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andreazhok

Del merito

di Andrea Zhok

"Il merito è di sinistra. Lo vogliamo dire a quelli che dicono che tutti possono avere tutto. Il merito è il nostro unico parametro di misura e su questo li sfidiamo"

(Teresa Bellanova, ministra delle politiche agricole, dal palco della Leopolda).

Quest'uscita della ministra renziana, celebre come sindacalista gialla e per i suoi titoli di studio non brillantissimi, è interessante soprattutto perché, dato il pulpito da cui parla, dà per scontata una prevalente visione dell'idea di 'merito', associabile a istanze di 'economia libera', 'mercato', 'privato'.

Questo messaggio, che non è certo una novità nelle fila della sinistra liberal, mira a coltivare un'opposizione di questo genere: da un lato ci sarebbe una 'vecchia sinistra', statalista, inefficiente e assistenzialista, e dall'altro 'noi', la 'nuova sinistra', meritocratica e liberale.

Una volta fatta passare questa opposizione di comodo, la preferenza per la seconda finisce per essere un'opzione naturale.

Per chiarire la natura fuorviante di questo messaggio si possono fare, almeno in prima battuta, due osservazioni.

1) L'idea liberale di 'merito' assume che esso sia, per così dire, una qualità intrinseca del soggetto, una virtù interiore, che non deve nulla a nessuno e che dovrebbe essere semplicemente moralmente riconosciuta.

Questa visione ha tuttavia un carattere prettamente mitologico, privo di ogni fondamento.

In primo luogo, com'è del tutto ovvio, le nostre capacità, la nostra 'buona volonta', le nostre inclinazioni, la nostra capacità di autocorreggerci, la nostra forza di volontà, ecc. sono, come si usava dire un tempo, 'doni'. Che siano doni di cui rendere grazie a Dio, o alla Natura, o alla Fortuna qui non importa. Quel che è certo è che in un senso primario, noi non siamo 'meritevoli' per nostro merito. E' proprio logicamente impossibile.

Dovremmo allora forse azzerare e rigettare i riconoscimenti di merito?

Ma niente affatto, non dobbiamo farlo perché premiare il merito è SOCIALMENTE UTILE.

Questo punto comincia a diradare la nebbia circa il senso degli appelli al 'merito'.

ll merito, quale che sia, NON inerisce al soggetto meritevole, ma dipende dalla relazione tra tale soggetto e altri soggetti verso cui è esso meritevole. L'idea mitologica del 'merito' come qualità intrinseca deve essere sostituito dall'idea del merito come qualità relazionale.

Non è l'intrinseca straordinarietà di una facoltà a rappresentare di per sé un 'merito': se io sono l'unico al mondo capace di camminare sulle orecchie, questo può forse essere un simpatico oggetto di curiosità circense, ma non rappresenta un merito finché non ha una funzione utile per altri.

Questo punto, per quanto banale, consente di mettere un po' d'ordine in quel tipo di pensierini marcescenti del tipo 'siccome questo me lo sono meritato non devo niente a nessuno'. In verità tutto ciò che abbiamo 'per merito' lo abbiamo sulla scorta di dipendenze molteplici, da quelle a monte della nostra esistenza (per cui siamo ciò che siamo) a quella a valle delle nostre azioni (per cui altri riconoscono i nostri meriti).

Perciò, mentre è socialmente saggio riconoscere il merito, dev'essere chiaro che il meritevole è sempre una 'funzione sociale' moralmente indebitata con altri.

In che misura questo indebitamento morale sia opportuno che ritorni alla società (per dire in forme redistributive) va discusso in contesto, ma che un ritorno vi debba essere è certo.

2) Che il merito sia socialmente funzionale non significa affatto che esso sia valutabile in termini di mercato.

In effetti, i meccanismi di mercato sono funzionali al riconoscimento del merito solo in maniera limitata e selettiva. I meriti di un buon commerciante al dettaglio di beni d'uso comune possono spesso essere ben valutati dal mercato. Ma la valutazione monetaria del mercato è notoriamente assai scadente nel valutare tutte le funzioni sociali che non siano facilmente riconoscibili e che non riguardino beni di cui è limitabile l'accesso.

Il merito di chi trovasse una cura per il cancro e poi la diffondesse universalmente avrebbe un riconoscimento di mercato pari esattamente a zero, mentre il 'merito' di un produttore di videogiochi pruriginosi o di uno spacciatore di crack possono ottenere un estesissimo riconoscimento di mercato, pur con meriti socialmente dubbi.

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Fatte queste due brevi considerazioni, si potrebbe forse trarne una sola breve morale, concernente quei politici che, dall'alto della pochezza della loro formazione, parlano a cuor leggero di merito, assumendone un significato fuorviante, e facendone addirittura "l'unico parametro di misura".

Ecco, ad occhio e croce si tratta di rappresentanti politici che dovrebbero senz'altro lasciare il posto a gente più meritevole.

