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Dizionario minimo anti-Trump, il nemico che ci voleva

di Alessio Mannino

1: dal tecno-cretinismo a Luigi Mangione

trum musk 3 635x358 1Occidente. Liberismo. Nazione. Atlantismo. Democrazia. Razzismo. Élite. Le categorie con cui abbiamo finora interpretato la realtà sono state travolte dalla valanga trumpiana. Sarebbe da riscrivere un intero vocabolario ermeneutico, dopo la conquista della Casa Bianca da parte di The Donald. I primi 100 decreti immediati – uno “tsunami”, li ha definiti il suo ex stratega Steve Bannon – danno un quadro già abbastanza chiaro dell’onda d’urto che si abbatterà non solo sugli Stati Uniti e sul mondo ma anche, più in profondità, sui nostri paradigmi.

Qui mi proverò nel tentativo di una guida minima, pubblicata in tre parti in rigoroso disordine alfabetico. Un abbozzo di critica del pregiudizio riguardante alcune verità ormai consunte. Una critica, in parte, che è anche salutare autocritica. Di seguito, la prima parte.

 

Democrazia (rappresentativa delle élites, fino a un certo punto)

Non è più vero, o non necessariamente, che il voto alle elezioni sia un passaggio residuale, poco incisivo e non dirimente, rispetto alle decisioni che piovono dall’alto, nelle cabine di regìa dove si fanno e si disfano i veri giochi. Il potere, beninteso, passa regolarmente di mano in mano entro ristrette cerchie che si spartiscono il controllo delle forze istituzionali, economiche, militari e culturali. La paretiana circolazione delle élites è sempre viva e prospera, in ossequio alla legge ferrea dell’oligarchia. Ma se il consenso delle urne esprime un vincitore netto, leader incontrastato della propria fazione che riflette su di sé un campo di egemonia largamente diffusa, allora il rito elettorale può fare la differenza.

È l’identikit di Trump, che tornato da trionfatore nello Studio Ovale con una legittimazione fortissima, è oggi nelle condizioni di parlare, come vedremo, da pari a pari perfino con l’uomo più ricco del pianeta, Elon Musk.

Capiamoci bene: la democrazia cosiddetta rappresentativa resta rappresentativa di minoranze che, per altro, diventano sempre più minoritarie, a guardare il calo costante di partecipazione ai seggi (si pensi all’Italia, dove ormai a votare va meno della metà degli aventi diritto). Insomma, a rigore, una collaudata truffa per “metterlo nel culo alla gente con il suo consenso” (Massimo Fini). Ma non se e quando l’asticella delle preferenze assume proporzioni tali da fornire un mandato sufficientemente preoccupante per gli equilibri in seno agli apparati (burocrazia, esercito, magistratura, servizi di sicurezza).

E difatti la sfida immane che Trump dovrà ora affrontare sarà proprio quella di svellere dai gangli amministrativi tutti coloro che, nello “Stato profondo”, possono opporre resistenza al nuovo corso. Di qui il programma di licenziamenti statali, che non risponde tanto a una logica di “efficientamento” (come ha fatto Musk quando ha comprato Twitter, tagliando l’80% del personale), bensì più che altro a una necessità di spoil system politico e imposizione ideologica. Tradotto: cacciare i funzionari non allineati e alleggerire drasticamente l’organico della pubblica amministrazione per spianare il terreno per fare largo al settore privato. O meglio: ai lupi famelici dell’Oligarchia che attornia il neo-presidente. Un assalto alla diligenza pubblica che non è solo economico, è anche culturale. “Lo Stato non serve, siamo noi a far funzionare le cose”: questo è il messaggio. Più che liberismo, affarismo su vasta scala.

A ogni modo, la lezione da trarre per chi, vivaddio, trumpiano non è, ricorda il buon vecchio machiavellico Lenin: anche il ludo cartaceo può costituire un’arma. Non decisiva, magari, questo no. Ma utile, certamente sì.

 

Liberismo (o della miseria dell’anti-liberismo parolaio)

Fino ad oggi se avessimo dovuto spiegare cosa si debba intendere con l’aggettivo “liberale” (o liberista, nell’uso italiano) avremmo risposto, seguendo l’insuperato Karl Polanyi, all’incirca così: non solo protezione della libertà e dei diritti dell’individuo dai tentacoli dello Stato mediante il libero fluire di persone, merci e idee, ma innanzitutto il piegare lo Stato alla creazione delle migliori condizioni possibili affinché il mercato, vale a dire chi domina il mercato, estenda la sua dinamica liquefatrice a qualsiasi radicamento, barriera e legame in ossequio alla crescita illimitata e puramente quantitativa che lo sospinge e alla produzione di denaro a mezzo di denaro che lo anima. In parole povere, il liberalismo non è che l’intelaiatura filosoficamente legittimante del capitalismo, che brandisce l’ideale della libertà individuale per far girare all’infinito il vortice della produzione di valore.

