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Il guaio con la scienza
di Paolo Di Marco
1-La presbiopia dei sondaggisti
Iniziamo dal livello forse più basso dell’indagine scientifica, il sondaggio politico;
scoprendo però che anche qui valgono le regole base della logica su cui si fondano i pilastri della scienza, Matematica e Fisica, e chi non le rispetta lo fa a suo rischio e pericolo.
‘Quando gli viene chiesto da cosa è guidata l’economia molti americani hanno una sola e semplice risposta che viene loro in mente immediatamente: ‘L’avidità’. (greed) Ritengono che i ricchi e potenti abbiano progettato l’economia in modo da beneficiare loro lasciando agli altri troppo poco o niente del tutto.’
Katherine J. Cramer and Jonathan D. Cohen, Many Americans Believe the Economy Is Rigged, NYTimes, Feb. 21, 2024
Sappiamo che gli americani pensano questo perché gliel’abbiamo chiesto. Nel corso degli ultimi due anni un nostro (AAAS) gruppo ha condotto più di 30 conversazioni con piccoli gruppi di americani da ogni angolo del paese.
Mentre gli indicatori nazionali possono suggerire che l’economia è forte, gli americani con cui abbiamo parlato non sono in buone condizioni; non pensano che l’economia li sostenti. Piuttosto tendono a vederla come un ostacolo, un insieme di forze esterne fuori dal loro controllo che tuttavia controllano le loro vite. ‘Mi sento come un perdente che non riesce ad andare avanti, e dipende tutto da avidità e profitto’.’
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Postdemocrazia o de-democratizzazione?
Alcune riflessioni tra storia e politica sul dibattito contemporaneo
di Elia Zaru -This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it. Università di Bologna
Abstract. Il saggio ricostruisce e analizza alcuni snodi del dibattito contemporaneo sulla crisi della democrazia, alla luce delle idee di «postdemocrazia» e «de-democratizzazione» e del legame tra crisi della democrazia e neoliberalismo rispetto al rapporto tra politica, democrazia, uguaglianza e azione collettiva. Il primo paragrafo è dedicato al lemma «postdemocrazia» e ne rintraccia le radici storico-teoriche nella «semantica del post». Il secondo paragrafo mostra il modo in cui in ottica neoliberale la crisi della democrazia non rappresenti un problema (come inteso dalla «postdemocrazia»), ma una soluzione a un problema rappresentato dall’eccesso di democratizzazione della società. A questo scopo, si traccia un collegamento tra le considerazioni espresse nel Report della Commissione Trilaterale (1975) e le proposte epistocratiche più recenti. Infine, dopo una breve analisi delle critiche all’epistocrazia, esposte nel terzo paragrafo, il quarto delinea alcune conclusioni che riallacciano il discorso della crisi della democrazia alla questione dell’uguaglianza e dell’azione collettiva.
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1. Crisi della democrazia e semantica del «post»
Che esista, nelle società occidentali, una «crisi della democrazia» è acclarato. Il primo e più immediato indicatore di tale crisi consiste nel calo costante della partecipazione elettorale1, a cui si affiancano altri fenomeni come, per esempio, lo sbilanciamento dei poteri in favore dell’esecutivo a scapito dei Parlamenti, o quella che in ambito giuridico è stata definita «decostituzionalizzazione»2. Sul piano materiale si assiste da alcuni decenni al progressivo smantellamento dei diritti sociali acquisiti nel contesto del welfare state, un processo che ha determinato «la drastica compressione della libertà e dell’uguaglianza dei lavoratori, e degli spazi di partecipazione reale dei cittadini»3.
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Gli ultimi rantoli del fascismo ebraico
di Thierry Meyssan
Chiunque in buona fede si rende conto che l’uccisione di 30 mila innocenti non può essere il prezzo per eliminare Hamas.
Per cui l’operazione Spade di Ferro si rivela per quello che è: una copertura per realizzare il vecchio sogno dei fascisti ebrei, da Jabotinsky a Netanyahu: espellere la popolazione araba dalla Palestina. Questo crimine di massa, commesso per la prima volta in diretta tivù, sconvolge lo scacchiere politico mondiale. Sentendosi minacciati, i suprematisti ebrei minacciano a loro volta gli Stati Uniti. E questi, intenzionati a rimanere i padroni del «mondo libero», si preparano a far cadere i suprematisti ebrei.
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L’amministrazione Biden assiste paralizzata alla reazione di Israele all’attacco della Resistenza palestinese – comprensiva di Hamas – denominata Diluvio di Al Aqsa (7 ottobre). L’operazione Spade di Ferro inizia con il bombardamento a tappeto della città di Gaza, d’intensità mai vista nel mondo e nella storia, nemmeno durante le due guerre mondiali. Il 27 ottobre, ai bombardamenti, si aggiungono l’intervento di terra, i saccheggi e le torture di migliaia di civili di Gaza. In cinque mesi i civili uccisi o scomparsi sono 37.534, di cui 13.430 bambini e 8.900 donne, 364 tra medici e personale sanitario, e 132 giornalisti [1].
