Print Friendly, PDF & Email

giornale critico

Ambivalenze della maturità

di Romano Màdera*

radionica za mlade aleksandra e1497694244884Comincerò con un aneddoto autobiografico. Quarta Ginnasio, liceo classico Cairoli di Varese, anno 1962, il professore di italiano-latino-storia-geografia che non voglio nominare qui, entra in aula e si avvia subito alla lavagna, è una delle prime lezioni. Scrive versi, ci dice che sono esametri, anche se non aggiunge gli schemi dei piedi, annuncia che dovremo imparare a leggere senza gli accenti segnati e, naturalmente, traducendo a prima vista. Un compito improbabile, almeno per noi. Fioccano votacci, all’inizio. Ma il professore, si scopre, è totalmente incapace di tenere una qualsivoglia disciplina, nonostante in quegli anni il liceo somigliasse da vicino a una caserma. Così i disastri nella traduzione all’impronta alla lavagna vengono presto pareggiati da interrogazioni e compiti in classe con ottime votazioni. Si copiava da dio e si suggeriva qualsiasi cosa. Però il succo della storiella non è questo: dopo qualche settimana si scopre l’autore del poema per autodichiarazione del professore, nuovo poeta latino del XX secolo ancora sconosciuto – in realtà il poema è ancora inedito e incompiuto e noi siamo le prime cavie. Dopo varie allusioni e poi aperti attacchi al cristianesimo a favore di una rinascita del paganesimo, il professore che usava dirci, quando non ne poteva più dell’infernale baccano che accompagnava ormai le sue lezioni, «tremenda è l’ira dei miti», cominciò a scrivere i versi più importanti del poema, il centro del suo messaggio. Quello strano, mite signore fuori dal tempo, sposato con diversi figli, era l’annunciatore di una religione la cui caratteristica fondamentale era il “paidocentrismo”: al centro del suo cielo stava un bimbo, circondato dagli altri dei, intenti a svariati giochi amorosi. Insomma, anche se lui non la chiamava così, una bella orgia.

Immaginarsi – è una scena che solo Amarcord di Fellini può davvero far capire, nonostante fossimo trenta anni dopo – l’effetto su una classe mista, quando le ragazze, in grembiule nero obbligatorio, dovevano stare attente a coprire le ginocchia e i ragazzi non potevano entrare in aula a primavera con camicie a maniche corte o, peggio ancora, arrotolate. Risolini, risate, sghignazzi … tutto il repertorio dell’imbarazzo, della difesa e della vendicatività verso il professore eccentrico, e un tantino fuori di testa, veniva sciorinato, con l’aggiunta, puramente opportunistica, di qualche concessione di attenzione per non incorrere nell’ira funesta che avrebbe potuto far finire in presidenza qualcuno degli sbertuccianti studentelli.

