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Perché è difficile riconoscere mondi nuovi

Gianluca Carmosino intervista Stefania Consigliere

505994342 10230912163040043 5146120848555250357 n.jpgLo sguardo coloniale e l’impostazione eroica dell’idea di cambiamento, dice Stefania Consigliere, continuano a logorare la capacità di riconoscere l’esistenza di mondi nuovi e rischiano così di spegnerli: quei mondi prendono forma non come sconvolgimenti, ma come continua attenzione alla qualità delle relazioni che costruiamo ogni giorno. Questa intervista è stata realizzata in vista della due giorni “Partire dalla speranza e non dalla paura”, promossa dalla redazione di Comune, a Roma, il 7 e 8 novembre (programma in coda). Non avremmo potuto desiderare un articolo migliore.

Stefania Consigliere insegna presso il Dipartimento di Scienze Antropologiche dell’Università di Genova. Le sue ricerche, in particolare su immaginario e rivoluzione, raccolte in numerosi articoli e libri, tra cui Favole del reincanto (DeriveApprodi), sono un riferimento essenziale per tanti e tante. Consigliere sostiene che mondi altri, disorganici e imperfetti, sono già qui, ma siamo spesso incapaci di individuarli per diverse ragioni. In questa intervista parliamo di pensare mondi nuovi, di relazioni di potere, dell’attenzione come capacità preziosa.

* * * *

Ernst Bloch ha scritto Il principio speranza in esilio durante gli anni del fascismo e del nazismo. Anche tu, in Favole del reincanto, sostieni che i mondi nuovi che cerchiamo sono già qui, per quanto fragili e limitati. Come possiamo oggi, in questi tempi cupi, imparare a pensare, individuare e proteggere mondi nuovi?

Ho l’impressione che ci siano due cose, nella nostra tradizione culturale ampia, quella della modernità occidentale, che in questo momento ci impediscono di riconoscere i mondi altri, e quindi poi, a maggior ragione, di proteggerli e dar loro spazio.

La prima è molto semplice da enunciare, ma richiede una lunghissima lavorazione, nel senso che è qualcosa di talmente connaturato con il modo in cui cresciamo da diventare parte di noi: ed è lo sguardo coloniale. Siamo plasmati da uno sguardo che squalifica ancora ciò che non è “noi”, anche in punti in cui ci piacerebbe fare qualcosa di diverso o immaginiamo di stare già facendo qualcosa di diverso. Questa cosa la vediamo moltissimo come Laboratorio Mondi Multipli, un piccolo gruppo di cinque persone dentro l’Università di Genova: facciamo consulenza antropologica a persone assolutamente ben intenzionate nel loro rapporto con l’alterità culturale e però, anche fra noi la tendenza è un po’ sempre quella di pensare che, alla fin fine, se un mondo non è tanto progredito, bisognerebbe poter virgolettare il parlato, se non è altrettanto progredito tecnologicamente, ad esempio, o come forme di strutturazione sociale quanto il nostro, in definitiva è un mondo un po’ selvaggio, comunque meno desiderabile, primitivo. Questo sguardo coloniale, ahimè, ce l’abbiamo, nonostante noi, e richiede molto allenamento. Secondo me è un allenamento estremamente proficuo: un po’ perché ci toglie da quella tracotanza colonialista che ci mette nel mondo in una posizione più civile, e dall’altro lato perché è ciò che permette di riconoscere pienamente, di riconoscere amorevolmente, e magari anche passionalmente, che i mondi fatti diversamente dal nostro forse non sono inferiori. Forse sono altrettanto complessi, magari più belli, più desiderabili, magari hanno invece un sacco di indicazioni da darci. E questo mi sembra il primo grande, fondamentale blocco.

 

Il secondo impedimento che vedi?