Inizialmente Washington reagisce sostenendo senza esitazioni «il diritto di Israele a difendersi», minacciando di opporre il veto a ogni richiesta di cessate-il-fuoco e fornendo le bombe necessarie alla distruzione generalizzata dell’enclave palestinese. Gli Stati Uniti non possono infatti permettersi un’altra sconfitta, dopo quelle di Siria e Ucraina. Ma sui cellulari gli statunitensi assistono in diretta agli orrori compiuti da Israele.
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Mal d'Africa. E suo bene
Un continente conteso verso la seconda liberazione
di Fulvio Grimaldi
“Metapolitica - Il fuoriscena del potere” di Francesco Capo, con Gigi Lista, editore “L’Identitario”, Fulvio Grimaldi, giornalista, Antonio Pellitteri, docente universitario
https://www.youtube.com/live/CsioUXSqPq4?si=BvIMKs2J6ZeGjHY_
Il mio contributo a questa trasmissione di Francesco Capo riguarda la situazione geopolitica di Africa e dintorni, con i suoi primattori, i suoi figuranti, i suoi complici. Il dato certo è che l’Africa è una volta di più il continente giovane e nuovo, in attesa che riprenda e completi il suo percorso di liberazione, tra andate e ritorni, anche l’America Latina da Haiti in giù.
I punti cruciali sono noti: Il Sahel glorioso che si è liberato dalla manomorta colonialista e predatrice francese basata sul pericolo jihadista dallo stesso Occidente creato, allevato, impiegato qua e là. La Libia che, dopo averla rasa al suolo e privata di benessere e felicità, ne hanno provocato lo squartamento tra un regimetto banditesco fantoccio caro a ONU, Occidente e Roma, e un governo regolare che ne controlla tre quarti e viene sabotato dalla NATO.
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La coalizione dei "volenterosi" e la variabile (impazzita) polacca
di Giuseppe Masala
Ormai da anni andiamo spiegando che, purtroppo, non vi è alcuna possibilità che il conflitto nell'est europeo si concluda con l'eventuale capitolazione del regime di Kiev. Questo può essere affermato con ragionevole certezza in considerazione di innumerevoli ragioni. Innanzitutto i motivi di fondo che hanno fatto deflagrare il conflitto – sarebbe forse più corretto dire, che hanno spinto Washington a farlo deflagrare – sono ancora tutte irrisolte. Mi riferisco, chiaramente, al profondo squilibrio commerciale tra l'Europa e gli USA che vedono questi ultimi soccombere nei mercati mondiali di fronte alla ipercompetitività europea. Il profondo rosso dei conti con l'estero di Washington che sta portando – lentamente ma inesorabilmente – all'abbandono del dollaro da parte di molti investitori internazionali, a partire da quelli appartenenti ai BRICS (mi riferisco in particolare a Cina, Russia, Arabia Saudita ed EAU).
Non basta. Tra i nodi che inesorabilmente verrebbero al pettine con la capitolazione di Kiev vi sarebbe la giustificazione dei costi devastanti delle suicide sanzioni imposte dall'Europa alla Russia. L'impossibilità di giustificare questi costi da parte delle élites europee di fronte alle proprie opinioni pubbliche spinge inesorabilmente verso la continuazione del conflitto per allontanare il più possibile il redde rationem.
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I “false flag" del colonialismo europeo
di comidad
La locuzione “ha stato Putin” è diventata popolare, addirittura proverbiale, e indica il vezzo occidentalista di ritrovarsi un colpevole già pronto per l’uso, in modo da coprire le proprie responsabilità. Sarà difficile però spiegare la quasi unanime adesione del parlamento italiano alla missione navale “Aspides” nel Mar Rosso con un “ha stato Biden”, cioè nascondendosi dietro la consueta denuncia della servile fedeltà italica all’alleato americano. Una linea politica può non essere nelle condizioni di prevalere, ma deve comunque reggere sul piano comunicativo, cioè non smentirsi da sola. Se dico che sono contro ogni imperialismo compreso il nostro, e quindi anche contro le velleità dei nostri oligarchi di ritagliarsi uno spazio sub-imperialista all’ombra della potenza dominante, allora c’è un senso. Se invece faccio appello all’interesse nazionale, mi riferisco a un’astrazione fumosa che viene screditata dal fatto stesso che gli oligarchi di un paese ritengono di avere altri interessi da seguire.
Se la critica non ha una logica, poi te la dovrai rimangiare nella pratica. Nel dicembre scorso Giuseppe Conte aveva accusato il governo Meloni di “turbo-atlantismo” per la decisione di inviare una fregata nel Mar Rosso, e infatti ora i 5 Stelle si allineano al mantra ufficiale della “missione difensiva”.
