
Capitalismo tossicodipendente
Cronache della crisi che cavalca non risparmiando nessuno
Francesco Schettino
chi caga sotto la neve pure se fa la buca e poi la copre
quanno a neve se è sciolta la merda viè sempre fòri.
(Amendola/Girardi – Delitto a Porta Romana)
impigliati nei rapporti di produzione borghesi, sono gli agenti di questa produzione.
(K.Marx, Il Capitale, III; 48)
Ormai che la crisi si è manifestata, per quanto in piccola parte, nella sua cruenta e potenziale realtà, nessuno ha più la possibilità e la volontà – a parte forse la magnifica accoppiata Berlusconi-Scajola – di nascondersi dietro manifestazioni di mal celato ottimismo o, peggio ancora, all’ombra delle erudite curve degli insulsi economisti borghesi, magari pure premio-nobel. È così che, forse anche per tentare di non far trapelare del tutto la drammaticità della fase, attraverso un’inondazione mediatica di numeri e di dichiarazioni prodotte dai più insigni agenti del capitale mondiale sui mezzi di (dis)informazione di massa, si stanno iniziando a delineare più precisamente i pesanti effetti dell’esplosione della crisi più che trentennale che, ormai, senza più alcun dubbio, rappresenta il momento più difficile del modo di produzione capitalistico almeno dai primi del novecento.
Cifre apocalittiche, talvolta impronunciabili, vengono ormai quotidianamente rese pubbliche e regolarmente sono peggiori rispetto a quelle del giorno precedente.
La situazione appare talmente fuori controllo che gli stessi sedicenti centri di ricerca “scientifica” internazionale sono costretti ad aggiornare regolarmente – al ribasso, ovviamente – le stime presentate solo qualche settimana prima. Non è un caso che, probabilmente per la prima volta, il Fmi ha dovuto rimettere mano all’ufficialissima pubblicazione annuale World Economic Outlook, poiché le previsioni di recessione mondiale effettuate ad ottobre del 2008 già a gennaio del 2009 apparivano sbagliate perché …troppo ottimistiche! Così, con uno sforzo necessario e dovuto, si è ammesso che il 2009 sarà a dir poco devastante, mentre il 2010, invece che dalla prevista ripresa, sarà contraddistinto ancora da recessione a livello mondiale (sebbene, secondo loro, meno marcata).
Questi “corvi della crisi”, come li ha definiti in maniera grottesca il ministro Scajola – involontariamente richiamando la voce narrante del celeberrimo film di Pasolini – non possono far altro che prendere atto della drammaticità della situazione. Gli indici di produzione industriale a livello mondiale sono in caduta libera. La riduzione del 12,8% del Giappone è, da questo punto di vista, emblematica: non c’è da stupirsi, quindi, che il ministro dell’economia locale abbia annegato il proprio sconforto in qualche bicchiere di vino poco prima della riunione Ecofin. Sulle due cifre (in negativo) si collocano tutti gli altri paesi sviluppati, mostrando come, a livello globale – forse a parte la Cina e pochi altri paesi dell’area asiatica –, il capitale stia replicando agli effetti della crisi attraverso la riduzione dell’utilizzo della capacità industriale. Ciò, inevitabilmente, comporta un’ancora più massiccia distruzione di capitale variabile – forse unico strumento valido per permettere una necessaria nuova accumulazione almeno nel breve/medio periodo – attraverso licenziamenti di massa che determinano un aumento del numero di disoccupati a livello mondiale realmente mostruoso.
L’organizzazione internazionale per il lavoro (Ilo, agenzia nelle Nazioni unite) stima per il 2009 un allontanamento dalla produzione mondiale di circa 50 milioni di uomini e donne, il che comporterebbe l’esistenza di un bacino di 200 mln di lavoratori “liberati” che vanno a sommarsi all’immenso corpo (circa 1 mrd) degli individui che non hanno neanche la possibilità di avvicinarsi al mercato del lavoro.
