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azioni parallele

Perché serve la cultura?

di Stefania Tirini

cultura143Questa non è cultura, è pedanteria,
non è intelligenza, ma intelletto,
e contro di essa ben a ragione si reagisce.
La cultura è una cosa ben diversa
Antonio Gramsci

Introduzione

Nel 1935, il filosofo Edmund Husserl denuncia la crisi di senso che caratterizzava la sua epoca: era molto preoccupato per l’avanzare e il progredire dei totalitarismi. L’autore spiega in maniera semplice e chiara la crisi della cultura, una crisi che ha portato progressivamente all’emergere dei totalitarismi e affronta il problema dichiarando che la crisi di senso è la crisi della ragione. Secondo Husserl, si era affermata una difficoltà progressiva e crescente a utilizzare la ragione come facoltà critica e interrogativa (Husserl 1936).

Ispirato in parte dalla filosofia di Descartes, Husserl considera che il punto di partenza per poter fondare un sistema filosofico, ma anche la cultura, è quello di cominciare a dubitare. Con Husserl si parla di dubbio, del dubbio cartesiano che è dubbio metodologico. Si deve poter dubitare di tutto per poi cominciare a fondare criticamente il sapere, la conoscenza. Ora, secondo Husserl questa facoltà, critica, interrogativa, dubitativa, non esiste più.

Le riflessioni di Husserl sono un buon punto di partenza per affrontare la crisi della cultura contemporanea: oggi ci troviamo di fronte a scetticismo e irrazionalismo, e il ruolo della cultura dovrebbe essere quello di combattere sia l’uno che l’altro. Ma cerchiamo di capire in che senso scetticismo e irrazionalismo abitano trionfalmente il presente e come la cultura può sconfiggerli.

Primo elemento: scetticismo. Oggi si dubita di qualunque cosa, bene, quindi siamo di fronte allo spirito interrogativo. Qualcuno può dire che è l’esercizio critico della ragione. NO. Oggi il dubbio che diffusamente circola, è un dubbio sistematico, non è un dubbio metodologico. Non è il dubbio cartesiano1 .

Oggi si dubita, non per appoggiarsi su qualcosa e ricostruire. Oggi il dubbio è circolare, si dubita per dubitare e pian piano si scivola in quello che ormai tutti chiamano complottismo. Una sorta di paranoia generale secondo la quale tutti mentono, tutti raccontano storie, quindi non ci si può fidare di nessuno, quindi si deve dubitare e solo dubitando si va avanti. È lì l’origine del concetto di postverità. Quando si dubita di qualunque cosa, tutto è sullo stesso livello. Non c’è più la gerarchia dell’informazione, tutto si equivale perché niente ha senso.

Secondo elemento: irrazionalismo.Si ha una difficoltà profonda a ragionare. Penso agli studenti che hanno una mania del copia/incolla. Potrebbe andare bene, nel momento in cui so perfettamente in quale posto devo collocare quello che ho copiato. Se ci si limita a copiare casualmente, viene meno la struttura logico-argomentativa che permette di progredire. Difficoltà quindi a ragionare, a costruire argomentazioni logiche, difficoltà anche a tenere a distanza le emozioni, difficoltà a contenere istinti e paure e quindi, invece di ragionare, invece di argomentare, ci si comincia a porre nei confronti dell’esistenza, delle cose, delle notizie, dei problemi, con la pancia. Oggi si parla molto di populismo, di persone che suscitano gli istinti che vengono dalla pancia, ma questo è possibile perché regna la paura, e perché regna la paura? Perché è venuta meno la capacità critica e logico-argomentativa.

Queste brevi considerazioni rappresentano in parte ciò che sappiamo, proverò poi a indicare che cosa possiamo fare.

 

1. Cultura per eliminare sfiducia e paura. Distinguere e identificare

La prima ipotesi è che la cultura serve per ricostruire la nostra colonna vertebrale logico-argomentativa, necessaria per diventare autonomi, non essere in balia dell’irrazionalismo e della paura, potersi autodeterminare, poter capire quale è il proprio progetto di vita. Ma andiamo per ordine.

