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La trasformazione dello Stato dentro la transizione neoliberale

Il caso italiano

di Adriano Cozzolino

transizione neoliberale 640x315Tra la fine degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, il patto sociale come configuratosi all’indomani della seconda guerra mondiale – basato su un sostanziale equilibrio nei rapporti tra le due principali forze sociali, il Lavoro e il Capitale – entra definitivamente in crisi. Il superamento della costituzione materiale del secondo dopoguerra segna il passaggio dal paradigma keynesiano – caratterizzato da politiche fiscali espansive, una forte dimensione pubblica dell’economia, la regolazione del sistema finanziario, tassazione progressiva e una tendenza espansiva dei diritti della classe lavoratrice e dei diritti sociali – all’ordine neoliberale.

Le cause della crisi del Keynesismo sono diverse e di diversa natura (Bellofiore, 2001). Crisi petrolifera e comparsa della stagflazione, crisi del meccanismo di accumulazione del capitale, crisi fiscale dello Stato (O’Connor, 1973), un’alta conflittualità sociale e la reazione politico-ideologica delle classi proprietarie sono alcuni tra i fattori che ci aiutano a comprendere i caratteri del mutamento. Il nuovo paradigma neoliberale, concepibile come risposta globale alla crisi della politica economica keynesiana, inaugura politiche che invertono il segno social-democratico delle decadi precedenti: liberalizzazione dei tassi di cambio e dei movimenti dei capitali finanziari, ridefinizione della tassazione in senso meno progressivo, deflazione salariale e, più in generale, ‘flessibilizzazione’ del lavoro, privatizzazione delle imprese pubbliche e ruolo centrale dei mercati e della cultura aziendalista (Saad-Filho, 2010). Inoltre, come mostrato da diversi autori (su tutti Thomas Piketty, 2014), è a partire da questo momento che le disuguaglianze nella distribuzione del reddito iniziano a crescere.

Questa transizione si accompagna anche ad una riconfigurazione dell’apparato istituzionale statale che, nel tempo, ha favorito istituzioni ‘decidenti’ (l’esecutivo) e tecnocratiche (i ministeri economici, le agenzie), depotenziando al contempo i luoghi della rappresentanza sociale e politica come il parlamento[1]. Queste brevi note introduttive costituiscono un affresco del contesto in cui si sviluppa il tema di questo contributo, cioè la trasformazione dell’apparato istituzionale dello Stato dentro la transizione neoliberale. Più in particolare, la questione è se esista una correlazione di lungo periodo tra rafforzamento dell’esecutivo, crisi del parlamentarismo e ristrutturazione economica di orientamento neoliberale in Italia. In altre parole: sussiste la possibilità di articolare una lettura critica che chiarisca non solo se, e come, lo Stato si trasformi, ma anche come questa trasformazione sia parte di una ridefinizione più generale del patto sociale?

Il saggio è organizzato come segue. Il primo paragrafo espone l’interpretazione prevalente della transizione italiana. I paragrafi a seguire, invece, offrono una lettura teorica ed empirica alternativa del rafforzamento dell’esecutivo italiano (e della crisi del parlamento), e una panoramica sull’emergenza permanente nella crisi dell’ordine neoliberale.

 

Mercato e istituzioni decidenti: finalmente europei?

