C’è del chiaro in fondo al tunnel
di Alfonso Gianni
Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, perché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada
Eraclito
L’anno corrente non sarà solo ricordato per la quantità di appuntamenti elettorali che si sono svolti. In effetti più di 50 Paesi in tutto il mondo, con una popolazione complessiva di circa 4,2 miliardi di abitanti, più della metà della popolazione mondiale, hanno tenuto o terranno elezioni nazionali, regionali e comunali nel 2024, in quello che è stato quindi definito come l’anno elettorale più grande della storia, con la partecipazione di sette delle dieci nazioni più popolose al mondo, cui va aggiunta l’Unione europea. Non senza eccesso di enfasi il Guardian lo ha definito “il Super Bowl della democrazia”1
Ma la vera novità dell’anno in corso, almeno entro il perimetro Ue, è stata certamente la inaspettata e sorprendente vittoria della gauche in Francia, sulla base di un programma effettivamente di sinistra. Almeno per quanto riguarda gli aspetti sociali, con una caduta in negativo sul tema della guerra russo-ucraina. Tutt’altra cosa comunque della vittoria dei laburisti in Inghilterra. Un esito felice, quello francese, che parla a tutta l’Europa e oltre, come ha dimostrato in modo emblematico l’entusiastica manifestazione che ha riempito la sera 7 luglio Place de la Republique, ove varie voci, diversi idiomi e accenti si rincorrevano in una sorta di polifonia internazionalista. E si poteva udire anche il nostro “Siamo tutti antifascisti” nella lingua originale “del bel paese dove ‘l sì suona”.2
Una affermazione, quella del Nuovo fronte popolare, che non può essere ascritta solamente a una insorgenza dello spirito repubblicano, solitamente così vivo oltralpe, ma da tempo non suscitato. E quindi non sarebbe già di per sè né poco né male. Tanto meno a un assemblaggio anti Le Pen dell’ultima ora, come hanno detto e dicono i detrattori del Nfp scommettendo sulla sua presunta fragilità. Né si tratta solo del frutto della giusta tattica elettorale basata sulla desistenza al secondo turno, che pure un ruolo lo ha avuto. Neppure può essere spiegato in base a un fatto in sé positivo e in controtendenza rispetto ad altri paesi europei: la grande partecipazione al voto nei due turni delle elezioni della nuova assemblea nazionale. Il secondo turno ha registrato un’affluenza al voto pari al 66,7%, mezzo punto in più rispetto al primo e una ventina sopra la partecipazione alle elezioni del 2022. Tutti questi sono piuttosto gli esiti di processi assai più profondi e di più lungo periodo che hanno animato la società civile d’oltralpe.
Non li hanno visti arrivare
Diciamo le cose come stanno. Qui sì che si può dire “non li hanno (abbiamo) visti arrivare”. E la ragione è abbastanza semplice: perché si guardava dalla parte sbagliata. Non si voleva prestare attenzione a ciò che si muoveva nel tessuto sociale della Francia, non solo di quella parigina o marsigliese, cioè delle grandi città cosmopolite, ma della Francia profonda, quella delle campagne o delle rotonde extraurbane, assurte, queste ultime, a importanza strategica per le forme di lotta dei Gilets jaunes. Non piovono dal cielo, né da un capriccioso mutamento di posizione dell’elettorato i 3,2 milioni di voti ottenuti dalla gauche il 30 giugno rispetto alle legislative del 2022 e l’incremento di oltre un milione di suffragi in confronto a quelli raccolti nelle recentissime europee.
Macron e i suoi seguaci pensavano che la mossa di convocare le elezioni anticipate dopo il crollo alle europee avrebbe garantito al Presidente, nell’ipotesi peggiore, una convivenza con un governo dominato dalla destra di Rassemblement national che avrebbe finito per sfiancare quest’ultimo, rivelandone l’incapacità di governo e quindi riaperto la strada a Macron per le presidenziali del 2027. Il quadro che ora ha davanti è totalmente diverso. Anche lui non li ha visti arrivare, concentrato sulla competizione con la destra. Eppure proprio Macron avrebbe potuto tirare le giuste conclusioni da anni di rivolta sociale contro le misure del suo governo. Non lo ha fatto perché la sua concezione del mondo e della politica lo rende incapace di cogliere la realtà nel suo manifestarsi o lo lascia indifferente a essa. E questa è una ennesima prova del fallimento delle teorie neoliberiste, compresa la loro variante ordoliberista, che porta alla rovina anche chi dall’alto le imbraccia e le impone. Potrei dire una prova definitiva, se un qualche timore non mi trattenesse nell’utilizzare un termine troppo spesso usato a sproposito e quindi contraddetto dai fatti.
