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Il capitale globalizzato e la ripresa dello stato
di Domenico Moro
Tra gli aspetti della riflessione di Marx ed Engels che trovano conferma oggi, a distanza di 150 anni dalla pubblicazione del Capitale, ci sono la tendenza del capitalismo alla crisi, sempre più grave, e le conseguenze contraddittorie che porta. Queste sono rappresentate dalla internazionalizzazione delle imprese, dall’aumento della concorrenza tra capitali e dall’accrescimento delle dimensioni delle imprese, soprattutto mediante la centralizzazione proprietaria[1]. Ma c’è un altro aspetto della riflessione dei fondatori del materialismo storico che è confermato: la natura di classe dello Stato, che oggi trova una espressione significativa anche nei processi di centralizzazione sovrannazionali.
Dopo oltre tre decenni di liberismo di mercato e privatizzazioni stiamo assistendo al ritorno dello Stato-nazione nell’economia. In realtà, non si tratta di un ritorno alla mano pubblica, ma dello schierarsi dello Stato-nazione a sostegno del proprio capitale. Quella che viene messa in discussione non è la libertà di movimento del proprio capitale, ma la libertà di quello altrui. Questo fenomeno si manifesta soprattutto nei Paesi di più antico capitalismo, l’Europa occidentale, gli Usa e il Giappone, già alfieri della deregolamentazione e del libero mercato, ma ora costretti a cambiare rotta sotto un attacco che proviene da due fronti. Da una parte, c’è la crisi, che non vuole passare e che si è manifestata più acutamente nelle aree capitalisticamente più sviluppate, coerentemente con la teoria marxista della tendenza alla sovraccumulazione di capitale[2]. Dall’altra parte, ci sono i Paesi cosiddetti emergenti la cui quota sulle esportazioni mondiali è cresciuta enormemente: i Brics sono passati dal 7,4% del 2000 al 18,2% del 2017[3]. La minaccia è avvertita soprattutto nei confronti della Cina, in particolare nella tecnologia 5G e nell’intelligenza artificiale (IA), che hanno una enorme rilevanza industriale-commerciale e strategico-militare.
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Il comunismo come “potenzialità ontologica”
Breve saggio sul marxismo critico di Costanzo Preve
di Gabriele Rèpaci
«Il recupero della filosofia significa recupero dello spirito filosofico. Il sistema capitalistico è talmente violento, anche se si presenta apparentemente come tollerante e liberale, che la gente cerca istintivamente il contrario. Lo spirito filosofico risponde a questa esigenza quasi sempre inespressa di conversazione e di comunicazione, che poi è anche il solo possibile antidoto alla perversa dialettica fra rassegnazione apparente e scoppio improvviso di rabbia repressa, che tutti gli osservatori possono riscontrare nei posti di lavoro, nelle discoteche e negli stadi»
(Costanzo Preve)
Costanzo Preve è un autore divenuto noto ai più, soprattutto dopo la sua prematura scomparsa avvenuta all’età di settant’anni, per essere stato il maestro e l’ispiratore del filosofo Diego Fusaro nonché uno dei presunti ideologi di quella galassia politica nota oggi con il nome di “rossobrunismo”. Ma come osservava saggiamente Hegel a suo tempo «ciò che è noto, non è conosciuto. Nel processo della conoscenza, il modo più comune di ingannare sé e gli altri è di presupporre qualcosa come noto e di accettarlo come tale». Questo breve saggio senza alcuna pretesa di sistematicità vuole fare luce sul contributo di Preve alla teoria marxista novecentesca evidenziandone l’elemento di discontinuità in vista di una rifondazione filosofica e politica della prospettiva comunista¹.
La riflessione di Costanzo Preve va distinta in almeno due periodi. Negli anni ’80, in una congiuntura teorica caratterizzata dalla liquidazione differenzialista e positivista della dialettica, i cui esiti sono l’enfasi sulla pluralità disseminata dei saperi e la lettura della modernità in chiave di secolarizzazione, Preve fa riferimento ai punti alti del marxismo novecentesco per mostrare l’esistenza di alternative alle grandi narrazioni dello storicismo e dell’operaismo e per prendere le distanze da un lessico filosofico che civetta con la weberiana gabbia d’acciaio, con l’heideggeriano destino della tecnica, con il prospettivismo nietzscheano, con la complessità sistemica, per alludere all’intrascendibilità dell’universo capitalistico.
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Il Marx di Bontempelli
di Salvatore Bravo
Massimo Bontempelli (Pisa, 26 gennaio 1946 – Pisa, 31 luglio 2011) interprete di Marx, a Marx ci si approssima, affermava Costanzo Preve, per cui ogni illusione di rispecchiamento perfetto, non è che esemplificazione di un autore. Massimo Bontempelli si approccia non solo con rigore metodologico, ma specialmente da hegeliano di formazione si accosta a Marx con metodo olistico attraverso la lettura dei testi ne coglie il fondamento, l’umanesimo marxiano ed il problema della reificazione, e specialmente dimostra che non vi può essere nulla di più ingenuo che porre in antitesi Marx ed Hegel, anzi Marx sviluppa e porta a compimento intuizioni, concetti e metodi presenti nel pensiero hegeliano. L’attività filosofica è ripensare, per ricreare in nuovi orditi teoretici concetti già dati. Il breve saggio di Bontempelli si conclude con l’orazione funebre di Engels all’amico, non è un caso che Bontempelli abbia voluto così chiudere l’introduzione a Marx, Engels parla omaggia l’amico che ha smesso di pensare, ovvero per Marx vivere è pensare, non è concepibile la lotta senza prassi che si coniuga con la teoretica. Il pensare marxiano è polisemico, speculare alla creatività stilistica del suo filosofare. Pensare per Marx non è il freddo calcolare logico, ma è il pensare partecipante, è attività, prassi, trasformazione dei comportamenti sociali, poiché ogni soggetto umano è comunitario per sua essenza. Il pensiero è sempre intenzionalità attraverso la quale sono messi in atto i processi di riconoscimento, autoriconoscimento e critica sociale. Così Engels nella sua orazione funebre (1883)1 :
"Il 14 marzo, alle due e quarantacinque pomeridiane, ha cessato di pensare la più grande mente dell'epoca nostra. L'avevamo lasciato solo da appena due minuti, e al nostro ritorno l'abbiamo trovato tranquillamente addormentato nella sua poltrona, ma addormentato per sempre”.
