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sbilanciamoci

Demos e capitalismo, logiche divergenti

di Claudio Gnesutta

Scontro o compromesso sulle politiche pubbliche, contrapposizione tra società civile ed esperti, istanze di riforma e processi di partecipazione, le tematiche del libro di Codagnone C., Bogliacino F., Veltri G.A., Scienza in vendita. Incertezza, interessi e valori nelle politiche pubbliche, Milano: Egea, 2018, p. 234, € 30,00

74683C’è una tensione ineliminabile tra capitalismo e democrazia, tensione che può essere governata ma non eliminata, dovuta alla contrapposizione tra due logiche, quella della competizione tra soggetti diseguali per fortuna, talenti e potere e quella della garanzia a tutti i propri cittadini non solo dei diritti economici ma anche di quelli politici e sociali. La contraddizione di perseguire l’ideale di eguaglianza politica in un contesto economico che produce disuguaglianza richiede la presenza di un ente collettivo sovraordinato, lo Stato, che ricerchi e gestisca un compromesso socialmente accettabile tra le due dimensioni della vita sociale.

Le politiche pubbliche sono pertanto inevitabilmente connesse con un processo di conservazione/trasformazione dell’esistente la cui complessità ha sollecitato, e sollecita, le scienze sociali a formulare spiegazioni della struttura della società e delle sue dinamiche, incluse quelle indotte dalle politiche auspicate e adottate.

A questo sfondo problematico si richiamano le riflessioni che svolgono Cristiano Codagnone, Francesco Bogliacino, Giuseppe A. Veltri in un interessante e denso volume, Scienza in vendita. Incertezza, interessi e valori nelle politiche pubbliche (Milano: Egea, 2018, p. 234, € 30,00), con l’obiettivo dichiarato di «esplora[re] in modo critico il rapporto tra politiche pubbliche ed evidenza scientifica, evitando semplificazioni e scorciatoie scientiste o anti-scientiste e mettendo in risalto sia i limiti della scienza sia l’uso improprio che dei risultati scientifici fanno sia coloro che prendono le decisioni politiche sia coloro che cercano di influenzarle a loro vantaggio, siano essi gruppi di interesse forti e concentrati o movimenti di opinione opportunamente mobilitati».

A questo fine, gli autori adottano un criterio interpretativo «che tiene conto della tipologia degli interessi di un dato problema politico, dell’importanza delle incertezze e del ruolo giocato dai valori degli attori coinvolti».

I primi cinque capitoli approfondiscono il rapporto tra contenuti scientifici e evidenza empirica con utili richiami a importanti politiche pubbliche degli ultimi tempi. L’analisi prende in considerazione le “politiche basate sull’evidenza» di blairiana memoria (cap. 1) la cui ambizione era di «eliminare qualsiasi elemento politico dal processo decisionale»; esse mancano l’obiettivo anche per aver trascurato il peso che, a causa dell’incertezza epistemica, ha il “radicamento sociale” nella definizione delle pratiche scientifiche in condizioni di normalità (cap. 2); d’altra parte, come nel caso analizzato dell’austerità “espansiva”, è possibile che gli interessi in gioco riescano a manipolare l’evidenza “scientifica” portata a sostegno «delle idee e delle retoriche», cosicché il lavoro dei tecnocrati appare «un modo per fare accettare ciò che in ogni caso si sarebbe fatto» (cap. 3); o come, con riferimento anche alla Brexit, la presenza di gruppi portatori di diverse valutazioni valoriali rende impossibile risolvere i potenziali conflitti tra politiche alternative con il semplice ricorso all’“evidenza” (cap. 4); infine, i framing e i dati che dovrebbero costituire la base dell’evidenza non sono esenti da distorsioni per cui «[m]ettendo assieme segmenti di burocrazie esecutive nazionali, segmenti della burocrazia europea ed esperti, queste reti [le policy network] acquisiscono autonomia, valori e obiettivi legati alle politiche di competenza.

Processo che determina una chiusura e una strumentale de-politicizzazione del processo decisionale, considerando che non solo la partecipazione alle reti è selettiva ma anche l’ammissibilità dell’evidenza e delle misurazioni è accuratamente filtrata» (cap. 5).

