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Sovranità costituzionale: in fondo a sinistra

di Giovanna Cracco

IMG 0257 680x419La proposta politica di queste elezio­ni europee registrerà un vuoto a sini­stra. Probabilmente inevitabile, in questa fase. Da un lato la sopravvi­venza, nonostante il crollo di consen­si, di un partito come il Pd, che pur avendo più nulla del pensiero di sini­stra si posiziona ancora su quel lato dell'arco parlamentare, crea l'illusio­ne che la sinistra sia ancora politica­mente rappresentata e cattura i voti di un elettorato che nella gran parte non è nemmeno più socialdemocra­tico ma si sente ancora ideologica­mente lì posizionato (se il Pd si de­cidesse a dichiararsi un partito li­berale di centro farebbe un'opera­zione di verità, cosa che ovviamen­te non ha la convenienza elettorale a fare.) Dall'altro la difficoltà vissu­ta dal pensiero di sinistra nel com­prendere il presente, le sue dina­miche economiche e sociali, e ag­giornarsi di conseguenza, l'ha por­tato a essere assente per lungo tempo sul piano culturale, il primo da sviluppare per poter poi formu­lare una proposta politica, con il ri­sultato che i partiti - al plurale, vi­ste le numerose divisioni - di sini­stra hanno perso terreno anno do­po anno fin quasi a scomparire. In­tendiamoci: non si sta affermando che le categorie storiche del pen­siero di sinistra siano superate: la principale, il conflitto Capitale/lavo-ro, è oggi più viva che mai, così co­me i meccanismi con cui il capitali­smo riesce a superare ogni sua crisi; ma la realtà dei Paesi a capitalismo avanzato, ancor più in un sistema glo­balizzato come quello attuale, è dive­nuta più complessa di quella del No­vecento. Il lavoro è stato reso 'flessi­bile' e precario ed è dunque diventa­to una lotta individuale, molto è di­venuto cognitivo mentre il lavoratore è stato trasformato in 'capitale uma­no' e l'idea di 'classe' è scomparsa; la finanziarizzazione, la libera circolazio­ne dei capitali e la catena del valore divenuta internazionale hanno reso meno individuabile e raggiungibile, anche nelle lotte, la proprietà contro cui aprire il conflitto, mentre il dum­ping sociale ha innescato quello tra lavoratori; il capitalismo digitale ha messo a valore la vita e non più solo il lavoro.

Il pensiero critico di sinistra non è riuscito a evolvere alla stessa velocità con cui la realtà mutava, ha tenuto fermi parole e schemi, teorici e pratici, del secolo scorso e ha per­so la capacità di parlare alle nuove generazioni che quella realtà viveva­no, il cui immaginario è stato dun­que colonizzato dal pensiero domi­nante neoliberista; quando lentamen­te è riuscito a tornare a leggere la società, si è ritrovato a dover costrui­re su macerie.

Le ragioni per cui, all'interno di questa Unione europea, sia impossi­bile per un Paese attuare politiche e­conomiche anche solo socialdemo­cratiche, sono state analizzate più vol­te su queste pagine, entrando nel merito dei Trattati che la costituiscono, nel loro percorso storico di co­struzione e nella loro impostazione neoliberista e ordoliberista; allo stes­so modo sono state analizzate le ra­gioni per cui quei Trattati non sono modificabili, e dunque la Ue stessa non sia riformabile - in estrema sin­tesi, non ci stancheremo mai di ripe­terlo, molto banalmente solo un vo­to all'unanimità tra 27/28 Paesi - 19 per l'eurozona - può cambiare il con­tenuto dei Trattati, un'ipotesi irreali­stica (1). Un partito di sinistra dun­que, che miri a realizzare un program­ma politico minimamente keynesia- no, che ponga al primo posto la lotta alla diseguaglianza crescente, alla di­soccupazione, all'erosione dei diritti sociali e della democrazia, allo svili­mento del lavoro e allo stallo econo­mico, non può che mettere al primo punto la questione dell'uscita dell'I­talia dall'Unione europea. E anche su questo la sinistra è entrata in crisi.

