogno. La sostanza onirica da Omero a Derrida (Bollati Boringhieri, 2021)?
La filosofia moderna non si apre forse con l’età dei Lumi, con l’Aufklarung kantiana, che hanno spazzato via la prigionia delle menti e dei corpi, le superstizioni e l’oppressione, insomma tutti quei mostri del passato che, per il Goya dei Caprichos, sarebbero generati dal sueño della Razòn? (in spagnolo, come nel latino somnium, la parola significa sia ‘sonno’ che ‘sogno’). Gufi occhiuti, pipistrelli, demoni grotteschi verrebbero viceversa fatti fuori da un solo raggio di quella formidabile luce che tutti fa risvegliare...
Del resto anche nel più celebre dei miti di Platone lo ‘scopo del gioco’ è uscire dalla Caverna, emanciparsi da quella sorta di eterna avvolgente proiezione cinematografico-onirica nella quale i cavernicoli sono immersi. Tale risveglio è, per Platone, l’inizio del pensiero. Eppure, potrebbero già obiettare i lettori più o meno freschi di ricordi liceali (e magari i liceali stessi) non è proprio Platone quello che non riuscì a fare a meno dei mithoi, a dispetto della sua potentissima dialettica socratica, della sua ‘arma letale’ rivolta contro le credenze dei più?
I miti, dal canto loro, sembrano spesso seguire la logica del sogno, cioè ambientarsi in una realtà in cui tale logica è legge, in cui possiamo vedere un corpo umano diventare albero o animale, parlare cogli dèi ma anche essere da loro perseguitati, per ragioni al contempo cogenti e indecifrabili: un mondo insomma in cui i livelli della realtà, l’umano il divino il naturale, sono stranamente rimescolati.
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Le strozzature: cause e implicazioni macroeconomiche1
di Daniel Rees2 e Phurichai Rungcharoenkitkul3
Le strozzature nella fornitura di merci, merci intermedie e trasporto merci hanno dato luogo a prezzi volatili e ritardi nelle consegne.
• Le strozzature sono iniziate come interruzioni dell'offerta legate alla pandemia a causa della forte domanda derivante dalla ripresa economica globale. Ma sono state aggravate dai tentativi dei partecipanti alla catena di approvvigionamento di costruire buffer in reti di produzione già snelle – i cosiddetti effetti bullwhip.
• Le strozzature sono state particolarmente gravi nelle industrie a monte, ovvero quelle che forniscono input utilizzati in molti altri prodotti. Questi vincoli hanno portato a gravi ricadute internazionali attraverso le catene di valore globali.
• L'effetto inflazionistico diretto delle strozzature sarà probabilmente ridimensionato dopo l'adeguamento dei prezzi relativi. Tuttavia, se le strozzature dovessero persistere abbastanza a lungo da innescare un innalzamento della crescita salariale e delle aspettative di inflazione, potrebbero emergere pressioni inflazionistiche sostenute.
Introduzione
Mentre la ripresa globale prende piede, la domanda di materie prime chiave, input intermedi e servizi logistici ha superato l'offerta disponibile, portando ad un aumento e una volatilità dei prezzi e ritardi nelle consegne.
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Scienze sociali e gestione pandemica: un invito al dibattito
APRI QUESTA PAGINA per la lista delle adesioni o per aderire a questo invito (non è necessario essere affiliati a un’università o centro di ricerca). Per discutere, rispondere o mandare un abstract scrivi a This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.
Siamo un gruppo di scienziate/i sociali, appartenenti a diverse discipline, indipendenti o variamente inquadrati nelle università italiane o estere. Ciascuno di noi è quindi professionalmente abituato ai tempi lunghi della ricerca, alla verifica dei dati e delle fonti, alla responsabilità autoriale, al rigore argomentativo e al confronto con i colleghi. Siamo abituati anche a riconoscere i limiti, gli errori, le storture e la piattezza di narrazioni basate sull’uso opportunistico dei dati, sulla riduzione della complessità e su contrapposizioni manichee – che si tratti della versione mainstream o di narrazioni complottiste.