Ora, questo bignamino in linea teorica rimane valido, ci mancherebbe. Ma nel new deal trumpista, e soprattutto muskista, rispetto alla semplice brama di profitto emerge un’ambizione ulteriore, di natura non strettamente economica. Da un lato, il nuovo presidente ha l’esigenza, tutta politica, di rilanciare la classica industria manifatturiera per mantenere l’impegno di ridare lavoro alla classe operaia inghiottita dalla de-industrializzazione. Ecco il motivo per cui, per dire, la Stellantis del nostro baldo John Elkann si precipita a investire su suolo americano 5 miliardi di dollari. Veri, non d’aria fritta come nelle ripetute promesse fatte al nostro Paese. Non è Trump che favorisce Elkann, è Elkann che deve ingraziarsi Trump.

Certo, direte voi: trattasi di normalissimo scambio di vantaggi. Ma se sempre Trump nel frattempo butta sul piatto 100 miliardi, destinati a diventare 500 nell’arco di quattro anni, per varare un maxi-piano di finanziamento pubblico sull’intelligenza artificiale (Stargate), e se è vero com’è vero che ampliare l’IA significa rendere superflue masse crescenti di lavoratori umani, se ne deduce che la molla politica (garantire occupazione) deve quanto meno convivere con gli appetiti economici (il business dei produttori di robot). Le due spinte sono oggettivamente in contraddizione. Per carità, una contraddizione che ha punteggiato la storia del capitalismo, che da sempre, di fatto, è un mix di iniziativa/rendita privata e statalismo/interventismo di governo. Ma qui c’è l’elemento inedito di una divaricazione potenzialmente dirompente: come farà Trump a salvare la ragion politica della sopravvivenza stessa di intere fasce di manodopera, quando l’interesse economico presserà per estendere la robotizzazione intelligente che di anno in anno accelera verso un possibile punto di non ritorno?

 

Longtermismo (o dell’infantilismo al potere)

Ancora più destabilizzante è il tratto, a ben guardare, non del tutto logico o, in certa misura, diseconomico dei sogni di gloria di Musk e della mentalità di certi oligarchi ora in gran spolvero. Non ci si riferisce tanto ai miliardi finora polverizzati nel lancio di razzi per lo sbarco su Marte con Space X, ma alle fantasie che ne popolano la mente. Come un caricaturale riccone mezzo pazzo da fumetto, Musk su Marte vorrebbe aeronavi ognuna con 100 coloni che paghino ciascuno 200 mila dollari per colonizzare il pianeta rosso e fondarvi una “civiltà autosufficiente”.

Dice: ma in realtà su Marte chissà quale cornucopia di ricchezze minerarie c’è da estrarre, altro che fumetti. Molto probabile. Tuttavia, la giustificazione “ideale” rimanda a quella corrente di pensiero, denominata longtermismo, che teorizza il sacrificio dei bisogni presenti sull’altare di un’umanità felice in un futuro a lungo, lunghissimo termine. Se si prende nota che stiamo parlando di una teoria nata nel salotto buono delle università d’élite di Stati Uniti e Gran Bretagna, teste d’uovo profumatamente pagate in qualità di consulenti di OMS, Banca Mondiale e World Economic Forum, l’odore di frescaccia sale immediatamente alle nari. Ciò nonostante, queste sono suggestioni che a quei livelli fanno presa, e come insegna Gramsci, a furia di sottovalutare il peso delle coperture ideologiche, si finisce per non capire le realtà che coprono. Specialmente se, come parrebbe per Musk, con l’aggravante della cieca buona fede.

Ora, nella messianica visione ultra-terrestre abita un’eccedenza di irrazionalità palese legata proprio al fattore tempo. Nel calcolo economico, infatti, è una componente essenziale. Se io scaravento miliardi e miliardi nella voragine dei costi letteralmente stellari che un investimento del genere, a scadenza indefinita, comporta, non sto facendo l’imprenditore: sto facendo il profeta. Stando a quel che sostiene chi dice di conoscerlo bene, Musk non pensa in termini di decenni, ma di secoli. Ciò non ha nulla a che vedere con l’economia. Per lo meno non se vogliamo continuare a darle un senso umano, di misurabile rapporto tra volontà e risultati. Qui siamo oltre Bill Gates e le sue amorevoli (e pelose) campagne di vaccinazione per l’Africa. Siamo a oltre George Soros, che fra una speculazione e l’altra foraggia democraticissimi colpi di Stato (Euromaidan a Kiev, 2014). Siamo oltre pure Jeff Bezos, che desertifica il commercio fisico ai quattro angoli del globo con la capillarità e ipervelocità della sua Amazon.