Che cosa significa essere autonomi? Significa scegliere un determinato progetto di vita ed essere capaci di giustificare il perché di tale scelta, individuare valori e principi in base ai quali organizzare l’esistenza in vista di finalità e scopi. Ma questo è complesso e complicato perché lacondizione dell’esistenza è di sfiducia e paura, due reazioni irrazionali.

Sfiducia, perché di fatto viviamo in un mondo in cui nessuno si fida più di nessuno, talvolta a ragione. Le élite economiche, politiche e culturali non sono state all’altezza delle aspettative, hanno tradito. La parola data oggi ha poco valore. È venuto meno il valore della verità della parola e quando viene meno il valore della verità della parola, viene meno l’affidabilità delle persone. Ma se le persone non sono affidabili, se le persone che dovrebbero fare cultura non sono affidabili, di chi ci fidiamo in assenza di affidabilità? E questo è il problema di fronte al quale ci troviamo e per il quale la cultura ci può dare degli strumenti.

E la paura? La paura è quell’emozione che ognuno di noi ha quando si trova di fronte a un pericolo. Poco importa se questo pericolo è reale o immaginario. La sensazione di sentirsi in pericolo genera paura, è una reazione immediata. Dopo di che, la paura ha due modalità, due facce, due dinamiche.

Da un lato c’è una dinamica positiva che è quella di allertarci del pericolo di fronte al quale ci troviamo e di spingerci successivamente a trovare in noi le risorse interiori necessarie per affrontare il pericolo e superarlo. Questo è possibile se abbiamo un qualcosa su cui appoggiarci, la cultura appunto.

Poi c’è il valore negativo della paura. La paura, quando non ci spinge a cercare in noi quelle risorse interne necessarie per andare al di là del pericolo, può diventare una forma di ansia e panico, può diventare paralizzante. Non è un caso se Montaigne ci ricorda che la paura, da un lato, ci dà le ali, dall’altro ci appiccica al suolo (Montaigne 1588). Dipende da che cosa si fa di quella paura. Ma che cosa se ne fa? Come uscire da quel panico che blocca e che elimina la capacità di ragionare e di trovare gli strumenti per superare il pericolo?

L’immagine più bella della paura-panico è il quadro di Munch, L’urlo. Visivamente questo grande pittore rappresenta il panico. C’è una parte del suo diario in cui racconta il quadro dell’urlo.

Camminavo lungo la strada con due amici quando il sole tramontò, il cielo si tinse all’improvviso di rosso, mi fermai, mi appoggiai a un recinto, io tremavo di paura e sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura (Munch 2007, p. 34).

Questa è la paura panico, che invece di dare la forza di andare a cercare l’energia per superare il pericolo, blocca e impedisce di procedere nell’ esistenza, seguendo quel progetto di vita che ognuno di noi ha il diritto/dovere di costruire. Allora perché è così difficile reagire alla paura e come si fa a reagire a questa paura?

È difficile, perché dietro ogni paura vi sono paure più arcaiche, ci sono paure infantili, di quando eravamo piccoli, e non sapevamo come affrontare la difficoltà di crescere. Paure ataviche che si riattualizzano nel presente. È difficile, perché tutti noi abbiamo conosciuto la paura dell’abbandono, di perdere l’oggetto del nostro amore. La paura di essere abbandonati, la paura di non essere all’altezza dell’amore altrui, la paura di non essere adeguati. Questa paura riappare ogni volta che noi immaginiamo che il giudizio altrui ci possa schiacciare. Poi c’è la paura dell’alterità. La paura dell’alterità è la paura sistematica di essere altro rispetto a quello che i nostri genitori volevano che fossimo, altro rispetto a quello che gli insegnanti volevano che fossimo, e rispetto a ciò che noi vorremmo essere. Noi, crescendo, scopriamo di essere meno intelligenti, meno sensibili rispetto a quello che avremmo voluto essere. Scopriamo l’alterità in noi e questo ci terrorizza. Freud lo spiega benissimo quando si riferisce al perturbante (Freud 1919). Che cosa è nel perturbante a scatenare la paura? È la reazione di fronte all’alterità altrui che rinvia sempre alla nostra alterità. La paura degli stranieri è legata alla paura dell’alterità che ci fa molta paura perché rinvia alla nostra. Se noi non avessimo l’alterità, non avremmo paura dei diversi, di tutti quelli che rimandano al modello unico2 . Qui interviene la cultura.

