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senso comune

I limiti del “partito dei sindaci” e la costruzione del Partito

di Tommaso Nencioni

La parola d’ordine con cui la Lega si è fatta forte in campagna elettorale, ha egemonizzato l’azione di governo e che racchiude, sembra, il senso della sua scalata nei sondaggi – Prima gli italiani! – si sta rovesciando in un grottesco Dopo gli stranieri, senza peraltro che la condizione del popolo italiano paia destinata a cambiare grazie all’azione di governo. Almeno a giudicare dalla recente finanziaria, prona ai diktat di Bruxelles che hanno smantellato uno dietro l’altro i provvedimenti in teoria più incisivi come “quota 100” per le pensioni e il reddito di cittadinanza; e per il resto in perfetta continuità con gli ultimi vent’anni di austerità.

E così, in mancanza di meglio, il ministro degli interni Salvini – molto più presente sui social che al Viminale – nulla potendo per il bene degli italiani, si è accanito per male contro 43 migranti riscattati dalle ong dalla deriva nel Mediterraneo. Un atteggiamento, quello del rampollo della Lega, per nulla dissimile da quello dei suoi colleghi spagnoli o francesi, per non parlare di Malta. Ma alla fine, al di là del poco virtuosismo degli altri paesi europei, a questo l’azione di governo si sta riducendo, ad uno spot continuo sulla “chiusura dei porti”. Il fatto inquietante è semmai che, per via della reazione di chi a questo governo si dovrebbe opporre, l’operazione sta riuscendo, e cioè il dibattito si sta polarizzando attorno a questa misura. Un terreno sul quale le forze progressiste perdono in partenza.

Nel duello che si sta profilando in questi giorni, a tutto vantaggio della Lega e del governo neoliberale e reazionario, si registra il ritorno sul versante dell’opposizione del “partito dei sindaci”, una creatura periodicamente emergente nel panorama politico della repubblica che fu “dei partiti”. Sarebbero i primi cittadini, anche grazie ai poteri e la visibilità ottenuta dalla legge (nefasta) che ne garantisce l’elezione diretta, gli agenti deputati a guidare l’opposizione. Certamente, e la lezione che ci viene da gran parte dei nuovi movimenti progressisti europei ce lo conferma, la risposta municipalista contiene in sé grandi potenzialità per ravvivare quella che un tempo era la sinistra, ora ridotta ad agglomerato confuso e dilaniato tra la tendenza a farsi amministratrice prediletta dell’esistente e naufragare nella marginalità. Inoltre i sindaci, specialmente dei grandi centri, possono incidere sulla vita delle popolazioni colpite dalla crisi, e ribellarsi alle restrizioni in termini di democrazia e di welfare che governi federalisti a parole hanno inferto alle comunità locali.

E tuttavia i limiti dell’operazione municipalitsta paiono altrettanto evidenti. Non solo per il carattere eterogeneo della “coalizione” – da Narella, ultimo araldo del renzismo reale, a De Magistris, zapatista a Napoli e con velleità di unire gli scampoli della sinistra radicale a livello nazionale. O per la presunta impopolarità della battaglia che hanno scelto per tracciare la faglia col governo – un terreno, quello dell’immigrazione, lost-lost per i progressisti, almeno nella misura in cui rimane isolato e non articolato in un disegno più ampio di emancipazione. L’offensiva della destra è a tutto campo, lungo tutto il perimetro dello stivale, innervata in tutti i gangli della società. A fronte di questa sfida, il carattere estemporaneo della rivolta dei sindaci (e di presidenti di regione legati a doppio filo all’oligarchia, come quello del Piemonte Chiamparino) non ha possibilità di spostare di molto, o per lo meno a lungo, gli equilibri egemonici presenti nel paese. Mancano, a questi generali, un esercito, una visione condivisa del Paese, una classe dirigente nuova e cosciente dei propri compiti.

Perfino a cavallo tra Ottocento e Novecento (certo la sfida era ancor più temibile) la risposta del municipalismo socialista si rivelò insufficiente: una trama fitta e coerente di leghe, case del popolo, casse mutue e municipi fu travolta in un inverno dalla reazione fascista. Allora la sinistra seppe far tesoro della lezione, e nel secondo dopoguerra pose all’ordine del giorno la questione di un Partito nuovo, realmente nazionale e realmente radicato nei bisogni e nelle aspirazioni dei gruppi sociali che intendeva rappresentare. Recentemente Paolo Gerbaudo ha notato come, nei modelli progressisti di successo, il tema della costruzione del Partito sia tornato all’ordine del giorno, in modalità rinnovate e con un peso accentuato della leadership. Al di là dei limiti e delle potenzialità della risposta municipalista – e della funzione di supplenza che alcuni sindaci si trovano ad esercitare, magari obtorto collo, rispetto alla mancanza di un’opposizione nazionale che non si limiti a fare da portavoce agli interessi dell’ala cosmopolita dell’oligarchia – la messa in campo di un Partito nazionale portavoce degli interessi popolari e capace di mettere in campo proposte progressiste a partire dal senso comune costituisce una sfida da cogliere al più presto.

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