Musk, che con la sua Neuralink patrocina impianti sperimentali di microchip nel cervello, insegue fantasmi di onnipotenza: superare la limitatezza della superficie terrestre, sfidare l’umana imperfezione, mettere in mora la variabile Tempo. Se l’andazzo si confermerà questo, il prossimo movimento rivoluzionario dovremo intestarlo a un proposito squisitamente reazionario: restare umani, meravigliosamente troppo umani. Così da conservare nella psiche collettiva la facoltà di evolvere a una condizione mentalmente adulta, il cui connotato, com’è noto, corrisponde a riconoscere i propri limiti. Va bene che l’intera vicenda moderna e postmoderna, di cui il post-umanesimo è un’evoluzione, è consistita nello svincolarsi inarrestabile dall’idea stessa del Limite. Ma a maggior ragione, allora, si dovrebbe reagire con orrore, e in ostinata direzione contraria, anti-moderna, al delirante misconoscimento di ogni senso dell’umano.

 

Tecnica (che prevale sull’Economia)

E anche di ogni senso del ridicolo. Perché quanto a deliri, non c’è solo il Musk habitué della ketamina (“il mio consumo è nell’interesse degli investitori”). Si prenda un Marc Andreessen, inventore del primo browser, oggi a capo del fondo speculativo A16z. È l’autore del “Techno-Optimist Manifesto”: un farneticamento in piena regola. Rullo di tamburi: “che la spirale ascendente del tecno-capitalismo proceda per sempre”. Fanfare spiegate: “non esistono problemi materiali che non possano essere risolti con più tecnologia”. Un sacerdote della fede, molto americana, nel progresso artificiale che però almeno ha il pregio dell’onestà e della chiarezza, essendo la sua una piccola summa del pensiero, pardon, del pensierino tecno-cretinista da Silicon Valley.

E che dire di Peter Thiel, capo dell’azienda di analisi dati Palantir? L’ex socio di Musk ai tempi di PayPal (la chiamano PayPal Mafia, infatti) si è comprato un intero pezzo di Nuova Zelanda per trincerarcisi dentro in caso di cataclismi, ma per lo meno ha il buon gusto di ammettere, senza girarci intorno, che il libero mercato non esiste perché esistono, ed è giusto che esistano e che si espandano, i grandi oligopoli. Inoltre tiene pure a far sapere, per gradire, che la “libertà e democrazia non sono compatibili”. Perla rivelatoria, direi. Se vogliamo, son tutti personaggi sintomatici di uno schieramento che si preannuncia molto lontano dall’immagine abituale, anche recente, dell’imprenditore liberista che manovra il politico-pupazzo, o osteggia il burattino a libro paga del concorrente. L’avanguardia trumpiana non si accontenta di fare affari.

Musk fa l’influencer guastatore per conto del governo, aizzando direttamente i suoi 202 milioni di follower su X, il social di sua proprietà, con pesanti ingerenze negli affari interni degli Stati in cui ci sia qualcuno della destra amica da sostenere (da noi la Meloni, in Germania Alice Weidel dell’Afd, in Inghilterra invece se l’è presa con il premier laburista Starmer). Thiel, molto più silenzioso, ben lungi dallo stile piacione dei suoi colleghi liberal , quando apre bocca spara bombe come quelle sopra ricordate. Andreesen fa il venture capitalist e contemporaneamente se la dà da intellettuale, con esiti modesti ma significativi. Il succo è che a questi signori non interessa solo succhiare denaro e ingrassarsi. Puntano a qualcosa di più: riplasmare i comuni punti di riferimento e il sistema stesso, portando alle estreme conseguenze il processo di assoggettamento dell’Economia alla Tecnica, in base a quell’adagio (che un po’ sa di legge di Murphy) secondo cui “quello che l’uomo può fare, prima o poi, lo farà”. E non obbedendo più, attenzione, alla razionalità tipicamente economica in virtù della quale ciò che conviene fare è quel che dà un guadagno calcolabile, punto e stop.

Con i futuristi in acido a stelle e strisce, al potere va la (peggiore) fantasia. Una miscela di Orwell (“1984”) e Huxley (“Brave New World”). Ma è proprio grazie alle fantasie imbambolanti, ideali per quel bambinone mal cresciuto che è l’americano medio, che difficilmente si materializzerà mai un Luigi Mangione che prende di mira e accoppa uno di questi santoni del paradiso (fiscale) in Terra.