Perché mi sono dilungato a raccontare questa storiella tragicomica? Perché rappresenta per me uno straordinario coacervo di contrasti che, se un po’ meditati, ci portano in quella sorta di labirinto che è diventata la questione della “maturità”. Nome peraltro anche di quel reale incubo che erano gli “esami di maturità” – fotocopia del modello Gentile del 1923 – prima della riforma del 1969 firmata dal ministro Sullo. Quel mondo viveva ancora della convinzione che ci fosse una cesura, e quindi un’iniziazione, tra la fine dell’adolescenza e l’inizio della vita adulta o matura – almeno per le future classi dirigenti, gli altri dovevano lavorare da subito, maturi o no che fossero, non aveva importanza, dovendo in fondo ubbidire – iniziazione laica naturalmente, che doveva sostituire, o affiancare, i “riti di passaggio” religiosi (una volta predatati alla cresima, tra gli otto e i quattordici anni per i cattolici di rito latino, a secondo dei luoghi e delle usanze). Era un mondo, quello della scuola, che seguiva, come quasi sempre, i sonnolenti ritmi culturali della maggioranza, dell’uomo medio. Nel frattempo insegnava, tra le altre cose e in qualche caso più fortunato, per chi avesse voluto sentire, che quel mondo di “maturi” stava annaspando, era ormai disorientato, abbandonato dalla grande cultura, messo in ginocchio e ridicolizzato dalle avanguardie della letteratura, delle scienze e della filosofia. Quello che il mondo cristiano-borghese, per usare l’espressione di Löwith, pensava fosse l’ideale di maturità da raggiungere, era più vicino a marcire che a mostrare il vigore dell’acme delle forze dello spirito. La religione, innanzitutto, della quale persino la maturità kantiana, come autonomia dell’uso del proprio intelletto, non poteva del tutto fare a meno, stava da un paio di secoli subendo i processi di “secolarizzazione”, “disincantamento”, disalienazione”, “disanimazione” – come vogliamo chiamare, a secondo di diversi punti di vista teorici, la riduzione della sua forza di istituzione capace di dar forma alla vita sociale. E a scuola si doveva pur dire qualcosa di Feuerbach, Marx, Kierkegaard, Nietzsche – o di Galileo e Darwin, di Durkheim e di Freud. E qualcuno faceva leggere, o comunque qualcuno leggeva, anche per conto suo, Leopardi e Pirandello, Baudelaire e Rimbaud, Musil e Mann, Blake e Melville etc. etc … Così i “valori” delle “brave persone”, ancora più stinti e disprezzabili di quelli predicati dalla Chiesa, che pure erano pretesi nei comportamenti, erano già trappole ipocrite nella grande cultura del tempo e la scuola stessa, seppure a mezza bocca, doveva ammetterlo. In fin dei conti gli anni sessanta del Novecento, prima ancora e in preparazione delle agitazioni del 1968, stavano inconsapevolmente esprimendo un disagio, diventato di massa e inevitabilmente confuso, che le avanguardie culturali avevano trasformato in pensiero e arte nei precedenti centocinquanta anni. Quale era, appunto, l’idea di uomo maturo, all’inizio degli anni sessanta del Novecento nei paesi del centro del sistema capitalistico mondiale? Legge e ordine, lavoro e buona reputazione, morale pubblica e segreti nascosti, repressione sessuale, dipendenza delle donne e omofobia … il “buon padre di famiglia” e la donna sposa e madre, questi erano gli ideali di “maturità”, ma erano ruoli che ospitavano i fantasmi del passato e sarebbe bastato poco – qualche sciocchezzuola di costume, un po’ di capelli lunghi più del solito e qualche centimetro di gamba scoperta sopra il ginocchio delle ragazze, qualche discorso sull’ineguaglianza sociale e qualche esperimento con un po’ di droghe psicotrope – e via… un mondo se ne sarebbe andato a gambe all’aria.