La sintesi appena formulata del contributo dei tre autori è senza dubbio troppo stringata per dare conto della ricchezza dell’elaborazione critica (come dimostra l’ampia e accurata bibliografia che la correda) nonché dei pertinenti spunti di riflessione riguardanti una molteplicità di politiche pubbliche in cerca di validazione.

Nonostante le critiche stringenti ai metodi e ai criteri adottati per dare evidenza certa alle politiche pubbliche adottate, la posizione degli autori – come emerge nell’ultimo capitolo, il sesto – non scade nello scetticismo, ma piuttosto è quella, come essi sostengono, che pur partendo «dal riconoscimento che qualsiasi scienza è socialmente radicata e ha come sua condizione essenziale quella dell’incertezza» deve essere «solidamente ma criticamente radicata nel metodo scientifico ipotetico-deduttivo».

La loro convinzione che l’evidenza si caratterizzi per gradi più o meno elevati di incertezza epistemica e sia permeabile a interessi e valori li porta a concludere che, a seconda del prevalere di uno o dell’altro di tre aspetti (incertezza, valori, interessi), vi sono diverse modalità di «concepire il rapporto tra scienza e politiche [che non] sia permeato da un positivismo radicale, ma spesso superficiale, e tecnocratico che, cercando invano di eliminare la politica e i valori dalla formazione delle politiche, ha contribuito a diminuire la trasparenza e il carattere deliberativo sia della formazione delle politiche sia del dibattito pubblico e democratico nel suo complesso e in questo modo ha contribuito al distacco e alla perdita di fiducia dell’elettorato».

Da qui la conclusione che le scelte dirette dei cittadini e degli esperti siano condizionate dal variare dei livelli di incertezza, di conflitto e di rendite con possibili retroazioni che possono produrre situazioni di instabilità e che perciò il policy maker, per disporre di evidenze attendibili, dovrebbe esser capace di disegnare un opportuno sistema di incentivi-sanzioni a carico o degli esperti o della società civile a seconda di chi, con il suo comportamento, è il maggior produttore di rischio.

Tre sono i casi: «Il primo è quello della [politica basata sull’evidenza], dove si consultano e si ascoltano gli esperti, dopo averli “mesi in riga” con sistemi opportuni di incentivi (per esempio, una sanzione se mentiti). Il caso opposto è quello della deliberazione collettiva, dove si consultano i cittadini, che esprimono la loro opinione dentro un quadro di premi e sanzioni. [U]n terzo meccanismo potenziale [il conflitto negoziale, mette] cittadini ed esperti (…) esplicitamente “in guerra” tra di loro, come opzioni di parte, cioè molto sensibili a ciò che l’altro dice, e il policy maker media, prendendo in considerazione un compromesso tra i due suggerimenti.»

La soluzione proposta può essere, come dicono i tre autori, non proprio “allettante”: «rispetto a chi propone le meraviglie della evidenza dura e pura o il miracolo della deliberazione collettiva, la nostra proposta è molto più limitata e molto meno risolutiva».

Tuttavia, non esiste “la” soluzione ed «è sbagliato cercarla: le politiche pubbliche sono terreno di scontro (…). Chi si illude di risolvere i problemi collettivi attraverso il “what works?” spesso trova risposte insoddisfacenti e si presta al gioco di chi attenta alla democrazia e vuole sostituirla con la governance (…), la negoziazione, lo scontro e il compromesso sono consustanziali ai sistemi sociali».

Una conclusione che demitizza il ruolo della scienza come ultima ratio per decidere la validità delle politiche pubbliche e, affermando «che non ci sia alternativa al dibattito democratico e alla ricerca del consenso attraverso l’ampliamento e non la riduzione degli spazi deliberativi», riconosce nella democrazia «l’unico sistema che è capace di sopravvivere al conflitto (sia di valori sia di interessi), e l’unico sistema sufficientemente flessibile da rispondere a cambi nel contesto».