L’economia politica
L’economia politica marxiana nella sua impostazione è hegeliana, vi sono due metodi di indagine: uno parte dal dato concreto ed astrae le strutture: gli economisti inglesi iniziano la loro indagine dalla proprietà avulsa dai processi storici, per cui la proprietà e le differenze sociali sono rese ipostasi, dogmi indiscutibili, si costruisce in tal modo l’ideologia economica che rispecchia la condizione storica eternizzandola.
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Ventidue tesi sul “momento populista”
di Carlo Formenti
Nel suo ultimo libro, Il socialismo è morto, viva il socialismo! Dalla disfatta della sinistra al momento populista, Carlo Formenti analizza le caratteristiche dell'odierno “momento populista”, difendendo l'ipotesi di un nuovo sovranismo di sinistra
1. Il populismo non è un’ideologia: in primo luogo perché non esistono testi “fondativi” (paragonabili a quelli di Marx per la sinistra) in grado di attribuire forma coerente e unitaria al discorso populista, poi perché quest’ultimo non è associato a contenuti programmatici univoci. Di più: il fenomeno ha assunto nel tempo forme diversissime, dai populismi russo e americano di fine Ottocento-primo Novecento (entrambi caratterizzati da radici di classe contadine, ma diversi sul piano ideologico) ai populismi latinoamericani di ieri (Peron, Vargas e altri) e oggi (le rivoluzioni bolivariane in Bolivia, Ecuador e Venezuela) con prevalenti connotati nazionalisti i primi, orientati al socialismo i secondi, per finire con i populismi contemporanei di destra e sinistra negli Stati Uniti (Trump vs Sanders) e in Europa (Le Pen vs Mélenchon in Francia, Podemos vs Ciudadanos in Spagna). Esistono tuttavia elementi comuni, a partire dallo stile comunicativo[1]. Mi riferisco, in particolare, all’uso di un linguaggio semplificato e diretto, marcato da un elevato contenuto emotivo (ciò che si dice parlare alla “pancia” delle persone) e teso a istituire opposizioni bipolari (noi/loro, popolo/élite, alto/basso ecc.). Per i populisti è inoltre fondamentale raccontarsi come una forza politica del tutto nuova, evitando di ricorrere a parole, idee e categorie proprie dei partiti tradizionali (di destra come di sinistra) e tentando invece di promuovere nuovi significanti in grado di creare un inedito senso comune (di qui il frequente riferimento alla categoria gramsciana di egemonia da parte di intellettuali e leader populisti di sinistra).
2. Il popolo che i populisti aspirano a rappresentare non è un’entità “naturale”, preesistente all’insorgenza del loro discorso politico (a differenza del popolo evocato dal nazifascismo, che rinvia a radici comuni di tipo etnico, razziale, antropologico, storico-culturale ecc.).
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Gilets jaunes, lotta di classe, neo-populismo, sovranismo
di Nicola Casale
L’avvento e la resistenza del movimento dei gilets jaunes mette a dura prova la politica di riforme che Macron è incaricato di promuovere per trarre fuori la Francia dal rischio di declino della sua potenza capitalistica e per contribuire a tirarne fuori l’intera UE. Questo genera preoccupazioni nelle élite europeiste, mentre produce soddisfazione negli Usa, dove, con perfetta continuità Obama-Trump, l’Europa la si vuole unita a condizione che sia sottomessa, e si è, in caso contrario, pronti a far di tutto per farla esplodere, essendo più semplice sottomettersene i singoli paesi (se necessario anche frammentandone qualcuno: Belgio, Spagna, Italia...). Su assi analoghe si dividono le borghesie nazionali, le quali, non di meno, devono misurarsi col rischio di effetto-contagio del movimento oltre i confini francesi.
Negli ultimi decenni la Francia ha già avuto forti movimenti di resistenza, ma quello in corso non ne è la semplice ripetizione. Ci sono molte differenze e sono quelle che generano più preoccupazione tra le elites.
I movimenti precedenti erano stati promossi e gestiti nell’ambito della sinistra. Il movimento dei gilets jaunes non la riconosce come guida e neanche come tutor (e perciò viene sbrigativamente etichettato di destra). Perché? Le sue rivendicazioni potrebbero figurare in programmi di sinistra, come Melenchon e Cgt si sono offerti di fare. Non hanno, infatti, alcun carattere esplicito o implicito anti-sistema, anti-capitalistico, si limitano a chiedere delle riforme nel senso classico del termine, tese a migliorare le condizioni di chi vive del proprio lavoro, di chi non ha un lavoro, o vive con misere pensioni o sussistenze, e che ci sia più eguaglianza nell’imposizione fiscale eliminando le riduzioni di Macron alle imposte su patrimoni e aziende. Nulla di diverso dalle rivendicazioni del movimento operaio novecentesco, se non che sono persino più moderate di quelle del decennio a cavallo anni 60-70.