Nella letteratura politologica prevalente, il rafforzamento dell’esecutivo italiano viene solitamente collocato agli inizi degli anni Novanta (della Sala, 1997). Questo processo di trasformazione istituzionale, di certo dirompente per un sistema caratterizzato da un parlamento forte e da un sistema partitico altrettanto forte, è interpretato come il risultato di una spinta congiunta tra fattori nazionali come lo scandalo Tangentopoli, il processo Mani Pulite e il passaggio al sistema elettorale maggioritario (1991-1993), e fattori esterni come il crollo del Muro di Berlino e la crisi del mondo comunista, l’entrata in vigore del Trattato di Maastricht (1992) e lo slancio del processo d’integrazione europea. Quest’ultimo, per i noti vincoli macroeconomici, fiscali e di bilancio istituzionalizzati nel Trattato di Maastricht, pone nuove sfide al governo italiano che, tramite un processo di apprendimento (Ferrera e Gualmini, 2004), ‘impara’ a rendere più efficaci le sue politiche e a reindirizzarle verso obiettivi di modernizzazione. Çà va sans dire, in tale interpretazione la modernizzazione passa tramite riforme strutturali orientate al rafforzamento del mercato e, soprattutto, tramite un lungo processo di consolidamento fiscale (cioè, di austerity), ossia di riduzione della spesa pubblica. Il passaggio al sistema maggioritario e all’alternanza al governo, il rafforzamento dell’esecutivo tramite alcune importanti riforme istituzionali (1988, 1998) e l’azione riformatrice degli anni Novanta sono dunque interpretati come un passaggio necessario e positivo verso una società più moderna ed efficiente. Lasciate le sponde dell’instabilità endemica, l’Italia – nella narrazione dominante – può diventare finalmente europea.

Questa lettura coglie alcune dinamiche reali della ‘grande trasformazione italiana’, per usare la fortunata formula di Karl Polanyi. Ad esempio, è indubbiamente vero che agli inizi degli anni Novanta l’esecutivo si sia rafforzato in modo decisivo. I governi tecnici giocano, in questa dinamica, un ruolo fondamentale. Gli esecutivi Amato nel ’92, Ciampi nel ’93 e Dini nel ’95 sono caratterizzati da due dinamiche interconnesse: l’utilizzo ordinario della decretazione emergenziale e un’azione riformatrice su vasta scala. Le riforme vanno nella stessa direzione: privatizzazioni, abolizione della scala mobile e contenimento salariale, introduzione di misure di consolidamento fiscale, riforma del settore pubblico sul modello business-oriented del New Public Management. Questa azione di riforma viene attuata tramite un uso senza precedenti della decretazione d’urgenza. Nel 1992 vengono emanati 139 decreti legge, che diventano 259 nel 1993, 327 nel 1994, 294 nel 1995 e 362 nel 1996: numeri che, anche grazie ad una sentenza di censura della Corte di Cassazione (1996), non saranno mai più raggiunti, ma che tuttavia segnano un mutamento di ordine strutturale nell’apparato statale: è in questi anni che l’esecutivo, tramite decreti legge e decreti legislativi, supera la legislazione parlamentare.

Un passaggio doloroso ma necessario, dunque, per diventare europei? Finalmente la tanto attesa ‘stabilità’ fatta di un mercato europeo integrato, libero e funzionante, autorità indipendenti, conti in ordine e istituzioni decidenti? A giudizio di chi scrive, più che chiederci se, e in che misura, siamo diventati ‘europei’, per comprendere in profondità i caratteri della transizione è necessario rileggere criticamente il cambiamento profondo avvenuto in Italia tra gli anni Ottanta e i Novanta, e farlo legando geneticamente la trasformazione dello Stato – in particolare il rafforzamento dell’esecutivo e la crisi del parlamento – con la ridefinizione del patto sociale e delle relazioni sociali di produzione nell’ordine neoliberale (Cox, 1981).

 

Rafforzamento dell’esecutivo, austerity e ristrutturazione economica neoliberale

Finalmente europei, dunque? La questione, per citare, è più complessa. E lo è almeno su tre piani interconnessi. Il primo è, come si è detto, la collocazione storica del rafforzamento dell’esecutivo e dunque della trasformazione dello Stato. Il secondo, a livello teorico, è il legame tra trasformazione dello Stato e instaurazione del paradigma neoliberale. Il terzo riguarda la crisi della democrazia rappresentativa.