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Esistono guerre giuste, altroché!
di Miguel Martinez
Io sono contrario a tutte le guerre, ma questo è un difetto mio.
Le guerre a cui io sono contrario si dividono in due tipi: le guerre sbagliate e le guerre giuste.
1940, ascolti alla radio la voce del Duce che annuncia “l’ora delle decisioni irrevocabili è arrivata!”
Poi un figlio lo perdi in Africa, un altro in Russia, gli statunitensi ti bombardano casa e tuo fratello finisce deportato in Germania.
Ecco, era proprio una guerra sbagliata, non ci piove.
Purtroppo da allora in Italia la parola guerra si porta dietro una cattiva nomea spesso immeritata.
Prendiamo invece la guerra statunitense in Afghanistan, 2001-2021.
Che è stata una guerra giusta, e vi spiego il perché.
La guerra sarebbe “costata” quattro trilioni di dollari, che è un po’ più del PIL della Germania. E sarebbe pure una guerra “persa”, nel senso che oggi il paese è governato dagli eredi di quelli che l’esercito USA cercò di cacciare nel 2001.
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Keynes “sovranista”: contro l’internazionalizzazione della finanza e per l’autosufficienza nazionale
di Enrico Grazzini
Pochi amano ricordare un fatto indiscutibile: John Maynard Keynes, il più grande economista del secolo scorso, era assolutamente contrario alla libera circolazione dei capitali e al dominio della finanza sull’economia, ed era anche decisamente a favore del “nazionalismo economico”, ovvero dell’autosufficienza delle nazioni. Il suo pensiero oggi è tornato di grande attualità: infatti tutte le più grandi economie, quella statunitense, quella cinese, quella russa, e buona ultima anche quella europea, puntano all’autosufficienza o, in ultima analisi, alla “non dipendenza”. L’autosufficienza che Keynes invoca nei suoi scritti era però finalizzata alla pace e allo sviluppo; l’autosufficienza che oggi cercano le grandi potenze è invece per prepararsi alla guerra.
In un suo articolo scritto nel 1933 – quando Mussolini e Stalin erano già al potere e Hitler cominciava a diventare capo assoluto della Germania – intitolato “National Self-Sufficiency”, Keynes non ebbe timore di valutare in maniera molto positiva il nazionalismo economico[1]. Scrisse infatti: “Io simpatizzo di più con coloro che vorrebbero ridurre al minimo le relazioni economiche tra le nazioni che non con quelli che le vorrebbero aumentare al massimo. Le idee, il sapere, la scienza, l’ospitalità, il viaggiare – queste sono le cose che per loro natura dovrebbero essere internazionali. Ma lasciate che le merci siano prodotte in patria ogni qualvolta è ragionevolmente e praticamente possibile, e soprattutto lasciate che la finanza sia prevalentemente nazionale”. Per Keynes moneta, credito e finanza dovevano essere gestite innanzitutto a livello nazionale. Certamente il “nazionalismo economico” di Keynes non ha nulla a che vedere con l’autarchia di marca fascista o sovietica, che Keynes critica nel suo articolo.
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Libere di vendere il proprio corpo a pezzi
di Carlo Formenti
Nel mondo esistono due industrie che sfruttano i corpi di milioni di donne esponendole ad altissimi tassi di nocività (non di rado con conseguenze mortali). La condizione di queste "lavoratrici" non è molto migliore di quella dei neri nei campi di cotone del Sud degli Stati Uniti prima dell'abolizione della schiavitù. Sono l'industria della prostituzione e l'industria della maternità surrogata. Vediamo alcuni dati. L’industria della prostituzione impiega 400.000 donne nella sola Germania, dove coinvolge 1,2 milioni di clienti e genera un flusso annuo di denaro pari a 6 miliardi di euro. Il tasso di mortalità è 40 volte superiore alla media e le prostitute corrono un rischio18 volte maggiore delle altre donne di essere uccise nell'esercizio della propria "professione". Secondo l’OIL (Organizzazione internazionale del lavoro) i profitti della tratta di esseri umani (donne e minori) sono valutabili in 28,7 miliardi dollari anno. Infine una ricerca condotta su 800 donne in nove paesi ha appurato che il 71% ha subito aggressioni dai clienti, il 63% sono state violentate, il 68% soffre di disturbi post traumatici da stress, l'89% ha dichiarato che vorrebbe cambiare vita se ne avesse la possibilità. Passiamo all'industria della maternità surrogata. Solo in India (il maggior fornitore mondiale di uteri in affitto) il giro d'affari è stato di 449 milioni di dollari nel 2006. Qui la nocività fisica è minore (anche se non trascurabile) ma è assai elevata sul piano psicologico: la brusca separazione dal figlio/a che si è portato in grembo per nove mesi, del quale non si potrà mai più avere notizia è per molte un'esperienza traumatica che i miseri compensi non bastano a lenire.