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La storia della terza rivoluzione industriale
1. Visioni dell’automazione
di Robert Kurz
Iniziamo qui la pubblicazione della sezione VIII di uno dei libri più famosi di Robert Kurz, lo Schwarzbuch Kapitalismus (“Il libro nero del capitalismo”). Questa sezione tratta della storia della cosiddetta terza rivoluzione industriale, l’epoca in cui il capitalismo si fa informatico e cibernetico. In questo momento storico, che è quello che stiamo vivendo, la forza lavoro umana perde il suo ruolo centrale diventando di fatto comprimaria di una svolta epocale in cui il capitale raggiunge i suoi limiti e pone il mondo e tutti noi di fronte ad una decisione molto difficile ma non rimandabile: prendere sul serio la possibilità (forse dovremmo dire la necessità) del suo superamento. L’alternativa è che ad essere superati si sia noi come esseri umani, e con noi il mondo.
Partiamo con il primo capitolo, “Visioni dell’automazione”. A breve seguiranno gli altri otto. Tutto questo dovrebbe preludere alla pubblicazione cartacea dell’intero libro, che auspichiamo avvenga nel minor tempo possibile [redazione].
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Ormai giunto all’ultimo terzo del XX secolo il capitalismo aveva già dimostrato a sufficienza di quale maestria fosse in grado nell’arte di addestrare gli uomini, fino a che punto esso fosse riuscito nell’impresa di trasformare la maschera delle sue forme feticistiche nel volto del mondo materiale e persino di gran parte del mondo naturale, nonché a spingere verso la negazione di sé grandi masse umane. Ma neppure questa straordinaria prestazione poté mai ammutolire del tutto il disagio elementare, che è fondamentalmente insito nell’autocontraddizione logica di questo modo di produzione e di vita. La fede nel progresso si era già esaurita nel XIX secolo (anche se da allora il suo fantasma viene regolarmente invocato dagli ottimisti di professione e dagli imbonitori del capitalismo per sdrammatizzare la crisi) e il soggetto borghese-illuministico aveva tolto il disturbo, al più tardi con la Prima guerra mondiale, per lasciare il posto ai rituali sado-masochistici del sacrificio di sé in un processo sociale considerato impossibile da governare e tuttavia gli uomini del dopoguerra fordista, degradati a mera materia prima, potevano ancora anestetizzarsi mediante la scialba ebbrezza del consumo.
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Potere digitale. Come Internet sta cambiando la sfera pubblica e la democrazia?
Luigi Somma intervista Gabriele Giacomini
Internet sta cambiando la sfera pubblica e la democrazia? Il web è il luogo dell’informazione libera e autonoma o le informazioni si stanno organizzando attorno a inediti centri di potere? Internet promuove un pluralismo dialogico o rischia di nutrire una crescente polarizzazione? La democrazia rappresentativa è da superare oppure rimane la soluzione migliore per governare? La democrazia è certamente un sistema aperto (quindi sempre imperfetto e in evoluzione), ma è anche responsabilizzante: è compito dei cittadini e delle classi dirigenti gestire al meglio gli esiti dell’innovazione tecnologica.
Intervistiamo su questi temi Gabriele Giacomini, autore del volume “Potere digitale. Come Internet sta cambiando la sfera pubblica e la democrazia”, pubblicato a fine 2018 dall’editore milanese Meltemi.
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Se da una parte le nuove tecnologie digitali alimentano il bisogno di una maggiore partecipazione democratica, dall’altra dobbiamo anche registrare fenomeni di disintermediazione, che hanno investito anche la struttura dei partiti e i corpi intermedi. Che ne pensa?
Il problema della disintermediazione è strettamente correlato al tema dei partiti, dal momento che la democrazia dei moderni ha visto sempre al centro il potere dei partiti. Nonostante questi abbiano mutato nel tempo le proprie forme, costituiscono, in ogni caso, una costante della democrazia rappresentativa. Siamo passati da un partito di notabili – il partito della democrazia a suffragio ristretto – al partito di massa, e ora si è registrata un’ulteriore modificazione: i partiti stanno cambiando in rapporto stretto con quelle che sono le tecnologie della comunicazione. Per spiegare questi cambiamenti partiamo dalle caratteristiche del partito di massa tradizionale.
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Pasolini e le semiotiche dell’immanenza
Segni e macchine
di Maurizio Lazzarato
Anticipiamo un estratto del libro di Maurizio Lazzarato, Segni e macchine. Il capitalismo e la produzione di soggettività, dal 14 marzo in libreria per ombre corte. Il capitale è un operatore semiotico: questa affermazione di Félix Guattari è al centro del lavoro di Lazzarato che, chiedendoci di abbandonare il logocentrismo che informa ancora tante teorie critiche, cerca di costruire una nuova teoria in grado di spiegare come funzionano i segni (e non soltanto il linguaggio) nell’economia, negli apparati di potere e nella produzione di soggettività
Pasolini è sicuramente uno dei primi autori ad aver colto la natura e il funzionamento dei sistemi di segni del «neocapitalismo». Il suo modo di liberarsi dei limiti della linguistica e della semiotica, così come si sono costituite nel XIX e nel XX secolo, coincide, in molte parti, con il lavoro di Guattari. Il «neocapitalismo» è così definito perché, a differenza del capitalismo classico, non tollera nulla al di fuori dei suoi rapporti di sfruttamento e di dominio. Il neocapitalismo segna un cambiamento del «modo di produzione» che Pasolini chiama anche «seconda rivoluzione capitalista», che non produce solo nuove merci, ma anche una nuova umanità e una nuova cultura che, cinicamente, distrugge le culture contadine, sottoproletarie e operaie, operando il «più completo e totale genocidio»1 della storia italiana. Quello che prima poteva ancora rimanere «fuori» è completamente subordinato alla logica del capitale, poiché, come in Guattari, la produzione di soggettività (della cultura, dei valori, dei comportamenti, dei modi di esistenza) è tra le prime e più importanti forme di produzione.