Il grosso scoglio da affrontare è stato il concetto storico di interna­zionalismo. Negli ultimi tre decenni - a eccezione del breve periodo del movimento no global, a cui è stata tagliata la testa al G8 di Genova del 2001 con straordinaria efficacia mili­tare - la sinistra ha progressivamente confuso l'idea di internazionalismo con quella di cosmopolitismo, fino a non vederne più le differenze e a far confluire la prima nella seconda (2), ritrovandosi così a promuovere un concetto perfettamente integrato e culturalmente funzionale alla costru­zione di una globalizzazione capitali­sta di impianto neoliberista, e a so­stenere un'Unione europea che a quella costruzione fornisce un con­tributo attivo con la sua visione poli­tica e le sue regole. L'appropriarsi poi del concetto di nazione da parte del­la destra, che lo ha declinato in na­zionalismo, ha fatto sì che a sinistra l'idea di sovranità nazionale, da ri­conquistare in quanto unico spazio all'interno del quale possa esprimer­si un conflitto sociale che porti a un riequilibrio dei rapporti di forza tra Capitale e lavoro, fosse messo al ban­do (3).

Ma dopo anni di paralisi, qualco­sa ha finalmente iniziato a muoversi.

Il 9 marzo scorso a Roma è stato pre­sentato il "Manifesto per la sovranità costituzionale", sottoscritto da Rina­scita, Patria e Costituzione e Senso comune. Una realtà appena nata che ha l'ambizione a trasformarsi in partito, consapevole, nelle parole conclu­sive pronunciate a Roma, che la stra­da per farlo è tutta ancora da per­correre e per nulla semplice. In e­strema sintesi si tratta di una pro­posta socialdemocratica, nel rico­noscimento che in passato una si­mile posizione si sarebbe definita riformista ma allo stato attuale del­le cose ha valenza rivoluzionaria, e di fatto è così. Rimandiamo a una lettura integrale del Manifesto nei suoi vari punti (4), un aspetto tut­tavia è da sottolineare: sorprende la puntualizzazione, fatta più volte, di voler tenere insieme un rinnova­to socialismo con il "cristianesimo sociale", "l'umanesimo laico della tradizione socialista e l'umanesimo cristiano", la citazione di papa Fran­cesco e della sua enciclica Laudato sii. L'aver posto come snodo cen­trale la costruzione di una società nella quale i principi della Costitu­zione italiana siano attuati non so­lo sul piano formale ma anche so­stanziale - uguaglianza, equità, soli­darietà e giustizia sociale, piena oc­cupazione, limitazione e governo del mercato e funzione sociale della pro­prietà privata - e affermare che sto­ricamente nella stesura della Costitu­zione si siano tenute insieme la cul­tura socialista con quella cristiana - ma anche quella liberale, allora, da qui la prima parte dell'art. 41: "L'ini­ziativa economica privata è libera" - non dovrebbe significare tuttavia sen­tire la necessità, oggi, in un program­ma politico, di includere un riferi­mento religioso. Ma tant'è. Una pre­messa che non entusiasma, ma ve­dremo come si declina.

Al di là di questo, qui interessa porre una riflessione a margine: oc­corre avere ben chiara la strada da percorrere, e dichiararlo.

Nel Manifesto è evidenziato co­me l'Unione europea ponga un limi­te invalicabile per l'attuazione di un simile programma politico, ed è scrit­to che il quadro europeo in cui muo­versi non è l'attuale Ue ma "una con­federazione di democrazie nazionali sovrane che affrontino assieme (ma non in antagonismo con il resto del mondo) le sfide della pace, della sal­vaguardia ambientale e della giusti­zia sociale"; non è tuttavia dichiarata esplicitamente l'intenzione di uscire dalla Ue né dall'eurozona. Negli in­terventi sul palco a Roma (5) qualche relatore l'ha affermato senza mezzi termini, ma l'impressione è che sia ancora l'elefante dentro la cristalleria che la maggior parte evita di guarda­re. E per le ragioni sopra evidenziate, questo è il primo punto da chiarire o l'intero programma resta chiacchie­re.

Una volta sciolto questo nodo, ce n'è un altro altrettanto importante: come uscire?