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Crisi bancaria americana, profezia o verità?
di Paolo Cleopatra
L’imminente crisi sistemica attuale si spiega ricordando brevemente le ragioni e lo svolgimento della crisi sistemica del 2007, causata dall’assenza di regole prima di tutto nel sistema statunitense.
L’inizio di quella crisi può essere ricondotto alla volontà delle principali istituzioni bancarie americane di spingere ai massimi livelli la concessione di mutui per l’acquisto di case: il sogno americano doveva essere sostenuto, ma soprattutto le spese dei privati dovevano continuare ad alimentare un mercato che dava da tempo segni di cedimento.
Decisione, quindi, politica, ma dalle fortissime implicazioni finanziarie e speculative.
Molte famiglie, rimaste scottate dalla crisi del 2001-2003, quando era scoppiata la bolla di internet, erano alla ricerca di altre forme di investimento e l’acquisto di una casa sembrava perfetto.
L’espansione del mercato immobiliare lasciava intravedere che la casa potesse sempre essere rivenduta a un prezzo maggiore; le agenzie immobiliari pensavano anche di poter incassare un numero crescente di intermediazioni.
Si è quindi messo in moto un mercato chiamato “NINJA”: “no income, no job or assets”, cioè mutui concessi a persone che non avevano un reddito, un lavoro o un’attività da dare a garanzia. Questa categoria fu chiamata “mutui subprime”, cioè con un’attendibilità al di sotto delle rate da pagare. Ingrossandosi, essa ha reso fragile la base economica delle successive operazioni finanziarie.
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Uno scenario di tipo ucraino per la Moldavia?
di Paolo Arigotti
Il territorio corrispondente all’attuale Moldavia, una superficie di poco superiore a un decimo di quella italiana, già facente parte dell’impero Ottomano, dopo alterne vicende seguite alla fine del primo conflitto mondiale, divenne nel giugno 1940 – per effetto del patto Molotov-von Ribbentrop e dell’ingresso dell'Armata Rossa in Bessarabia - parte integrante dell'Unione Sovietica, andando a costituire, assieme ad altri territori (compresa la Transnistria), la nuova Repubblica Socialista Sovietica di Moldova, una delle quindici entità federate dell’URSS.
Nell’agosto 1989 la Moldavia avviò il percorso verso l’indipendenza, adottando il rumeno (poi ribattezzato moldavo) come lingua ufficiale al posto del russo, e sostituendo il cirillico con l’alfabeto latino. Due anni dopo, approfittando del tentativo di golpe contro il leader sovietico Mikhail Gorbaciov, Chisinau dichiarò la propria indipendenza; per la cronaca, la Transnistria l’aveva preceduta di circa un anno, dichiarandosi indipendente già nel settembre del 1990, col nome ufficiale di Repubblica Socialista Sovietica Moldava di Pridnestrovia.
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La mutilazione di coscienza del radical chic
di Adriana Bernardeschi
In un mondo di diseguali che sprofonda nell’orrore di guerre, prevaricazioni, discriminazioni e violenze di ogni tipo, una certa “sinistra” borghese e benestante, spesso di valida provenienza militante, si fa compiaciuta portatrice di effimeri rammendi a una struttura irreparabilmente guasta. Lo fa da privilegiata, totalmente alienata da chi queste ingiustizie e questi orrori li subisce sulla propria pelle. Lo fa perché le è stata amputata la coscienza di classe. Come è avvenuta questa mutilazione e che cosa la alimenta e diffonde? Come contrastarla?
Vivendo per tanti anni a Milano, ho assistito, forse in modo più marcato che altrove, ma non si tratta certo di un fenomeno locale, alla progressiva fagocitazione della coscienza di classe della sinistra da parte del fenomeno cosiddetto “radical chic”.
Il benessere relativamente diffuso (ma sempre con i mendicanti distribuiti ogni pochi metri sui marciapiedi e i senza dimora a dormire nei ripari fortuiti dei mezzanini della metropolitana, a testimonianza delle violente diseguaglianze) degli anni che hanno preceduto l’esplodere della crisi economica (che era però già innescata da tempo) ha prodotto in un certo popolo di sinistra – per la mia esperienza posso testimoniare su quello milanese, ma in forme leggermente diverse, più o meno marcate, questo è successo ovunque – una falsa coscienza da “sabato in barca a vela, lunedì al Leoncavallo”, come recita una canzone degli anni Novanta di un gruppo milanese, per l’appunto.