L’unica reazione seria e dura fu economica e politica, rivelando l’ovvio nocciolo delle questioni, quanto al resto, beh, erano “sovrastrutture” e si poteva, con qualche fatica ma con non troppe tragedie, dare una bella rinfrescata alla carta da parati, e cambiare look. Ritornando al mio povero professore, vorrei fornirgli una giustificazione ex-post: forse in fondo aveva intuito, riflesso della sua formazione di letterato d’altri tempi, il cambiamento del mondo, aveva mischiato Il Fanciullino di Pascoli e il Dioniso di Nietzsche, in una immagine che sapeva di presepe al contrario. Si voleva liberare della vecchia religione e della vecchia morale in un colpo solo, riprendendo anche qui un filone decisivo – colorato in tutti i modi possibili, ma sottilmente solidale nel suo sentimento anticristiano – sollevando al culto pagano la predilezione di tanta parte della borghesia laica, e dei suoi stati nazionali, per tutto ciò che ricordava i greci e i latini prima di Cristo. Se la si volesse prendere più sul serio, la sua semi-mania rivelava qualcosa che davvero stava prendendo il centro di una nuova configurazione culturale, quello che appunto lui chiamava paidocentrismo. L’etica del lavoro produttivo di guadagno, con il suo ascetismo intramondano, come lo definiva Weber, tendenzialmente anestetico, contrario alla valorizzazione della “sensibilità”, preoccupato della “impersonalità” dell’agire ( nelle sue origini protestanti per la gloria di Dio e poi per la gloria dell’impresa ): questa era l’impalcatura che contrassegnava la “maturità”, nella configurazione culturale del capitalismo fino alla sua fase industriale del lavoro professionale, e che faceva da collante tra imprenditori e operai esperti, ma si irraggiava anche tra i funzionari selezionati dalla scuola, dalle università e dai concorsi. Un mondo fondamentalmente legato al risparmio e all’accumulazione, sospettoso del consumo. Elettrificazione, siderurgia, chimica e soprattutto metalmeccanica della produzione di massa, il ciclo dell’auto, hanno cambiato i connotati al “nostro” mondo nel giro di quaranta anni, dopo l’inizio del fordismo negli USA. Dalla repressione dei sensi alla loro esaltazione l’eccitazione necessaria del consumo ne è la condizione – la personalizzazione atomistica in luogo dell’agire impersonale, la produttività come meccanizzazione e automazione al posto della esperienza professionale; l’esasperazione del desiderio senza limiti (licitazionismo) invece dell’ascetismo: ecco la nuova configurazione culturale che accompagna la nuova fase del capitalismo come “globale”, cioè non solo diffuso su tutto il pianeta ma capace di ridurre politica e stati ad agenzie subordinate e deboli, penetrato nella vita privata, nel tempo libero (per consumare) e nella mentalità, fino a infiltrarsi nelle pieghe più intime del funzionamento psichico1.

Da questi movimenti delle “placche tettoniche” delle determinanti socio-culturali nascono fenomeni tanto discussi e analizzati come la fine del patriarcato − inteso come tratto epocale ereditato e trasformato nel corso dei millenni, dalle società di cacciatori-raccoglitori fino alla fase presente del capitalismo globale – cioè del residuo del potere diretto delle persone sulle persone, tipico dei mondi precapitalistici, mano a mano sostituito dal potere sulle persone mediato dalle “cose-segni” della economia politica. Una fine che, inevitabilmente, porta con sé un lungo periodo di confusione dei codici morali, della formazione del carattere, degli stili di comportamento, degli atteggiamenti psicologici, ma che vede anche un mutamento, davvero epocale, dei rapporti di potere tra uomini e donne, e poi, su questa scia, tra i diversi generi sessuali.

Se il Caos diventa la figura mitica centrale dell’epoca – va detto che il caos è anche la dinamica organizzativa profonda, e non a caso questo è un paradosso, del capitalismo – questo avviene perché da decenni è in atto questa sovversione, questo rovesciamento della vecchia etica patriarcale, ritradotta modernamente nell’etica del lavoro. È in corso un’intensificazione del processo: il consumismo si metamorfosa nella spettacolarizzazione; l’atomismo personalistico in egotismo di massa; l’automazione accelera nella produzione-consumo unificata nel telelavoro, spesso gratuito ( la massa dei servizi e dei lavoratori a basso reddito, precari o disoccupati, cresce più del numero dei lavoratori dipendenti stabili), nella prestazione in ogni settore della vita; il licitazionismo esaspera la sua tendenza alla negazione dei limiti.