La cultura, quella famosa colonna vertebrale su cui ci possiamo appoggiare, ci serve per distinguere le paure e identificare la complessità del reale. Sono due facce della stessa medaglia. Si tratta di capire per quale motivo quel qualcosa ci fa paura, distinguendolo dalle paure arcaiche e identificando la realtà del pericolo attuale. E ancora la cultura è fatta di ciò che ci permette di opporci al pericolo, è la base attraverso la quale noi possiamo mobilitare le risorse interne e andare al di là del pericolo.

Solo nel momento in cui si riesce a distinguere, a identificare, a riconoscere, a riconoscersi, solo allora può ripartire la dinamica del fidarsi. Siamo in un’epoca dominata da istinti, paura e sfiducia, talvolta a ragione.

Se non ricostruiamo la fiducia, noi sbrindelliamo definitivamente il vivere insieme, non c’è società senza l’atto del fidarsi, e senza fiducia crolla tutto. La fiducia però non riappare schioccando le dita. La fiducia non torna perché si invoca. La fiducia torna perché si creano le basi. Nessuno è affidabile al 100%, noi siamo esseri umani con falle e contraddizioni. La fiducia è, come direbbe Georg Simmel, un “salto nel buio”, tanto che l’imprevedibilità che la caratterizza non ci permette di pretendere o sperare di conoscere ciò che sta al di là del nulla in cui ci buttiamo (Simmel 1908). Quel buio che ci fa tanta paura e che ci riporta all’infanzia. Dobbiamo scommettere, la fiducia è sempre asimmetrica. Non è correlata all’affidabilità, non è che, siccome c’è affidabilità, allora io mi fido. Devo iniziare a fidarmi, devo scommettere (Pascal 1670) e devo sperare (se do la mia fiducia, mi rendo vulnerabile) che la persona a cui do la mia fiducia non approfitti della mia vulnerabilità.

E per questo è necessario appoggiarci a una colonna vertebrale. Se arriva il tradimento, noi dobbiamo e possiamo trovare appoggio e sostegno su quel riconoscimento di noi, per quello che siamo. Ecco perché all’interno della struttura logico-argomentativa c’è la necessità di avere la possibilità di sapere che il nostro valore non dipende né dallo sguardo, né dal giudizio altrui.

 

2. Cultura come spirito critico. Non cedere al conformismo del pensiero

La cultura serve ad acquisire e salvaguardare uno spirito critico, ossia a non cedere al conformismo, non al conformismo degli atteggiamenti, ma (neanche) al conformismo del pensiero (pensiero unico). Si tende al conformismo perché tante persone ripetono le stesse cose e noi le ripetiamo a nostra volta. Facciamo economia cognitiva. Viene meno il coraggio di prendere una posizione autonoma rispetto a ciò che ci viene detto, e chiesto di fare. Quindi la cultura serve a evitare quella famosa banalità del male di cui ci ha parlato Hannah Arendt, che emerge nel momento in cui si obbedisce agli ordini, perché si smette di pensare con la propria testa (Arendt 1963).

Per attualizzare queste riflessioni, credo sia utile rileggere una parte del libro della filosofa in cui, dopo aver assistito al processo a Gerusalemme di Adolf Eichman nel 1961, cerca di spiegare come è stato possibile che alcune persone scivolassero nel male, probabilmente senza rendersene conto. La Arendt risponde dicendo che ciò è possibile quando si smette di ragionare con la propria testa.

