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Lotte interclassiste: obiettivi ed esiti

Estratti da Le ménage à trois de la lutte des classes

di Bruno Astarian e Robert Ferro

A margine del sostanziale riflusso del movimento sociale negli Stati Uniti, pubblichiamo un altro breve estratto da Le Ménage à trois de la lutte des classes, uscito in Francia nel dicembre 2019, e in fase di traduzione in italiano. Degli Stati Uniti, avremo modo di riparlare in maniera più circostanziata prossimamente. Nel frattempo, per chi volesse procurarsi il volume di cui sopra, ricordiamo che è ormai possibile ordinarlo direttamente sul sito della casa editrice: https://editionsasymetrie.org/ouvrage/le-menage-a-trois-de-la-lutte-des-classes/.

Screenshot from 2020 07 12 10 30 10Obiettivi delle lotte interclassiste

Fatta eccezione per i Gilets Jaunes nel momento più alto della loro mobilitazione, nei movimenti interclassisti attuali – tali quali si manifestano attraverso scioperi, manifestazioni e sommosse – la presenza del proletariato è meno evidente di quella della classe media. Lo si è visto in Francia nel 20161 e in molte altre occasioni, che dimostrano come all’interno della lotta interclassista sia la classe media a parlare più forte. Questo vuol dire forse che è essa a menare le danze? No, vuol semplicemente dire che è essa ad avere i mezzi per esprimere il discorso più appropriato al terreno sul quale si colloca la lotta interclassista: quello politico, in cui ci si rivolge allo Stato perché difenda il posto che le due classi occupavano precedentemente nella società capitalistica. Quella interclassista non è una lotta in cui il proletariato giochi un ruolo secondario sottomettendosi agli imperativi della CMS [classe media salariata, NdT]. Il proletariato non rinuncia alla sua posizione specifica. Semplicemente, è impegnato in una lotta rivendicativa e/o riformista. Fino a un certo punto, le sue rivendicazioni sono le stesse della classe media, reclama le stesse riforme. Fin quando si rimane al di qua di questa soglia, la classe media è il portavoce meglio capace di formulare gli obiettivi congiunti delle due classi. Ma quali sono questi obiettivi? Li si può analizzare secondo il ventaglio seguente.

1) Standard generali di riproduzione. Si tratta dei fattori che determinano le condizioni di vita delle due classi in generale (disoccupazione, inflazione etc.). Il problema non riguarda solo il proletariato. Abbiamo visto quale sia stata l’importanza della questione dei disoccupati diplomati durante le Primavere arabe.

Possiamo ancora citare gli effetti devastanti dell’inflazione in Venezuela. La lotta si svolge a livello politico. L’obiettivo delle due classi è di ottenere dallo Stato una politica economica e sociale che sia loro favorevole. Ad esempio, possono rivendicare il controllo dei prezzi, il mantenimento o l’aumento delle sovvenzioni per i beni di prima necessità, il blocco dei licenziamenti o la promozione di programmi per il rilancio dell’occupazione. La rivendicazione del «diritto allo sviluppo» (Tunisia 2011) non è che una formulazione più generale delle medesime rivendicazioni. A questo livello, abbiamo una lotta che è unicamente politica, senza prolungamenti all’interno delle imprese, anche se gli «scioperi generali locali»2 possono arrestarne l’attività.

2) Legislazione sociale. Si tratta qui della definizione delle norme in materia di durata della giornata di lavoro, di negoziazione tra datori di lavoro e dipendenti, di regolamentazione del salario diretto (salario minimo), etc. Se il capitale vuole che le due classi salariate lavorino di più, esso fa pressione sullo Stato affinché modifichi le norme in vigore. Lo Stato interviene a livello politico-giuridico. Proletariato e CMS scendono in lotta – a livelli variabili di intensità – con l’obiettivo di far retrocedere lo Stato. Le lotte non attaccano direttamente il capitale. Un gran numero di riforme che riguardano il mercato del lavoro, il salario indiretto (pensioni etc.), l'assicurazione di malattia (Francia 1995), la politica fiscale (Francia 2018), concernono anche la regolamentazione del rapporto capitale/lavoro, salvo il fatto che non riguardano direttamente il consumo della forza-lavoro nel processo di produzione e di circolazione.