 

2: capitalismo woke e addio Occidente (era ora!)

Nazione (come azienda al quadrato)

Paradosso vuole che sia l’imprevedibile Trump, uomo fondamentalmente privo di princìpi, a rappresentare il ragazzo più ragionevole della compagnia installatasi al vertice Usa. Oltre tutto intenzionato a far valere il suo ruolo di decisore effettivo. Lo si evince, ad esempio, dall’assegnazione del programma Stargate (vedi voce “Liberismo”), andata a una joint venture comprendente OpenAI, la produttrice di Chat GPTcon la quale Musk è agli stracci in tribunale.

Quest’ultimo è a suo modo un caso esemplare. Musk, dopo aver rotto con Sam Altman su chi dovesse comandare in azienda proprio nello stesso anno, il 2017, in cui apponeva la firma ai farisaici Asilomar Principles (“l’intelligenza artificiale messa al servizio di ideali etici condivisi e a beneficio di tutta l’umanità”: sì, come no) fa partire una causa, dopodiché la allarga sostenendo che OpenAI schiaccia la concorrenza in combutta con Microsoft, e nel 2023 torna alla carica firmando un appello, assieme al cofondatore di Apple Steve Wozniak, per chiedere una moratoria sullo sviluppo del prodotto più famoso del concorrente, ChatGPT.

Andiamoci piano dunque nel descrivere la sfilata dei multimiliardari ai piedi di Trump come un blocco omogeneo. Non solo perché quelli da sempre vicini alla sinistra, Mark Zuckerberg (Meta), Jeff Bezos (Amazon) e Sundar Pichai (Google), si sono trasformati in neo-cortigiani per mera necessità. Ma anche perché è fra gli stessi trumpiani “ante marcia” che non mancano rivalità, gelosie e, come si è visto, perfino scontri aperti.

In un simile contesto, Trump avrà buon gioco a impersonare l’arbitro con diritto di ultima parola. Privilegiando ora questo ora quel potentato, impiegando l’antica tattica del divide et impera. Anche, e soprattutto con un Musk a tutt’oggi detentore unico di una rete di satelliti, Starlink, capace di soddisfare le esigenze di interi Stati come dell’ultimo omino sperduto su un cocuzzolo di montagna. Una rendita di posizione che ne fa una grande potenza vivente. Ma che deve comunque fare i conti con gli altri colossi di diverso ordine e grado, come i sovrumani fondi finanziari, BlackRock, Vanguard, State Street, a loro volta i soli a poter manovrare sullo scacchiere mondiale capitali come nessun altro sulla faccia della Terra.

C’è chi pensa, e chi scrive non solo lo pensa ma lo auspica, che fra i caratteri autoritari di Musk e Trump l’idillio, se idillio è, può rompersi. Si obietterà che, per uomini di business quali entrambi sono, un accordo si può sempre trovare. Ma difatti il comun denominatore fra il trumpismo (l’impasto MAGA di nazionalismo, conservatorismo cristianoide ed edonismo piccolo borghese) e lo pseudo-libertarismo high tech non è nient’altro che l’aziendalismo come ideologia. Trump concepisce e gestisce gli United States come fossero un’azienda da arricchire: punto, fine. Beninteso, approfittandone lui per primo, seduto sulla poltrona presidenziale mentre, da privato imprenditore, macina milioni battendo la sua personale criptovaluta. Roba che neanche nel Medioevo. L’unica unità di misura che conosce, e a cui affida il primato strategico, è il denaro.

Tuttavia, l’aziendalismo non va pensato qui nell’accezione banale, berlusconiana, di sovrapporre lo Stato all’impresa, il pubblico al privato. Qua l’accento va posto sul sostantivo “ideologia”, nel senso di credo identitario che infonde una fede d’appartenenza. Mi spiego. Come avviene nelle corporations nelle quali il lavoratore, sottoposto al lavaggio del cervello, deve sentirsi parte di una “grande famiglia”, e in tal modo aderire nell’intimo agli obiettivi padronali, nel discorso trumpiano la stessa dinamica la ritroviamo, traslata, nel rapporto fra cittadino e nazione. Perché se la Patria è chiamata in causa e governata al solo scopo di garantirne il benessere materiale e finanziario, allora il paternalismo d’impresa, piacione ma ferreo, risulta un modello perfettamente funzionale.