Tuttavia, l’emorragia potrebbe nettamente allargarsi, provocando degli effetti reali copiosamente più critici di quanto osservato sin ora. Infatti, ogni giorno emerge che sotto alla ricchezza e alla produzione mondiale c’è una montagna di titoli spazzatura (che ora va di moda definire “tossici”) la cui mole è ancora oggi indefinita. Ciò è dovuto – come abbiamo evidenziato ripetutamente in ogni numero di questa rivista, dalla sua nascita – alla crisi da sovrapproduzione e da riduzione tendenziale del tasso di profitto che il capitale, a livello mondiale, ha subito negli ultimi decenni. L’incapacità di utilizzare l’immensa pletora di capitale monetario ammassatasi dagli anni settanta dello scorso secolo e, contraddittoriamente, l’impossibilità di realizzare tutto il plusvalore prodotto in termini monetari, ha meccanicamente portato gli agenti del modo di produzione attuale ad utilizzare massicciamente gli strumenti speculativi – ossia i mercati finanziari – per racimolare quote di plusvalore prodotte non direttamente, aumentando così, fittiziamente, l’accumulazione mondiale, a tutto danno dei lavoratori salariati e di alcuni capitalisti (fratelli nemici).
Il meccanismo menzognero di capovolgimento della realtà è così svelato: il tentativo di incolpare il sistema finanziario delle attuali e prospettiche condizioni, altro non è se non il frutto di una precisa strategia che tenta di celare una crisi sistemica, “da manuale”, del modo di produzione capitalistico, con il risultato di azioni speculative prese da singoli senza scrupoli che, con la loro irresponsabilità, avrebbero “contagiato” i settori dell’economia “buoni” e “sani”. E così, la deregolamentazione dei mercati finanziari – partita dalla fine degli anni settanta, non a caso – viene presentata come la causa di tutti i mali odierni e futuri e non già, correttamente, come lo strumento di cui ha necessitato il capitale mondiale per resistere, come sistema, ad una crisi incalzante lunga quasi mezzo secolo, dimostrando dunque una vera e propria dipendenza dai titoli “tossici” [per approfondimenti maggiori si rimanda alle analisi presentate su questa rivista nei numeri passati]. Con questa chiave di lettura è necessario analizzare i più recenti eventi che, non a caso, tendono gradualmente a mostrare l’entità delle montagne di titoli derivati-spazzatura la cui immensità è direttamente proporzionale alla impossibilità di accumulazione che, generalmente, il sistema capitalistico mondiale ha subito negli ultimi decenni.
La bomba europea
Dopo aver negato per mesi l’esistenza stessa della situazione critica in cui l’economia mondiale ed italiana navigano, il cav.Banana, ed il suo fido reggente di Bankitalia, Draghi, proprio a ridosso del vertice dei ministri dell’economia europea (Ecofin) di inizi febbraio, hanno dovuto ammettere che lo stato attuale, come le prospettive, sono preoccupanti. È evidente che in quell’occasione, il ministro Trecarte abbia comunicato qualcosa di così pessimo da far rovinare anche l’ipocrita, menzognero e apparentemente invulnerabile ottimismo del Kapo. Questo netto cambio di visione difficilmente può essere stato determinato da quanto “ufficialmente” è stato discusso nel vertice anche perché, stando a quanto si racconta, si è discorso “solamente” delle modalità con cui arginare le criticità “dichiarate” da tempo e ovunque rese pubbliche.
Da alcune settimane si parla di un documento segreto che è circolato proprio in occasione del vertice che disegnerebbe uno scenario ben più compromesso di quanto per ora si è a conoscenza. In via ufficiale, solamente il quotidiano dei mercati finanziari (Milano Finanza) il 18 febbraio ha affermato di essere riuscito ad entrarne in possesso e ne ha riportato i principali contenuti. Il documento, denominato “Treatment of Impaired Assets in the EU Banking Sector”, redatto dalla Commissione europea il 9 febbraio 2009, conterrebbe la descrizione di una vera e propria “bomba” composta da derivati-immondizia pronta ad esplodere in Europa, comportando una vera e propria catastrofe nel già compromesso sistema economico dell’intera area. Una quantità “impronunciabile, letteralmente quasi inscrivibile in qualsiasi formula matematica” di derivati, il cui valore ammonterebbe a 18.200 mrd di € sembra turbare le notti (e i giorni) degli agenti del capitale con interessi legati all’Euro. Tale cifra, superiore addirittura all’intero Pil statunitense del 2008, è al vaglio degli specialisti attraverso il cosiddetto impairment test che permette di dare una valutazione “reale” del titolo posseduto poiché il suo valore potrebbe essere nettamente inferiore a quello dichiarato se non addirittura nullo. In sostanza, il 44% del totale delle attività degli istituti finanziari europei è a rischio e potrebbe essere svalutato significativamente nei prossimi giorni. Non è un caso, infatti, che il commissario dell’Unione europea Neelie Kroes abbia ammesso che l’esposizione delle banche europee abbia dei numeri “sbalorditivi”: in parole più povere, in un sol colpo, le attività delle maggiori banche potrebbero potenzialmente subire un avida demolizione determinando, in uno scenario plausibile, una serie di fallimenti a catena che, a sua volta, inclinerebbe ancor più il piano della produzione industriale continentale.