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Comunismo o barbarie. Un manuale per ribelli rivoluzionari di Alessandro Pascale
di Marco Pondrelli
Il ponderoso libro di Alessandro Pascale è una lettura stimolante che chiunque può leggere, è però pensato innanzitutto per formare i futuri militanti e quadri comunisti. La formazione è stata, dalla nascita di Rifondazione Comunista in poi, la grande assente nella prassi delle organizzazioni comuniste. Ci si avvicina e si entra in un Partito senza essere comunisti formati, il compito del Partito è costruire i futuri quadri dirigenti. Lenin diceva che dopo una sconfitta i comunisti sono quelli che resistono meglio, perché sanno ritirarsi in modo organizzato, se questo negli ultimi decenni non è successo è anche perché in passato era mancato un lavoro di formazione. Il fatto che pezzi del gruppo dirigente del PRC siano finiti nel Pd o addirittura con Matteo Renzi spiega e dimostra questi limiti.
L’Autore ricorda come la nascita di alcuni recenti movimenti di protesta si stata segnata da una forte spontaneità, con il rischio concreto di ‘diventare strumenti manipolabili facilmente dal regime’ [pag. 14], è emblematico il caso di Podemos in Spagna. Questa capacità di manipolare diventa evidente quando si svuotano di significato alcune figure trasformandole in icone.
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L’occidente e il nemico permanente: il libro di Elena Basile è in sintonia con la linea del Papa
di Paolo Ferrero
Le reazioni dei media e dell’establishment all’appello che il Papa ha fatto al governo ucraino di arrendersi per porre termine e quello che è un insensato macello sono emblematici della follia che caratterizza il mondo occidentale.
Da un lato, i “cani da guardia” con l’elmetto che, in piena sintonia con il governo ucraino, considerano il Papa un traditore, un amico di Putin e così via. Dall’altra la tendenza “riformista”, di chi cerca di ingabbiare quanto detto da Francesco per ricondurlo alla normale amministrazione, all’inefficacia. Il Cardinale Parolin è la punta di lancia di questa tendenza, condizionando l’apertura delle trattative al cessate il fuoco russo. A compendio di queste due impostazioni il grosso dei media ha sottolineato come il Papa sia un uomo di fede e non un diplomatico o un politico, ma soprattutto ne ha praticata una terza: smettere di parlarne il più rapidamente possibile. Infatti il Papa è scomparso dagli schermi in un battibaleno.
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Urbanistica e opposizione
di Luciano Bertolotto
Perché?
Scelta obbligata, almeno per me. Piccola città. Deindustrializzata. Invecchiata. Come molti altri paesoni in Piemonte. La politica? Si vota ogni cinque anni, e tanto basta. Alle urne ci va metà, o poco più, degli aventi diritto.
Il volontariato è, in piccola parte, impegnato sul piano culturale. Molto di più nell'assistenza. Attività meritorie. Però non mi sembrano bastanti a porre (se non in piccola parte) rimedio alle deficienze di questo modo di vivere. E alle relative conseguenze... Vorrei incidere, concretamente, sulle cause. Per questo, anche se poco la conosco, mi occupo di urbanistica. Con la velleità di fare una (sia pur minima) opposizione. Che, poi, consiste nella resistenza a decisioni che altri hanno preso. Non c'è nulla(forse...) di scandaloso in quello che lor signori fanno. Almeno, niente di nuovo. I soldi ci sono. Qualcuno fatto in precedenza con il nero. Sia nei conti che in cantiere.
Forse c'è, pure, una fettina dei tanti miliardi che le mafie investono sul territorio nazionale. Ma di questo, in città, si parla poco e sottovoce...
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Uno sguardo di sintesi sulle relazioni Italia/UE-Cina
di Alberto Bradanini
Per comprendere oltre alla forma anche la sostanza delle relazioni Cina-Italia/Europa è cruciale acquisire consapevolezza dei pilastri della soggettività statuale dei due protagonisti, tenendo in conto che le caratteristiche istituzionali, politiche e ideologiche delle due nazioni, risultato di una distinta traiettoria storica, modellano anche le relazioni bilaterali e la rispettiva agibilità internazionale.
La Cina, innanzitutto: la Repubblica Popolare è un paese sovrano, espressione di una potenza economica e politica in crescita accelerata e palpabile in ogni angolo del pianeta. Al centro delle sue istituzioni è collocato il Partito Comunista, che garantisce stabilità e indipendenza alle scelte di politica interna e internazionale della Repubblica Popolare. Il pieno esercizio della sovranità, essenza costitutiva di ogni statualità degna di questo nome, ha rappresentato la prassi strategica che ha consentito alla Cina di riscattare il secolo dell’umiliazione nazionale (1839-1949), generando un benessere inedito per una popolazione che nella storia aveva conosciuto solo povertà ed emarginazione, divenendo in poco più di quarant’anni una potenza economica mondiale.
La gerarchia dei paesi che contano per Pechino vede al primo posto gli Stati Uniti – per i quali la Cina, a seconda dei casi, costituisce un partner, un concorrente o un insidioso rivale strategico – seguiti a distanza dalla Russia (per ragioni economiche/energetiche e di comune interesse a contenere l’egemonismo americano), dal Giappone (con cui vige una pace fredda, economia bollente, politica gelida), dai paesi produttori di petrolio e materie prime, e via via tutti gli altri.
