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La teoria della conoscenza nel materialismo dialettico

Da Engels e Lenin alla riflessione di Guglielmo Carchedi

di Massimiliano Romanello

Contributo della FGCI al seminario "Lavoro mentale e classe operaia", del 19 aprile 2018, presso la facoltà di Economia dell'Università degli studi Roma Tre, nell'ambito del ciclo di incontri "Tecnologia, lavoro e classe", promosso dall'organizzazione Noi Restiamo

phpThumb generated thumbnailTeoria del Riflesso e materialità della conoscenza

Il testo che segue è da considerarsi come un’introduzione alla lettura dell’opera di Guglielmo Carchedi Sulle orme di Marx, lavoro mentale e classe operaia, che si presenta come un quaderno estremamente denso di nozioni e dall’elevato valore teorico, in cui l’autore propone un tentativo di interpretazione dello sviluppo del capitalismo contemporaneo, ponendo la propria attenzione e quella del lettore su una realtà consolidata e che va sempre più articolandosi: Internet.

La base su cui poter edificare l’intero discorso è individuata nel fondamentale concetto di trasformazione. Ogni sistema produttivo in generale e il capitalismo in particolare prevede la trasformazione di forza lavoro, mezzi di produzione e materie prime in un prodotto finale, da destinare al mercato. Tuttavia essa non riguarda soltanto ciò che è comunemente riconosciuto come merce, cioè come frutto della manualità di uomini o macchine. Dal momento che l’attività cognitiva dell’uomo è diffusa in modo sempre più capillare nei paesi occidentali e partecipa a pieno diritto al ciclo produttivo, e poiché, secondo Carchedi, non esiste in linea di principio una distinzione tra lavoro manuale e intellettuale, (“Tutto il lavoro materiale necessita il concepire, l’ideare; tutto il lavoro mentale necessita tutto il corpo senza il quale il cervello non potrebbe funzionare” [1]), la categoria della trasformazione si può e si deve estendere anche alla conoscenza.

I processi lavorativi contengono quindi sia trasformazioni oggettive, sia trasformazioni mentali e, in queste ultime, la forza lavoro trasforma sia la conoscenza soggettiva, propria cioè dell’agente mentale che opera, sia la conoscenza oggettiva, che è contenuta fuori da esso, in altri agenti mentali, in libri, computer ecc. oppure nei mezzi di produzione, in nuova conoscenza, che può essere differente o semplice riproduzione della precedente, pronta ad essere considerata come punto di partenza di un nuovo ciclo.

Nell’ambito di un realtà in cui sempre più i prodotti del lavoro sono immateriali, risultato di processi lavorativi mentali, Carchedi sceglie di anteporre alla trattazione prettamente economica, una tematica piuttosto centrale in filosofia, ovvero la teoria della conoscenza, definita come “ l’aspetto meno indagato della teoria Marxista ”. L’autore inizia pertanto da essa la propria riflessione, ritenendola indispensabile per comprendere i meccanismi di estrazione del plusvalore dai lavoratori mentali, che costituiscono parte importante della società odierna, e ponendosi al contempo in confronto con i classici del pensiero comunista.

Per Lenin, la cui filosofia è una rielaborazione del materialismo così come esposto da Engels, la materia, presentandosi in forme via via più articolate e seguendo la transizione da mondo inorganico a mondo organico, giunge al punto in cui, per come è organizzata, ha la capacità di rappresentarsi il mondo esterno e formulare pertanto pensieri, idee, sensazioni. La realtà è indipendente da chi osserva, la sensazione non può invece essere indipendente dalla realtà, essendo ad essa subordinata.

Tale concezione è esposta in modo perfettamente chiaro nel seguente passo:

Se il colore è una sensazione soltanto in quanto dipende dalla retina (come vi costringono a riconoscere le scienze naturali), allora i raggi della luce producono la sensazione del colore, in quanto cadono sulla retina. Ciò significa che al di fuori di noi, indipendentemente da noi e dalla nostra coscienza, esiste un movimento della materia, diciamo, onde dell’etere di una determinata lunghezza e di una determinata velocità che, agendo sulla retina, producono nell'uomo la sensazione di un determinato colore. Questo è precisamente il modo con cui vedono le cose le scienze naturali. Esse spiegano le varie sensazioni di questo o quel colore con la differente lunghezza delle onde luminose, esistenti al di fuori della retina umana, al di fuori dell'uomo, indipendentemente da esso. Proprio questo è materialismo: la materia, agendo sui nostri organi sensori, produce la sensazione. La sensazione dipende dal cervello, dai nervi, dalla retina, ecc. ecc., cioè dalla materia organizzata in un modo determinato. L’esistenza della materia non dipende dalle sensazioni. La materia è primordiale. La sensazione, il pensiero, la coscienza sono il prodotto più elevato della materia organizzata in un determinato modo. Tali le concezioni del materialismo in generale e di Marx ed Engels in particolare. [2]