Allo stato attuale non è presente nei Trattati una norma che preveda l'abbandono dell'eurozona - esiste solo l'art. 50 che contempla l'uscita dall'Unione europea, e la Brexit ren­de evidente quanto sia difficoltoso attuarla anche senza la complicazio­ne ulteriore della moneta unica. Ciò significa che si calpesterebbe non solo un terreno finora inesplorato, ma dove non esistono regole di sorta su cui fare affidamento. Un salto nel vuoto che spaventa la maggior parte dei cittadini, anche coloro che si ren­dono conto che restando all'interno dell'Unione nulla cambierà mai; per questo l'istinto conservatore ha il so­pravvento. Diventa dunque fonda­mentale, se si vuole diventare parti­to e candidarsi a cercare consenso elettorale per poter realizzare il pro­gramma scritto nel Manifesto, met­tere nero su bianco questo percorso; se non lo si fa, comprensibilmente non arriveranno nemmeno i voti che si potrebbero raccogliere, perché tutto assume il sapore dell'irrealizza­bile.

Thomas Guénolé, politologo, mem­bro di La France insoumise e co-di­rettore della Scuola di formazione politica del partito, pubblica un arti­colo su Le Monde diplomatique di marzo, che può offrire uno spunto di partenza per l'elaborazione di una strategia. È un intervento interessan­te perché estremamente ancorato alla realtà e delinea un percorso preciso da mettere in atto nei confronti dell'Unione europea. Non parte dal­l'obiettivo di volerne uscire, ma trac­ciando un processo a tappe non e­sclude di arrivarci.

Primo: disobbedire. In due modi: utilizzando la clausola dell'opting-out (6) per gli accordi non ancora sotto­scritti, e non rispettando le regole di quelli già firmati (il Fiscal compact, per esempio). Una volta salita al go­verno, scrive Guénolé, anche all'in­terno di una coalizione più ampia ma concorde sugli obiettivi, La France in­soumise inizierà a disobbedire a tut­te le regole Ue che impediscano l'at­tuazione del programma politico pre­sentato alle elezioni.

Secondo: iniziare a elaborare un nuovo Trattato europeo e proporlo ai governi degli altri Stati membri. Nulla impedisce infatti che un'orga­nizzazione europea parallela nasca tra i Paesi che decidano di farlo, in una negoziazione che inevitabilmen­te lascerà sul tavolo qualcosa, e sa­ranno poi i cittadini, tramite referen­dum, a decidere se l'accordo raggiun­to debba o meno essere sottoscritto. In sintesi, per questo nuovo Trattato La France insoumise propone l'aboli­zione dei vincoli di Maastricht ai bi­lanci statali, la fine delle politiche di privatizzazione dei servizi pubblici e la possibilità di ri-nazionalizzare dove già si è fatto entrare il privato, una moratoria su debiti pubblici al fine di valutare la quota del 'debito odioso'(7), la modifica dello statuto della Bce che deve tornare a dialogare con la politica e porre al primo punto del proprio mandato la piena occupa­zione e l'acquisto dei titoli di Stato dei Paesi dell'eurozona, l'introdu­zione della Tobin Tax (la tassazione sulle transazioni finanziarie) e la se­parazione tra banche d'affari e ban­che commerciali.

Terzo: nel frattempo, la disob­bedienza messa in atto produrrà tre scenari possibili. Il primo: la resa dei Paesi ordoliberisti e l'adozione di un Trattato di rifondazione del­l'Unione europea da parte di tutti i suoi Stati membri; Guénolé evi­denzia subito come questa possibi­lità sia altamente improbabile. Se­condo scenario: sottoscrizione tra i governi dei Paesi che intendono e­laborare un nuovo Trattato di un accordo che metta immediatamen­te in atto un opting-out e una di­sobbedienza alle regole collettiva; Guénolé ritiene l'avverarsi di que­sta possibilità molto probabile. Ter­zo scenario: interruzione dei nego­ziati da parte della Commissione eu­ropea e conseguente uscita unilate­rale dalla Ue della Francia e dei Paesi che stanno elaborando un nuovo Trattato, successiva sottoscrizione del nuovo Trattato e nascita di un'altra Unione europea. Guénolé considera questa terza opzione altamente im­probabile perché una rottura drasti­ca, che porterebbe a un tuffo nel vuo­to, non conviene a nessuno, nemme­no alla Germania, ed è dunque ra­gionevole pensare che davanti alla possibilità di negoziato offerta dal se­condo scenario, le trattative con i Paesi paladini dell'ordoliberismo pos­sano trovare un punto di accordo in un compromesso che porti a una ri­scrittura delle regole. Ma, sottolinea Guénolé, è indispensabile che La France insoumise abbia un Piano B nel caso il terzo scenario si verifichi. Perché "in qualsiasi negoziato, per ottenere un accordo soddisfacente bi­sogna avere una 'soluzione alternati­va', vale a dire una via d'uscita unila­terale di fronte all'interruzione delle trattative; e, soprattutto, essere real­mente preparati ad attuarla se il ca­so lo richiedesse. Non prevedere un tale scenario significa indicare fin dall'inizio agli interlocutori che sarà sufficiente far saltare i negoziati per la capitolazione dell'altra parte". La France insoumise dunque, intrapren­de questa strada pronta a uscire dal­l'euro, sul piano ideologico e soprat­tutto pratico.