La riflessione di Etienne Balibar
Ha visto nel giusto - e in anticipo sulla doppia tornata elettorale - Etienne Balibar che pubblica il 25 giugno un importante saggio su AOC, un quotidiano francese online,3 sul quale conviene riflettere, anche per le implicazioni più generali che esso contiene e che dovrebbero essere messe a tema dalla sinistra di alternativa in ogni angolo del globo. Rassemblement national è ormai in grado di mobilitare sostenitori in quasi tutte le classi della società francese, riuscendo dove il macronismo ha completamente fallito. Sembra avere trovato una soluzione “che può essere definita populista”, quindi “è davvero sulla buona strada per trovare il suo popolo”.
Quale strada può percorrere dunque la sinistra per reggere la sfida? Prosegue Balibar: “dal ‘populista’ al ‘popolare’ c’è sia una incompatibilità radicale, sia una prossimità, un’analogia inquietante della questione posta che deve interrogarci profondamente”. Questo è quindi il punto cruciale per il grande filosofo, che di conseguenza sviluppa una critica ai modi “classici” con i quali la sinistra, “marxista o no”, ha pensato e continua a pensare alla “formazione di un popolo nel senso politico del termine”. Si intravedono qui punti di contatto con la riflessione analitico-teorica di Ernesto Laclau, pur giungendo a conclusioni ben diverse. Scrive infatti Balibar che la sinistra ha sempre ragionato in termini di gruppi sociali i cui interessi vanno conciliati o, ma le due cose non sono affatto in alternativa, in termini di “partiti nel senso originario della parola” cioè di scelte di individui o comunità che si realizzano in stili di vita e professioni di fede. Quindi bisogna prendere come base non tanto le condizioni sociali o le idee, ma i “i movimenti reali” pur nella loro possibile ambivalenza e instabilità. E Balibar questi movimenti li enumera e li descrive lungo il loro manifestarsi nell’arco di quasi un decennio: 1) “Nuit Debout” (2016) e la mobilitazione contro la cd. Legge sul lavoro del governo Hollande-Valls; 2) il movimento dei Gilet Gialli nel 2018-19 che, partito dalla protesta per l’aumento del prezzo del carburante, è approdato ad avanzare proposte per un allargamento della democrazia, come quella del referendum di iniziativa popolare; 3) la lotta degli operatori sanitari ospedalieri e di quelli dei servizi comunali durante la pandemia di Covid-19 per fare fronte all’impoverimento della sanità pubblica; 4) la rivolta delle periferie contro il razzismo e la violenza poliziesca, intensificatasi dopo l’assassinio di Nahel Marzouk nel giugno del 2023; 5) il movimento di lotta e di scioperi contro la “riforma” delle pensioni, respinta dalla stragrande maggioranza del paese, che tra gennaio e marzo 2023 ha rivitalizzato la lotta di classe grazie anche alla costituzione di una organizzazione “inter-sindacale” democratica; 6) les soulevements de la terre, contro tutte le forme di distruzione dell’ambiente e di ipersfruttamento dei terreni a favore dell’agricoltura intensiva; 7) i movimenti femministi, pur con divisioni interne.
Quando la rabbia si trasforma in rivendicazione di diritti
L’elenco dei movimenti di lotta non è completo, lo riconosce lo stesso Balibar – manca ad esempio quello a favore della Palestina e altri ancora – ma già più che sufficiente per descrivere un tessuto sociale in continua ebollizione, con temi e obiettivi anche eterogenei, quindi non facilmente unificabili, ma comunque capaci di esprimere ognuno nel proprio campo un elevato tasso di radicalità tale da “trasformare la difensiva in offensività, la rabbia nell’affermazione di un diritto” di essere portatori di “un’utopia concreta”. Il nocciolo strategico non sta quindi nell’assemblaggio di queste tematiche in un unico programma, quanto nella valorizzazione della loro intersezionalità. Ma, aggiunge Balibar in un altro passaggio cruciale del suo ragionamento, gli obiettivi che questi movimenti esprimono, proprio per la loro radicalità, sono “universalizzabili”4 e dunque possono pensarsi come costruttori di una maggioranza fin qui “virtuale”, trovando nell’assemblea il loro mezzo di espressione, comunicazione e incontro.