È di nuovo, qualcosa che fa parte anche della tradizione politica in cui noi cerchiamo in qualche modo di muoverci, o che sentiamo più vicina: c’è un po’ un’impostazione eroica dell’idea di cambiamento. Forse siamo ancora vittime della vecchia idea di rivoluzione come presa del potere, con il momento magico escatologico nel quale finalmente arriviamo alle leve del comando e dirigiamo la macchina dove ci piace. Ma la questione non è prendere il potere, ma come stare nelle relazioni. Non tanto prendere la macchina e dirigerla da un’altra parte, ma sentire in noi la tentazione del potere, la tentazione del dominio, le parti non lavorate, penso, per esempio, a quella colonialista. A me sembra che il punto sarebbe proprio quello di stare in modo completamente altro nella relazione di potere, come anche nel pensare una struttura differente. Questo, per restare in termini molto generali, forse perfino troppo generali rispetto alla domanda. Per arrivare invece proprio al nocciolo della domanda che tu hai posto, mi verrebbe da dire che, in questo momento, sono “altri” tutti gli spazi, per quanto temporalmente o geograficamente limitati, piccolissimi, affaticati, che permettono l’esistenza, anche temporanea, di una logica altra di funzionamento. Spazi che escono dal tritacarne del funzionamento ordinario, che sostanzialmente è fatto di soprusi, di competizione, di violenza, di violenza strutturale: una violenza solidificata dentro i modi, dentro le istituzioni, di cui nemmeno più ci accorgiamo. Sono già mondi altri tutti gli spazi nei quali si ragiona di mutuo sostegno invece che di competizione; nei quali si ragiona di cura, degli umani, ma più in generale del vivente, invece che di sfruttamento e distruzione; nei quali il punto è stare attenti. Simone Weil diceva che l’attenzione è la più alta e la più rara delle virtù. Quindi stare attenti, stare in ascolto, sentirsi, anziché performare. Sono mondi altri quelli che stanno in presenza, con i corpi, con i visi, con gli odori, con i timbri, invece che a distanza. E sono alternativi e potentissimi tutti gli spazi che cercano margini di autonomia: che sia autonomia affettiva, energetica, di salute, alimentare, o, mi viene da aggiungere così, in corsa, autonomia relazionale, dunque relazioni che si strutturano al di fuori della strutturazione comandata, ingabbiata. Tutti questi spazi di autonomia sono mondi altri.

 

Ma come si presentano oggi questi mondi altri?

Chiaramente, ed è tragico dirlo, in questo momento storico, adesso più che mai, proprio negli ultimi anni, anzi negli ultimi mesi, questi mondi differenti si configurano immediatamente come luoghi di diserzione. Nel senso che qualsiasi forma di autonomia noi si vada cercando, in questa epoca buia, è già una diserzione da una qualche forma di comando, e in particolare negli ultimi tempi anche proprio come diserzione da una guerra che ci stanno gettando addosso, che stanno lungamente preparando con i soliti mezzi della paura e della propaganda. Per cui qualsiasi luogo di diserzione esistenziale e di ricerca di autonomia minima è già un mondo altro, e quindi… è già trattato come se fosse criminale.

 

Esplorare la vita di ogni giorno, trasformare le relazioni con i non umani e accogliere i saperi di non occidentali sono solo azioni di legittima difesa, più o meno illusorie, dal realismo capitalista oppure possono favorire la creazione di mondi diversi?

Parto da un aneddoto, a proposito di questa storia della vita quotidiana… che cos’è la vita quotidiana? Piero Coppo, amico per vent’anni, etnopsichiatra, raccontava che a un certo punto, in una manifestazione fra il ’67 e il ’68, era rimasto folgorato da un volantino che riportava una frase di Raoul Vaneigem che diceva: “Chi parla di rivoluzione senza pensare al quotidiano ha un cadavere in bocca”. La rivoluzione come trasformazione delle relazioni più piccole, apparentemente più infime, ad esempio come ci rapportiamo a un albero, alla collina dietro casa, a un gatto, al passante che piange o che urla… Tutta questa roba qui è il terriccio stesso che permette di vivere, o che non permette più di vivere, quando viene in qualche modo disseccato o reso sterile. Però volevo entrare nell’alternativa che poni: cioè, è un’illusione o è qualcosa che ci porta altrove? Che è chiaramente il dubbio che tutti quanti abbiamo continuamente in testa, in qualsiasi cosa facciamo: “Ma sarà qualcosa che vale la pena di fare oppure sto perdendo il mio tempo?” Ecco, qui io sento in questa alternativa proprio il funzionamento dell’“alternativa infernale” di cui hanno scritto alcuni autori francesi. È come se facessimo sempre fatica, dentro la logica aristotelica stretta e il pensiero al quale siamo addestrati, a immaginare che forse sono vere tutte e due le cose. Sono vere entrambe perché ci muoviamo nella fascia che potremmo definire come immaginario: tutto ciò che precede la solidificazione di un mondo umano e che continuamente accompagna questo mondo. I sogni, le fantasie, i fantasmi antichi o quelli recenti, i timori, la voce degli antenati… tutto ciò che non ha una forma solida, facilmente riconoscibile, e che permette la nascita, l’emersione, la solidificazione dei mondi. Nella fascia dell’immaginario è chiaro che, comunque ci muoviamo, siamo in un terreno che non è né un’illusione destinata a svanire né qualcosa di già solido: è qualcosa di potenziale. Allora, la domanda forse potrebbe essere: quando noi ci muoviamo in questa fascia, in cui stiamo cercando di far esistere relazioni differenti, pezzi di mondo diversi, che cosa ci permette di essere più efficaci? Quando sogniamo, che cosa rende i nostri sogni felici, non nel senso di allegri ma di attivi? Ecco, a me pare che la forza propellente che permette di transitare dall’immaginario alla realtà condivisa fra umani sia la fiducia. Se stiamo in quei processi con un certo grado di fiducia nel processo, negli altri, in quello che possiamo fare, nelle entità umane e non umane che convochiamo per i nostri processi, quelli hanno molta più probabilità di trasformarsi in qualcosa di solido. Se invece andiamo già disillusi, disincantati, con l’impressione che “tanto è solo un bel sogno che poi lascia tutto intatto…”, siamo invece nel meccanismo hollywoodiano del “passiamoci due ore sognando qualcosa di diverso per poi rientrare consolati, ma in modo un po’ stupido, nel tritacarne quotidiano”. E chiaramente qui il discorso si farebbe enorme, sarebbe molto bello seguirlo, ma forse ci vorrebbe qualche giornata o qualche notte intorno al fuoco.