Quello che Marcuse aveva diagnosticato, la desublimazione repressiva, rimane desublimazione, ma è difficile continuare a dirla repressiva, all’opposto sembra nutrirsi dell’eros cosiddetto “pregenitale”, smerciato in tutte le forme possibili e appiccicato-deviato sul rutilante spettacolo delle merci personalizzate e delle persone mercificate. Quello che Freud, dal vertice di una morale sessuale patriarcale di cui aveva intuito la crisi attraverso le patologie che essa induceva, aveva chiamato la “perversione polimorfa” del bambino, è diventata il manifesto e l’ideale di ogni relazione “al passo con i tempi”. Che poi il desiderio sessuale incorporato, e non solo visualizzato, si spenga sull’altare di questa disinibizione comandata e svuotata di senso, va da sé. Senza Legge-Divieto, niente più desiderio. Ne consegue che anche da questo punto di vista la vecchia maturità si è rovesciata nel suo contrario: non maturate mai, siate giovani per sempre, anzi, sempre più simili ai bambini! Anche per questo non ci si può dedicare ai bambini, il loro posto è già occupato da stuoli di maturissimi, quasi vecchietti, desiderosi di biberon a gogò.

Dall’altra parte i “giovani” non trovano granché attraente continuare il gioco dei contrari di un modo di vivere che non hanno conosciuto. Hanno il loro e sembrano piuttosto annoiati anche del loro, soprattutto devono cercare di “maturare” guadagnando qualcosa che è sempre lì lì per venir disdetto, sottoposti ormai a ogni ricatto, privi di organizzazione e di storia per difendersi: altro che pensare ai figli. Così alla morta maturità di un tempo si è sostituita la festa, presto scaduta in noiosa ripetizione, dell’immaturità2. «La festa appena cominciata è già finita», confessava una tristissima, bellissima canzone dell’epoca3, anche se, naturalmente, parlava d’altro.

Trovo che ci sia poca consapevolezza che, forse, l’immalinconirsi così rapido dell’eccitazione trasgressiva sia, anche questo, un segno profondo del dover fare i conti, prima o poi, con il fatto che, per ora, nuovi orizzonti di senso non si siano rivelati. Che le pretese di buttare via la tradizione non abbiano generato innovazioni capaci di orientarci o di farci sopportare la vita senza doverla puntellare con droghe eccitanti e calmanti di vario genere, o con psicofarmaci antidepressivi, ansiolitici e neurolettici, è un dato interessante sul quale lavorare.

Non vorrei però essere considerato uno degli affiliati alle tendenze antitecniche, catastrofiste, a quelli che hanno in dispetto la modernità o la postmodernità etc. etc. Proprio al contrario: in ogni caso la vecchia etica4 e la vecchia maturità “meritavano di morire”, e sono anzi sopravvissute fin troppo a lungo. Ogni grado di libertà conquistato, o anche soltanto entrato nell’ordine dei possibili, è per me un segno del lento, tortuoso, soggetto a regressioni a volte violente, e tuttavia innegabile, “progresso tecnico, scientifico e morale dell’umanità”. So che può far sorridere, dopo valanghe di polemiche contro l’ideologia del progresso, le «magnifiche sorti e progressive» etc. etc. Ma ci sono dati, sui quali non mi posso qui fermare, decisivi, di ampliamento del tempo di vita e di miglioramento delle sue condizioni per la maggioranza dell’umanità di oggi, margini di libertà per le classi, le etnie, i generi, le idee, impensabili prima della storia – pur drammatica e sanguinaria – del capitalismo moderno. E credo che, inevitabilmente, il capitalismo non sia l’ultima parola delle possibilità umane: anch’esso “merita di morire”. Con notevoli differenze su questioni anche di grande importanza5, su questo punto continuo a pensarla come Karl Marx: con tutti i suoi errori ed orrori, il capitalismo crea le condizioni per una universalizzazione di fatto dell’umanità, per la riduzione progressiva dell’importo di lavoro necessario a sopravvivere, per lo sviluppo di un general intellect già in atto come funzionamento della divisione del lavoro tecnica, e potenziale sia nell’estensione dell’impiego della scienza e della tecnica sia nella scolarizzazione delle popolazioni … So bene che queste, insieme ad altre affermazioni e tesi, sono oggi o dimenticate o sprezzate, divisi come siamo tra i detrattori della “tecnica e della scienza” (e già il fatto di chiamarle così rivela la neutralizzazione ideologica dei rapporti sociali che comandano scienza e tecnica) e gli apologeti della scienza depurata da ogni considerazione storicosociale ed etica6. La mia idea è che questa evoluzione storica ha prodotto due macrofenomeni che hanno a che fare con due dimensioni essenziali della libertà: la conquista, almeno teorica di diritti sempre più universali, cioè dell’individuo in quanto tale, e la capacità storica, di gruppi sociali “senza voce” prima della modernità, di organizzarsi e di protestare per affermare i propri diritti. Questa realtà storica, che anche nella sua parte solo dichiarata ha effetti reali perché muta la coscienza collettiva, è peraltro corroborata da indicatori che mostrano quanto la vita materiale sia, nel suo complesso, migliorata (dall’aspettativa di vita alle condizioni di lavoro, di educazione, di salute e di sicurezza). La libertà, concepita antropologicamente, è una condizione naturale-culturale originaria, poiché l’umano è un animale che può “immaginare altrimenti” e quindi costruisce mondi diversi in nicchie ecologiche diverse, per popolazioni, gruppi sociali diversi, in tempi storici diversi: dunque la libertà è origine della possibilità di scelte e di preferenze, di bene e di male, quindi il suo mantenimento, approfondimento e ampliamento, é il primo requisito fondamentale di ogni scelta etica. Come tale è il bene primario e il primo criterio di misurazione di ogni progresso morale7.