Il che non significa affatto travolgere e negare validità alle più vecchie forme e strutturazioni del movimento operaio e popolare. Anzi. Proprio in questo modo, e l’esperienza francese lo dimostra, lo stesso sindacalismo riacquista nuova linfa vitale. Proprio così le organizzazioni politiche, se ben guidate, possono rinnovarsi o addirittura rinascere. Ciò che la Francia ci dice è che la rivificazione della politica è possibile, a condizione che essa si metta in sintonia non solo con i bisogni sociali individuati sulla base di analisi anche molto raffinate, ma con i movimenti reali, dando per scontata l’eterogeneità delle loro genesi e la parzialità dei loro fini, che la politica quindi non deve proporsi di creare dal nulla, quanto in primo luogo saperne riconoscere la potenzialità. Su un simile rapporto biunivoco tra movimenti e forze politiche si sono costruite le migliori esperienze di ricostruzione della sinistra – si pensi al rapporto nel caso spagnolo fra Indignados e Podemos -, ma proprio la dinamicità e la complessità intrinseche nel rapporto fa sì che esso possa essere portato avanti solo grazie all’intelligenza politica dei fenomeni sociali, istituzionali e di senso connessa con la capacità di dare vita a forme di aggregazione e di organizzazione innovative. Il successo del fronte repubblicano contro la destra lepeninista si spiega con il fatto che ha saputo incontrare un senso diffuso tra la popolazione (quel “Siamo tutti antifascisti” gridato in italiano in Place de la Republique), che è stato capace di stoppare il tentativo delle destre di intestarsi le rivendicazioni sociali degli strati meno abbienti.
I rapporti interni al Nuovo fronte popolare
La scelta della desistenza, subito dichiarata da Melenchon, dato il sistema elettorale francese ha avuto certamente un ruolo importante nella vittoria della gauche, ma ha anche comportato un riequilibrio tra le forze interne al Nfp, ove La France Insoumise ha pagato un prezzo in termini di seggi assegnati. Se la desistenza ha funzionato come mezzo per contenere la destra lo si deve soprattutto alla “disciplina repubblicana” della formazione di Melenchon. Secondo le stime ottenute dai sondaggi, sono stati più del 70% gli elettori che avendo votato per il Nfp al primo turno, hanno poi scelto un candidato macronista o facente parte della destra gollista (i Republicains che non hanno seguito Eric Ciotti nella sua deriva lepenista). Ma non vi è stata reciprocità. Il favore non è stato restituito nella stessa misura. Le stesse rilevazioni ci avvertono che tra gli elettori macronisti solo il 43% ha poi votato un candidato della Lfi, Quindi all’interno del campo della sinistra si è verificato un riequilibrio nei rapporti di forza in termini di seggi parlamentari. Dopo il 2022, quando la sinistra si presentò unita sotto la sigla della Nupes, la Lfi poteva contare su 65 seggi, mentre il Partito socialista ne aveva 28; ora i seggi della Lfi sono 77, mentre quelli del Ps 62.5 Una situazione che potrebbe pesare negativamente per quanto riguarda la formazione della maggioranza di governo, dal momento che già si alzano da più parti – ovviamente non solo in Francia – le voci di chi vorrebbe un governo “centrista”, in ogni caso con fuori Melenchon e la sua formazione politica. Anche all’interno di Lfi sono emerse divergenze che hanno portato in alcuni casi all’abbandono di candidati, peraltro risultati eletti al primo turno. Il caso più noto, tra i pochi che si sono verificati, è quello di Francois Ruffin che si dichiara socialdemocratico nella copertina che gli ha dedicato il Nouvel Observateur e che lamenta una gestione troppo personalistica dell’organizzazione e una sottovalutazione del problema della popolazione rurale. Clementine Autain, un'altra dissidente - sono cinque in tutto tra gli eletti - ha dichiarato che né il redivivo Francois Hollande né Melenchon possono aspirare alla candidatura a premier. Non sono tutte rose e fiori, ma non è una novità nella sinistra.6 Di queste difficoltà, esagerandole ad arte, approfitta subito Marc Lazar derubricando la vittoria della gauche all’esito di un’affermazione puramente difensiva di un insieme di forze il cui unico obiettivo sarebbe stato quello di fermare la Le Pen e non certo di attuare il programma che pure si erano dati, auspicando quindi la formazione di un governo tecnico “all’italiana” (come al solito veniamo citati nel verso peggiore della nostra storia.)7
La partita del governo
La France Insoumise fa comunque bene a insistere sul fatto che tocchi a loro, visti i risultati elettorali, indicare la figura del prossimo presidente del consiglio e che non sono disponibili a venire a compromessi programmatici con i macroniani. Del resto la tanto temuta avanzata delle destre del Rassemblement national, che comunque può contare su 10 milioni di voti, confermandosi come nel turno precedente il primo partito di Francia, è stata fermata – il che non significa purtroppo definitivamente interrotta – non certo da Macron e dalle sue mosse dell’ultimo mese, ovvero la convocazione di elezioni anticipate – ma dal Nfp. E questo non può non avere una precisa conseguenza nella formazione del quadro di governo e nella partita che già si prepara in vista delle presidenziali del 2027. A queste soprattutto pensava Marine Le Pen quando nella notte della sconfitta ha subito dichiarato che la vittoria era solo rimandata. Nondum matura est, si potrebbe anche commentare ironicamente, ricordando l’antica favola della volpe e dell’uva. Ma non bisogna affatto prendere sottogamba la minaccia data la consistenza dei consensi al Rn.