Al centro di un mondo sempre più plurale – i cui principali gruppi di riferimento sono i Brics+[1], la Sco[2], la Rcep[3] e altre aggregazioni regionali esterne all’Occidente a guida Usa – si situa la Repubblica Popolare.
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La revisione del PNRR: un gioco delle tre carte per regalare soldi ai padroni
di coniarerivolta
Nei giorni scorsi, mentre l’attenzione pubblica era concentrata sulle vistose crepe aperte nella maggioranza dalle elezioni regionali in Sardegna, il Consiglio dei Ministri ha approvato un nuovo decreto-legge in materia di Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), il mirabolante programma messo in piedi dall’Unione Europea per fronteggiare le conseguenze economiche della pandemia. Abbiamo seguito fin dal suo avvio questo programma, non senza una certa curiosità: la classe dirigente europea, di cultura neoliberista e ideologicamente contraria alla spesa pubblica e alla pianificazione dell’economia (quante battute sulla politica economica sovietica e sui piani quinquennali?), varava un piano di investimenti addirittura sessennale (2021-2026) e annunciava una pioggia di centinaia di miliardi di euro di spesa pubblica per riparare i danni causati dalla pandemia.
Come abbiamo avuto modo di spiegare, si trattava di mera propaganda, mentre l’obiettivo politico del PNRR era legare le finanze dei Paesi europei a una serie di condizionalità che li impegnano a varare riforme strutturali orientate alla deregolamentazione e alla liberalizzazione, nonché a vincolare il contenuto dei principali investimenti al negoziato con la Commissione europea, che così non si limita a imporci l’austerità, cioè i tagli alla spesa, ma anche il suo contenuto, ossia l’indicazione dei tagli e delle risorse da salvare. Ecco da cosa deriva il ritrovato favore verso la pianificazione: il PNRR è la pianificazione del neoliberismo e dell’austerità imposta alle economie europee nel momento in cui queste si trovavano nella necessità di spendere oltre i vincoli del Patto di stabilità e crescita per uscire dalla crisi pandemica.
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Le cosiddette "purghe di Stalin". Mito, realtà storica e contesto
di Thanasis Spanidis | kommunistische.org
Nel 1937-38, in Unione Sovietica scoppiò un'ondata di violenza che non si vedeva dai tempi della guerra civile. In questi due anni furono giustiziate oltre 680.000 persone e il numero di detenuti dei campi penali raggiunse il massimo storico di quasi 1,9 milioni nel 1938 (Getty /Rittersporn/Zemskov 1993, p. 1023).
Ancora oggi, questi eventi forniscono all'anticomunismo un modello popolare per bollare come criminale e assassino il periodo di costruzione socialista che Stalin ha contribuito a plasmare, o addirittura l'Unione Sovietica e l'idea comunista in generale. Ma anche all'interno del movimento comunista è ancora diffusa l'interpretazione secondo cui le repressioni sarebbero state semplicemente una conseguenza della ricerca del potere da parte di Stalin, che nel migliore dei casi ha fatto riferimento al contesto della minaccia internazionale negli anni precedenti la Seconda guerra mondiale. Ad esempio, il defunto Robert Steigerwald (DKP), che tende a ritenere che tutti i condannati nei processi di Mosca, nell'affare Tukhachevsky e nelle repressioni di massa fossero innocenti. Una "quinta colonna" (cioè una cospirazione controrivoluzionaria di fronte all'imminente invasione nemica) non esisteva, "esisteva nelle 'confessioni' estratte con la tortura. Non c'era altro" (Steigerwald 2018). Il giornale Junge Welt ha pubblicato il 29 luglio 2017 un articolo di Reinhard Lauterbach dello stesso tenore: suggerì inoltre che Stalin aveva sistematicamente ucciso i suoi rivali e scatenato un terrore di massa mirato contro la società. A tal fine, aveva persino emesso delle "quote" di arresti e fucilazioni che la polizia segreta doveva rispettare (Lauterbach 2017).
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Per la Resistenza
di Nico Maccentelli
Sindaci del PD che proibiscono film prodotti in Russia, episodi di russofobia da parte di istituzioni di vario genere, Pina Picerno, PD, vicepresidente del Parlamento Europeo che chiede alla Commissione Europea e al Consiglio dell’Unione Europea di inserire il writer napoletano Jorit nella lista delle persone sottoposte a sanzioni, sono solo alcuni esempi del clima che il nostro, come altri paesi atlantisti, respira in un’escalation ossessiva e fanatica propria delle borghesie nazionaliste (in questo caso europeiste) che si preparano alla guerra.
La propaganda e la censura di guerra sono una realtà, in stretta relazione con l’andamento della guerra in Ucraina, nella realtà dei fatti condotta dalla NATO, ma dove gli apparati militari ucraini, pur riforniti di armi dall’Occidente atlantista e supportati da esperti, mercenari, tecnici e dispositivi altamente tecnologici NATO, non riescono tuttavia a reggere l’impari confronto militare con la Federazione Russa.