Vorrei concludere con due annotazioni, aneddotiche anch’esse, quindi, senza nessuna pretesa argomentativa, ma solo “retorica”: due piccoli spunti che vorrebbero invitare a ragionare pacatamente sulla questione della “maturità”, per dire che la “maturità” premoderna e passata in eredità alla modernità capitalistica fino a che è stata utile – cioè fino all’affermazione, almeno in Nord America, in Europa, Giappone e Australia, della società industriale di massa – non è in nessun modo, se presa nel suo insieme e non solo per i suoi gruppi privilegiati, da rimpiangere, anzi rappresenta una quota, inevitabile, di nostalgia anticapitalistica, sotterraneamente reazionaria. Siccome agli occidentali attanagliati dalla cultura del rimorso – peraltro giustificato – piace sognare di mondi esotici incontaminati dalle nostre brutture, allora citerò, da un serio e bellissimo libro sui Comanche, una pagina che mette insieme l’iniziazione alla maturità con gli scopi della stessa (senza nessun moralismo, anzi, capendo benissimo che per un Comanche dell’epoca compresa tra il XVI secolo e l’ultimo terzo del XIX secolo, cioè da quando erano diventati signori delle Grandi Pianure meridionali, imparando a combattere a cavallo, era buono e giusto rubare cavalli, ammazzare e scotennare, torturare, stuprare, schiavizzare altri esseri umani percepiti come reali o potenziali nemici, “altri” dai veri umani che erano loro. E so bene che la vita di un Comanche libero era sicuramente migliore di quella alla quale furono costretti una volta ridotti a sopravvivere nelle riserve. Ma a partire dal loro grandissimo ultimo capo, Quanah Parker, nato nel 1848 libero e morto nel 1911 nelle riserve, le loro convinzioni e la loro etica cominciarono a mutare radicalmente )8.

L’avventura iniziatica dei giovani Comanche era veramente eroica:

Partono per una di queste avventure dai sei ai nove giovani, e il solo equipaggiamento loro richiesto è un cavallo, e le armi da guerra, vale a dire arco e frecce, lancia e scudo, e a volte una pistola. Così attrezzati intraprendono un viaggio di più di milleseicento chilometri, attraverso un territorio assolutamente incontaminato e deserto, dipendendo per la sussistenza interamente dalla selvaggina che incontrano. Si dirigono nelle province settentrionali del Messico”. Fantastico, naturalmente, ma a far cosa? Per “abbandonarsi a cruente scorrerie che duravano tutta l’estate, depredando interi distretti [ … ] e lasciando dietro di sé rovine in fiamme9.