Macron esce nettamente sconfitto non tanto, o comunque non solo, perché la rappresentanza parlamentare che a lui fa riferimento si è quasi dimezzata, quanto perché il suo disegno politico di costruire un centro borghese, attivo e interventista nelle vicende politiche e belliche internazionali, a livello non solo europeo, che aveva come presupposto e fine la stessa cancellazione della contrapposizione fra destra e sinistra, se la ritrova davanti ulteriormente rafforzata nella società e vistosamente sottolineata dagli stessi esiti elettorali. Ma non c’è da aspettarsi che di questa sconfitta prenda veramente atto come gli viene chiesto da Melenchon.
I difensori a oltranza dell’austerità in Europa non hanno mancato di fare sentire la loro voce poche ore dopo l’esito delle elezioni francesi. Daniel Gros, il direttore del Center for European Policy Studies, non ci va leggero dichiarando che i mercati reagiranno negativamente a una paralisi che secondo lui si verificherà nel parlamento francese e che il programma dei vincitori è “incompatibile con la stabilità finanziaria della Francia e con il nuovo Patto di stabilità”,8 che in verità tanto nuovo non è quanto piuttosto una riesumazione di quello vecchio con qualche aggiustamento.9 Ma, come si vede, sono subito partiti minacce e ricatti che vogliono spingere verso la formazione di una sorta di governo centrista in Francia, magari di un governo tecnico, anche se una figura come quella di un Mario Draghi in salsa francese non è ancora apparsa.
I nuovi assetti degli organi della governance nella Ue
La nuova partita che si apre dopo il sorprendente risultato del secondo turno nelle elezioni legislative francesi si incrocia con la formazione dei nuovi organi della governance europea. Anche nel quadro della Ue l’avanzata della destra è stata meno travolgente di quanto si temesse. Ma c’è stata, e in modo consistente, tanto da condizionare gli assetti e le politiche dell’Unione europea. L’asse si è spostato a destra. L’estrema destra si presenta in modo agguerrito. Nasce un nuovo gruppo parlamentare “Patrioti per l’Europa”, composto da partiti di 12 Paesi Ue, e si presenta come il terzo gruppo più grande del Parlamento europeo con l’ingresso del Rassemblement national francese e della Lega italiana. Il gruppo ha scelto come presidente Jordan Bardella, presidente del Rn, e Kinga Gál del partito ungherese Fidesz come prima vicepresidente. Perché non ci siano equivoci sull’orientamento culturale e politico del gruppo il neoeurodeputato della Lega Roberto Vannacci è stato nominato tra i sette vicepresidenti.
Probabilmente la curvatura a destra negli organi della governance della Ue, apparirà in modo vistoso quando verrà data vita alla nuova Commissione europea, ove il Partito popolare europeo – stando ai numeri il vincitore delle elezioni di giugno – potrebbe aumentare sensibilmente la quota dei suoi commissari, così come i conservatori, mentre diminuirebbero i commissari aderenti alla sinistra socialdemocratica e ai liberali. Il tutto nel prolungarsi e quindi, anche solo per questo, nell’aggravarsi del quadro bellico, sia sul fronte russo ucraino sia su quello, diventato caldissimo in questi ultimi giorni, che separa Israele dal Libano, mentre continua imperterrita la distruzione di Gaza e della sua popolazione. Mark Rutte sostituisce Stoltenberg al vertice della Nato – di male in peggio – che si riunisce ai primi di luglio a Washington. A cui la Russia risponde nel peggiore dei modi, intensificando i bombardamenti in territorio ucraino. Intanto si moltiplicano gli accordi di cooperazione militare con l’Ucraina di singoli paesi, ormai circa una ventina, di durata decennale per sancire a diversi livelli e con più articolazioni un sistema di guerra pensato per durare. Un sistema che è alimentato, nonché a sua volta esaltato, dalle logiche intergovernative su cui la Ue poggia il suo sistema di governance.