Partiamo dal primo punto. Se è corretto, a fronte dei dati raccolti da numerosi studi, affermare che l’esecutivo si rafforzi decisivamente negli anni Novanta, resta da capire quando il fenomeno fa la sua comparsa storica. Per rispondere è necessario ricorrere ad indicatori che ci permettano di analizzare empiricamente un fenomeno. Nel nostro caso, gli indicatori sono composti dalla ‘legislazione dell’esecutivo’ (cioè i decreti legge) e la legislazione delegata[2]. Per avere un quadro più preciso del fenomeno, ho incrociato la legislazione con le misure di politica economica, in particolare in quei settori ‘d’elezione’ della politica economica neoliberale come quello macroeconomico, di finanza pubblica e di finanza regionale e locale. I dati rivelano che in questi settori la legislazione dell’esecutivo soprassa, già dagli inizi degli anni Ottanta, quella del Parlamento (Cozzolino, 2018). Pur non essendo possibile, in questa sede, una panoramica esaustiva del fenomeno, basti pensare che nel corso degli anni Ottanta, quando già la crisi fiscale dello Stato si era pienamente manifestata, l’esecutivo emana una serie di decreti, poi convertiti in legge, per la razionalizzazione del bilancio, il contenimento della spesa pubblica, la riforma/contenimento della spesa regionale e una serie di misure supply-side oriented. Questa nuova prassi, peraltro, avviene a cavallo tra l’introduzione della legge finanziaria nel 1978 e del Documento di Programmazione Economica e Finanziaria nel 1988, che rafforzano il controllo del governo sulla finanza pubblica vis-à-vis il parlamento. Alla legislazione emergenziale si associa, nel corso degli anni Novanta, anche la legislazione delegata, che riforma in particolare la finanza pubblica e regionale e introduce riforme chiave come quella delle pensioni e del lavoro.

Il secondo punto è teorico, ed ha a che fare con una diversa interpretazione del fenomeno in esame. Più che come conseguenza di fattori congiunturali intervenienti a mo’ di meccanismo causale, il processo di trasformazione dello Stato va letto insieme ad una trasformazione più generale delle società occidentali. Come già il filosofo marxista Nicos Poulantzas aveva rilevato con particolare lungimiranza nel 1978, il rafforzamento dell’esecutivo e la crisi del Parlamento si legano ad una ridefinizione del ruolo dello Stato dentro le trasformazioni del capitalismo all’alba della fase neoliberale. In altre parole, la transizione verso l’ordine neoliberale è resa materialmente possibile grazie ad un processo di mobilitazione/rafforzamento di alcuni segmenti chiave dell’apparato statale, in particolare la Banca d’Italia, il Tesoro e l’esecutivo, che creano le condizioni ideologiche, istituzionali e di policy per l’affermazione del nuovo paradigma. In questo quadro storico, l’integrazione sovranazionale, tramite il ricorso all’Unione Europea come risorsa istituzionale e simbolica da utilizzare per vincere le resistenze politiche a livello domestico, gioca un ruolo essenziale per imporre, su una scala spaziale ulteriore, l’austerity permanente e le riforme strutturali.

Terzo ed ultimo punto: questo processo di trasformazione non può non legarsi (anche se il tema non può essere discusso in questa sede) alla questione della crisi della democrazia rappresentativa – crisi che è, in realtà, frutto di una serie di crisi interconnesse tra loro: crisi del patto sociale; crisi dei luoghi istituzionali deputati a stabilire compromessi sociali e politici tra forze diverse, come il parlamento; crisi dell’Unione Europea e della capacità di questa di generare consenso. Ma è anche una crisi dello Stato: l’aumento dei dispositivi coercitivi per imporre politiche di austerity, ad esempio, ci dice che il rafforzamento dello Stato, presentato ideologicamente con la necessità di avere istituzioni decidenti, rivela un prolungato indebolimento della capacità di generare consenso e legittimità, cioè la moneta corrente, come ci insegna Max Weber, dell’intero arco storico dello Stato moderno.

 

Crisi neoliberale come regime di emergenza permanente

La crisi economico-finanziaria del 2007-8 ha smentito con i fatti quelle interpretazioni che scorgevano nelle sorti magnifiche e progressive dell’integrazione europea, e della modernizzazione tramite il mercato, le promesse della nuova modernità italiana. Questa sezione dell’articolo vuole fornire alcuni cenni sui meccanismi istituzionali della politica economica in Italia dalla crisi del 2007-8 ad oggi. La tesi è che, in questi anni, le tendenze emerse nelle due decadi precedenti si siano consolidate ulteriormente, intrecciandosi con la crisi dell’ordine neoliberale (Duménil e Levy, 2011).