Del resto, questo è il prezzo da pagare quando si decide, in fase di crisi epocali, di salvare il salvabile attraverso il taroccamento di ciò che è basato su un meccanismo già taroccato (quello dei derivati). Nell’ottobre del 2008, per evitare che grandi istituti finanziari europei presentassero dei conti da “profondo rosso”, ci si è accordati per rimuovere l’obbligo di applicare i principi contabili dello IAS 39. Esso prevede che tutti gli strumenti finanziari debbano essere valutati al “valore di mercato” (fair value attraverso il mark to market), essendo contabilizzati in base a quanto si pensa valgano il giorno successivo (meccanismo già di per sé abbastanza perverso). Con questa sospensione, è stato possibile mettere nel bilancio (nella voce delle attività, ovviamente) dei titoli che sul mercato erano quotati poco o nulla, a valori molto più elevati, come ad esempio, quello d’acquisto. Se, per esempio, un istituto finanziario avesse posseduto – a fine 2008 – dei titoli pagati a luglio 2008 1 mln €, ma che successivamente erano divenuti di valore pressoché nullo – perché, ad esempio, collegati alla Lehman Brothers – i principi contabili IAS 39 avrebbero imposto l’iscrizione a bilancio del valore di mercato corrispondente (ossia all’incirca 0 €); con la sua rimozione, invece, si è potuto valutarli fino a 1 mln €, ossia il loro prezzo d’acquisto. In questa maniera, se si sono evitati immediati crolli – si parla, con insistenza, del salvataggio di Deutsche Bank –, si è generata ancora più instabilità sui mercati perché il legame fiduciario tra le stesse banche e tra banche e piccole industrie è praticamente saltato, poiché nessuno ha garanzia sulla reale tenuta finanziaria dell’altro, al di là dei numeri più o meno finti. Non è un caso che, nelle ultime settimane, il volume dei bond emessi da istituti non finanziari sia cresciuto notevolmente, mentre, a causa dell’enorme e conseguente contrazione della domanda di credito, anche il presidente della Bce, Trichet, abbia ammesso che un’ulteriore espansione (ed emersione) di questa struttura tossica, “metterebbe in pericolo la stessa ragione d’essere del sistema”. Per questo, in un momento, in cui l’entità dei titoli spazzatura è solo stimata, l’approccio auspicato, che consiste principalmente nella creazione di apposite banche cattive (bad banks) che fungano da inceneritore dei titoli spazzatura, sembra tutt’altro che “pragmatico” come i ministri vorrebbero far credere: questo perché, ancora una volta, gli stati dovrebbero agire da garante, non potendo però disporre delle capacità finanziarie adeguate.
Da questo punto di vista, va osservato il progetto di legge approvato a metà febbraio che permette al Governo tedesco di nazionalizzare d’imperio una banca (viene usato il termine enteignung, strumento tipico dei primi anni della Ddr) [si veda altrove in questo numero]. Numerosi istituti finanziari tedeschi, infatti, già sono sull’orlo della bancarotta (si parla con insistenza del colosso Hypo Real Estate) e dunque un’eventuale esplosione della “bomba tossica” dei titoli spazzatura aggraverebbe irrimediabilmente la condizione generale del capitale finanziario europeo. A questo provvedimento hanno fatto eco, negli stessi giorni, non a caso, le dichiarazioni congiunte del primo ministro inglese Brown e di Berlusconi: quest’ultimo non ha escluso il ricorso alla nazionalizzazione delle banche in casi di aggravamento della crisi “di liquidità”, sebbene la misura sia profondamente “contraria al capitalismo”. La “socializzazione delle banche”, come ormai in molti definiscono – impropriamente – il sodalizio degli istituti finanziari con lo Stato, riapproderebbe così d’incanto anche in Italia, ricalcando funzioni e finalità che assunse l’Iri nel dopoguerra che, come è noto, fu un istituto tutt’altro che votato al socialismo.