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armando
Sunday, 27 October 2019 19:48
Il concetto di “merito” non è definibile in senso astratto, ma sempre rispetto a qualcosa o qualcuno; ossia, osserva giustamente l’articolo, “come qualità relazionale”. Analogamente, e per forza di cose, anche il concetto di “meritocrazia” segue lo stesso tipo di determinazione/definizione concreta del tipo di merito a cui si riferisce. E’ questo, a mio parere, il punto decisivo; per cui possiamo lasciare da parte la questione, pure importante per altri aspetti, circa il fatto che l’intelligenza o una particolare abilità o anche la forza di volontà ricadano sotto la categoria del merito o, essendo in gran parte caratteristiche innate del soggetto, del dono.
Se il merito richiede sempre di essere definito “rispetto a..”o “in relazione a…”, quindi ad un parametro di giudizio, la prima esigenza è appunto quella di stabilire quale sia tale parametro. Uno potrebbe essere quello, che sempre sbandierano i fautori della meritocrazia e ripreso anche nell’articolo, della sua UTILITA’ SOCIALE, concetto che implica un vantaggio alla società nel suo complesso. Ora, a) si può credere come i liberali di ogni tipo, che l’agire egoistico degli individui produca, per il miracoloso intervento della smithiana “mano invisibile del mercato”, un vantaggio sociale complessivo. In tal caso sarebbe giusto seguire la logica del profitto. Anzi, perseguendola si sarebbe legittimati a sentirsi moralmente a posto. E’ la logica del capitalismo, che trova la sua spiegazione anche nell’altro assunto che il mercato premia chi agisce onestamente, e punisce i “disonesti”. Siamo, in tutta evidenza, nel campo dell’astrazione pura, di una costruzione ideologica che non ha mai trovato, se non in circostanze particolari limitate nello spazio e nel tempo, riscontri nella realtà. Al contrario, una grande quantità di imprenditori etici che anteponevano l’utilità sociale del loro lavoro (la fabbrica come centro propulsivo della città o del paese non solo in senso economico ma anche come fattore di aggregazione sociale delle persone) alle pure esigenze di profitto, non hanno potuto reggere la concorrenza di competitori meno scrupolosi; o semplicemente sono stati emarginati dalle logiche spietate del mercato. Insomma, esistono certamente capitalisti "etici" , ma non esiste un capitalismo etico. Oppure b) Si deve convenire che solo un agire etico è in grado di avvantaggiare la società nel suo complesso. E’, mi sembra, altrettanto evidente che tale agire implichi dei limiti precisi al perseguimento del proprio tornaconto, precisamente quelli che impongono di non ingannare nessuno e quindi, in qualsivoglia contratto/ trattativa/scambio, di essere veritieri e non omettere alcun elemento suscettibile di far sorgere dubbi all’interlocutore sulla conclusione positiva della trattativa stessa.
La realtà dimostra che “etica” e “affari” vanno d’accordo solo in rare, rarissime circostanze. La frase “business is business” , con ciò che sottende rispetto a tali questioni, è la miglior rappresentazione di quanto sopra. Basta fare un paio esempi (che trovano riscontro concreto nella realtà) , per smontare l’ideologia del merito, almeno per come viene intesa dai liberali “meritocratici”. Prendiamo due dipendenti addetti alla vendita di un prodotto (un oggetto o anche finanziario) che l’azienda intende spingere perché particolarmente profittevoli. L’uno lo fa esponendo onestamente tutte la caratteristiche del prodotto, quindi senza ometterne quelle meno appetibili dal punto di vista del cliente potenziale, l’altro lo fa invece solo magnificandone i vantaggi e tacendone i rischi. Ovvio che il secondo venderà molto di più. Altrettanto ovvio che agli occhi dell’azienda sarà più meritevole, e quindi sarà promosso, mentre il primo resterà, come suol dirsi, al palo. Oppure poniamo che un’azienda abbia interesse a smaltire un prodotto in magazzino ( perché, ad esempio, si è scoperto essere tossico e in aria di essere proibito dalle autorità oppure, se si tratta di finanza, di azioni, nel portafoglio della banca, di aziende che essa, ma non il pubblico, sa in grave difficoltà). Il dipendente che agisce eticamente si rifiuterà di venderle alla clientela dell’Istituto, ma l’altro lo farà lo stesso acquisendo meriti agli occhi del datore di lavoro, e quindi ottenendo promozioni proprio secondo la logica della meritocrazia. Sono esempi non casuali, ma in passato visti e conosciuti personalmente. Si può fare anche un esempio in un campo diverso, quello della politica, ponendo una domanda: agli occhi del Partito (di qualsiasi tendenza) sarà più meritevole quel membro che riesce a procurare molti consensi anche con metodi dubbi, o quello che invece si vorrà mantenere nell’alveo di comportamenti onesti, cioè etici?
E dunque cosa intendiamo per merito e meritocrazia? La verità è che si tratta di concetti astratti, e solo teoricamente validi. Per esserlo anche concretamente occorrerebbe camminassero insieme con l’etica. Senonchè per la logica del profitto (del capitalismo) e per quella della concorrenza (valida anche in politica) valgono i risultati, solo i quali fanno acquisire meriti. Si è mai visto, per fare un altro esempio, un presidente di una squadra di calcio punire un proprio giocatore che si sia procurato un rigore in modo truffaldino? Si potrebbe insomma condensare il tutto nel detto latino “pecunia non olet”, sostituendo pecunia coi termini più appropriati per gli altri settori, ammesso che anche per essi tutto non si risolva comunque nel denaro.
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