Ma, prima di arrivare, negli anni Settanta, a una descrizione «sociologica», «antropologica» ed «economica» dell’impresa del capitalismo sull’insieme della società e delle sue modalità di espressione, Pasolini coglie, alla metà degli anni Sessanta, la natura della potenzialità della nuova «immanenza» attraverso la sua speciale semiotica. La «semiologia generale dell’azione» che vorrebbe elaborare, ritrova la continuità tra natura e cultura che la modernità aveva spezzato, concentrando tutta la soggettività sul soggetto e spogliando l’oggetto di ogni capacità di espressione. Mettendo a frutto la sua esperienza cinematografica Pasolini produce, come fa Charles Sanders Pierce, una nuova semiologia partendo dall’immagine. Non considerando quest’ultima una produzione del cervello, né un risultato del nostro sistema di percezione, supera il dualismo dell’immagine e della cosa, della coscienza e dell’oggetto.
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Pil e socialismo. il nuovo corso keynesiano della Cina
di Vincenzo Morvillo
Leggendo, nei giorni scorsi, due articoli, uno pubblicato da La Stampa: “L’Italia si prepara ad aderire alla grande rete infrastrutturale cinese” e l’altro, invece, pubblicato su Contropiano, a firma di Pasquale Cicalese: “La Cina, dopo 40 anni, proietta la sua potenza sul mercato interno” – come tanti altri che leggo sul cosiddetto miracolo cinese, attualmente seconda economia mondiale, proiettata verso un inarrestabile primato – ho, per l’ennesima volta, fatto la stessa identica considerazione.
La Cina compete sul mercato mondiale, nell’epoca della globalizzazione – cioè da circa trent’anni – con tutte le armi tipiche del finanzcapitalismo (per usare la significante locuzione coniata dal sociologo Luciano Gallino), accreditandosi come il più agguerrito antagonista dell’impero statunitense e il suo più legittimo successore, nella guerra interimperialista in atto sullo scacchiere internazionale.
Una guerra innescata a partire dagli anni ’70, da quella che il prof. Luciano Vasapollo indica come crisi sistemica del capitalismo mondiale, all’interno di una civiltà-mondo dominata dal sistema finanziario, finora soprattutto a guida occidentale.
Ne viene, di conseguenza, la seconda, più sofferta e perplessa considerazione. Perché molti compagni guardino alla Cina post maoista e di ispirazione denghista (“arricchirsi è glorioso, compagni”, disse Deng Xiaoping nel 1979. Sic!) come ad un modello, seppur spurio, di paese socialista, sinceramente mi è oscuro. In chiave geopolitica e geostrategica, di contrasto al dominio imperiale a stelle e strice? Posso pure comprenderlo. Ma basta? Francamente, non credo!
La Cina ha innestato, negli ultimi trent’anni, la marcia del neoliberismo più spinto. Il paradigma produttivo è quello sviluppista, tipico dei paesi a Capitalismo avanzato. Il Pil è cresciuto a due zeri. E ora, in fase di leggera, ma pur sempre indiscutibile, flessione dell’export (che ha assicurato al paese proprio quella crescita esponenziale) sta correndo ai ripari. E, ovviamente, lo fa sul piano del sostegno alla domanda interna.
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Sovranità nazionale e immigrazione
Un dibattito tra Fabrizio Marchi e Alessandro Visalli
Riportiamo di seguito uno scambio di opinioni tra Visalli e Marchi a partire dall'Assemblea Nazionale di Patria e Costituzione.
* * * *
“Patria e Costituzione”: luci e ombre
di Fabrizio Marchi
Sono di ritorno dall’assemblea nazionale di Patria e Costituzione (quella di Stefano Fassina, per intendersi), alla quale hanno aderito altre associazioni dell’area della sinistra cosiddetta “sovranista”, come “Rinascita!” e “Senso Comune”. Alcuni di loro – e hanno ragione – trovano improprio l’uso del termine “sovranista” – ma si fa per capirci – altri invece lo rivendicano apertamente). Non so se ce ne siano anche altre ma non importa. Questo non vuole essere un report ma solo un commento all’evento. Saranno, eventualmente, loro stesse a comunicarcelo, se lo riterranno opportuno. Di seguito, il Manifesto per la Sovranità Costituzionale che hanno presentato: https://www.patriaecostituzione.it/wp-content/uploads/2019/02/Manifesto-per-la-sovranit%C3%A0-costituzionale-4.pdf
Sono state dette cose (che già conoscevo) condivisibili e altre meno o per nulla.
Sorvolo su quelle condivisibili perchè le potete leggere sul nostro giornale, e vado rapidamente a quelle non condivisibili che in parte ho già espresso in questo articolo e quindi non mi ripeto:
http://www.linterferenza.info/editoriali/sbaglia-la-sinistra-sovranista/
I punti di dissenso, per quanto mi riguarda (oltre a quelli già affrontati nell’articolo sopra linkato) sono l’immigrazione e il femminismo.
Il primo. Volendo sintetizzare con una battuta, potremmo dire che l’analisi che fanno è del tutto condivisibile; peccato che alla fine la risposta politica che propongono sia un topolino. Un topolino che però rischia seriamente di essere reazionario e criminale.
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I comunisti e la questione nazionale
di Renato Caputo
La duplice lotta dei comunisti contro le posizioni dei social-sciovinisti, che nei fatti sostengono il proprio imperialismo, e dei critici del diritto all’autodeterminazione nazionale dei popoli da posizioni cosmopolite, oggi reazionarie
Dal punto di vista di Marx ed Engels, i fondatori del socialismo scientifico, la questione è chiara: per poter vincere nella lotta di classe e sostituire il modo di produzione capitalistico con quello socialista bisogna muoversi in un’ottica internazionalista. Non a caso concludono il Manifesto del partito comunista con il celebre: “Proletari di tutto il mondo, unitevi!”. Allo stesso modo, non è un caso che Marx ed Engels dedicano la maggior parte delle loro energie allo sviluppo dell’Internazionale, piuttosto che allo sviluppo di partiti socialisti su base nazionale.