Lenin formula poi la teoria del Riflesso, secondo cui le sensazioni si configurano come immagini, copie, riflessi ideali di una realtà esterna che è materiale. Il concetto, già presente in Engels, viene esplicitato in diverse occasioni:

Le nostre sensazioni, la nostra coscienza, sono soltanto l’immagine del mondo esterno ed è ovvio che l’immagine non può esistere senza l’oggetto che essa rappresenta, mentre l’oggetto può esistere indipendentemente da chi lo immagina. [3]

Oppure:

[…] la rappresentazione sensibile non è la realtà, ma solo l’immagine di questa realtà. [4]

E ancora:

[…] fuori di noi e indipendentemente da noi esistono oggetti, cose, corpi … le nostre sensazioni sono immagini del mondo esterno.

Per tutti i materialisti […] i «fenomeni» sono «cose per noi» o copie degli «stessi oggetti in sé».

[…] è chiara la posizione fondamentale non solo del materialismo marxista, ma di ogni materialismo, «di tutto» il materialismo «precedente»: il riconoscimento di oggetti reali fuori di noi, ai quali oggetti «corrispondono» le nostre rappresentazioni. [5]

Qui, secondo Carchedi, si assiste ad una negazione della materialità della conoscenza, nel momento in cui essa è descritta come riflessione della materialità, ovvero come riflesso ideale, quindi non materiale, di un mondo esterno oggettivo.

Carchedi va oltre quanto espresso dal filosofo e politico russo: egli non si limita ad evidenziare la materialità del mondo, ma la estende anche ai pensieri, alle idee, alle sensazioni, cosicché il pieno materialismo si realizzerebbe solo riconoscendo alla conoscenza un tale status:

Se consideriamo la generazione di nuova conoscenza, l’erogazione di energia umana che è alla base del processo conoscitivo causa un cambiamento nel sistema nervoso, nelle connessioni tra i neuroni nel cervello (sinapsi). Sono questi cambiamenti che rendono possibile una nuova percezione del mondo. Questo è un cambiamento materiale. La conoscenza, anche se intangibile, è materiale. Negare materialità della conoscenza significa negare i risultati della neuroscienza. Dopo tutto, se l’elettricità e i suoi effetti sono materiali, perché mai l’attività elettrica del cervello e i suoi effetti (la conoscenza) non dovrebbero essere materiali? Ne consegue che, se il processo che genera la conoscenza è materiale (metabolismo), anche la conoscenza deve essere materiale sia perché quando è generata è una forma di erogazione di energia sia perché, quando è congelata in contenitori oggettivi e quindi materiali, diventa parte di quella materialità. [6]

La differenza è sostanziale se si pensa alla società come composta da classi in perenne lotta tra di loro. Secondo tale interpretazione infatti nella contrapposizione non prevale la conoscenza di classe che più aderisce alla realtà esterna o che meglio la riflette, bensì ogni singola classe diviene portatrice di una propria conoscenza materiale, che ha origine nel processo produttivo e che si pone in relazione con quella del diretto antagonista.

 

La natura di classe della conoscenza

Parlando dei principi fondamentali della conoscenza, Engels si domanda:

Da dove prende il pensiero questi principi? Da se stesso? No […] queste forme il pensiero non può mai crearle né dedurle da se stesso, ma precisamente solo dal mondo esterno. […] i principi non sono il punto di partenza dell'indagine, ma invece il suo risultato finale; non vengono applicati alla natura e alla storia dell'uomo, ma invece vengono astratti da esse; non già la natura e il regno dell'uomo si conformano ai principi, ma i principi, in tanto sono giusti, in quanto si accordano con la natura e con la storia. [7]