Proprio per la valenza critica e anti-egemonica delle nostre discipline, riteniamo che oggi chi le pratichi non possa eludere quantomeno una discussione aperta e franca sulle politiche autoritarie, discriminatorie e arbitrarie con cui il governo italiano, e non solo, sta affrontando la diffusione del Covid-19. Siamo coscienti del fatto che gran parte dei nostri colleghi e colleghe, implicitamente o esplicitamente, non abbiano considerato un problema il fatto che il governo abbia puntato esclusivamente sulla campagna vaccinale come via di uscita dalla pandemia. I vaccini anti-Covid sono utili per diminuire l’incidenza di morte e forme gravi di malattia per le persone anziane e/o con maggiori rischi; ma gran parte delle scelte politiche adottate in questi due anni hanno ignorato gli effetti sociali, politici e culturali delle misure prese in nome della salute pubblica.
L’intreccio fra pandemia e gestione della pandemia sta erodendo in profondità il mondo intorno a noi, irrigidendo la struttura delle soggettività che lo abitano e lacerando la trama relazionale fra umani, così come fra umani e non-umani, nonché i rapporti di fiducia e riconoscimento reciproco che chiamiamo “società”. Questa disgregazione avviene proprio quando l’enormità del collasso climatico richiederebbe all’umanità intera di mettere da parte divergenze, conflitti e interessi specifici, nel tentativo di evitare insieme una catastrofe ecologica. Non esprimerci a riguardo significherebbe colludere con la distruzione in corso.
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Gli altri volti della Rivoluzione: considerazioni di un antimarxista
di Sandro Moiso
Diego Gabutti, Mangia ananas, mastica fagiani. Vol.I – Dal Manifesto del partito comunista alla Rivoluzione d’Ottobre, WriteUp Books, Roma 2021, pp. 484, 28,00 euro
Lasciate oltrepassare al vostro pensiero i limiti di questo mondo, perché vada a contemplarne un altro completamente nuovo, che farò nascere in sua presenza negli spazi immaginari. (Descartes, Le Monde de M. Descartes ou le Traité de la lumière)
Per chi, come il sottoscritto, crede che il politico costituisca principalmente null’altro che uno dei tanti territori dell’immaginario, non è difficile condividere l’idea di Diego Gabutti che anche la Storia non sia altro che un aspetto, forse il più antico e meglio conservato, della narrazione letteraria e che come tale vada trattata.
I due aspetti, il politico come una delle tante espressioni dell’ immaginario e la Storia come uno dei generi letterari possibili, si intrecciano profondamente infatti nella monumentale opera in due volumi, di cui si recensisce qui il primo, dedicata alla ricostruzione dei percorsi del marxismo e delle sue rivoluzioni attraverso aforismi letterari e filosofici, recensioni di saggi e di romanzi, divertite e divertenti analisi di testi che da sempre dovrebbero costituire il “canone” marxista, che si accavallano nelle sue pagine, non concedendo al lettore un attimo di tregua (ma in compenso regalandogli numerosi motivi per sorridere oppure riflettere su “verità” date troppo spesso per scontate).
Un’opera che se, nei suoi tratti essenziali, potrà infastidire più di un lettore, da un altro lato potrebbe rivelarsi davvero necessaria e stimolante in ambienti sinistresi in cui, ancora e forse soprattutto oggi, il dibattito sul fallimento delle rivoluzioni novecentesche rifiuta troppo spesso il peso avuto nello stesso dall’autentica controrivoluzione staliniana e dagli eccessi ideologici, che ebbero però risvolti drammatici nelle scelte politiche, sociali e culturali che ne derivarono, di coloro che dissero di ispirarsi a Marx e ancor più al marxismo-leninismo (non importa qui se di stampo bolscevico o maoista). Una sinistra che, fingendo si averlo digerito e superato, così come aveva già fatto il PCI nei confronti dello stesso retaggio storico, ogni qualvolta si approccia allo stalinismo afferma che ormai qualsiasi diatriba che lo riguardi è un fatto meramente ideologico. Appartenente ad un passato ormai morto e sepolto.
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Passo d'addio
di Roberto Artoni
Abstract. Nelle scuole di danza il passo d’addio è il saggio finale che chiude il periodo di formazione dei giovani ballerini, ormai pronti a intraprendere la carriera professionale. Nel mio caso il passo d’addio ha un significato del tutto diverso: è il momento finale di una lunga esperienza, rappresentando la presa d’atto dell’itinerario culturale che è stato seguito nel corso di cinque decenni.
Quadro iniziale
Se torno indietro alla fine degli anni ’60, i riferimenti sono agevolmente sintetizzabili. Da un lato, la microeconomia con i due teoremi dell’economia del benessere e, dall’altro, la macroeconomia nella versione IS-LM, fissata nei suoi termini essenziali da Hicks e Modigliani.