Inoltre, dal punto di vista del materialismo storico, dal momento che l’unica scienza è la storia – visto che dal punto di vista radicalmente immanentistico di Marx ed Engels non esiste un piano che la trascende – lo Stato è un prodotto storico e, tanto più, lo Stato nazionale è il prodotto di un determinato sviluppo storico. Se lo Stato sorge dalla divisione del lavoro e dalla conseguente divisione della società in classi, quale strumento di dominio del blocco sociale dominante sui ceti subalterni, lo Stato nazionale è un prodotto molto più recente, dal momento che è la forma di dominio funzionale all’affermazione della borghesia quale classe dominante, in quanto consente lo sviluppo di un mercato nazionale.
In effetti, prima dello Stato nazionale borghese, esistono altre forme di Stato, adeguate ai precedenti modi di produzione, dallo Stato dispotico orientale, allo Stato schiavistico, allo Stato medievale, periodi nei quali lo Stato assume preferibilmente la forma di impero, in quanto tale transnazionale.
Dunque è essenziale, in primo luogo, non cadere nelle trappole dell’ideologia dominante che tende a naturalizzare la società borghese, dando a intendere che la forma dello Stato nazionale è appunto naturale e astorica.
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Scienza e democrazia
di Stefano Isola e Lucio Russo
Tra gli argomenti che negli ultimi anni dividono l’opinione pubblica in due tifoserie contrapposte, vi è l’atteggiamento verso la scienza e, in particolare, i suoi rapporti con la democrazia.
La tradizionale fiducia verso la scienza, sorretta da un diffuso atteggiamento positivistico e da un più generale apprezzamento del ruolo degli intellettuali, è stata sostituita in larga parte dell’opinione pubblica da un atteggiamento critico che contrappone alla scienza, spesso qualificata dispregiativamente con aggettivi come “ufficiale” o “occidentale”, visioni alternative di diversa origine, spesso esotica.
Solo in Italia, riferiscono alcune stime, negli ultimi anni gli operatori dell’occulto – maghi, guaritori, cartomanti, medium, astrologi – sarebbero quasi il doppio degli psicologi iscritti all’albo. Allo stesso tempo i confini del tradizionale sistema delle professioni liberali si sfrangiano grazie allo sdoganamento di sempre nuove competenze “alternative”: consulenti filosofici, kinesiologi, grafologi, armonizzatori familiari, etc. e un continuum di medici alternativi di vario tipo che occupano lo spazio tra medici e maghi guaritori.
È un fenomeno preoccupante, da molti punti di vista. Ma è altresì un fenomeno complesso, che ha molte facce, un fenomeno che a uno sguardo critico e non alimentato da ansia corporativa appare come un aspetto di una più generale crisi di civiltà. La crescente diffusione dell’analfabetismo scientifico, dovuta a una crisi generale della scuola e, più in particolare, al degrado della didattica scientifica – temi sui quali avremo più occasioni di tornare in questo sito – ne costituisce certamente un aspetto importante. La generale sfiducia negli esperti e nel ruolo degli intellettuali è alimentata anche da una campagna ideologica contro i “professoroni”, concomitante alla diffusione di strumenti, come i social network, che danno l’illusione di “democratizzare” il dibattito su qualsiasi argomento, offrendo a chiunque la possibilità di rivolgersi a una platea virtualmente immensa e nei fatti tanto più ampia quanto più banali sono le tesi esposte.
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Signora mia, i golpe non sono più quelli di una volta
Venezuela, Iran, ecc...
di Fulvio Grimaldi
“La nostra società è governata da dementi per obiettivi demenziali. Credo che siamo governati da maniaci per scopi maniacali e penso che rischio di essere rinchiuso come pazzo per aver detto questo” (John Lennon)
La notte dei morti viventi neocon
A Piazza Santi Apostoli in Roma, il 23 febbraio, ci siamo trovati in un centinaio a manifestare per il Venezuela bolivariano e contro l’ennesima aggressione Usa tramite golpe, terrorismo e fantocci. PRC, PaP, Militant. NoNato, cani sciolti… Cento meschinelli che avevano, però, più buone e giuste ragioni dei 200mila di Milano in marcia appresso a Ong, Boldrini, Zingaretti e Bersani, impegnati a coprire, sotto il lenzuolo iride della pace e dell’antirazzismi, i più efferati crimini di sanzioni, di guerra e contro l’umanità, cioè di vero razzismo ricco, bianco, cristiano, dalla Siria al Venezuela, dallo Yemen all’Afghanistan, alla Somalia, alla Corea del Nord, all’Iran, a mezza latinoamerica, a tutta l’Africa.
In compenso constatiamo con soddisfazione un dato che ai 200mila di Milano e loro guide spirituali non ha fatto per nulla piacere: il colpo di Stato lanciato dagli Usa contro il legittimo e democratico governo bolivariano di Nicola Maduro, utilizzando un teppista da guarimbas, ai primi di marzo, oltre un mese dopo risulta fallito. Il fantoccio che pare la controfigura di un modello di Dolce e Gabbana, percorre invano le Americhe, cercando conforto da altri compari nel lupanare del neoliberismo colonialista. Invano, perché nessuno vuole corroborare una mannaia che, domani, la banda neocon che fa ballare Trump, potrebbe far calare su lui stesso.