Passiamo adesso alla seconda “storiella” d’iniziazione alla maturità, molto più vicino a noi, siamo in Sardegna, a Nuoro, all’inizio del Novecento: «Ma nessuno di quei pastori che puzzavano di formaggio, nessuno di quei giovinastri che schiamazzavano avvinazzati durante la notte, che attendevano di maturare per diventare ladri, e intanto non vedevano due soldi insieme, nessuno si sarebbe mescolato con quei signori del Corso»10.

Come è ovvio Satta sta dicendo che le maturità sono molto diverse, persino nella stessa città e nello stesso momento, basta cambiare strato sociale.

Con ciò che cosa voglio dire? Non certo affogare la questione nel pur serio relativismo ricavato dagli studi delle scienze umane, dall’antropologia alla sociologia e alla psicologia. Proprio per questo ho sostenuto l’idea, abbastanza peregrina, del progresso morale: progresso che sia però conscio della sua tormentata storia, per niente lineare, e non volto a condannare, ma a comprendere l’estrema difficoltà del cammino. Cammino verso dove? L’etnocentrismo critico di De Martino mi serve a situarmi, senza dimenticare che si deve poi cercare di elaborare un criterio di giudizio e di condotta: dunque la “maturità” è sempre circostanziale, ma la “maturità buona” è quella che riesce ad aprire un varco sempre più profondo e più vasto all’affermazione di “ogni individuo” umano per esercitare la sua libertà11. Che poi questo primo e fondamentale bene, la libertà, sia soltanto la libertà di vivere la tragedia umana, per l’incremento del bene o per la sua negazione, è ancora un altro passo. Che si può decidere solo nell’uso di questa maturità e nell’indirizzo delle sue capacità verso un bene ulteriore, più grande e più comprensivo della stessa libertà, che pure ne rimane la condizione originaria.

Senza questa capacità di indirizzarsi al bene, ogni discorso sulla maturità finisce, più o meno consapevolmente e sottilmente, ad appoggiarsi sui “beni dati per scontati” dalle circostanze ideologiche e sociali dominanti in quel momento e in quel luogo, fossero anche i luoghi, come il S. Pietro di Satta, di una “parte” nel complesso dominata e oppressa, fossero anche i luoghi che contestano i dominanti: in ogni caso questo tipo di “maturità” evita di interrogarsi sui suoi presupposti, è dunque immatura davanti alla più semplice e profonda domanda socratica, è ancora una volta vita che non mette se stessa in questione.