Il voto europeo mette in crisi i fondamenti della Ue
Al di là degli ultimi avvenimenti francesi, l’esito del voto europeo, con il crollo dei partiti di governo in Francia e in Germania, ha messo in crisi l’asse su cui la Ue si era venuta costruendo fin dal suo sorgere, attraverso le varie fasi e denominazioni che hanno caratterizzato il suo percorso. L’asse franco-tedesco appartiene ormai al passato. Le ragioni storiche, politiche ed economiche che l’hanno tenuto in piedi e che i partiti o le coalizioni dominanti in entrambi i paesi hanno garantito per decenni sono come sbriciolate. Non bastano i Trattati da Maastricht in poi a sorreggere una siffatta costruzione basata sulla diseguaglianza dei rapporti di forza di cui i due paesi erano perno, fruitori e garanti allo stesso tempo. Né si può pensare che gli Usa siano d’aiuto, malgrado le prosternazioni atlantiste di molti premier europei, a cominciare da Giorgia Meloni, sempre più zoppicante negli ultimi tempi, in particolare quando ha a che fare con questioni di politica estera.
Gli Usa non hanno mai amato la Ue, hanno costantemente operato per impedire ogni possibilità, foss’anche la più tenue, che essa potesse assumere un ruolo autonomo a livello internazionale, tanto nelle questioni economiche, quanto in quelle politiche per non parlare del posizionamento sul clivage fra pace e guerra. Ora meno che mai, squassati da quello che appare più un conflitto che non una contesa elettorale, nella quale uno dei contendenti è ormai sempre più insistentemente chiamato al ritiro da sostenitori e soprattutto finanziatori e l’altro si sta costruendo l’immagine del sicuro vincente, anche per essere pronto a disconoscere ancora una volta gli esiti delle urne.
Mai come in un momento come questo, nel quale i vecchi equilibri vanno in fumo e la guerra torna a essere il mezzo più usato per risolvere le contese internazionali, ci sarebbe bisogno di una sinistra europea dotata di sufficiente lucidità e massa critica per invertire la rotta e impedire il comune disastro. Ma se la Francia riaccende qualche speranza, pur lungo un percorso che appare difficilissimo e da subito contrastato, nel resto dell’Europa la sinistra ha racimolato divisioni e sconfitte che la riportano indietro di anni. Basti pensare, per fare solo due esempi, alla triste parabola di Syriza o alla scissione provocata nella Linke tedesca da Sarah Wagenknecht, all’insegna della costruzione – come da sua definizione - di una “sinistra conservatrice”.10 C’è ancora un lungo cammino da percorre nel tunnel.
Il quadro italiano
Lo dimostra anche l’esito del voto europeo in Italia. E’ certamente positivo che le destre abbiano perduto voti in termini assoluti, anche se il primato del partito della Meloni non è stato messo in discussione. Come pure è significativo che l’incremento di suffragi, sempre in termini assoluti e non nella visione distorcente delle percentuali, abbia riguardato due forze di opposizione quali il Pd guidato da Elly Schlein e l’alleanza Verdi Sinistra (Avs). Ma non si può mettere in secondo piano che il vero vincitore delle elezioni è stato l’astensionismo, dal momento che la partecipazione al voto non ha raggiunto il 50%, confermando una tendenza al calo nelle elezioni europee che ormai dura da più turni. Né si può dimenticare che ancora una volta la sinistra d’alternativa non è riuscita a evitare la dispersione di voti. Continuo a ritenere che l’obiettivo di una lista unica alla sinistra del Pd non fosse irraggiungibile. Era chiaro fin dall’inizio che non c’era lo spazio per il perseguimento di due quorum (per Avs e per Pace, Terra e Dignità). D’altro canto le differenze di programma e di comportamenti, che ci sono, fra le due liste - una delle quali già frutto di un’alleanza che lasciava libera la scelta degli eletti in quale gruppo del parlamento europeo collocarsi – non erano e neppure apparivano tali da escludere una presentazione comune. Sarebbe bastato il buon senso a consigliarlo, ma è stato disatteso.