Ovviamente, la sistemazione della microeconomia, per le condizioni molto stringenti che garantivano l’efficienza nella produzione e nello scambio e per la indeterminatezza distributiva, lasciava ampio spazio per ulteriori approfondimenti e articolazioni. Per quanto mi riguarda, il primo approfondimento è stato il teorema di impossibilità di Arrow. Il teorema, sulla scia di Sen, è stato da me interpretato come la dimostrazione che al di fuori di giudizi di valore (le comparazioni interpersonali di utilità) in una società articolata in gruppi sociali non è possibile, se si escludono soluzioni dittatoriali, individuare un assetto distributivo appropriato e condiviso.
La macroeconomia, come veniva allora impostata, portava a sua volta ad attribuire la responsabilità della disoccupazione alla rigidità dei salari.
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Critica e crescita della conoscenza in economia
di Emiliano Brancaccio
Prolusione tenuta per l'inaugurazione dell'anno accademico 2021-2022 dell'Università degli studi del Sannio
In questa giornata di celebrazione, di festa, saluto la nostra comunità di Unisannio. Gli studenti, in primo luogo, quindi i tecnici, gli amministrativi, i bibliotecari, i colleghi ricercatori e docenti, il Magnifico Rettore e il Pro Rettore, e poi i Rettori ospiti, il dottor Farinetti e gli esponenti delle istituzioni che sono oggi qui con noi.
1. Ho deciso di far partire questa mia prolusione una domanda perturbante che da qualche tempo aleggia nell’aria, come uno spettro che si aggira per il mondo. La domanda è: cosa può esser definito “scientifico” e cosa invece va considerato “non scientifico”? E’ in interrogativo cruciale, attualissimo, che talvolta, come sappiamo, può persino assumere i tratti tragici della questione di vita o di morte.
Cosa è scientifico, e cosa no? In effetti l’università è il luogo storicamente deputato per tentare di rispondere a questa domanda fondamentale. Fin dai tempi dell’accademia platonica, già prima dell’avvento del metodo galileiano, l’università è sempre stata l’istituzione chiamata a stabilire cosa davvero possa esser definito scientifico e cosa no. Dunque, in questo luogo deputato, in questo momento celebrativo, dovremmo provare a rispondere.
Il problema è che, come ci insegna l’epistemologia moderna, che va da Kuhn a Popper, a Lakatos, fino a Feyerabend, rispondere a questa domanda, purtroppo, è meno semplice di quanto vorremmo.
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Giacomo Gabellini, “Krisis”
di Alessandro Visalli
L’importante libro di Giacomo Gabellini[1] reca l’ambizioso sottotitolo “Genesi, formazione e sgretolamento dell’ordine economico statunitense”. L’oggetto dello studio, informatissimo, è dunque “l’ordine economico statunitense”, l’arco della sua estensione è dalla genesi allo sgretolamento. La narrazione è orientata lungo la freccia del tempo.
L’ordine economico non è chiaramente l’unica forma di ordine, né l’economico l’unico ordinatore possibile o attivo nella successione degli eventi storici. Anzi, come del resto si rileva anche dalla lettura di Gabellini, l’economico è sempre in qualche misura intrecciato e talvolta incorporato nel politico e nel sociale (e culturale). Si relaziona profondamente, quando non promana nella sua forma concreta, al sapere tecnico ed alle tecnologie dominanti (non solo direttamente produttive, anzi una delle forme di ordine emergente è connessa intimamente con tecnologie che non sono apparentemente produttive, ma egualmente hanno una dimensione ‘economica’, come quelle del ‘capitalismo della sorveglianza’[2]), e ha una storica simmetria, nella sua forma moderna, con il razionalismo e la scienza[3]. Per fare un esempio di prospettiva del tutto diversa dell’ordinatore, se pure rivolta alle correnti profonde e non agli eventi superficiali (secondo la famosa immagine di Braudel), Emmanuel Todd inquadra il senso di declino che è anche alla radice della interpretazione per cicli ripresa nel testo nel contesto di una predazione demografica in corso da quaranta anni da parte dell’occidente ricco ed anziano nei confronti dei paesi periferici. La transizione è letta con occhiali antropologici e punta la sua attenzione sulle trasformazioni che si sono accumulate al termine del trentennio ‘glorioso’[4], trasformazioni che muovono tutti gli strati più profondi della società, partendo dall’economico e dal politico per arrivare alla sua cultura ed alle strutture familiari.