Se le ricadute economiche nei paesi europei sanzionatori, che di fatto sono i veri sanzionati, non sono immediatamente associabili alle risorse che a miliardi di Euro sono andate a Kiev, quelle sul terreno della democrazia interna, già duramente minata in questi decenni di “emergenze” d’ogni tipo, si sentono eccome.
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La Francia va alla guerra. Forse, però, non sa…
di Francesco Dall'Aglio
Il Macron-gate (è un termine stupido, scusatemi) si arricchisce di nuovi particolari. I rappresentanti dei partiti d’opposizione sono stati convocati all’Eliseo e ne sono usciti, come diciamo noi qui nell’Iperborea, “carichi di meraviglie“.
Secondo Fabien Roussel, il segretario del Partito Comunista francese, Macron ha dichiarato che “non ci sono più linee rosse, non ci sono più limiti” all’impegno francese, il tutto mentre Macron mostrava su una carta dei freccioni che rappresentavano le truppe russe in marcia verso Kiev e Odessa, ossia uno scenario “che non possiamo permettere” (e sulla possibilità che i francesi avessero intenzione di farsi un giro da quelle parti ero stato facile profeta, non ci voleva chissà che).
Marine Tondelier, segretaria di “Les Écologistes”, ha riferito invece che Macron, dopo aver detto che Putin “chiaramente non ha limiti“, ha affermato che “dobbiamo dimostrargli che anche noi non abbiamo limiti“.
Infine, Manuel Bompard, coordinatore del gruppo operativo nazionale di “La France Insoumise”, ha dichiarato “di essere arrivato preoccupato [all’incontro con Macron] e di essere andato via ancora più preoccupato“.
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“La zona d’interesse.” Un paio di cose che ho visto
di Daniela Mazzoli
La prima cosa che ho visto è stato un mucchietto di persone che usciva dalla sala con gli occhi sbarrati e le teste infastidite dal rumore che si sentiva forte anche da fuori. Come se fossero state costrette a uscire per via del frastuono assordante. Ho avuto paura ma mi sono fatta coraggio. Sapevo almeno come sarebbe finita.
Il film è pieno di paesaggio. Inizia anche con un paesaggio. Un fiume, un prato che declina, alberi, lo schermo pieno di verde, foglie, e una famiglia in gita con cestini di cibo e bambini al seguito. E anche durante il resto del tempo ci sono fiori che sbocciano, fiori messi a disposizione della mano di un neonato, fiori che non si possono tagliare indiscriminatamente, a meno di una severa punizione, perché rappresentano il ‘decoro’ della piccola comunità che vive intorno e dentro il campo di concentramento. Il comandante Höss si preoccupa di emettere un ordine in proposito alla raccolta feroce dei lillà dai cespugli.
La natura è lì che migliora la vita di chi abita la grande casa al di qua del muro. Una natura addomesticata certo, un giardino con un piccolo orto che fornisce alla famiglia un po’ di svago e anche del nutrimento: i bambini vanno pazzi per certi ortaggi.
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La “potenza” del pensiero di Karl Marx
di Gianfranco Cordì
Recensione del libro di Isaiah Berlin Karl Marx (Adelphi, Milano, 2021)
Se non capisci la storia sei destinato a non capire nulla della filosofia di Karl Marx: tutto parte da lì. Isaiah Berlin, in questa sua “biografia intellettuale” (stando alle stesse parole di Henry Hardy, il quale ha curato il volume – che reca nel suo titolo il nome e il cognome del grande pensatore comunista – per la casa editrice milanese Adelphi, uscito nella traduzione fatta da Paolo Battino Vittorelli dall’originale inglese), non fa che porre l’accento e “specificare” proprio quanto la “storia” – che è sempre in Karl Marx storia di una determinata “società” e non del singolo individuo o di una nazione o di un certo episodio “storicamente rilevante” –, mutuandone la discriminazione dalla originaria ascendenza di matrice hegeliana, abbia interessato, coinvolto, avvinto il pensatore di Treviri (Karl Marx, infatti, era nato in quella città della Renania tedesca il 5 maggio del 1818) al punto da farne il “centro” direzionale della sua stessa analisi del Capitale, degli obiettivi del movimento operaio internazionale, del comunismo e, in definitiva, della stessa “politica”, in tutte le sue varie manifestazioni. Ma che cos’è la storia?