3) Riforma della funzione pubblica. In una situazione di rarefazione del plusvalore, le entrate fiscali diminuiscono, sia perché una parte della classe capitalistica scompare, sia perché i capitalisti chiedono allo Stato di alleggerire la pressione fiscale sulle imprese. Da qui i ben noti problemi di bilancio. Anche lo Stato deve tirare la cinghia, e procedere a una riduzione dei salari dei dipendenti pubblici, a un non-rinnovamento di incarichi, a licenziamenti etc. A seconda del grado di violenza di queste misure, e della loro generalizzazione al livello dei ministeri, della gerarchia etc., ne può risultare un movimento interclassista della funzione pubblica. Anche se l’impiego pubblico è nel complesso minoritario, un tale movimento può assumere dimensioni di massa. Questa ipotesi resta tuttavia in gran parte teorica. Da un lato, perché il pubblico impiego è spesso oggetto di clientelismi politici che raramente vengono rimessi in causa; dall’altro, perché non si è ancora verificata una crisi abbastanza profonda da costringere davvero lo Stato a un drastico dimagrimento.

4) Crisi politica grave. Designiamo in tal modo la contestazione generale di uno Stato nazionale divenuto incapace di assolvere correttamente alla sua funzione di redistribuzione delle risorse di bilancio e di gestione della lotta di classe (o perfino della concorrenza inter-capitalistica). L’inasprimento della repressione politica e sociale, l’aumento della pressione fiscale formale o informale, sono solo alcune conseguenze di questa incapacità dello Stato. Esse raggiungono un punto in cui il proletariato, la classe media, e talvolta anche una frazione della classe capitalistica locale, contestano lo Stato nelle sue molteplici manifestazioni, poiché esso è carente pressoché a tutti i livelli. Le lotte si situano tanto al livello politico che a quello economico. Proletariato e classe media attaccano i partiti politici, i sindacati ufficiali, gli edifici pubblici, la polizia. Il condensato di questa contestazione generale dello Stato è la rivendicazione della caduta immediata del governo o del dittatore di turno, e l’instaurazione di uno Stato democratico, sociale e/o nazionale, come avvenuto in Tunisia e in Egitto. Le crisi politiche gravi si distinguono da quelle ordinarie in quanto non si riassorbono interamente nel sistema dei partiti e mettono le classi in movimento su larga scala (tutt’altra cosa rispetto a una lotta solitaria della CMS).

I quattro livelli di lotta che abbiamo schematizzato qui sopra non si escludono reciprocamente. Si può anzi dire che si intreccino gli uni agli altri: più la lotta contro lo Stato si generalizza, più gli obiettivi che questa si dà si moltiplicano e si intersecano. Ad ogni modo, ciò che bisogna tenere presente, è ancora una volta la centralità dello scontro con lo Stato, anche quando il movimento include degli scioperi rivendicativi, e perfino dei saccheggi. Allo stesso tempo, questi aspetti della lotta interclassista provano che il rapporto tra le due classi e il capitale resta determinante. È la miseria, o la paura della miseria, a mettere le classi in movimento, e non c’è alcuna ragione per cui esse, nel corso della lotta, non debbano cercare di migliorare la propria condizione materiale immediata. Ma è peculiare della lotta interclassista il fatto di porre il problema e la sua soluzione al livello dello Stato. Alle due estremità di questa gamma di rivendicazioni, possiamo collocare le «zone-frontiera» in cui l’alleanza interclassista risulta impossibile, e urta contro i propri limiti: abbiamo, da un lato, ogni sorta di movimenti politici della CMS che non coinvolgono il proletariato in quanto classe (movimenti anti-corruzione, manifestazioni per il clima, questioni «societarie», ma anche movimenti come quello del 2009 in Iran e del 2011 in Israele), e per i quali quest’ultimo non si mobilita affatto; dall’altro, una lotta proletaria al livello del processo lavorativo abbastanza virulenta da impedire qualsiasi alleanza con la CMS o provocare il suo voltafaccia, e dunque la rottura del fronte interclassista (Egitto 2013).