Quanto più lo si ascoltava, tanto più era evidente che la sua incapacità di esprimersi era strettamente legata ad una incapacità di pensare, cioè di pensare dal punto di vista di qualcun altro. Comunicare con lui era impossibile, non perché mentiva, ma perché le parole e la presenza degli altri, e quindi la realtà in quanto tale, non lo toccavano. Da una vita insignificante e monotona Eichmann era piombato di colpo nella storia, col passare dei mesi e degli anni non ebbe più bisogno di pensare. Così stavano le cose. Era un cittadino ligio alla legge (Arendt 1963, p. 67).

Eichmann, nazista, aveva organizzato il sistema dei collegamenti ferroviari per condurre gli ebrei nei campi di sterminio, e durante tutto il processo non fece altro che dire: io non ho fatto altro che eseguire gli ordini, essere coerente con il mio dovere.

Analizziamo il discorso di Eichmann.

Diceva: io non ho fatto altro che eseguire gli ordini. Non ho fatto altro che essere coerente con il mio dovere. L’azione di Eichmann è di essere ligio a una legge, ma era una legge ingiusta e immorale. Se io sono ligio alla legge e smetto di pensare con la mia testa, mi limito a conformarmi a un determinato sistema giuridico ingiusto e immorale. Ossia, se io perdo la capacità di valutare dall’esterno il carattere morale o immorale di una legge, smetto di pensare con la mia testa e divento capace di compiere qualunque cosa. Lui obbedisce. Infatti.

E ancora. Che cosa ci sta dicendo Arendt quando sostiene: «La realtà non lo toccava»?

Sta parlando dell’indifferenza, quell’indifferenza che capita nel guardare la realtà pensando che non ci riguardi. È l’incapacità di pensare dal punto di vista di qualcun altro. Ciò avvienequando non si è capaci di immedesimarsi, quando si resta indifferenti, quando non si prova più compassione, quando non si ascolta, dove ascoltare significa essere rimessi in discussione dall’alterità della realtà e degli altri. Quando tutto ciò viene meno, questo significa seguire il pensiero unico. E il pensiero unico non è solo nella politica, ma anche nella televisione, nei media in generale. Sentire sempre le stesse parole, frasi ripetute, uno, due, cento, mille volte, interrompe il ragionamento, si ripetono slogan, questo è il pensiero unico che fa scomparire la realtà, una realtà fatta di sfumature. Quando abbiamo nella testa lo slogan, non distinguiamo più la realtà. La realtà è sempre diversa da tutto quello che viene detto e ripetuto. Quando ci si trova in una situazione del genere, scivolare nel male diventa banale. Perché, quando Arendt ci parla della banalità del male, non sta dicendo che il male è banale, il male è radicale e assoluto, ma capita di compierlo banalmente e quindi può capitare a ognuno di noi, nessuno può sentirsi al di fuori di questa banalità, nel momento in cui si commette il male non usando la nostra testa. La cultura è questa: pensare con la nostra testa, integrando la compassione. La struttura logico-argomentativa mi permette di formulare un mio pensiero e di entrare nella presenza altrui.

 

3. La cultura serve per darci le parole. Nominare le cose in maniera corretta

Ispirandomi ad Albert Camus, la cultura serve a regalarci parole, quelle parole che ci permettono di nominare le cose in maniera corretta. Quando si nominano male le cose, non si fa altro che introdurre maggior disordine. Le parole servono per ordinare il mondo che ci circonda. Abbiamo bisogno di una nuova cultura, che è «un regalo per il futuro», come scrive Albert Camus, e di un nuovo modo di leggere i fenomeni complessi, che il nostro tempo ci costringe ad affrontare (Camus 1935-1942).

Occorre trovare le parole per nominare le cose. Il compito dell’educazione e degli insegnanti è quello di aiutare gli studenti a trovare le parole per nominare le sfumature del reale. Il reale è sfaccettato. Noi siamo in un’epoca in cui si nominano le cose come bianco e nero e c’è sempre qualcuno che si oppone perdendo le sfumature.