Non c’è dubbio che il risultato di Avs è stato più che confortante e, in quella dimensione, francamente inaspettato. E’ chiaro che una parte non piccola di merito va iscritta alla composizione delle liste, in particolare per la presenza di alcune figure chiave portatrici di un messaggio qualificante per una sinistra di alternativa e contemporaneamente per una opposizione chiara al governo delle destre, quali l’antifascismo e una politica di accoglienza verso i migranti. Proprio per questo sulle spalle del gruppo dirigente, in particolare di Sinistra italiana, pesano oggi maggiori responsabilità, che bisognerebbe non andassero deluse. Ma al di là di queste, tutte e tutti abbiamo di fronte un doppio problema: la costruzione di una solida opposizione al governo delle destre non prigioniera di ansie governiste e la costruzione di una sinistra dotata di un chiaro profilo ideale, di una visione di società, di un programma politico, di una massa critica che non la ponga a repentaglio a ogni prova elettorale o a ogni appuntamento di lotta.
La costruzione dell’opposizione e della sinistra
I due problemi sono tra loro distinti, richiedono materiali e modalità di risoluzione non identici. Ma vanno affrontati contemporaneamente e con urgenza, se si vuole rispondere alla domanda che emerge da una sinistra diffusa che nel paese, anche grazie a un protagonismo giovanile e femminile recentemente accresciuto, non ha mai smesso di esistere malgrado la crisi – per non dire peggio - della sinistra politica.
Cominciamo dal primo. Un’opposizione al governo delle destre, sia a livello nazionale che a livello locale, non può svilupparsi senza che si manifesti un’opposizione sociale. Per questo è importante che l’iniziativa promossa dalla Cgil cui hanno aderito 160 organizzazioni e associazioni - con la sigla de La Via Maestra - portatrici di esigenze e obiettivi specifici, si rafforzi dandosi un percorso chiaro di elaborazione e di lotta. Per questo si deve fare in modo che i rinnovi contrattuali, quello dei metalmeccanici per esempio, incontrino la più larga solidarietà nella società civile, anche perché si battono non solo per insopprimibili esigenze, quali quelle dell’aumento dei salari o della sicurezza contro gli omicidi sul lavoro, ma perché sono un fattore di resistenza e di ampliamento della democrazia reale in tutto il paese, che per essere tale deve poggiare sul conflitto e non su una finta pace sociale. Per questo diventa decisivo vincere i referendum abrogative delle norme sulla precarietà del lavoro promossi dalla Cgil, che voteremo l’anno prossimo assieme al quesito che cancella interamente la legge Calderoli sulla autonomia differenziata.
Ma vi è un terreno di lotta estendibile, direi per sua intrinseca natura, a tutto il tessuto sociale e a ogni latitudine. Mi riferisco a quello contro l’autonomia differenziata e il premierato, cui si aggiunge quello sulla manomissione dell’ordine giudiziario voluta dal ministro Nordio per inverare il vecchio sogno berlusconiano. Sono queste le tre gambe che tengono insieme le diverse facce delle destre.
Queste cantano vittoria per avere fatto approvare il Ddl Calderoli sulla Autonomia differenziata e in prima lettura il Ddl costituzionale sull’elezione diretta del Presidente del consiglio. Lo hanno fatto ricorrendo a tutte le possibili restrizioni dei tempi della discussione per abbattere l’ostruzionismo delle opposizioni. Non hanno prestato il minimo ascolto alle voci dissenzienti che si sono sollevate dalla società civile, da presidenti di regione appartenenti ai partiti di maggioranza, come il calabrese Occhiuto, dalla stessa Chiesa cattolica, dalle maggiori organizzazioni sindacali, per la precisione Cgil e Uil con il significativo silenzio della Cisl, dalle tante manifestazioni di piazza che si sono succedute in questi mesi.