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“Tecnoluddismo. Perché odi il tuo lavoro”
di Gavin Mueller
Pubblichiamo in anteprima, per gentile concessione delle amiche e amici di Nero Not, un estratto del libro di Gavin Mueller Tecnoluddismo. Perché odi il tuo lavoro, uscito il 26 gennaio, e tradotto per l’edizione italiana da Valerio Cianci. La questione luddista, il rapporto con le nuove tecnologie e l’urgenza di una nuova “ecologia del lavoro” sono temi già emersi sulla nostra rivista (qui), che riteniamo importante continuare a diffondere e divulgare. Le note sono omesse per favorire la leggibilità [Ndr]
La storia non è stata clemente con i luddisti. L’eredità della loro resistenza alle macchine è stata generalmente intesa come una forma di tecnofobia; e, per via della contemporaneità fra le loro rivolte e l’avvento della produzione di massa, sono spesso stati associati a un irrazionale terrore del progresso. I critici della tecnologia finiscono o con il disconoscere enfaticamente l’eredità luddista, o a professare simpatie fin troppo incontrollate. E se da una parte lo scrittore di tecnologia Andrew Keen, parlando della sua avversione ai social media, insiste a ribadire che «non sono un luddista», dall’altra le «confessioni di un luddista» sono diventate un genere letterario vero e proprio, al cui interno troviamo tanto educatori quanto musicisti e persino specialisti delle tecnologie dell’informazione. L’associazione tra luddismo e tecnofobia è stata essa stessa motivo di una simpatia diffusa. Nel 1984, per esempio, Thoms Pynchon domandava ironicamente se fosse «ok essere un luddista», mentre gli anni Novanta hanno assistito alla nascita del cosiddetto movimento neoluddista che, in una nebulosa coalizione contro le tecnologie allora contemporanee, accorpava critiche sociali assortite e ambientalismo radicale. Benché nel loro manifesto specificassero che non rinnegavano la tecnologia in quanto tale, la generalizzata ostilità dei neoluddisti per l’ingegneria genetica, la televisione, i computer e le «tecnologie elettromagnetiche» tradiva un debito nei confronti delle politiche anticivilizzatrici tipiche dell’anarco-primitivismo.
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Io, terrapiattista femminista
di Nicoletta Cocchi
C’è chi pensa che non siano sufficienti finora le letture femministe della pandemia, proprio ora che i corpi sono al centro di decisioni a qualsiasi livello. Certo, alcune analisi hanno mostrato come la pandemia abbia ulteriormente penalizzato la vita delle donne e aumentato le violenze in tutte le loro forme, ma anche come il covid sia per alcuni aspetti una crisi della cura. E rispetto al green pass? E sul bisogno di riappropriarsi della medicina? E sui diversi dispositivi autoritari approvati, soprattutto in Italia? Un contributo di Nicoletta Cocchi, ricercatrice e traduttrice femminista
Da due anni m’interrogo come molte altre su quello che sta accadendo alle nostre vite e alle scelte che siamo chiamate a fare sui nostri corpi cercando di darmi risposte posizionate, incarnate, alias femministe. Fin dall’inizio dell’emergenza ho cercato di non oppormi aprioristicamente alle difficili scelte dei nostri governi, ma di fronte ai tanti divieti, prescrizioni, recinzioni e gabbie fisiche e mentali che si alternavano a misure di allentamento per poi tornare con una presa sempre più totalitaria sulle nostre vite, il mio atteggiamento è cambiato. Ogni mia previsione, anche la più distopica, si verificava regolarmente.
Allora come oggi mi guardo intorno, m’informo cercando fonti attendibili, parlo e discuto con vicine/i, amiche femministe e non, dosando le parole in acrobatiche conversazioni per non infilarmi in contrapposizioni prive di soluzioni, cerco dati, prove, tento ragionamenti. Quando, non più tardi di qualche mese fa, la presunta nuova normalità sembrava essersi imposta, ho avuto la certezza che qualcosa si era irrimediabilmente rotto, e gli ultimi decreti che entreranno in vigore in questi giorni mi danno la conferma che così è. Sono tra coloro che hanno scelto di non vaccinarsi, dunque non partecipo a convegni, incontri in librerie, non frequento biblioteche e nemmeno più l’associazione di donne che ho frequentato per anni, e naturalmente non vado al ristorante e al cinema.
