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L'America Latina brucia

di Carlo Formenti

È passato quasi mezzo secolo dal golpe di Pinochet che, con l’appoggio esplicito e dichiarato degli Stati Uniti, rovesciò il governo socialista di Allende e instaurò una feroce dittatura militare, durata fino al 1990. Sotto il suo tallone di ferro il Cile fu usato come Paese cavia per sperimentare le più aggressive politiche neoliberiste secondo i dettami del Consenso di Washington (tagli radicali a salari e welfare, privatizzazioni di servizi pubblici e imprese di stato, smantellamento delle istituzioni democratiche, ecc.).

I successivi governi “democratici”, compresi quelli di sinistra, non hanno cambiato politica economica, costruendo, con la complicità dei media occidentali, la narrazione del Paese “più avanzato” dell’America Latina, capace di far crescere la propria economia a ritmi elevati. Peccato che i vantaggi della crescita siano finiti nelle tasche del 10% della popolazione, mentre tutti gli altri sprofondavano nella miseria e il Cile si inscriveva fra le nazioni a più elevato tasso di disuguaglianza del mondo.

Ora la storia sembra sul punto di ripetersi su scala continentale.

Dopo la rivolta argentina del 2001 e la successiva vittoria dei peronisti di sinistra, accompagnata da analoghe svolte in Brasile e Uruguay, e dopo il trionfo dei socialismi bolivariani, con l’ascesa al potere di Hugo Chavez in Venezuela, di Evo Morales (appena riletto) in Bolivia e di Raphael Correa in Ecuador, l’imperialismo statunitense (con l’appoggio dell’Unione Europea e di tutti i media occidentali, fra i quali non pochi quelli “di sinistra”) ha iniziato a orchestrare una vasta controffensiva – fra pressioni economiche, minacce militari e campagne mediatiche - per “restaurare la democrazia” (per tornare cioè a imporre le regole del FMI, della Banca Mondiale e del WTO allo scopo di smantellare, non il socialismo – di cui si sono visti solo timidi accenni - ma qualsiasi velleità sociale).

Risultato: tentato golpe in Venezuela (finora fallito), svolte a destra in Argentina e Brasile, “arruolamento” del successore di Correa Lenin Moreno (prontamente convertito al verbo liberista) in Ecuador.

La manovra sembrava destinata a passare senza eccessivi intoppi, senonché le popolazioni che nel primo quindicennio del secolo XXI si erano abituate ad assaggiare il gusto della libertà (reale non formale) e di un relativo benessere, non sono evidentemente disposte a farsi ricacciare nelle condizioni degli ultimi decenni del Novecento. Così i venezuelani hanno respinto il golpe del fantoccio Guaidò, gli ecuadoriani hanno imposto al governo di ritirare l’aumento del prezzo del carburante dopo scontri di piazza che hanno provocato sette morti, centinaia di feriti e migliaia di arresti, gli argentini si apprestano a votare un candidato peronista nelle imminenti elezioni presidenziali e i cileni – che non si lasciano infinocchiare da chi gli dice che sono il popolo più ricco e fortunato del subcontinente – si scontrano da giorni in tutto il Paese contro i blindati e le polizie che il presidente Pinera ha scatenato contro le manifestazioni.

Anche qui, come in Ecuador, la rabbia sembra sproporzionata alla causa che l’ha innescata (un leggero aumento del biglietto della metropolitana). Ma il paradosso è apparente: queste esplosioni, come quella dei gilet gialli in Francia (sempre per un aumento del prezzo del carburante) avvengono nel momento in cui la misura è colma e basta una goccia per far traboccare il vaso. La miccia si accende al culmine di una lunga catena di soprusi, peggioramenti delle condizioni di vita, aumento delle disuguaglianze, ingiustizie, violenze fisiche e psicologiche: è il “populismo del popolo”, quello dello slogan argentino “Que se vayan todos”, che unifica una somma disparata di rivendicazioni inevase da (e frustrazioni causate da) un sistema politico che viene rifiutato in blocco. Queste esplosioni da sole non bastano a cambiare le cose, ma se trovano una adeguata leadership politica, come è avvenuto in diversi contesti nei primi anni di questo secolo, possono generare effetti imprevisti.

È ciò che temono i padroni nordamericani, per cui non ci sarebbe da stupire se tentassero di spegnere il focolaio cileno prima che il fuoco si appicchi ad altri Paesi, magari inventandosi un Pinochet 2.0

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