Ma sarà vera vittoria? Vi è più di una ragione per dubitarne. La lotta contro lo stravolgimento della Costituzione è solo agli inizi. Il Ddl sul premierato dovrà sottostare a una nuova deliberazione fra non meno di tre mesi sia della Camera che del Senato. Se non raggiungerà la maggioranza dei due terzi dei componenti ciascuna delle due Camere, potrà essere sottoposto a referendum con la richiesta di un quinto dei parlamentari di una Camera (o da 500mila elettori o cinque Consigli regionali). Un referendum cruciale per le sorti della nostra Repubblica. Che non prevede il quorum – il che elimina dalle mani della maggioranza l’arma dell’astensione – e che è assolutamente necessario. Una legge che dice di volere fare eleggere il Presidente del consiglio dal popolo non può essere sottratta al giudizio del medesimo tramite referendum. Sappiamo che sono già in atto tentativi di trovare soluzioni compromissorie che possano allargare il numero dei votanti per superare i due terzi, ma finora non hanno trovato alcun successo. Anche perché l’obiettivo della Meloni è di cancellare le basi antifasciste della Repubblica e per farlo ha bisogno di una modifica profonda della Costituzione che stravolga l’equilibrio dei poteri. Per questo le serve un pronunciamento popolare. Questo è il senso della sua famosa dichiarazione “O la va o la spacca”. Accettiamo la sfida, convinti che abbiamo la possibilità di vincerla.
Il referendum per l’abrogazione integrale della legge Calderoli
Ma da subito bisogna agire contro la legge Calderoli, percorrendo tutte le strade possibili. La prima sta nelle possibilità delle Regioni, in base all’articolo 127 secondo comma della Costituzione, di sollevare in via diretta la questione della legittimità costituzionale davanti alla Consulta entro 60 giorni dall’entrata in vigore della legge. Più di un Presidente di regione si è già dichiarato pronto a farlo. La seconda strada è quella di raccogliere le firme entro il 30 settembre per un referendum abrogativo. Si tratta di 500mila, anzi qualche decina di migliaia in più per avere un congruo margine di sicurezza a fronte di possibili errori o incompletezze nella compilazione dei moduli. Oppure – e le due vie non sono in alternativa – la richiesta di referendum può essere presentata da 5 consigli regionali. Vi è chi teme che la Corte possa pronunciarsi per l’inammissibilità del quesito referendario poiché il ddl Calderoli è stato collegato dal governo alla legge di Bilancio. Ma è lo stesso ministro ad avere sostenuto che vi è invarianza di spesa. Il collegamento quindi è solo strumentale. Né si può dire che il ddl Calderoli sia indispensabile per attuare la Costituzione, visto che intese con le regioni si possono fare anche solo in base all’art.116 comma 3 della Costituzione. E’ certamente vero che negli ultimi anni la Corte Costituzionale ha dato un’interpretazione restrittiva delle possibilità di ricorso al referendum, ma un orientamento giurisprudenziale non è un vincolo di legge e può essere contrastato in modo vincente se da subito le regioni si muovono, comincia la raccolta di firme e si alimenta un dibattito costituzionale e giuridico sul tema.
Il quesito per una abrogazione totale della legge Calderoli è stato presentato da un amplissimo arco di forze. Anche se il tempo è poco il raggiungimento delle 500nila firme è un obiettivo alla portata. Anche le regioni si stanno muovendo per depositare la richiesta di referendum. La prima a muoversi è stata la Campania, Ma qui, a dimostrazione che mai nulla procede senza inciampi e nuove problematiche, la regione ha voluto presentare oltre che un quesito ablativo anche uno parziale, presumibilmente in accordo con altre quattro regioni e pare su ispirazione dell’Emilia Romagna che era a suo tempo tra quelle più entusiaste di dare piena applicazione alle sciagurate modifiche al Titolo Quinto della Costituzione introdotte nel 2001 dal centrosinistra di allora. Il punto è che la parzialità del quesito lascia sostanzialmente intatte le norme e lo spirito della legge Calderoli, poiché la semplice enumerazione dei Lep (i livelli essenziali di prestazioni) senza indicarne e prevederne qualità e modalità di finanziamento si risolve in una presa in giro, se non peggio.
Aprire un processo costituente
E veniamo al secondo problema. Non è attraverso la strada delle alleanze elettorali o qualche appuntamento comune di lotta che si può dare vita ad una sinistra nel nostro paese. Troppo è stato fatto per smantellare quello che una volta era il più grande e più forte Partito comunista dell’Occidente. Per risalire la china vi è bisogno di un enorme lavoro di analisi delle trasformazioni messe in atto dal moderno capitalismo, delle conseguenze che esse hanno prodotto nel tessuto sociale, nel lavoro, nel vissuto e nell’immaginario collettivo delle popolazioni, di una innovativa capacità di rapportarsi ai movimenti reali, dell’invenzione di nuove forme di organizzazione e di comunicazione. Di tutto ciò si hanno vari segnali, esperienze positive, tentativi generosi. Ma restano slegati tra loro, se non isolati, non riescono a diventare pilastri di un nuovo pensiero alternativo.