Gelo dell’est, sòle dei Carabi e tempeste d’oltreoceano
La condizione del capitale a base euro sembrerebbe, già per quanto osservato, in rapida e inesorabile putrescenza: tuttavia, dall’est europeo giungono notizie che, per quanto possibile, aggravano ancor più la situazione. Questi paesi, infatti, stanno sopportando una profonda e radicale svalutazione delle proprie monete nei confronti dell’Euro (meno sul dollaro Usa) e, di conseguenza, l’ipotesi di un rischio di default sembra alquanto probabile. Le principali cause di questa condizione, proprio come nel 1997 durante la crisi delle tigri asiatiche, sono i “voli” dei sempre presenti capitali speculativi e l’alto indebitamento pubblico e privato che negli anni si è accumulato. È proprio quest’ultimo, d’altra parte, a fare paura al capitale a base euro che, non a caso, sùbito dopo l’annuncio di “declassazione” delle valute est-europee, ha subìto un forte ribasso nei confronti del dollaro.
L’incapacità di realizzare profitti adeguati e “sicuri”, ha spinto dalla metà degli anni novanta molti istituti finanziari europei ad offrire credito sia a soggetti privati che enti pubblici residenti nell’est, la cui probabilità di insolvenza era nettamente più alta che altrove: ma, come è noto, pecunia non olet! Del resto, gli abitanti dell’Europa orientale, sottoposti ad un vistoso peggioramento delle condizioni di vita negli ultimi quindici anni, sono stati costretti a contrarre prestiti per l’acquisto di beni di prima necessità – come casa, automobili e elettrodomestici – in quanto i salari della gran parte della popolazione, dalla fine delle economie filosovietiche, sono insufficienti a garantirne la compera diretta; tuttavia, questo tipo di indebitamento privato, come quello pubblico, è stato contratto principalmente con le banche europee, “madri” di quelle locali, in quanto offrivano denaro (euro) a prezzi nettamente inferiori rispetto a quanto avveniva in patria. Il crollo delle valute locali, dovuto ad una conseguente instabilità economica generale, ha così inasprito il loro già elevato rischio di default. Sebbene nel complesso la cifra a rischio non sia paragonabile al monte di titoli potenzialmente radioattivi, ad alcuni stati e ad alcuni capitalisti stanno tremando i polsi dalla paura: l’Austria (con crediti verso i paesi dell’Europa orientale pari al 70% del Pil interno), il Belgio (20%) e la Svezia (20%); Unicredit (20% del reddito operativo) e Banca Intesa (10%) sono alcuni dei soggetti che potrebbero pesantemente subire un fragoroso collasso che venisse da oriente.
Molti avranno notato le evidenti analogie del meccanismo descritto con quanto già accaduto nella prima metà del 2008 negli Usa – non è un caso, infatti, che, già da alcuni giorni, si parli di effetto subprime all’europea. Questa affinità dovrebbe far riflettere su quanto siano ingannevoli i tentativi di economisti e sicofanti della politica di nascondere l’origine e le prospettive della crisi: emerge infatti, ancora una volta, che la sua causa non risieda nella fraudolenza di singoli capitalisti senza scrupoli che agiscono in determinate parti del globo o nella scarsità di controlli dei meccanismi finanziari che generano “bubboni” insani incontrollabili per l’incapacità o la connivenza di alcune istituzioni. È proprio il naturale evolvere del modo di produzione attuale che, nel vano tentativo di ovviare a lunghe ma inesorabili fasi di difficoltà di accumulazione, crea ovunque, nel mercato mondiale, gli elementi – in questo caso indebitamento “scoperto” e speculazione massiccia – in grado di traghettarlo verso la sua stessa rovina [si veda in particolare il no.124].