* Università Bicocca, Milano

Note
1 Per una schematizzazione più approfondita devo rimandare a tre libri nei quali ho esposto l’idea del mutamento delle configurazioni culturali entro la costellazione della civiltà dell’accumulazione economica (il capitalismo moderno e il suo gemello antagonista, il socialismo “realizzato”): R. Màdera, Dio il Mondo, Coliseum, Milano, 1989; Id., L’alchimia ribelle, Palomar, Bari, 1997; Id., L’animale visionario, Il Saggiatore, Milano, 1999.
2 Cfr. il bel libro di F. Cataluccio, Immaturità. La malattia del nostro tempo, Einaudi, Torino, 2004.
3 Sergio Endrigo, Canzone per te, Festival di Sanremo 1968.
4 Su vecchia e nuova etica faccio riferimento innanzitutto a Erich Neumann, Psicologia del profondo e nuova etica, Moretti & Vitali, Bergamo, 2005. In particolare cfr. la mia “Introduzione”.
5 Su questo devo rimandare al mio Identità e feticismo. Forme di valore e critica del soggetto, Moizzi, Milano, 1977.
6 Su questa opposizione cfr. il saggio di N. Bobbio, Progresso scientifico e progresso morale, testo presentato in occasione del conferimento del Premio Internazionale Senatore Giovanni Agnelli per la dimensione etica nelle società avanzate, quinta edizione, Torino, Lingotto, 1995. In una nota Bobbio aggiunge un paio di riferimenti che hanno a che fare con la tematica dei diritti da un punto di vista filosofico-giuridico e da un punto di vista teologico: S. Nino, Etica y Derechos humanos, Buenos Aires, Paidos Studio, 1984, e W. Kasper, Le fondement théologique des droits de l’homme, Cité du Vatican, 1990, p. 49. Aggiunge Bobbio: «In uno scritto recente, L. Lombardi Vallauri chiama con felice espressione l’ethos mondiale dei diritti dell’uomo la “nuova religione civile”, nel senso della religion civile di Rousseau, e della civil religion di certa sociologia americana, e commenta: “Questa religione civile è talvolta la sola religione che ancora esiste per coloro che pensano di non poter più credere a una religione rivelata” (La portata filosofica della religione civile nei diritti dell’uomo in Ontologia e fenomenologia del diritto. Studi in onore di Sergio Cotta, Torino, Giappichelli, 1995, p. 194)».
7 Su questo cfr. il già citato L’animale visionario e Id., La carta del senso. Psicologia del profondo e vita filosofica, R. Cortina Editore, Milano, 2012.
8 Mi spiace dire una cosa forse “politicamente scorretta”, ma le differenze tra le forme di violenza e terrore, non vanno cercate nell’elenco delle atrocità possibili, né tantomeno va elevato a eccezione questo o quell’orrore: questa terribile arte sembra avere una storia lunga quanto le culture umane, con le dovute eccezioni, come sempre. Ma i Comanche non avevano niente da imparare dai romani o dai “barbari”, dai torturatori europei o arabi del medioevo, dalle sevizie scientifiche del Novecento o dai contemporanei terroristi dell’Isis. Come al solito la differenza importante si vede nel contesto e rispetto alla funzione del singolo gesto.
9 La prima citazione è di R. B. Marcy, G. B. Mc Clellan, Adventure on Red River. University of Oklahoma Press, 1937, p. 159, cit. in S. C. Gwynne, L’impero della luna d’estate. Ascesa e declino della tribù dei Comanche, Mondadori, Milano, 2013. La seconda citazione è a p. 265 di quest’ultimo libro.
10 S. Satta, Il giorno del giudizio, Adelphi, Milano, 1979, p. 38.
11 In modo del tutto antropocentrico, ma critico, penso che ogni volta che gli umani riescano, per immaginazione ed empatia, ad allargare i diritti ad altre specie animali, sia compiuto un altro progresso morale. Cfr. su questo: A. Crary, On the Demands of Moral Thought, Harvard University Press, 2016.