La realtà è complessa, è arcobaleno. Quando non parliamo delle situazioni, significa cancellare parti della realtà. Perché esistono le situazioni e vanno nominate in maniera corretta. Altrimenti ci si ritrova come nei talk show e ci si insulta. Che cosa è l’insulto? È il contrario del dialogo: nel dialogo ci si ascolta, si ascolta l’alterità, ci si rimette in discussione, si risponde argomentando. L’urlo e l’insulto sono il contrario del dialogo. Quindi ascoltare, nominare le sfumature significa l’esatto contrario. Significa mettere le parole là dove vi è assenza di parole. Gustavo Zagrebelsky ha ricordato che il numero di parole conosciute e usate è direttamente proporzionale al grado di sviluppo della democrazia e dell’uguaglianza delle possibilità. Poche parole e poche idee, poche possibilità e poca democrazia; più sono le parole che si conoscono, più ricca è la discussione politica e, con essa, la vita democratica (Carofiglio 2010). Quando manca la capacità di nominare le cose e le emozioni, manca un meccanismo fondamentale di controllo sulla realtà e su sé stessi. Nelle scienze cognitive questo fenomeno – la mancanza di parole, e dunque di idee e modelli di interpretazione della realtà, esteriore e interiore – è chiamato ipocognizione. Si tratta di un concetto elaborato a seguito degli studi condotti negli anni Cinquanta dall’antropologo Bob Levy. Nel tentativo di individuare la ragione dell’altissimo numero di suicidi registrati a Tahiti, Levy scoprì che i tahitiani avevano le parole per indicare il dolore fisico, ma non quello psichico. Non possedevano il concetto di dolore spirituale e pertanto, quando lo provavano, non erano in grado di identificarlo. La conseguenza di questa incapacità, nei casi di sofferenze intense e (per loro) incomprensibili, era spesso il drammatico cortocircuito che portava al suicidio (Levy 1973).

In sintesi, se il discorso fino a qui presentato funziona, la cultura – non intesa (solamente) come sapere e conoscenza – è importante se si trasforma in praxis, in azione, solo quando ha la capacità di intervenire sulla realtà, magari provando a cambiarla. Ecco che distinguere, riconoscere e riconoscer-si, costruire un pensiero critico e autonomo, identificare e nominare la realtà complessa, sono solo alcune delle conseguenze di un progetto culturale, di lungo periodo, ma necessario per costruire esistenze autonome e libere. Si tratta del famoso balzo dalla teoria alla prassi: non basta contemplare, la cultura deve significare agire.


Riferimenti bibliografici
Hannah Arendt, 1963, La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme, Milano, Feltrinelli Editore, 2013.
Albert Camus, 1935-1942, Taccuini. Maggio 1935 – Febbraio 1942, trad. it. di E. Capriolo, Milano, Bompiani, 1963.
Gianrico Carofiglio, 2010, La manomissione delle parole, Milano, Rizzoli.
Renato Cartesio, 1637, Discorso sul metodo, Milano, Mondadori, 1993.
Umberto Curi, 2010, Straniero, Milano, Raffaello Cortina.
Sigmund Freud, 1919, Il perturbante, Roma, Theoria, 1993.
Michel Eyquem de Montaigne, 1588, Della saggezza, a cura di L. Milanesi, Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino, 2006.
Edmund Husserl, 1936, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Milano, il Saggiatore, 1997.
Bob Levy, 1973, Tahitians: Mind and Experience in the Society Islands, Chicago, University of Chicago Press.
Edvard Munch, 2007, Frammenti sull’arte, Milano, Abscondita.
Blaise Pascal, 1670, Pensieri, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1994.
Georg Simmel, 1908, Sociologia, Milano, Edizioni di Comunità, 1989.

Note con rimando automatico al testo
1 René Descartes (1596-1650) aveva intuito l’estrema importanza del dubbio (da qui il cosiddetto “dubbio cartesiano”, che è un dubbio metodologico). Si deve poter dubitare di tutto, per poi cominciare a fondare criticamente il sapere, la conoscenza. Schema cartesiano: io dubito di tutto, ma se dubito di tutto, di che cosa non posso dubitare? Non posso dubitare del fatto che io sto dubitando, ossia del fatto che io sto pensando, ma se io dubito, e quindi penso, allora vuol dire che esisto. Cfr. Cartesio 1637.
2 Cfr. Curi 2010. Umberto Curi fa leva sull’esplorazione di questa dimensione di ambivalenza per trattare una figura che, sia dal punto di vista concettuale che linguistico, si mostra essere inevitabilmente duplice: lo straniero.