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Guerra russo-ucraina: ultimo atto?
di Giacomo Gabellini
Giorni bui per l’Ucraina. Sul piano di sostegno collettivo da 106 miliardi di dollari predisposto lo scorso ottobre dall’amministrazione Biden, comprensivo di stanziamenti per 61,4 miliardi all’Ucraina, permane a tutt’oggi il veto del Congresso, nonostante gli avvertimenti formulati dal consigliere per la Sicurezza Nazionale Jake Sullivan. Secondo cui il mancato sblocco del programma di sostegno all’ucraina avrebbe prodotto «gravi conseguenze», in quanto «ogni settimana che passa, la nostra capacità di finanziare completamente ciò che riteniamo necessario per permettere all’Ucraina di difendere il suo territorio e fare progressi sul campo si riduce costantemente. Per noi, la finestra si sta chiudendo». La compagine “trumpiana” al Congresso è tuttavia rimasta sui suoi passi, in omaggio a un evidente calcolo pre-elettorale, ma anche nella convinzione che il governo non disponga di una vera strategia per l’Ucraina. Nonché per i crescenti timori che parte assai considerevole degli aiuti verrebbe risucchiata nel vortice della corruzione, come si evince – da ultimo – dall’incremento del numero dei milionari registrato in Ucraina dal 2022.
Lo scorso novembre, il generale Valerij Zalužnyj, allora capo di Stato Maggiore dell’esercito ucraino, aveva scritto un articolo sull’«Economist» arricchito da un’intervista rilasciata sempre alla nota rivista britannica. La sue esternazioni hanno con ogni probabilità concorso a portare i preesistenti dissidi con Zelens’kyj oltre la soglia critica, poiché dal quadro dipinto dal generale emergeva con chiarezza cristallina che la controffensiva avviata nella tarda primavera del 2023 dalle forze armate ucraine non aveva raggiunto alcuno degli obiettivi perseguiti dal governo di Kiev e dai suoi sponsor occidentali. Di lì a qualche mese, Zalužnyj è stato rimosso dall’incarico e nominato ambasciatore ucraino in Gran Bretagna; una “promozione” utile a tenerlo a distanza da Kiev.
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Fiori e cannoni: la doppia (e oscura) transizione dell’UE
di Nicola Dimitri
Fiori
Le ricadute socio-ambientali direttamente o indirettamente correlate al cambiamento climatico, riferiscono a fenomeni articolati e complessi (tra loro collegati), idonei a innescare con un effetto a catena centinaia di ulteriori ripercussioni nefaste. Questo è particolarmente vero, ad esempio, se si pensa allo scioglimento delle calotte polari e all’erosione del permafrost (con il rischio di riattivazione di virus o agenti patogeni sconosciuti e potenzialmente letali); all’innalzamento del livello dei mari; alla frammentazione della biodiversità; all’alterazione del ciclo idrologico (con siccità diffusa e precipitazioni più rare quanto severe); all’incremento della mortalità legata all’inquinamento; al consolidamento di fenomeni migratori forzati dovuti a catastrofi naturali (con contestuale approfondimento delle disuguaglianze); allo scoppio sempre più frequente delle c.d. guerre climatiche per la gestione di risorse naturali sempre più scarse…e così via.
Tuttavia, di fronte a tali (drammatici e per certi versi inediti) scenari, l’Unione europea non è rimasta inerte. Al contrario. Le Istituzioni europee e con queste gli Stati membri hanno intensificato i loro sforzi economici e politici al fine di contrastare, o tuttalpiù ritardare, gli effetti avversi del climate change e promuovere la transizione green.
Ad esempio, tra le altre cose, a partire dal 2019 l’obiettivo di costruire un’“Europa verde e a impatto zero” ha trovato ingresso nell’agenda del Consiglio europeo, primeggiando tra le priorità strategiche dei leader dei Paesi membri.
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La propaganda degli 007 per la guerra mondiale
di Elena Basile
Pubblichiamo, su gentile concessione dell'Autrice, l'ultimo articolo dell'Ambasciatrice Elena Basile su il Fatto Quotidiano del 10 marzo. Si tratta di un testo fondamentale per comprendere anche la rete di censura che si muove contro un giornale regolarmente registrato come l'AntiDiplomatico.
Buona lettura
La relazione dell’intelligence italiana al Parlamento illustrata dalla direttrice del Dis Elisabetta Belloni e dal sottosegretario Alfredo Mantovano è purtroppo un riepilogo di luoghi comuni della propaganda Nato senza alcun approfondimento o dato di rilievo. Il ministro Antonio Tajani se ne renderà forse conto. È preoccupante che le competenze dell’intelligence siano, volutamente o meno, incapaci di una visione strategica fondata sulla conoscenza reale degli scacchieri internazionali nei quali si opera. Ci uniamo a Emmanuel Todd che nel suo bellissimo libro La defaite de l’Occident si domanda come sia possibile che l’intelligence occidentale abbia preso un abbaglio così grande con la Russia, assecondando una politica di sanzioni economiche e una graduale discesa in guerra militare della Nato al fianco dell’Ucraina, nel presupposto che in pochi mesi Putin sarebbe caduto e gli occidentali avrebbero avuto a Mosca un governo più debole e malleabile per le loro mire espansionistiche.
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