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Il Nobel per l’economia? Conformista e prevedibile
Ecco perché bisognerebbe abolirlo (forse)
Andrea Fioravanti intervista Emiliano Brancaccio
Emiliano Brancaccio, professore di politica economica all’Università del Sannio spiega i retroscena e le critiche al premio economico più famoso al mondo nel suo libro "Il discorso del potere" (Il Saggiatore), in libreria dal 14 marzo. E ha previsto il nome del prossimo vincitore
Il premio Nobel per l'economia è come l'Oscar: tutti lo criticano ma ognuno sogna di vincerlo. Non esiste premio più controverso. L'economista più famoso del mondo, John Maynard Keynes non l'ha mai vinto, mentre un matematico come John Nash è riuscito ad aggiudicarselo nel 1994 per la sua "teoria dei giochi". Può capitare che due avversari politici citino in un talk show economisti che l'hanno vinto per giustificare politiche economiche radicalmente opposte. Quasi tutti credono che vincere il premio Nobel dia il potere di cambiare il corso dell'economia, ma raramente queste teorie sono applicate dalla politica che le riscopre 15 o 20 anni dopo. E quando ogni autunno viene pubblicato il nome del vincitore sono in pochi a cercare le motivazioni della vittoria. Per questo Emiliano Brancaccio, professore di politica economica all'Università del Sannio, ha scritto in collaborazione con Giacomo Bracci il libro "Il discorso del potere. Il premio Nobel per l’economia tra scienza, ideologia e politica" (Il Saggiatore) in libreria dal 14 marzo. Brancaccio da molti anni è protagonista di confronti serrati con i principali esponenti della dottrina economica prevalente, dall’ex capo economista del Fondo Monetario Internazionale Olivier Blanchard all’ex premier Mario Montii. Il suo obiettivo è far conoscere i retroscena, le critiche e il meccanismo del premio economico più famoso al mondo.
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Brancaccio, partiamo dalla provocazione contenuta nelle prime pagine del suo libro. Bisognerebbe abolire il premio Nobel?
L’idea di abolirlo non è certo nostra. Fin dalle sue origini il premio ha attirato polemiche e contestazioni. Addirittura lo stesso Alfred Nobel non aveva previsto questo premio nel suo testamento.
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A 200 anni dalla nascita di Marx
L'attualità di un pensiero e di una battaglia rivoluzionaria
di Mario Lupoli
200 anni dalla nascita di Karl Marx. Un’occasione per avviare una nuova riflessione sull’attualità del suo pensiero e della prospettiva della sua militanza rivoluzionaria. Consapevoli che il futuro, che oggi sembra negato dal dominio capitalistico, è in realtà nelle mani della maggioranza dell’umanità attiva: nelle mani del proletariato
Non la critica, ma la rivoluzione
è la forza motrice della storia
(Karl Marx)
Marx, 200 anni dalla nascita. Un anniversario che, come sempre, è occasione di bilanci e di commemorazioni. Non possono che venire in mente, come istintiva strategia difensiva, le note parole con cui V. Lenin aprì il suo opuscoletto Stato e rivoluzione:
«Accade oggi alla dottrina di Marx quel che è spesso accaduto nella storia alle dottrine dei pensatori rivoluzionari e dei capi delle classi oppresse in lotta per la loro liberazione. Le classi dominanti hanno sempre ricompensato i grandi rivoluzionari, durante la loro vita, con incessanti persecuzioni; la loro dottrina è stata sempre accolta con il più selvaggio furore, con l'odio più accanito e con le più impudenti campagne di menzogne e di diffamazioni. Ma, dopo morti, si cerca di trasformarli in icone inoffensive, di canonizzarli, per così dire, di cingere di una certa aureola di gloria il loro nome, a "consolazione" e mistificazione delle classi oppresse, mentre si svuota del contenuto la loro dottrina rivoluzionaria, se ne smussa la punta, la si avvilisce. La borghesia e gli opportunisti in seno al movimento operaio si accordano oggi per sottoporre il marxismo a un tale "trattamento". Si dimentica, si respinge, si snatura il lato rivoluzionario della dottrina, la sua anima rivoluzionaria. Si mette in primo piano e si esalta ciò che è o pare accettabile alla borghesia. Tutti i socialsciovinisti - non ridete! - sono oggi "marxisti". E gli scienziati borghesi tedeschi sino a ieri specializzati nello sterminio del marxismo, parlano sempre più spesso di un Marx "nazionaltedesco" che avrebbe educato i sindacati operai, così magnificamente organizzati per condurre una guerra di rapina!»[1].
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Rosso di sera
di Lanfranco Binni
L’elettorato del Pd, travolto e tramortito dalle disfatte renziane del 4 dicembre 2016 e del 4 marzo 2018, da più di due anni spettatore passivo di una deriva politicista dell’apparato di un ex partito di potere in crisi, nelle primarie del 3 marzo ha finalmente lanciato un segnale chiaro di discontinuità con il renzismo. È un elettorato composito in cui coesistono gruppi sociali e orientamenti diversi: dalle confuse eredità Pci-Pds-Ds a quelle cattoliche della Margherita, dalle componenti anziane del sindacalismo confederale ad alcune aree di voto al M5S rifluite sul Pd in dissenso con le politiche dell’attuale governo gialloverde. Il segnale è comunque importante e sollecita i gruppi dirigenti del Pd a “cambiare rotta”, affidando questo compito impegnativo al nuovo segretario eletto. Ora il problema è proprio questo: su quale linea politica l’apparato del Pd (parlamentari, amministratori locali, funzionari) potrà cambiare rotta rispetto alle pratiche berlusconiane, liberiste e atlantiste della stagione renziana. Il tutto in presenza di un governo nazionale in cui l’abbraccio letale tra M5S e Lega, determinato dallo stesso Pd dopo le elezioni del 4 marzo 2018, sta provocando il rafforzamento della Lega su una linea di estrema destra e l’evidente crisi del M5S su una non-linea «né di destra né di sinistra».