Il caso emblematico, ancora una volta, è costituito dalla decretazione emergenziale. Secondo i dati raccolti, dal 2011 al 2015 nel solo settore macroeconomico le leggi di conversione dei decreti legge sono 22, contro 4 decreti legislativi e 2 leggi ordinarie. Per quanto riguarda la finanza regionale e locale, invece, abbiamo 7 decreti legislativi, 5 leggi di conversione e nessuna legge ordinaria. Nello stesso quinquennio, soltanto una legge ordinaria[3] (peraltro di attuazione della legge costituzionale che ha introdotto il pareggio di bilancio) è presente nel settore della finanza pubblica, contro 8 leggi di conversione e 5 decreti legislativi. Spesso, inoltre, i decreti-legge vengono usati per introdurre politiche in un alto ed eterogeneo numero di settori – da qui l’etichetta di ‘maxi-decreti’. Singoli maxi-decreti, in questi anni, hanno introdotto misure che spaziano dalla riduzione del costo del lavoro alla riforma della pubblica amministrazione, dalla riforma dell’istruzione alle riforme del lavoro, da misure per la ‘competitività’ a riforme della tassazione, da programmi infrastrutturali a privatizzazioni e liberalizzazioni. I nomi dati a questi decreti sono emblematici: Salva Italia, Cresci Italia, Decreto del Fare, Decreto Sviluppo, Destinazione Italia, Decreto Competitività, Jobs Act, per citarne solo alcuni. L’utilizzo incostituzionale della decretazione emergenziale è sistematicamente accompagnato da un’altra prassi rafforzatasi di recente, cioè l’imposizione della questione di fiducia. Secondo un dossier curato dall’associazione Open Polis (2015), se la richiesta di voto di fiducia era salita al 15% durante il governo Berlusconi IV (2008-2011), con il governo tecnico guidato da Monti la percentuale sale al 45%, coinvolgendo in particolare maxi-decreti e misure di carattere economico-finanziario.

L’introduzione del pareggio di bilancio nella Costituzione (2012), inoltre, cristallizza – invero più simbolicamente che nei fatti, viste le precedenti decadi di aggiustamento fiscale, cioè di austerity permanente – la lunga transizione italiana.[4] Questa transizione ci consegna, oggi, una governance economica di fatto post-democratica nella misura in cui le decisioni politiche vengono decise da istituzioni che, soprattutto al livello sovranazionale, sono estranee a forme di forme di controllo popolare e procedure di negoziazione. Del resto, la costituzionalizzazione del pareggio di bilancio mira ad escludere la possibilità di una politica economica alternativa all’ortodossia ‘austeritaria’ Europea. Più che discusse e contrattate tra forze sociali i cui interessi sono fisiologicamente in conflitto, dunque, le politiche economiche sono oggi imposte al corpo sociale senza mediazioni—e ormai stabilmente tramite procedure legali straordinarie ed emergenziali.

 

Conclusioni sulla transizione neoliberale

Già nel 1932, Alexander Rüstow, uno dei padri dell’ordoliberismo, scriveva della necessità di uno Stato forte per governare l’economia. La costruzione del mercato, o meglio, l’estensione e il rafforzamento dei meccanismi di mercato ha bisogno di uno Stato che tuteli ope legis le operazioni del mercato da interferenze di natura politica o sociale (ad esempio i sindacati). Nel caso italiano, come accennato nell’articolo, assistiamo, più che ad un rafforzamento tout-court dell’apparato statale, ad una intensificazione selettiva dell’azione dello Stato e di alcune delle sue istituzioni, come l’esecutivo. Per cogliere tale fenomeno nel medio periodo, l’articolo ha provato a tracciare una lettura alternativa della trasformazione dello Stato nel caso italiano. In primo luogo, leggendo il cambiamento istituzionale dentro la trasformazione neoliberale, e dunque situando storicamente il fenomeno tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anniOttanta. Secondo, legando in via diretta il rafforzamento selettivo di un segmento dell’apparato statale, l’esecutivo, con il rafforzamento e l’estensione dell’economia di mercato e dell’austerity permanente, più che della composizione degli interessi sociali in conflitto e/o con un generico miglioramento della capacità decidente dei vertici dello Stato. Concludendo, è possibile affermare oggi che questo processo di centralizzazione verticale del potere decisionale, legittimato con il dogma della stabilità, si sia mutato nel suo contrario, ossia nell’instabilità permanente dei mercati finanziari deregolati, trascinando al contempo le classi politiche tradizionali e le stesse istituzioni statali in una crisi permanente di consenso e legittimità. La democrazia, d’altro canto, non può essere separata, né ontologicamente né analiticamente, dalla sua dimensione sociale: la crisi della seconda è la crisi della prima.