Comments

Search Reset
0
Eros Barone
Tuesday, 12 June 2018 21:30
Lasciando da parte le divagazioni 'retoriche' di carattere autobiografico cui indulge l'autore dell'articolo, occorre sottolineare che il problema del cruciale rapporto tra i giovani e la formazione culturale è senza dubbio un argomento che riveste un’importanza determinante nel definire il grado di maturità civile di una comunità.
Orbene, se si pensa, oltre che alla descrizione del comportamento degli studenti nel corso di un’iniziativa culturale, ad altre possibili descrizioni del loro comportamento in altri momenti topici della loro esperienza collettiva come le gite scolastiche o le feste per la fine dell’anno scolastico, ci si accorge che la nostra epoca è dominata, non solo oggettivamente ma anche soggettivamente, dal tema dell’iniziazione giovanile, dal problema cioè degli ‘anni di formazione’ (e ‘conformazione’). Un tema e un problema che sono tanto più tormentosi quanto più sensibile diventa il rischio che corre una cultura che non è riuscita a elaborare adeguate strutture iniziatiche, a sostituire ai tradizionali riti di passaggio (ad esempio, all’esperienza della leva obbligatoria di massa che è stata per lungo tempo centrale nella formazione delle nuove generazioni) meccanismi capaci di articolare, attraverso una ricca dialettica tra il vecchio e il nuovo, i concreti rapporti intergenerazionali.
In effetti, la situazione di ogni educatore è fatalmente sospesa fra Scilla e Cariddi, poiché, come sempre, il problema da risolvere è proprio quella mediazione tra natura e cultura che può essere esemplificata icasticamente nella classica scena della mano alzata dallo studente (non per chiedere di intervenire sul tema trattato ma) per chiedere di andare al bagno. D’altra parte, come sanno i reduci del Sessantotto che ne esibiscono sul proprio corpo (ovviamente docente) le cicatrici, l’aspettativa magica e sognante del discepolo di tipo socratico (un altro 'topos' dell'ideologia liberale che caratterizza il contenuto di questo articolo), il fantasma della classe come ‘comunità di destino’ in cui si realizza la metamorfosi del ‘gruppo in fusione’ evocata e celebrata nel famoso film “L’attimo fuggente”, con le crisi depressive che ne conseguono a séguito dell’impatto con la durezza del reale e con il carattere di massa dell’istruzione, sono cose che chiunque abbia messo piede in un’aula, collocandosi nei banchi o in cattedra, ha vissuto, sia pure in varia misura, in prima persona. In tal modo, e talvolta a caro prezzo, gli insegnanti più avvertiti hanno imparato che al processo di apprendimento, inteso quale passaggio dal preconcetto al concetto attraverso l’acquisizione delle capacità conoscitive e interpretative di simbolizzazione culturale, si oppongono potenti resistenze (individuali e di gruppo) miranti ad evitare quella sofferenza psichica che sta, come ben sapeva Freud, alla base del “disagio della civiltà”. Sennonché, superando le illusioni antiautoritarie circa una fruizione del codice materno priva di conflitti, quegli stessi insegnanti hanno anche imparato, nell’ottica della psicoanalisi di Franco Fornari, che l’affermarsi del codice paterno e del principio di prestazione è una via obbligata dalla quale si deve passare perché possano effettivamente svilupparsi il processo di apprendimento e la formazione culturale dei giovani. Un’indicazione, questa, già formulata da Walter Benjamin, il quale, all’età di vent’anni, discorrendo della “riforma scolastica”, scriveva: «È necessario trovare una via d’uscita alla contraddizione tra sviluppo naturale e autentico da una parte e il compito di trasformare l’individuo naturale in individuo culturale dall’altra, compito che non sarà mai risolto senza un atto di forza». Il nucleo del problema della maturità e della stessa questione giovanile, se si vuole, è qui. Da questo punto di vista, occorre sottolineare che il banco di prova del valore di una società consiste nell'efficienza dei meccanismi iniziatici che è riuscita a mettere a punto, ossia nella capacità di trasformare i propri membri, a partire da quelli più giovani, da natura in cultura.
Del resto, se è vero, come spesso si sente ripetere nei riti professionali di autocommiserazione collettiva diffusi nel mondo della scuola, che abbondano gli studenti analfabeti, è ancor più vero che alfabetizzarli è esattamente il mestiere degli insegnanti. Un mestiere, va da sé, che essi sono chiamati a svolgere fruendo responsabilmente della loro libertà di insegnamento. Un mestiere che resta, come sanno nel loro intimo tanti insegnanti, ad onta degli ostacoli ad esso frapposti dal capitalismo, dal governo e dalle stesse famiglie, “il mestiere più bello del mondo”.
Like Like Reply | Reply with quote | Quote

Add comment

Submit