D’accordo, sì, il neo-nazionalismo affonda le sue radici nella tradizione patriottica in mimetica e fucile. E tuttavia, archiviata l’America neocon e dem paladina della democrazia universale per sostituirvi la parola d’ordine America First, se America significa alla fin fine solo più dollari, l’identitarismo non è che aziendalismo con altri mezzi (e sotto altre sembianze). Il che fa apparire come patetiche le definizioni buttate lì di un Trump, o di un Musk, come “fascisti”. Il loro unico culto è l’autopromozione dell’ego. Il proprio, anzitutto. E del loro americano ideale, raffigurato come capace (il “merito”). Cioè rapace. Questo loro radicale egoismo di fondo, enfio di intolleranza per le ragioni altrui, o si proietta, con Trump, a livello di nazione, meno guerrafondaia ma non meno sciovinista; o diventa, con Musk e il resto della gang fatturante, un repellente patriottismo aziendale, con le convention traboccanti di entusiasmo obbligato per l’imprenditore guru che fa il pagliaccio sul palco.

 

Razzismo (sociale, non etnico)

I provvedimenti che hanno costernato di più l’opinione pubblica anti-trumpiana sono le deportations di milioni di immigrati irregolari e l’abolizione dello jus soli. Lo scarto rispetto a Joe Biden e a Barack Obama non è nei rimpatri forzati, in cui semmai si registra un cambio di passo, ma nel secondo, che difatti è stato colpito subito dall’accusa di incostituzionalità da parte di un magistrato (repubblicano). Vedremo quanto questa politica duramente anti-immigrazionista si tradurrà in fatti concreti. In questa sede la domanda è un’altra: come si concilia con le vagonate di preferenze prese da Trump fra ispanici, asiatici, neri e perfino arabi, praticamente un non bianco su tre?

Le ragioni sono tutte più o meno in negativo, cioè più contro la sconfitta Kamala Harris e tutto ciò che rappresentava, che a favore all’universo MAGA (tanto è vero che la candidata democratica ha perso, rispetto al predecessore Biden, 11 milioni di voti, mentre a Trump sono andati gli stessi del 2020). Il risentimento covato verso l’amministrazione Biden per i deludenti risultati del programma anti-inflazione, che nonostante un’economia in crescita ha visto comunque penalizzare le fasce più povere, in cui le minoranze etniche sono percentualmente più presenti. La ripulsa suscitata dalle idee gender e woke. Il senso di tradimento per l’appiattimento dei Democratici su Israele nella carneficina di Gaza. Alle brutte, l’ex immigrato naturalizzato americano ha preferito il repubblicano che promette meno tasse (anzitutto, a dire il vero, per i più ricchi e per le imprese) e gli appare più credibile per difendere la posizione acquisita dalla minaccia dei migranti fuori regola, molto comodi come bassa manodopera, e proprio per questo tenuti finora sotto il ricatto dell’illegalità.

Due considerazioni. La prima. Di sicuro la società statunitense è ancora percorsa, come e per certi versi più di altre società occidentali, dal virus tribale del razzismo biologico (basta farsi un giro e tendere le orecchie nei bar, fucine del meglio e del peggio della plebe, l’appartenenza alla quale è in ogni caso un titolo d’onore, visto che razza di “élites” ci ritroviamo). Tuttavia questo tipo, diciamo classico, di intolleranza per il colore della pelle è cavalcato da Trump, ma non è di Trump. Né ancor meno della sua corte tecno-digitale. La crociata anti-immigrati rimanda più che altro a un razzismo sociale prettamente capitalistico, che vede la società come un mercato e gli stranieri come esercito industriale di riserva. Umani di serie B, ma non per il sangue: per la solita forma mentis economicistica, contabile, tot entrate tot uscite. Cancellare il diritto alla cittadinanza per nascita dei figli di immigrati va perciò inquadrato più come – ci si passi l’espressione – un fermo pesca, motivato dall’urgenza di rispondere all’ansia sociale, condivisa in misura maggiore dai meno abbienti per l’insicurezza generata dal tema dei “confini”. Che poi questo tema sia montato ad arte ingigantendone la percezione a discapito di altri, ingiustizia e diseguaglianza, che ne sono la causa prima, ciò non lo rende meno reale, lungo il bordo col Messico.

Bisogna smetterla allora di usare le parole a capocchia: Trump e super-élite al seguito non sono razzisti o fascisti. Il loro successo è garantito, se continueremo a hitlerizzarli, a sentirci moralmente superiori appiccando loro addosso l’etichetta più facile e a costo zero. Magari non capendo che il Musk scattante nel saluto romano non è preda di nostalgia per il Duce o il Führer, ma è l’esaltato che gioca alla provocazione e comunica da meme vivente – il che, per inciso, è qualcosa di peggio, di molto più subdolo, insidioso e disarmante di un improbabile vero e proprio recupero di stilemi non più funzionali a una narrazione che di marziale deve avere il giusto, cioè quasi nulla.

