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alfabeta

Come uscire dal labirinto della paura

di Lelio Demichelis

Il labirinto di Cnosso (oggi, per analogia, il labirinto prodotto da neoliberalismo e tecnica e rete, da cui sembra altrettanto impossibile uscire, convinti come siamo che non ci sono alternative e che l’innovazione non si può fermare) era una costruzione leggendaria (oggi, invece, è realissima e concretissima) che, secondo la mitologia fu fatto costruire da Minosse a Creta (oggi, è il mondo intero) per rinchiudervi il Minotauro – mentre oggi, ma rinchiusi insieme al Minotauro-capitalismo-rete siamo tutti noi (con la gabbia d’acciaio weberiana o la società amministrata secondo i francofortesi come nuovo labirinto), sue vittime sacrificali come allora le giovani e i giovani ateniesi destinati a essere divorati dal mostro.

Se Arianna diede a Teseo un filo per permettergli di uscire dal labirinto dopo avere ucciso il Minotauro, oggi il tecno-capitalismo ha rimosso la figura di Arianna (cioè ha cancellato speranza e utopia, la rivoluzione e il riformismo, presentandosi esso stesso come speranza e utopia e democrazia e rivoluzione), per non farci uscire da sé. Le pareti che delimitano l’intrico di strade, piazze e gallerie sono così alte che ci impediscono persino di vedere il cielo (metafora di una consapevolezza superiore), la tecnica però consolandoci con una realtà virtuale che ci illude di uno spazio infinito e di una società della conoscenza o della consapevolezza.

Ci comportiamo in realtà come robot impazziti o come criceti che corrono nella gabbia, messi incessantemente a un lavoro di produzione, di consumo, nell’industria culturale 2.0 e come produttori di dati. E anche la sinistra-Arianna+Teseo, che aveva cercato di uccidere o almeno di ammansire e democratizzare la bestia, si è rinchiusa nel labirinto e con il Minotauro convive entusiasticamente (in realtà è una Sindrome di Stoccolma).

Abbiamo riletto fin qui il mito del labirinto con qualche libertà, ma lo abbiamo fatto per arrivare a parlare del labirinto delle paure di cui scrivono Aldo Bonomi e Pierfrancesco Majorino nel loro saggio uscito da poco per Bollati Boringhieri. L’incipit di Bonomi è fulminante: “Nel labirinto ti prende la paura. Kafka la chiamava ‘la parte migliore di me’. Vero, per chi è in grado di farne una letteratura da trasformare in visione critica del mondo. Ma il nostro labirinto, da sociologia delle macerie, non induce coscienza di sé. Quanto più la paura non trova luoghi sociali di decantazione e di elaborazione emotiva – non è forse questa, la politica? – tanto più tende a trasformarsi in rancore e odio verso l’altro da sé”. Macerie sociali, dunque, esito di trent’anni di neoliberalismo e di rete – perché se la società non deve esistere, ma solo gli individui, alla fine, della società restano inevitabilmente solo macerie. O una modernità in polvere (ancora Bonomi) – è la modernità che distrugge un’altra volta se stessa – esito di una guerra civile molecolare che tanto somiglia allo stato di natura pre-contratto sociale.

Tutto questo – la paura, l’odio, il rancore, la rabbia, l’autoreferenzialità, la violenza - non nasce oggi, ma è l’esito di un accumularsi di paure e di disagio, di egoismo e di competizione dopo il crollo dell’impianto politico socialdemocratico dei gloriosi trent’anni, dopo il dilagare della globalizzazione neoliberale e tecnica, con i flussi immateriali dell’economia e della tecnica che hanno impattato e ancora impattano pesantemente e materialmente sui luoghi per cui, oltre la società del rischio di Ulrich Beck “il percorso della paura si è fatto infine rancore e razzismo”. Bonomi ha una lunga esperienza di racconto sociale di questi ultimi trent’anni, dall’analisi del capitalismo molecolare a quello personale, dalla città infinita alla comunità del rancore, dallo sfarinamento delle società di mezzo (inteso come “crisi del tessuto prepolitico della rappresentanza sociale e come sfarinamento dei ceti medi, cui si aggiunge oggi quello della forma partito”), dalle classi alle moltitudini (e dalla lotta di classe all’invidia sociale), tra vita nuda e nuda vita. E tra vecchio e nuovo leghismo e vecchi e nuovi territori.