La conclusione di Codignone, Bogliacino, Veltri è, per chi scrive, ampiamente convincente e condivisibile anche quando affermano che «[l]e regole assolute sono sempre inefficienti rispetto a quelle contingenti, è sempre meglio cercare le soluzioni che tengano in considerazione le circostanze, e questo implica che ci sarà sempre terreno di scontro e negoziazione». Un’affermazione che restringe ulteriormente lo spazio delle politiche pubbliche suscettibili di evidenza valida.

In effetti, accettando l’assunto posto all’inizio di questa recensione che esistono valori diversi e incompatibili, sembra impossibile immaginare l’esistenza non discutibile di una politica basata sull’evidenza. Una visione radicalmente diversa della società implica una teoria sociale diversa, una politica – e corrispondenti politiche pubbliche – diversa e, infine, una diversa ricerca di evidenze.

Per fare un caso, l’evidenza per giudicare i risultati di un reddito di cittadinanza o dell’azione del datore di lavoro di ultima istanza in quanto “politiche pubbliche” possono essere la stessa per chi ritiene che per la società sia prioritaria l’efficienza economica e per chi ritiene invece che sia la realizzazione personale dei cittadini? Diventa difficile, se non impossibile, in questi casi distinguere le politiche dalla politica – distinzione opportunamente sottolineata nel libro – e diventa quindi difficile accettare che la “negoziazione” e il compromesso tra diversi non sia la modalità prevalente, se non l’unica.

D’altra parte, la negoziazione si conforma a una situazione in cui «non esiste un esperimento che ci dica l’opzione migliore in assoluto, ma solo piccoli esperimenti che ci aiutino a scegliere tra opzioni predefinite, che devono già essere il risultato di uno scrutinio democratico. Esperimenti che saranno comunque condizionati da contesti e misurazioni localmente validi – per poterci garantire il controllo adeguato per verificare che le cose funzionino – ma in quanto forieri di dubbi sulla possibilità di generalizzare ed estendere i risultati fuori dal dominio originale». Una posizione “riformista” che richiama la considerazione di Keynes che «i nuovi sistemi economici verso i quali noi stiamo procedendo tra gli errori sono nella loro natura essenziale esperimenti. Noi non abbiamo dinanzi alle nostre menti un’idea chiara e predeterminata di ciò che esattamente vogliamo.

Lo scopriremo via via che procediamo e dovremo dar forma ai nostri materiali in base alle nostre esperienze. Ora in questo processo una critica audace libera e spietata è una condizione sine qua non del successo definitivo». Una posizione che richiede un continuo confronto negoziale che può risultare “duro” dato che non si deve dimenticare che ogni politica pubblica è un atto di un processo redistributivo tra settori sociali: se essa non riduce le disuguaglianze, le aumenta.

Ma un processo che, nel tempo reale, sia esperimento sociale non può essere pensato come pura contrapposizione tra società civile ed esperti. La società civile ha bisogno dei propri esperti e gli esperti, come ampiamente illustrato nel libro, si esprimono in relazione con qualche potere. Ma allora gli esperti sono parte decisiva nel formare le opzioni di parte della negoziazione del cui compromesso è agente attivo il policy maker, più o meno neutrale.

In questo contesto perché i molteplici punti di vista abbiano un ruolo attivo è necessaria l’esistenza di enti (intermedi ) – movimenti, partiti, sindacati ecc. – in grado (un “intellettuale organico”?) di organizzare dare peso scientifico e sociale alla visione di parte e di valutarne, nei passi dopo passi, la verifica dalla propria evidenza.

“La conoscenza è potere” e diverse concezioni di società civile richiedono diverse conoscenze che devono incarnarsi in un concreto corpo sociale; se una tale contrapposizione non dovesse osservarsi nella realtà, o comunque presentarsi troppo squilibrata, la ragione va ricercata, come sostiene Canfora, nella mancata attuazione del “potere al popolo” (democrazia, appunto) come risultato «dell’incessante riproporsi di élites direttive, tanto più abili ed efficaci, quanto più capaci di ottenere il largo riconoscimento della natura “democratica” (!) del loro potere».

In definitiva, se, come recita il titolo del libro, la “scienza è in vendita”, sarebbe in questo caso urgente che essa venga “comprata” da chi non vuole che la “democrazia sia in vendita”.

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