Ma l’elezione di Zingaretti come opzione di centro-sinistra plurale e aperto alla “società civile” testimonia anche la forza oggi determinante degli elettorati (tutti) nella crisi del sistema politico italiano e della democrazia “rappresentativa”. Siamo all’interno di una crisi profonda di sistema: politico, economico e culturale. In crisi il sistema politico e la credibilità delle istituzioni, in crisi il sistema economico (né “crescita” né “sviluppo” di un modo di produzione in crisi nell’intero Occidente), in crisi l’assetto tradizionale, a pretesa radice unica, di una società multiculturale in rapida trasformazione demografica.
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“Siamo all’offensiva?”
di Elisabetta Teghil
Siamo tante, siamo all’offensiva, il movimento delle donne salverà il mondo. Questo è il refrain che circola in lungo e in largo. E non sarà questo lo specchio dei tempi? Cioè che un movimento senza nessuna possibilità di incidere e di cambiare alcunché sembri vincente?
Quello che viene propagandato come “movimento delle donne” è dichiaratamente interclassista, le sue rivendicazioni sono di richiesta di riconoscimento e di tutela allo Stato e ha un’impostazione esplicitamente corporativa.
Lo sciopero è un’arma di lotta che dovrebbe mirare a cambiare un rapporto di forza attraverso il danneggiamento della controparte e a ottenere un risultato preciso. Si può fare sciopero bloccando tutto il servizio del pubblico trasporto perché non si vuole la privatizzazione del servizio, tanto per fare un esempio, o si può fare sciopero generale bloccando tutti i servizi della città perché non si vuole l’approvazione di una legge che sta passando in parlamento come il finanziamento delle missioni militari all’estero, tanto per farne un altro, ma è impensabile fare sciopero per la pace nel mondo. C’è forse qualcuno/a che non è d’accordo sulla pace nel mondo? Farebbero sciopero anche quelli che le guerre le fanno e le fomentano. Quindi ciò che salta agli occhi di primo acchito è che non può essere impostato uno sciopero contro la violenza sulle donne o sulle ingiustizie di questa società perché tanto sono d’accordo tutti e tutte, compresi tutti gli uomini e tutte le donne che sono direttamente responsabili della costruzione della società neoliberista e della perpetuazione del patriarcato.
Però, con una lettura più attenta ma neanche chissà quanto approfondita, il motivo vero balza fuori evidente. Le donne della socialdemocrazia riformista che hanno impostato qui in Italia questo movimento vogliono soldi, vogliono finanziamenti, vogliono carriere, vogliono che sia riconosciuto il ruolo delle donne che in questa società in effetti fanno parte della struttura di dominio ai livelli e nelle modalità più disparate.
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La recessione interiore
di Giovanni Iozzoli
Avete presente i vecchi film di indiani in cui improbabili Apaches si mettevano a culo in aria, con un orecchio ben piantato per terra, onde avvertire in lontananza l’arrivo del treno o lo scalpiccio dei cavalli? Ecco, quella è la postura assunta da imprenditori ed economisti italiani negli ultimi cinque mesi – più o meno dall’ultimo trimestre del 2018. Solo che i pellerossa in fase di ascolto erano intrepidi e impassibili, mentre le nostre sedicenti classi dirigenti, appaiono tremebonde, spaesate, sempre sull’orlo della crisi di nervi. E quell’orecchio schiacciato sui pavimenti dei loro eleganti uffici riceve solo segnali preoccupanti. Si sa che il nemico è in avvicinamento, se ne vedono tutti gli effetti già pienamente squadernati: fatturati, ordinativi, scorte, inflazione, tutti gli indicatori hanno il segno meno, e con persistente continuità.
In Italia siamo passati da un periodo di contenuta euforia – la crisi è passata, concentriamoci sulla terribile bellezza e la geometrica potenza dell’industria 4.0 –, all’attuale panico mal dissimulato. Il dio capricciosissimo del ciclo economico sta compilando nuovi elenchi di predestinati all’inferno: i fedeli non si salveranno mediante le opere – eppure ci danno dentro di brutto, attraverso l’intensificazione dei ritmi, le condizioni di sfruttamento, la compressione dei salari, il dumping contrattuale. Fanno il loro dovere, gli imprenditori italiani: piangono e fottono, soprattutto i lombardo-veneti – che dentro la crisi, con riflesso automatico, abbandonano le compassate velleità mitteleuropee e si riscoprono interpreti del più melodrammatico mammismo mediterraneo. Aiutateci, aiutateci tutti a stare in piedi, a rimanere sul mercato, compattiamoci, abbiamo bisogno.
Adesso la panacea di tutti i mali, il rimedio anticiclico per eccellenza, sono diventate le grandi opere – come se la realizzazione di una bretella stradale Sassuolo-Campogalliano, nel modenese, ad esempio, potesse invertire il corso della crisi globale.