 

Conclusione: il fallimento ineluttabile delle lotte interclassiste

Nelle lotte interclassiste attuali, lo Stato è al contempo il regolatore e il parafulmine della lotta delle classi. Nella misura in cui fallisce nel suo ruolo di gestore della lotta di classe, esso attira su di sé la collera del proletariato e della CMS, riunendole in una lotta comune. E nella misura in cui viene considerato difettoso, viene anche invocato come il luogo della soluzione.

Di solito, lo Stato svolge il suo ruolo regolando attraverso la legislazione le condizioni di sfruttamento del lavoro e ridistribuendo una parte del plusvalore prelevato attraverso la fiscalità3. Il diritto del lavoro viene modificato in funzione delle alterne vicende della lotta di classe, mentre molteplici iniziative rivolte al proletariato e alla classe media ampliano o riducono i programmi sociali, le sovvenzioni, etc. Altri programmi sono indirizzati alle imprese, favorendone la redditività e dunque le assunzioni. Al livello dei loro rispettivi rapporti diretti con i capitalisti, l’intesa tra le due classi è praticamente impossibile. Il proletariato vuole spostare il cursore [della giornata lavorativa, NdT] in favore del lavoro necessario, la CMS vuole invece spostarlo a vantaggio del pluslavoro. Lo Stato interviene soltanto in maniera indiretta nel rapporto tra lavoro necessario e pluslavoro. Non è esso a gestire la quotidianità dello sfruttamento del lavoro. Lo Stato può mediare il conflitto tra salariati e capitalisti costringendoli a trovare un accordo. Viceversa, se l'accordo non viene trovato, esso può compensare le perdite della parte che esce sconfitta dallo scontro attraverso vari tipi di trasferimenti [di valore, NdT].

Considerato il ruolo dello Stato nella gestione del rapporto tra le classi, la lotta interclassista si focalizza spontaneamente su di esso, o più precisamente essa è al contempo pro e contro di esso. Infatti, la lotta non è contro lo Stato in quanto tale, contro il principio dello Stato, come vogliono credere certi attivisti. È contro lo Stato esistente: essa vuole eliminare un dittatore, ristabilire un programma sociale, democratizzare le istituzioni etc. – in altri termini è per un «vero» Stato sovrano, capace di opporsi alla pressione del grande capitale internazionale e delle istituzioni sovranazionali. Lo scontro con lo Stato sarà una componente inevitabile della rivoluzione comunista, ma scontrarsi solo con lo Stato (e, nello specifico, solo col suo apparato repressivo) significa ingaggiare una lotta riformista che possiede una propria legittimità, ma che è tanto poco portatrice di superamento quanto lo sono gli scioperi rivendicativi e le manifestazioni che solitamente accompagnano la lotta interclassista contro lo Stato. In termini generali, quindi, quando le due classi uniscono le rispettive lotte, esse non rimettono in causa né lo Stato né il modo di produzione capitalistico in generale, ma soltanto una gestione particolare dei rapporti sociali da parte di uno Stato particolare. In Francia, nel 2016, lo slogan «ni Loi ni Travail» [né Legge né Lavoro, NdT] che pretendeva che la lotta si volgesse allo stesso tempo contro lo Stato e contro il lavoro, è rimasto l’orpello radicale di un movimento che rifiutava la modificazione di alcuni aspetti del diritto del lavoro, difendendo in tal modo il diritto del lavoro esistente, le modalità abituali della negoziazione etc., e che al contempo esprimeva una sfiducia assai diffusa nei confronti dell’orientamento neoliberista del Partito Socialista al governo (cfr. «Nuit Debout»).