Dall’altra parte dell’oceano, nel frattempo, la recessione sta assumendo sempre più dimensioni catastrofiche dirigendosi sensibilmente anche oltre le previsioni più negative. Le ultime rilevazioni e i più recenti calcoli degli “eruditi” analisti usamerikani mostrano come il collasso dell’economia yankee complessivamente possa essere riassunta in una disastrosa riduzione di più di sei punti percentuali del prodotto interno lordo a causa di una fortissima crisi della maggioranza dei settori industriali – con in testa quello automobilistico – che contraendo la produzione di merci, invendibili perché eccessive, puntano ad una nuova accumulazione attraverso licenziamenti di massa e, dunque, con distruzione di capitale variabile. Tutto ciò, oltretutto, grava pesantemente sulla struttura del debito già fortemente compromessa: per di più, gli Usa, a fine 2008, presentavano crediti in “sofferenza”, cioè altamente inesigibili, pari al 365 per cento del Pil, destinati a crescere fino al 500 per cento. Per farsi un’idea della situazione, si pensi che quelli a rischio nel 1929 ammontavano al 160% del Pil, giunto “solo” sino al 260% sei anni dopo a causa dell’accumulo di debito e del calo della produzione di merci. Il quotidiano crollo degli indici di borsa usamerikani, le chiusure di colossi dell’industria e delle assicurazioni dimostrano che gli agenti del capitale credano ben poco alle “rivoluzioni” di Obama, probabilmente perché, conoscendo più da vicino le ragioni della crisi di quanto ne sappia lo staff del presidente Usa, dinanzi a loro è impossibile sostenere che si tratta di un momento passeggero, o congiunturale.
I continui tentativi di additare i rappresentanti della “finanza insalubre”, certamente colpevoli di terribili frodi, come i capri espiatori dell’intera crisi, sembra una strategia ormai poco plausibile. Le colossali truffe di Magoff (50 mrd $ attraverso il cosiddetto schema Ponzi), ex presidente del Nasdaq, di Stanford (8 mrd $) e di tanti altri – che, almeno negli ultimi dieci anni, hanno così creato degli imperi nei paradisi fiscali a danno di piccoli e ignari investitori di quote di salario risparmiato a fatica – non riescono più ad occultare un tornado che sta flagellando a 360 gradi l’intera struttura economica statunitense. Il colosso assicurativo Aig (cardine del sistema Usa) che ha subito la trimestrale più negativa della storia del capitalismo (perdite pari a 60 mrd $); JP Morgan che ha tagliato dell’87% i dividendi dei propri azionisti e la Citigroup che, per non fallire, verrà rilevata, per almeno il 40% del capitale complessivo, dal Tesoro statunitense, sono solo i casi più eclatanti di una struttura capitalistica che, negli ultimi mesi, sta subendo costantemente scossoni di difficile copertura.
Quel che in molti, in maniera per lo più volontariamente errata, reputano essere la causa della cosiddetta crisi “congiunturale”, ossia lo scoppio di una bolla speculativa gonfiatasi sino a dimensioni anormali, è invece lei stessa il frutto obbligato e naturale di una crisi reale e sistemica del modo di produzione capitalistico lunga non già qualche mese ma che trae origine almeno dagli inizi degli anni settanta. L’incapacità di accumulazione sul mercato mondiale ha visto negli ultimi decenni il capitale, e i suoi agenti, bramare quote di profitto ovunque e con qualsiasi mezzo, generando anche strumenti evidentemente tossici, di cui è divenuto rapidamente dipendente, mettendo a repentaglio la tenuta dell’intero modo di produzione. Ancora una volta, tuttavia, al proletariato viene proposto il meccanismo di capovolgimento causa-effetto e, probabilmente, con l’incalzare degli effetti della manifestazione della crisi, tale tentativo manipolativo sarà sempre più corredato di particolari fuorvianti che, qualora dovessero rivelarsi fallimentari, potrebbero prevedere un inasprimento autoritario nei confronti di coloro che manifestano il dissenso prendendo vigore dall’analisi dei rapporti di proprietà materialisticamente esistenti nell’attuale fase del modo di produzione capitalistico.






































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