 

Raccogliamo la tua proposta, prima o poi promuoveremo un incontro intorno a un fuoco. Grazie. Ma cos’è esattamente l’immaginario?

Quando si parla di immaginario si parla di disincanto e reincanto, quindi anche del lunghissimo addestramento, che dura ormai da quattro secoli, che abbiamo subito, e talora facciamo subire, a essere assolutamente certi, convinti, tetragoni sull’idea che le uniche intenzionalità attive siano quelle umane. Che animali, piante, cieli, paesaggi non abbiano intenzionalità, non siano attivi, non c’entrino niente con la storia, e che le uniche forme di causalità siano quelle meccaniche, come le biglie sul tavolo da biliardo che si scontrano e si muovono secondo certi vettori. Io ho l’impressione che il disincanto sia proprio questo: la credenza che le sole causalità siano meccaniche e le sole intenzionalità siano umane. E queste credenze si possono smontare. Mi viene in mente, ad esempio, l’opera di Lévi-Strauss o certe parti piuttosto visionarie dell’antropologia, quando parlano di efficacia simbolica, di causalità di ordine non immediatamente meccanico. Ma si smontano anche semplicemente con un approccio ecologico all’idea che i posti che noi abitiamo sono innanzitutto relazionali; che la relazione è ciò che permette a noi di continuare a esistere, ai luoghi di vivere, e così via. Queste relazioni non sono semplicemente quelle che siamo addestrati a immaginare. Tanto per dire: noi siamo vivi e tentiamo di pensare, di guardare criticamente al mondo, di lottare, di stare vicini, di sostenerci, di amarci, perché… mangiamo. Allora, da dove arriva il nostro cibo? Perché respiriamo? Com’è fatta la nostra aria, che cosa la inquina? Perché abbiamo dei sogni? Cosa entra a tradimento nei nostri sogni e li piega a forme di vita che troviamo ingrate? Chi fa i nostri abiti, e dove? Quanto costa ecologicamente fare un abito? E via dicendo. Tutto questo guardare alle connessioni da cui dipendiamo e alle causalità non umane che agiscono continuamente è qualcosa a cui non siamo più addestrati, ma che era la raccomandazione sia del vecchio materialismo di tradizione marxiana, sia del buddismo: “Tu devi sapere esattamente dove sei messo, come sono fatte le relazioni del mondo nel punto in cui lo abiti, per onorare il fatto che un sacco di cose ti tengono in vita, ti permettono di continuare a mangiare, a respirare, a vestirti, ad amare, a desiderare…”. Ecco, questa tessitura costitutiva è fatta di umani ma anche di non umani, e imparare a riconoscere che cosa agisce effettivamente nei nostri mondi sarebbe, penso, un gran bel modo per muovere dolcemente, e senza voli pindarici, verso forme di reincanto. Fumo e ceneri. Il viaggio di uno scrittore nelle storie nascoste dell’oppio, l’ultimo libro di Amitav Ghosh, il saggista e romanziere indiano, dal punto di vista di un occidentale, è geniale, perché in 400 pagine mostra fino a che punto un’entità non umana come il papavero da oppio sia stata una forza propellente del colonialismo. Ecco, è esattamente quel tipo di sguardo che forse dovremmo cominciare a sviluppare: lo sguardo che vede tutte le relazioni, e che nelle relazioni riconosce movimenti, intenzioni, desideri, spostamenti, vettori che non sono soltanto quelli umani a detrimento di tutti gli altri.


L’intervista è stata realizzata – in collaborazione con Riccardo Troisi – in vista della due giorni di iniziative “Partire dalla speranza e non dalla paura”, promossa dalla redazione di Comune presso il Polo civico Esquilino, a Roma, venerdì 7 e sabato 8 novembre:
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