I principi della conoscenza sono dedotti dal mondo esterno e proprio per tale motivo sono ad esso conformi. Ciò è particolarmente evidente nella matematica. Occorre un certo grado di sviluppo per poter astrarre dalla natura il concetto di numero o di figura, basandosi appunto sull’osservazione e sul confronto di quantità e forme che si presentano all’esperienza. E una simile capacità di astrazione si è plasmata col trascorrere dei secoli, parallelamente al progredire della civiltà, a partire da necessità pratiche, legate al mondo del lavoro. Anche i principi della fisica sono frutto di un lungo percorso storico e di anni e anni di esperimenti e osservazioni. Basti pensare che si è dovuto attendere fino a Galileo e Newton per la formulazione dei principi della meccanica. Allo stesso modo, la termodinamica si può considerare come la scienza della rivoluzione industriale: è stata formalizzata infatti dopo l’invenzione della macchina a vapore, per tutto il XIX secolo e, in un’epoca in cui lo sviluppo delle forze produttive richiedeva la conversione di calore in lavoro, si è giunti all’equivalenza tra queste due grandezze (primo principio) e al concetto di rendimento, in perfetta coerenza con le esigenze dell’industria. La conseguenza del ragionamento è semplice: visto che la conoscenza, così come i suoi principi, sono un prodotto storico e dato che la storia è una storia di lotta di classe, allora è evidente che anche la conoscenza è dotata di una natura di classe.

Molte antiche civiltà, agli albori della storia, in società senza classi, non avevano numeri più grandi di due. […] Presumibilmente i sistemi numerici furono determinati dall’emergere dello scambio e del commercio. Questa è una indicazione che 2+2=4 ha avuto un’originaria natura sociale. [8]

Non solo. Dal momento che gli individui vivono e agiscono in un contesto sociale, essi generano e incorporano conoscenza che, seppur nella sua individualità, è un prodotto sociale, frutto di un contesto storico e della realtà circostante che viene interiorizzata dal singolo.

La conoscenza individuale è la specifica nozione della realtà che ha ogni individuo. Siccome ogni individuo è differente dagli altri, ogni conoscenza individuale è diversa da tutte le altre. [9]

Tante conoscenze diverse hanno in comune il denominatore del contesto sociale in cui esistono ed operano, ed esso è differente da sistema economico in sistema economico. Secondo Carchedi, in particolare, nel capitalismo, l’interiorizzazione è doppia e la conoscenza vive la contrapposizione tra due razionalità antagoniste, quella del capitale e quella del lavoro, mescolate in diversi rapporti a seconda dei casi e degli individui. Nello specifico, la prima si esplica nella produttività, nella competizione, nell’estrazione di plusvalore che si traduce in sfruttamento e disuguaglianza tra gli uomini. La seconda pone un argine a ciò, coltivando una differente e opposta scala valori che comprendono la cooperazione, l’uguaglianza e la solidarietà.

Ciascun individuo interiorizza una razionalità, o l’altra, o più spesso entrambe in un intreccio contraddittorio, ciascuno nella sua maniera specifica, e lo trasforma in una sua propria conoscenza con un contraddittorio contenuto di classe. Non vi è conoscenza individuale il cui contenuto sociale, di classe, sia neutro. La conoscenza individuale ha sempre un contenuto di classe, che gli individui se ne rendano conto o no. [10]

Come è possibile il passaggio da una conoscenza individuale, o da una moltitudine di esse, a una conoscenza collettiva, considerato che i singoli sono inevitabilmente differenti l’uno dall’altro? Non per sommatoria. La conoscenza collettiva si forma esclusivamente per mezzo di un processo di astrazione, a partire dalla specificità e dalla limitatezza della sua controparte individuale, quando è riscontrabile una matrice comune a più soggetti, che si identifica con l’appartenenza ad un gruppo. È la condivisione di interessi di classe a rendere possibile la nascita di una conoscenza collettiva. Ed ogni classe, se vi sono abbastanza elementi di aggregazione, giunge ad esprimere una propria conoscenza materiale, che finirà per relazionarsi con quella altrui.

[…] l’intelletto collettivo di un gruppo interagisce con quello di altri gruppi. Quindi, un intelletto collettivo può interiorizzare elementi di una conoscenza collettiva diversa, fino al punto in cui il contenuto di classe della conoscenza collettiva originaria subisce un cambiamento radicale. A quel punto, quella conoscenza collettiva diventa l’espressione degli interessi di un altro gruppo. [11]

Il condizionamento che avviene tra le conoscenze di classe porta il lavoratore, nel suo limite estremo, ad accettare la razionalità del capitale, a sposarne la causa e ad agire per la perpetuazione di esso.