 

Grande Sostituzione (della razza umana)

Seconda considerazione: se il dossier immigrazione va inserito nell’ambito dell’economico, ne consegue anche stavolta che bisognerebbe focalizzarsi sull’elemento di contraddizione, si diceva una volta, strutturale. E cioè il fatto che la foga persecutoria a danno dei “non americani” ha motivazioni politiche (il comprensibile bisogno di percepire protetto il confine, totem di importanza non solo simbolica), in oggettivo contrasto con l’altrettanto impellente bisogno occupazionale di disporre di un certo numero di neo-servi della gleba, da ghettizzare nella zona grigia della clandestinità ammessa e tollerata.

Chiamiamolo doppiopesismo dello sfruttatore: da una parte, i servi stranieri sono utili perché servono, così si mantengono compressi i costi del lavoro e si alimenta il fuoco perennemente acceso della guerra fra poveri; dall’altra, vanno trattati come immondizia, polvere da nascondere sotto il tappeto ed eventualmente gettar via, pur di soddisfare urgenze di altro ordine e grado. E anche, a pensar male, perché tutti quei posti di lavoro oggi da loro occupati, i più semplici e dequalificati, saranno i primi a venire risucchiati dalla super-intelligenza terrore prossimo venturo. La razza delle macchine che rimpiazza la razza umana espulsa dal mercato: questa, è la futura “grande sostituzione”. Lo stadio estremo non già del razzismo, ma del binomio costitutivo del Capitale: sfruttamento + alienazione.

Potremmo star qui ad elencarne, di contraddizioni più o meno visibili in questo inizio di era Trump. A cominciare da quella, eclatante, della pietra tombale sul green, che suona come uno schiaffo a Elon Musk la cui Tesla è sinonimo in Occidente di auto elettrica. O passando per quella, un po’ meno evidente, del frego sulla politica woke per la diversità di genere, cambio di rotta che va di traverso a una neo-ortodossia culturale ammannita negli anni scorsi non dalla sola “sinistra”, ma dal capitalismo woke, come ben ha illustrato Carl Rhodes nel suo libro dall’omonimo titolo (a proposito: è emblematico il fatto che lo stesso Musk abbia una figlia transgender che l’ha pubblicamente ripudiato).

 

Occidente (al tramonto, bye bye atlantismo)

Ma l’antinomia più macroscopica e, dal nostro punto di vista, più vitale e promettente è il ridimensionamento dell’atlantismo e, culturalmente parlando, del concetto di Occidente da parte degli Usa, cuore e centro nervoso del mondo occidentale. Se nell’ultimo decennio l’assetto globale, detto alla grossa, si è diviso a metà, da un lato il blocco imperiale guidato dagli Stati Uniti e dall’altro il cartello dei Brics polarizzato sulla Cina, il Trump 2 si prospetta assai differente dal Trump 1. Ancora una volta, la natura di immobiliarista che bada al sodo, unita questa volta alla forza politica enormemente superiore rispetto al mandato 2017-2, induce il tycoon alla presa d’atto che la Cina non può essere un nemico esistenziale, ma un partner commerciale obbligato.

Per un motivo semplice: Pechino è oggi la prima potenza industriale. Gli americani, indiscutibilmente primi nel digitale, nello spazio e nell’energia, se intendono ancora consumare tutto quel consumano non potranno certo far a meno dei prodotti esteri, a partire da quelli cinesi. È il bieco e sano interesse a costringere gli Usa, la cui capacità produttiva ha parecchie falle, a venire a patti lasciando i toni da guerra fredda per una più duttile diplomazia mercantile. Con il che si spiega lo spregiudicato uso che Trump vuol fare dei dazi doganali, branditi come una pistola verso chi non si mette sull’attenti. Ad esempio contro l’Unione Europea, se non dovesse imitare gli Usa nello stracciare la tassazione sulle big tech.

In breve, il rude pragmatismo porta Trump a esautorare il rapporto privilegiato che l’America ha da 80 anni con l’Europa nell’Alleanza Atlantica. Di qui l’insofferenza per le spese sul groppone del Pentagono per la Nato, eredità della cortina anti-sovietica che non ha più ragion d’essere da quando è cessata la minaccia sovietica. Alla crisi dell’anacronistico atlantismo va associata la totale indifferenza trumpiana per il pantheon di valori riassumibile nel concetto di “Occidente”. Molto semplicemente, non fa parte del suo orizzonte. Dal momento che non ci ricava nulla di utile, non rientra nel suo schema. Né in quello dei “tecno-patrioti”. A contare, per loro, è la cornice nazionale. Nella visuale americanocentrica, l’entità Occidente è una stratificazione impalpabile. Non c’è nessun Occidente: ci sono soltanto gli Stati. Il cui guinzaglio targato Nato, per l’Europa, non si allenterà ma non sarà più centrale come prima.