Per questo è necessario dare vita a un processo costituente aperto e inclusivo, rivolto alle forze già organizzate, come alle esperienze sul territorio, capace di stabilire un percorso di ricerca e di lotta nel quale ognuno sia disposto a mettere in discussione e a disposizione se stesso, rinunciando a inutili nostalgie identitarie. Facile a dirsi, si dirà – e infatti in questa rivista è stato scritto più volte -, difficilissimo a farsi perché ogni volta che se ne è presentata l’occasione è stata sepolta dalle tante obiezioni e difficoltà, alcune certamente reali e non solo dettate dall’egotismo dei minigruppi dirigenti o autopresunti tali, ma che appunto bisognerebbe scavallare con un atto di umiltà intellettuale e di coraggio individuale e collettivo.
Tornando alle elezioni europee
Sarà interessante, a fine anno, tirare le fila di tutti i numerosi appuntamenti elettorali in giro per il mondo lungo il 2024, tra loro diversi, come differenti sono le condizioni in cui si saranno svolti, al fine di misurare l’effettiva partecipazione al voto. Ovvero, guardando dal verso contrario, il peso dell’astensionismo che a sua volta dovrà essere indagato a seconda delle condizioni istituzionali, politiche e sociali entro le quali si è manifestato.
Guardando alle elezioni europee di giugno da questo punto di vista non c’è da stare molto allegri. Il tasso di partecipazione al voto è stato pari al 51,08%. Ha votato solo poco più della metà degli aventi diritto e con sensibili diversità da paese a paese. Se facciamo il confronto con la precedente tornata elettorale europea del 2019, bisogna evitare di calcolare la partecipazione al voto in modo puramente aritmetico senza operare le doverose correzioni imposte dagli avvenimenti politici nel frattempo incorsi, altrimenti può sembrare che l’astensionismo negli ultimi cinque anni sia diminuito. Il che non è. Come è stato giustamente osservato11, il dato della partecipazione al voto nelle elezioni del 2019 va ricalcolato tenendo conto che la Brexit ha nel frattempo sottratto alla platea degli aventi diritto al voto 46 milioni di cittadini. L’esito del conteggio giustamente corretto è che la percentuale cui fare riferimento per quanto riguarda il 2019 è pari al 52,43%, dal che si deduce che nello scorso giugno la riduzione dei votanti è stata pari all’1,35%.
Ma le cose più rilevanti sono sostanzialmente due, la prima negativa, la seconda non tale da generare entusiasmo, ma almeno qualche speranza. Il dato negativo, quanto politicamente inevitabile, persino ovvio, è la rilevante discrepanza nella partecipazione al voto tra i cittadini della Ue a seconda del paese di appartenenza. In sintesi: mentre nel Nord-Ovest del continente si registra un aumento dei votanti di 1,7 punti e nell’Est di 0,34 punti, il quadro precipita nel Sud Europa con un calo di oltre 7 punti: -17 punti in Grecia, -11 in Spagna, -4,8 in Italia. Un simile esito non genera stupore se si pensa che proprio i paesi mediterranei hanno subito, per diversi motivi e su vari fronti, duri colpi da parte della governance europea da diversi anni a questa parte. In primis la Grecia.
Ma le cose sarebbero andate molto peggio se questa tornata elettorale non avesse registrato una notevole partecipazione delle nuove generazioni. I nuovi votanti sono stati quasi 23 milioni, circa il 6,5% di tutti gli elettori europei. Va anche tenuto conto che un quarto del totale dei paesi della Ue hanno abbassato l’età minima per votare a 16 o 17 anni. Il che ha influito sensibilmente sui numeri dei votanti. Statisticamente più elevata è la quota dei giovani più alta è stata la partecipazione complessiva al voto. In sostanza l’andamento della partecipazione al voto mostra, entro un processo discendente, particolarmente marcato nel Sud Europa, anche elementi di controtendenza in ambito giovanile che meriterebbero di non essere ignorati per una valutazione obiettiva dell’appuntamento elettorale o peggio ancora mortificati in uno scenario di lotte presenti e future che si possono aprire.







































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