Dunque anche nell’ambito della conoscenza la classe dominante cerca di conservare la propria posizione di vantaggio. E fa ciò senza tuttavia negare la razionalità del lavoro esistente, consentendole di esprimersi solo entro dei limiti che sono favorevoli al capitalismo. Non a caso la continua automazione del lavoro, anche laddove migliora le condizioni del lavoratore, è diretta verso un aumento della produttività, o dei ritmi di lavoro, o del controllo dell’azienda sul lavoratore stesso.

L’oggettivarsi della conoscenza nelle conquiste della tecnica conserva la doppia natura del conflitto tra capitale e lavoro, in un rapporto più o meno a favore del primo. Evidenziando tale questione, Carchedi apre infine uno spiraglio di riflessione teorica sull’azione politica da intraprendere.

Un importante corollario di quanto sopra è che il sapere si materializza in tecniche che sono incorporate in mezzi di produzione. Questo sapere, queste tecniche e queste macchine costituiscono le forze produttive […] Ne consegue che le forze produttive non sono neutrali. Esse hanno un contenuto di classe. Questa tesi è fondamentale per una teoria della transizione del capitalismo al socialismo o al comunismo. [12]


Note
[1] G. Carchedi, “Sulle orme di Marx”, lavoro mentale e classe operaia, pag. 8.
[2] V. Lenin, Materialismo ed Empiriocriticismo, capitolo I, paragrafo 2: «La scoperta degli elementi del mondo».
[3] V. Lenin, Materialismo ed Empiriocriticismo, capitolo I, paragrafo 3: La coordinazione fondamentale e il «realismo ingenuo».
[4] V. Lenin, Materialismo ed Empiriocriticismo, capitolo II, paragrafo 2: Del «transcensus», ovvero Bazarov «rielabora» Engels.
[5] Le ultime tre citazioni sono tutte disponibili in V. Lenin, Materialismo ed Empiriocriticismo, capitolo II, paragrafo 1: La «cosa in sé», ovvero Cernov confuta Engels.
[6] G. Carchedi, “Sulle orme di Marx”, lavoro mentale e classe operaia, pagg. 9-10.
[7] F. Engels, Anti-Dühring, Prima sezione: Filosofia, capitolo III, Suddivisione. Apriorismo.
[8] G. Carchedi, “Sulle orme di Marx”, lavoro mentale e classe operaia, pagg. 14-15.
[9] G. Carchedi, “Sulle orme di Marx”, lavoro mentale e classe operaia, pag. 12.
[10] G. Carchedi, “Sulle orme di Marx”, lavoro mentale e classe operaia, pag. 13.
[11] G. Carchedi, “Sulle orme di Marx”, lavoro mentale e classe operaia, pag. 15.
[12] G. Carchedi, “Sulle orme di Marx”, lavoro mentale e classe operaia, pagg. 15-16.