Che fare? – vecchia domanda. Cercare un nuovo Teseo/eroe per sconfiggere il Minotauro sarebbe una “scorciatoia da politica-spettacolo e da memoria di una forma partito in crisi, che più che alla mancanza di leadership dovrebbe guardare alla perdita del radicamento sociale”. Occorre invece confrontarsi anche o soprattutto con quella questione delle migrazioni che non si risolve alla Minniti né con il ‘decreto sicurezza’ salviniano, ma “che è una cartina di tornasole della banalità del male contro l’altro da sé” in cui stiamo scivolando come su un piano inclinato. Bonomi chiude la sua analisi richiamando Mario Tronti e il guardare i volti, non rincorrendo i voti: “non più correre, ma camminare: trattenendo, rallentando, ritrovando il passo dell’uomo, sottomettendo il ritmo della macchina (i flussi) non per la decrescita ma per la con-crescita, tra il fuori e il dentro, tra situazioni ed esistenza, tra destino e libertà”.

La paura è affrontata da Majorino da un punto di osservazione più milanese (è assessore alle politiche sociali del Comune), ma guarda in alto e oltre, pur raccontandoci di una Milano povera e insicura e invisibile ai più e soprattutto invisibile dai giardini verticali e dall’alto del suo skyline – e dove la Casa della Carità di don Colmegna diventa invece un modello virtuoso di accoglienza, socialità e cittadinanza vera. Majorino ricorda un dato, impressionante: tra il 2012 e il 2013 “le strutture comunali avevano registrato un aumento del 300% delle domande ricevute da cittadini in difficoltà”; mentre in Italia la povertà, tra 2007 e 2014 è cresciuta del 119%. Il cambio di paradigma è stato drammatico, in termini economici e di senso della vita delle persone. Le destre rispondono e spiegano “con parole molto semplici che da questa fase di cambiamento ci si deve salvare. E offre una zattera”, dove però solo pochi (i salvati) possono salire, gli altri (migranti, profughi, diversi), ovvero i dannati, devono essere ributtati in mare. Una “zattera agghindata di richiami al passato e forse priva, a bordo, di una bussola”. Ma dove la guerra tra poveri – e che sia questa la bussola delle destre, dei populismi, dei sovranismi e di quel tecno-capitalismo di cui sono, aggiungiamo, l’ultima forma politica? – “è il progetto politico di chi vuole alimentare la fuga dall’identificazione delle responsabilità reali e dall’effettiva realizzabilità delle proprie promesse elettorali. Dividere gli ultimi (i migranti) dai penultimi (i ‘connazionali’ poveri) fa sì che questi non cerchino verso l’alto la causa del proprio malessere, ma la rovescino verso il basso”. La destra “andrà avanti nella sua capitalizzazione della paura e lo farà senza pudore, perché è la perdita di pudore che contraddistingue buona parte del pensiero, e quindi delle parole, di questa stagione”. E l’odio e la paura purtroppo seducono e oggi sono soprattutto virali. E la paura produce rancore, rafforzando la logica dell’amico-nemico. Dove il migrante diventa facilmente il capro espiatorio. Ancora, è la banalità del male di arendtiana memoria.

Che fare? – è la domanda anche di Majorino. Ripartire dalla politica, ma da una politica diversa, soprattutto a sinistra: rifacendo società, ripartendo dai valori, mettendo al centro l’ambiente sociale e naturale, frequentando “qualche salotto in meno e qualche sfruttato in più”, immaginando di nuovo un futuro possibile. Contro la paura serve tornare alla politica, cioè alla polis. O alla casa comune - secondo Majorino.


Aldo Bonomi e Pierfrancesco Majorino: Nel labirinto delle paure. Politica, precarietà e immigrazione, Bollati Boringhieri pp. 159 € 15.00

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