La Francia non è l'Italia. Ha più forza contrattuale da spendere all'in­terno dell'Unione, soprattutto nel rapporto con la Germania, quindi le pressioni che può esercitare sono in­dubbiamente maggiori. Questo non esclude tuttavia che il Capitale co­smopolita non possa mettere in atto un attacco finanziario anche sui titoli pubblici francesi, facendo impennare il famigerato spread e innescando le conseguenze note, come ha più vol­te agito su quelli italiani - e prima ancora sui cosiddetti PIIGS - per pie­gare le politiche governative ai det­tami neoliberisti, qualora se ne vo­lessero allontanare. Il movimento dei gilet gialli, oltretutto, rende la realtà sociale francese tutt'altro che doma, quindi la situazione è delicata. Per quanto diversa dunque, non si può dire che oggi la Francia si trovi in una fase tale per cui, il percorso che trac­cia Guénolé per La France insoumise possa essere ragionevolmente ipo­tizzato oltralpe ma non in Italia. Que­sto significa che la strada che propo­ne Guénolé può essere un buon pun­to di partenza per riflettere e dise­gnare un percorso simile. Il Manife­sto per la sovranità costituzionale of­fre un'analisi teorica per comprende­re dove siamo e dove andare, ma un partito ha anche l'obbligo di traccia­re la via pratica. La sinistra italiana, finalmente tornata a leggere il pre­sente, deve liberare il cittadino dalla sensazione di impotenza di trovarsi in un vicolo cieco, e può farlo solo se offre un modo concreto per cam­biarlo, il presente. Occorre dichiarare senza mezzi termini i passi che si vo­gliono fare nei confronti dell'Unione europea, scrivere questo benedetto Piano B, e presentare tutto con chia­rezza. A quel punto anche la demo­crazia riacquisterà un senso, perché si potrà tornare a scegliere tra alter­native politiche reali e non fittizie co­me ora, tra due diverse proposte di società e futuro. Tra darwinismo so­ciale e diritti sociali; tra sfruttamento e dignità del lavoro; tra diseguaglian­za ed equità; tra competizione indivi­duale e solidarietà; tra destra e sini­stra.


Note
1) Cfr. Articoli sull’Unione europea, a firma di Giovanna Cracco, a far data da dicembre 2010, qui http://www.rivistapaginauno.it/articoli-Europa.php
2) Cfr. Domenico Moro, La gabbia dell’euro. Perché uscirne è internazionalista e di sinistra, Imprimatur
3) Cfr. Alessandro Somma, Sovranismi. Stato, popolo e conflitto sociale, Derive e Approdi
4) Cfr. https://www.patriaecostituzione.it/wp-content/uploads/2019/02/Manifesto-per-la-
sovranit%C3%A0-costituzionale-4.pdf
5) Cfr. http://patriaecostituzione.it/gli-interventi-del-9-marzo-2019/
6) L’opting-out è la possibilità concessa a uno Stato membro di non aderire o aderire successivamente a talune disposizioni di un accordo
7) Per ‘debito odioso’ si intende un debito non vincolante in quanto illegittimamente contratto da un governo nel nome di uno Stato e destinato a soddisfare interessi diversi da quelli pubblici e collettivi, nella piena consapevolezza dei creditori e nell’incoscienza dei cittadini; i prestiti devono essere stati utilizzati per attività che non hanno portato benefici alla cittadinanza nel suo complesso
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