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Generazione COVID: la pandemia sta influenzando il cervello dei bambini?*
di Melinda Wenner Moyer
Come molti pediatri, Dani Dumitriu era in allerta per il possibile impatto dell’arrivo del coronavirus SARS-CoV-2 nei suoi reparti, ma si era sentita sollevata quando la maggior parte dei neonati del suo ospedale che erano stati esposti al COVID-19 sembravano stare bene. Conoscendo gli effetti di Zika e di altri virus, che possono causare difetti alla nascita, i medici erano attenti a questo tipo di problemi.
Tuttavia erano seguiti a ruota gli indizi di una tendenza più sottile e insidiosa. Dumitriu e il suo gruppo al NewYork-Presbyterian Morgan Stanley Children's Hospital di New York avevano a disposizione dati sullo sviluppo infantile raccolti in due anni: dalla fine del 2017, avevano analizzato la comunicazione e le capacità motorie dei bambini fino a sei mesi. Pensando che sarebbe stato interessante confrontare i risultati dei bambini nati prima e durante la pandemia, Dumitriu aveva quindi chiesto al suo collega Morgan Firestein, ricercatore post-dottorato alla Columbia University di New York, di valutare se ci fossero differenze nello sviluppo neurologico tra i due gruppi.
Pochi giorni dopo, Firestein ha chiamato Dumitriu in preda all’agitazione. "Ha detto qualcosa come: Siamo in crisi, non so che cosa fare, perché non solo siamo di fronte a un effetto della pandemia, ma è un effetto significativo", ricorda Dumitriu che rimase sveglia quasi tutta la notte a esaminare i dati. I bambini nati durante la pandemia avevano ottenuto, in media, un punteggio più basso nei test di motricità grossolana (o abilità grosso-motoria), motricità fine e capacità di comunicazione rispetto a quelli nati prima (entrambi i gruppi sono stati valutati dai loro genitori usando un questionario standard). E non importava se il loro genitore naturale era stato infettato dal virus o no; sembrava esserci qualcosa che riguardava l'ambiente stesso della pandemia. Dumitriu era sbalordita. "La sensazione era: oh, mio Dio. Stiamo parlando di centinaia di milioni di bambini."
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Note sul pessimismo climatico
di Raffaele Scolari
Prendo spunto da due testi pubblicati recentemente su climalteranti.it. Il primo è una recensione del nuovo libro di Michael Mann, La nuova guerra del clima, in cui il climatologo americano, oltre a mettere in guardia contro le nuove forme di negazionismo camuffato, pone in risalto la pericolosità di visioni “eccessivamente cupe del nostro futuro”. Il secondo articolo verte sulla COP 26 di Glasgow e sui risultati che essa potrà produrre. Anche in questo caso vi è una sorta di messa in guardia: contro “una visione semplicistica del negoziato sul clima”. Secondo questo post, la contrapposizione “successo vs. fallimento” è fuorviante, perché ignora sia la complessità delle trattative sia i risultati intermedi che, come in occasione di passate edizioni, possono essere ottenuti e che comunque, ai fini di una efficace lotta contro i cambiamenti climatici, sono molto importanti.
Qui di seguito intendo, se non proprio mettere in guardia contro queste e altre simili messe in guardia, presentare alcune riflessioni critiche al loro riguardo. Per cominciare una nota sul titolo del saggio di Mann: considero l’impiego della metafora della guerra in riferimento al riscaldamento globale come problematico e opinabile, e comunque contradditorio rispetto al dichiarato intento di denunciare i facili allarmismi e pessimismi. Data la natura dell’oggetto in questione, il clima mondiale, se di guerra si tratta, quella contro il Climate change deve o dovrà necessariamente assumer l’aspetto di una guerra totale, contro un nemico assai potente e da tempo conosciuto, e in cui nessuno potrà risparmiarsi. Sennonché il nemico non risiede dall’altra parte della frontiera o del mare, bensì è in mezzo a noi, nelle nostre distese metropolitane, nei gangli del potere politico ed economico e pure nelle nostre menti e abitudini, talché se proprio si vuol ricorrere alla metaforica bellica, meglio sarebbe parlare di “nuova guerra civile del clima”.
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