È dunque del tutto normale che il vero terreno comune della lotta interclassista sia la riforma dello Stato, in vista del suo buon uso in rapporto al proletariato e alla CMS. E il buon uso dello Stato, dal punto di vista della lotta interclassista, implica il suo ritorno allo statu quo ante l’attuale stadio della mondializzazione, più o meno idealizzato. Infatti, lo Stato denazionalizzato contemporaneo, come abbiamo visto, può rispondere solo molto parzialmente alle esigenze comuni delle due classi salariate. Il suo ruolo nazionale è troppo limitato, sia dal punto di vista politico che in termini di budget, dall’insieme dei vincoli che gli vengono imposti dalle imprese multinazionali e dalle istituzioni sovranazionali. Sotto l’effetto congiunto della rarefazione del plusvalore, dell’indebitamento e della deterritorializzazione del grande capitale internazionale, gli Stati nazionali sono prigionieri del seguente dilemma: essi non possono conservare la propria capacità finanziaria d’intervento se non tassando maggiormente quegli stessi che chiedono loro aiuto. Di conseguenza, se non aumentano la pressione fiscale, gli Stati non possono che inasprire la repressione politica e sociale. Politicamente, è un'equazione insostenibile a lungo andare. Ma soprattutto, ciò spiega l’impossibilità, nella congiuntura mondiale attuale, di una vittoria significativa per una qualsiasi lotta interclassista contro lo Stato.

In queste condizioni, la lotta interclassista è necessariamente perdente. Tuttavia il lettore avrà compreso che non è questa la ragione per cui inscriviamo la lotta interclassista nel novero delle lotte quotidiane del proletariato. La ragione è invece che questo tipo di lotta, in ragione delle sue modalità, non può porre la questione della rivoluzione comunista – intesa qui non come problema teorico o politico, ma nel senso della sua possibilità concreta e immediata. Associandosi a una classe i cui interessi sono fondamentalmente contraddittori rispetto ai propri, facendo della forma attuale dello Stato – anziché del capitale in quanto tale – il suo nemico per eccellenza, il proletariato impegnato nelle lotte interclassiste non ha alcuna possibilità di creare le condizioni del superamento del proprio rapporto contraddittorio con il capitale. Se questo può avvenire, è solo attraverso una rottura del fronte comune interclassista. Tale rottura è tanto ineluttabile quanto lo è il fallimento delle lotte interclassiste. Ma affinché essa sia portatrice di una prospettiva comunizzatrice, occorrono ancora alcune condizioni che dovremo esplorare. […]


Note

1 Gli autori si riferiscono qui al movimento contro la «Loi Travail». [NdT]

2 Gli autori si riferiscono qui a una forma di lotta analizzata nel capitolo dedicato alla Primavera tunisina: «Un genere assai peculiare di sciopero ricorre con una certa frequenza nelle fonti: lo sciopero generale locale. Ad esempio, nel 2016, vi sono stati scioperi di questo tipo sull'isola di Kerkennah, a Sened (non lontano da Gafsa), a Menzel Bouzaïane. Gli scioperi generali locali sono, in maniera esplicita, delle proteste conto la disoccupazione e in favore del “diritto allo sviluppo”. Essi sono sostenuti da marce per la dignità, scioperi della fame, e perfino minacce di suicidi collettivi. In uno sciopero generale di questo tipo, si tratta di imporre una serrata all'intera città. Lavoratori dipendenti (generalmente del pubblico impiego), commercianti e disoccupati si raccolgono e manifestano allo scopo di attirare l'attenzione dello Stato sul sottosviluppo della regione in questione. Simili scioperi generali sono tipicamente interclassisti. Essi si propongono di riunire tutta la popolazione locale.» (Le ménage à trois…, p. 161).

3 Cfr. cap. VIII, § 2.4. [NdT]

 

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