Gli europei riceveranno un trattamento differenziato in relazione a quanto si renderanno docili pedine delle strategie di Washington, che sembrano non avere più tabù (tranne uno, il solito: Israele, che al netto dei non idilliaci rapporti fra Trump e Netanyahu, non si tocca). In tale quadro, i periferici Paesi clientes dovranno, come l’Italia di Giorgia Meloni, confermarsi caninamente fedeli. Ma anche su questo occorre capovolgere la vulgata. È inoppugnabile che l’Europa sia la vittima designata dell’appetito di un’America aggressivamente mercantilista: ha una bilancia commerciale in attivo e pingui tesori in capitali e risparmi da drenare. Ma se Germania e Francia non si genufletteranno (occhio alle elezioni tedesche del 23 febbraio), l’assalto statunitense potrebbe provocare un sussulto di reattività, manifestando vivaddio un qualche vagito di minima indipendenza europea.

L’atteggiamento di sprezzante e intimidatorio distacco che viene dalla Casa Bianca, insomma, per il Vecchio Continente potrebbe rivelarsi una buona, non una cattiva notizia. E positivo di sicuro, comunque si voglia analizzarlo, è l’accantonamento di quella fittizia costruzione anti-europea che è stato l’Occidente, landa del tramonto. Si spera definitivo.

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Comments

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Gaetano
Monday, 03 February 2025 11:40
Ricordo Bush figlio quando varò il progetto Orion per riportare l'uomo sulla Luna. È trascorso quasi un quarto di secolo. Sulla Luna non c'è niente di utile per il momento, e infatti gli americani non ci sono tornati, come su Marte, dove non andranno, ma le tecnologie sviluppate dalla NASA per Orion sono state regalate alla Space X di Musk.
Quel che interessa è sempre la cara vecchia Terra e controllare e sfruttare il cielo terrestre mi pare l'esigenza principale, cruciale, oggi dove la guerra viene fatta da droni che sono guidati verso i loro obiettivi da grandi reti satellitari.
Ho dato un'occhiata al manifesto tecno ottimista, roba per bambini, e il lungo termismo mi pare che abbia come obiettivo il trionfo della Tecnica. Tecnica come Téchne. Già oggi l'economia è uno strumento totalmente tecnico le cui esigenze hanno totalmente sostituito le esigenze della politica, dell'etica, della religione, della morale. La gente non vota più perché si è resa conto che è un esercizio inutile. A che serve votare Tizio se poi le istanze del sistema sono altre, sono numeri e considerazioni che non passano più dalla politica, dalla democrazia e dal soddisfacimento dei bisogni umani, ma sono infine tutte concentrate sull'autopotenziamento del sistema. La Tecnica non ha limiti, non soffre di hybris, e non ha fini se non quello di diventare sempre più potente. E quindi il fine ultimo di una società dominata dalla Tecnica non può essere deciso da un elettore qualsiasi che pensa alla sua pancia. Prima o poi anche l'umanissimo capitalismo dominato dall'avidità umana cederà alla preponderanza degli algoritmi e alle esigenze della sopravvivenza dell'apparato.
Il nuovo mondo di cui Musk sembra un involontario profeta sarà dominato sempre più dalla Tecnica. Che non è semplicemente il dominio delle macchine. Ma un modo di pensare e di agire in cui l'apparato, la società nel suo complesso, e le sue esigenze si sostituiscono ad ogni altra forma di pensiero prodotto dall'umanità: democrazia, monarchia assoluta, feudalesimo, etica protestante, morale cattolica, religioni rivelate e non, filosofie, marxismo e capitalismo, interessi individuali e collettivi, classi dominanti, proletariato, élite, tutto svanirà assoggettato alle esigenze dell'apparato della società tecnica. Ogni luogo sulla Terra diventerà una copia conforme di un altro e tutti ci ritroveremo, molto preso temo, in quel Paradiso della Tecnica di cui parlava il grande Maestro, ahimè scomparso, Emanuele Severino.
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Alfred
Tuesday, 04 February 2025 15:03
La Tecnica non ha limiti, non soffre di hybris, e non ha fini se non quello di diventare sempre più potente.