Note
[1] In termini di riconfigurazione istituzionale, ad esempio, uno degli eventi chiave per comprendere la transizione italiana è il ‘divorzio’ tra Banca d’Italia e Tesoro avvenuto nel 1981, che, tramite un cambiamento dei rapporti tra istituzioni dello stato, ridefinisce al contempo la politica monetaria del paese. In sostanza, sottraendo la politica monetaria al luogo della decisione politica (il Tesoro), innesca due meccanismi principali: l’inaugurazione di politiche fiscali e monetarie non-accomodanti verso la classe lavoratrice; il rafforzamento del ruolo del mercato finanziario sul finanziamento del deficit di bilancio, dunque innescando un aumento del costo del debito pubblico (sul PIL) che passa dal 57 percento del 1980 al 98 percento del 1990 (Banca d’Italia), per deteriorarsi ulteriormente nel corso degli anni Novanta a causa della riduzione dei tassi di crescita.
[2] Si vedano gli articoli 76 e 77 della Costituzione.
[3] Non sono state considerate le leggi di stabilità e di bilancio, previste di default ex art 81 della Costituzione. È tuttavia significativo che il contenuto di tali leggi venga sempre più spesso anticipato da decreti legge del governo, delle vere e proprie manovre finanziarie.
[4] Non è secondario notare che la costituzionalizzazione di questo principio, fatta dal governo Monti, è stata votata da una maggioranza by-partisan di centro-destra e centro-sinistra, togliendo la possibilità di adire la via referendaria.

Riferimenti bibliografici
Bellofiore, R. (2001), I lunghi anni Settanta. Crisi sociale e integrazione economica internazionale. In L. Baldissara (Ed.), Le radici della crisi (pp. 57-102). Rome: Carocci.
Cozzolino, A. (2018), “Emergency Legislation, Executive Power and Neoliberalization: Insights from the Italian Case, 1976-2015”, Globalizations (forthcoming, summer 2018).
Cox, R. W. (1981) “Social Forces, States and World Orders: Beyond International Relations Theory”, Millennium – Journal of International Studies, 10(2): 126–155.
Ferrera, M. and Gualmini, E. (2004) Rescued by Europe? Social and Labour Market Reforms in Italy from Maastricht to Berlusconi, Amsterdam: Amsterdam University Press.
della Sala, V. (1997) Hollowing Out and Hardening the State: European Integration and the Italian Economy. In Bull, M. and Rhodes, M. (eds), Crisis and Transition in Italian Politics. London: Frank Cass.
Duménil, D. and Lévy, D. (2011) The Crisis of Neoliberalism, Cambridge: Harvard University Press.
Harvey, D. (2005) A Brief History of Neoliberalism, Oxford: Oxford University Press.
O’Connor, J. (1973) The Fiscal Crisis of the State, New Brunswick: Transaction Publisher.
Piketty, T. (2014), Capital in the Twentieth-First Century, Cambridge: Harvard University Press.
Poulantzas, N. (1978) State, Power, Socialism, New York: New Left Books.
Saad-Filho, A. (2010). Monetary policy in the neo-liberal transition: A political economy critique of Keynesianism, monetarism and inflation targeting. In B. Jessop, R. Albritton & R. Westra (Eds.), Political economy and global capitalism (pp. 89-119). London: Anthem Press.

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