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Eros Barone
Monday, 30 April 2018 23:40
"Carchedi va oltre quanto espresso dal filosofo e politico russo [Lenin]: egli non si limita ad evidenziare la materialità del mondo, ma la estende anche ai pensieri, alle idee, alle sensazioni, cosicché il pieno materialismo si realizzerebbe solo riconoscendo alla conoscenza un tale status." Così scrive l'autore dell'articolo, il quale non si rende conto che l'equivoco non dissipato resta quello di una riduzione (o di 'trasformazione', per usare il termine alquanto vago adoperato da Carchedi) intesa come identificazione. Se infatti è un progetto affascinante quello di provare che vi sono analogie formali tra la struttura materiale del mondo e quella dei pensieri, delle sensazioni e delle idee, è un errore capitale, a mio avviso, quello di scambiare il problema della riduzione di una forma ad un'altra con quello della riduzione, per esempio, delle funzioni del pensiero alle strutture del cervello. Il sofisma di tale argomentazione consiste nel trarre dalla premessa (vera) della possibilità di scoprire analogie tra strutture e forme diverse (per esempio, tra certe strutture del cervello e certe funzioni della mente) la conclusione che lo stato mentale A e lo stato cerebrale B sono un solo e medesimo stato. In realtà, incorrere in siffatta fallacia significa ignorare che la materia dei materialisti dialettici è capace di strutturarsi in modi diversi e tali che le leggi che ne regolano i processi di formazione e le manifestazioni non sono riducibili le une alle altre. Orbene, se due concetti fossero sinonimi (nel senso di cointensivi) significherebbero lo stesso oggetto di discorso nello stesso senso. Quindi, se il cervello fosse sinonimo di pensiero sarebbe lo stesso asserire che il cervello è pensante o che il pensiero è cerebrante. Se invece due concetti fossero sinonimi (nel senso di coestensivi) significherebbero lo stesso oggetto in sensi diversi. Se certe proprietà della materia e certi attributi della vita fossero sinonimi (in quanto coestensivi), l'unità di quelle proprietà e di quegli attributi caratterizzerebbe gli individui che chiamiamo viventi. Non sono necessarie molte parole per far rilevare che se termini ed espressioni della psicologia (o della biologia) sono interpretati come sinonimi (nelle due accezioni del concetto di sinonimia) di termini ed espressioni della fisica, altrettanto legittima è la fisicizzazione della biologia e della psicologia, quanto la biologizzazione o la psicologizzazione della fisica. Allo stesso risultato si arriverebbe estendendo il ragionamento alla gnoseologia, laddove avremmo, in tale àmbito, una teoria della conoscenza che si fonda, esattamente come nelle dottrine del pampsichismo rinascimentale di stampo bruniano o campanelliano, sull'incontro (per similitudine o sinonimia) tra i 'senzienti sentiti' ed i 'sentiti senzienti'. Così, l'errore nei princìpi conduce all'errore nelle conclusioni e, annullata la distinzione tra 'id quod cognoscitur' e 'id quo cognoscitur', è possibile sostenere la teoria antimarxista e pseudo-materialistica della estrazione del plusvalore dai cosiddetti lavoratori mentali, nel mentre i fantasmi del machismo, dell'empiriocriticismo e dei suoi seguaci russi, come Bogdanov e Bazarov, fanno capolino da ogni piega di questa teoria tentando di prendersi la loro rivincita sulla inesorabile critica leninista.
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Eros Barone
Saturday, 28 April 2018 14:32
Se non si distingue preliminarmente tra monismo ontologico e dualismo gnoseologico e non si tengono presenti tutte le possibili combinazioni 'forti' e 'deboli' che intercedono fra i quattro termini, diviene impossibile parlare di una qualsiasi teoria della conoscenza (e 'a fortiori' di una teoria marxista della conoscenza). Ora, è certo che il marxismo, come ben sapeva Lenin sulla scia di Plechanov, di Engels e di Spinoza, è una concezione monistica di carattere materialistico, ma questo non significa che sia tale anche sul piano gnoseologico. Spinoza, ad esempio, il quale aveva ben chiara la relazione necessaria tra soggetto e oggetto, così essenziale da essere la condizione della loro stessa pensabilità, li ha perciò rappresentati come un'identità del conoscente e dell'esteso nell'unica sostanza esistente. Sopprimere la distinzione significa annullare tale relazione e assumere un punto di vista che sfocia necessariamente o nel pampsichismo o nel meccanicismo. Così, sul piano strettamernte gnoseologico, essere soggetto non significa altro che conoscere, come essere oggetto nient'altro che essere conosciuto. Affermare, come fa Carchedi, che oggi, per via del progresso tecnologico e del suo uso capitalistico, non sussiste più alcuna differenza tra lavoro manuale e lavoro intellettuale significa, allora, per un verso scoprire l'acqua calda (non esiste alcun lavoro manuale che non implichi una componente intellettuale e viceversa) e, per un altro verso, dare spazio, oggettivamente, a quegli autori che discettano di fine del lavoro (manuale) e di rifiuto del lavoro (manuale). La disgiunzione può essere formulata anche in questi termini: se i corifei della "new economy" ci esortano a dimenticare lo slogan “nessun pasto è gratis”, le concezioni sopraccitate si propongono di fare 'tabula rasa' dello slogan novecentesco che, in un certo senso, ne rappresenta la variante di sinistra: “chi non lavora non mangia”. Fermo restando che non è lecito contrapporre i "Grundrisse" al "Capitale", parimenti non è corretto assimilare i 'knowledge worker' agli operai di fabbrica, i quali, lungi dal configurarsi come una specie in via di estinzione, sono una corposa realtà sociale, civile e umana sia in Italia sia, ancor più, nella produzione e nel mercato mondiale. Il vero problema è, semmai, quello di identificare e distinguere la coppia (materiale e concettuale) 'lavoro produttivo-lavoro improduttivo'. Ma qui si apre un altro (e più proficuo) fronte di ricerca e discussione. Per quanto riguarda, infine, la contrapposizione tra 'scienza borghese' e 'scienza proletaria', stupisce, molto semplicemente, che, di tanto in tanto, siffatte dicotomie possano essere riproposte. Un buon antidoto è andarsi a leggere, oltre agli scritti del Grande Vecchio, quelli filosofici di Lenin e - perché no? - i testi di Althusser.
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