Comments

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Mario Galati
Monday, 13 August 2018 15:53
La citazione di Gramsci in epigrafe non ha alcuna attinenza con le argomentazioni sviluppate dall'autrice. Nello scritto da cui è estrapolata, Gramsci sostiene, grosso modo, che la cultura è la coscienza dei rapporti di classe. Sulla base di cio, sostiene che un operaio che sa fare il suo lavoro ed è cosciente della sua posizione nella struttura di classe, che è cosciente dei rapporti di classe, è certamente più colto del piccolo borghese "intellettuale", dell'"avvocatuzzo" mediocre "che ha strappato uno straccio di laurea alla indolenza e alla stanchezza dei professori e che crede di essere superiore" (cito grosso modo a memoria). Alla pedanteria, al nozionismo, e anche all'erudizione, ai pregiudizi piccolo borghesi, contrappone la cultura di classe.
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Eros Barone
Saturday, 11 August 2018 23:06
Il mio sommesso avviso è che, definendo in modo 'negativo' e/o generico la cultura (antitesi allo scetticismo e all'irrazionalismo, spirito critico, antidoto alla paura, esercizio del dubbio: queste le indicazioni, tendenzialmente tautologiche, contenute nell'articolo), si renda inevitabile sia la riduzione ‘gastronomica’ della stessa sia la conseguente problematica circa gli effetti eupeptici (o dispeptici) del suo consumo, poiché appare sempre più chiaro che è esattamente quest’ultimo a determinare, in ultima istanza, l’insieme del processo di produzione, circolazione e diffusione degli eventi e delle iniziative correntemente definiti come ‘culturali’. Accade così che la polifonia (ma anche la cacofonia) che scaturisce da manifestazioni e iniziative molteplici, localmente circoscritte e non di rado concorrenziali, esprima, insieme con una scarsa disponibilità ad un autentico confronto delle posizioni, un’elevata propensione verso le mode culturali e, spesso, un uso strumentale delle idee. In altri termini, la tendenza prevalente è quella a sommergere giudizi di valore e conflitti di posizioni in una melassa indistinta e dolciastra, che viene spacciata come espressione di pluralismo quando, in verità, non è altro che puro e semplice indifferentismo. Questa tendenza, più che aiutarci a capire meglio chi siamo (giacché in tal senso giudizi di valore e conflitti di posizioni vanno considerati come i fattori determinanti di ogni presa di coscienza e la cultura, se non è ornamento o retorica, a questo deve servire: a prendere posizione), ha accentuato una sorta di ‘alienazione culturalistica’ per cui tendiamo, da un lato, a dissimulare a noi stessi che la cultura di fatto interessa poco e, dall’altro, riteniamo doveroso affermare che i prodotti culturali sono di per sé un valore, anche quando non hanno valore.
In realtà, temo, il cibo culturale che, ai più diversi livelli, viene cucinato e ammannito è sempre più scadente, anche se infiocchettato e guarnito nei modi più diversi, quali sono suggeriti o imposti da quella macchina che è la ‘spettacolarizzazione della cultura’. Forse è proprio nella ‘spettacolarizzazione della cultura’, forma principale di manifestazione del ‘pensiero unico’ in questo campo, che il nostro paese ha affermato un suo indubbio primato. Ciò spiega perché esso ospiti un’attività culturale, ad un tempo, pletorica e irrilevante. Per altro, è tipico di tutte le vicende italiane che nessuna delle due cose risulti del tutto vera o interamente falsa: l’onnipresenza della cultura e l’assenza della cultura sembrano coesistere. In realtà, proprio perché la cultura non è un terreno neutro, una sorta di idilliaca Svizzera della lotta di classe, ma un fronte della lotta generale per trasformare la società, essa, come afferma Marx in un suo scritto giovanile, è «il luogo della ricerca dell’unità perduta: in questa ricerca dell’unità la cultura come sfera separata è costretta a negare se stessa».
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