La tecnca non esiste per generazione spontane ne' puo' sopravvivere se non alimentata (banale elettricita'). La tecnica non agisce, la tecnica e' agita da chi la possiede, la controlla, la programma. Leva l'alimento della tecnica (l'energia) leva i padroni e i tecnici (gli assistenti umani) della tecnica e la tecnica sparisce.
Certo prima devi accertarti di poterne fare a meno. La tecnica controlla le dighe (al momento a costruirle ci pensano gli umani con ausili tecnici), controlla i sistemi energetici degli ospedali, quelli di smaltimento, certe delicate funzioni dei voli ecc.
Con un certo luddismo ben impostato la tecnica potrebbe sparire dal pianeta, bisogna vedere se a noi tutti sta bene tornare alla meccanica e chimica essenziali del '700.
Molta tecnica e' superflua e quella dedicata alla guerra la piu superflua di tutte. Non dalla tecnica dovremmo guardarci, ma da chi la controlla e dalla privatizzazione non solo dei mezzi, ma del sapere. Ben vengano gli open source, l'abolizione della privatizzazione dei saperi, la democratizzazione della conoscenza e il taglio di tecnologie inutili e dannose. Non ho paura di un drone, ma del tipo che lo controlla o di chi ha programmato una ai perche' lo diriga in modo automatico e mortale. Certo, quando il drone vuole spararmi dovro' fronteggiare il drone, ma subito dopo chi lo gestisce. Alla fin fine sono sempre i rapporti di forza umani il problema. La tecnica viene usata per espremirli.
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Alfred
Sunday, 02 February 2025 23:36
Oltre tutto intenzionato a far valere il suo ruolo di decisore effettivo. Lo si evince, ad esempio, dall’assegnazione del programma Stargate (vedi voce “Liberismo”), andata a una joint venture comprendente OpenAI, la produttrice di Chat GPTcon la quale Musk è agli stracci in tribunale.

L'articolo e' datato?
Nessun accenno a deepseek, nessun accenno agli sproloqui di donald su groenlandia, panama, messico e mezzo mondo.
A meno che l'articolo non sia datato mi chiedo se vediamo lo stesso Trump o esistono mondi paralleli.

-Israele, che al netto dei non idilliaci rapporti fra Trump e Netanyahu, non si tocca ecc
E sticazzi. Mentre gira la retorica di un donald che costringe alla tregua si da via libera alla mattanza in Cisgiordania, si tollerano gli omicidi a Gaza e si chiede a Giordania e Egitto di portarsi via i palestinesi da gaza. Bibi deve ripulire dalle rovine, poi si vedra'. Una volta costruite le villette tutte sioniste con vista mare.
Se questi sono i non idilliaci rapporti, mi chedo come siano quelli idilliaci, una crociata di bombe atomiche sull'Iran?
poi possiamo pure intenderci sul circo narcisista patologico della nuova-vecchia elite. Ma pensare che gramscianamente i loro deliri possano incidere piu di tanto anche su una nazione in piena regressione mentale come gli Usa, chi lo sa. Nessuno in Usa che dica al ketaminamen che su marte non ci andrebbe neanche per 200 milioni? Un pianeta con habitat che la valle della morte sembra un giardino (almeno si respira ossigeno), andarci per cosa? I minerali? Sarebbe gia' un miracolo arrivarci e arrivarci vivi. Poi credo che sopravvivere non sarebbe solo un problema di tecnologia, ma di sanita' mentale. Che ci vada lui e tutti quelli che temono di fare la fine di maria antonietta, perche', sotto sotto, questa della colonia marziana a 200 mila dollari (francamente pochi, na non alla portata di tutti) mi sembra l'equivalente di uno di quei quartieri per ricchi con guardie di sicurezza in attesa dei Mangione pericolosi. Forse, inconsciamente, pensano che finalmente potrebbero circolare senza il rischio di incappare in poveri, in postulanti, in gente brutta sporca cattiva. Che brutto mondo li circonda, chissa' chi lo ha forgiato.
Spero che musk se ne porti appresso un bel po'.
In ogni caso con openseek a questa gente e' arrivato un piccolo bagno di realta'. Non so se siano tra quelli che hanno vinto o perso in borsa. Hanno abbastanza miliardi da fregarsene in entrambi i casi. Sul fatto che nessun mangione li incrocera' non sono sicuro. In borsa investono fondi pensione e pensionati che arrotondano la pensione con il brivido nella schiena che li fa sentire bill gates. Se piccoli azionisti hanno perso i pochi risparmi di una vita, se il crollo ha trascinato i soldi di chi si sentiva soros... non escludo niente, neanche che ci siano dei ceo con un po' di cagarella.
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