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La de-globalizzazione e il recupero della sovranità nazionale sulla governance
di Jacques Sapir
La globalizzazione continua ad essere data per scontata e inevitabile, eppure il processo di de-globalizzazione è già iniziato e avanza, a partire dagli Stati Uniti e dalla stessa Europa, con un movimento di recupero della democrazia nazionale sulla “governance” in cui economia e finanza prevalgono sulla politica. Ne discute l’economista francese Jacques Sapir in un lungo articolo di cui pubblichiamo qui la prima parte. (Traduzione in collaborazione con Attivismo.info)
Quando ho scritto il mio libro La Demondializzazione, pubblicato nel 2011 dalle edizioni Seuil, era già chiaramente possibile percepire i segni di una crisi della globalizzazione e persino l’inizio di un processo di de-globalizzazione. La conclusione minima che si può trarre dagli ultimi dieci anni è che questa mondializzazione, o globalizzazione, è andata molto male e che ha generato forze profonde e potenti di protesta. Oggi siamo in grado di vedere meglio ciò che era evidente sin dall’inizio: questo processo è in contraddizione con l’esistenza stessa della democrazia. Ciò che colpisce oggi è che queste patologie politiche hanno raggiunto un punto di rottura nel Paese che si è presentato come il cuore stesso del processo di globalizzazione, gli Stati Uniti
Considerando le questioni sociali, le questioni ecologiche o direttamente le questioni economiche, i segni di un esaurimento del processo, ma anche di una messa in discussione del processo stesso, si accumulano. Il ritorno in prima linea delle nazioni come attori politici era evidente [2]. Vari eventi, dal referendum sull’uscita del Regno Unito dall’Unione europea (il “Brexit”) all’elezione di Donald Trump negli Stati Uniti, comprese le reazioni ai tentativi degli stessi Stati Uniti di istituzionalizzare l’applicazione extraterritoriale del diritto USA e l’ascesa dell’euroscetticismo, che è oggi molto importante nei Paesi dell’Unione europea, valgono a confermare l’analisi.
Quindi oggi parliamo di rischi di guerra su scala globale. Ed è vero che le tensioni geopolitiche sono aumentate. Ma, bisogna sapere, “la globalizzazione” non ha mai interrotto le guerre.
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Manifesto per la sovranità costituzionale
di Carlo Formenti
Il riuscitissimo evento di ieri ha raccolto centinaia di persone al Teatro dei Servi di Roma per la presentazione del Manifesto per la sovranità costituzionale lanciato da Patria e Costituzione, Rinascita e Senso Comune. E' così iniziato un percorso che dovrà condurre alla formazione di un nuovo soggetto politico all'altezza delle sfide che l'attuale crisi del capitalismo globale e delle sue istituzioni impongono di affrontare. Qui di seguito pubblico il testo integrale del mio intervento introduttivo.
* * * *
Compagni e compagne, penso che chi oggi è qui, avendo letto il Manifesto sottoscritto da Patria e Costituzione, Rinascita e Senso Comune, sia consapevole dell’ambizione che ispira il percorso politico di cui l’incontro odierno costituisce un primo passo: si tratta di farsi annunciatori di un’alternativa di sistema, nella speranza di poter essere, in un futuro non troppo lontano, parte attiva nella sua realizzazione. Non ci interessa rianimare né riscattare una sinistra che si è fatta destra, abdicando al ruolo di rappresentante degli interessi delle masse popolari per sposare l’ideologia liberista. Non vogliamo “rifare” la sinistra, non solo per motivi di opportunità linguistica, visto che la maggioranza del popolo disprezza ormai questa parola, ma perché riteniamo che il binomio destra/sinistra, da quando essere di sinistra non significa più nutrire la speranza in un cambio di civiltà, rappresenti unicamente un gioco delle parti fra le caste politiche che gestiscono gli affari correnti del capitale.
Andare oltre la dicotomia destra/sinistra significa andare oltre il paradigma politico, sociale, economico e culturale di cui questi termini sono espressione. Un paradigma che ha perso ogni legittimità dopo quella crisi del 2008 che ha segnato il culmine degli sconvolgimenti epocali iniziati negli anni Settanta del secolo scorso.
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Russiagate. Troll to control
di Giovanna Baer
Per chi ha raggiunto la maturità nel secolo scorso, IRA significa probabilmente Irish Republican Army, la celeberrima associazione militare clandestina sorta con lo scopo di liberare l’Irlanda del nord dal dominio britannico. Ma quell’IRA è storia vecchia, e oggi il suo acronimo designa un’organizzazione che ha a che fare con la propaganda del Cremlino attraverso Internet e i troll. Non stiamo parlando delle familiari creature mitologiche: i nuovi troll sono soggetti che, in una comunità virtuale, interagiscono con gli altri utenti attraverso messaggi provocatori con l’obiettivo di fomentare gli animi e disturbare la comunicazione.
È opportuno sottolineare, prima di proseguire, che quando ci si muove in questo campo molte sono le supposizioni, molto gioca la propaganda in tutte le direzioni - Stati Uniti vs Russia, Russia vs Stati Uniti, Unione europea vs Russia, Russia vs Unione europea... - ma prove tangibili sembra che gli investigatori statunitensi le abbiano trovate.
Secondo il rapporto Assessing Russian Activities and Intentions in Recent US Elections (1), datato 6 gennaio 2017, appena due mesi quindi dalle elezioni
presidenziali americane, e realizzato congiuntamente dalle tre più importanti agenzie di intelligence americane, la Cia, l’Fbi e la Nsa, il presidente russo Vladimir Putin nel 2016 avrebbe ordinato operazioni mirate a influenzare le elezioni presidenziali. “Gli obiettivi della Russia erano di minare la fiducia del pubblico nel processo democratico degli Stati Uniti, di denigrare il segretario Clinton e di danneggiare la sua campagna elettorale per evitare che diventasse Presidente”. Le tre agenzie ritengono inoltre “che Putin e il governo russo abbiano sviluppato una chiara preferenza per il Presidente eletto Trump”.
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Huawei, Cina, Usa e la lotta per il primato tecnologico
di Vincenzo Comito
La disputa tra Cina e Stati Uniti, e l’accordo commerciale che si sta discutendo, a partire dal primato della compagnia Huawei nella tecnologia G5. Con l’Europa in ordine sparso. Ma delle 20 più grandi imprese nelle tecnologie avanzate, 11 sono statunitensi e 9 cinesi. Nessuna europea
Cosa sta succedendo alla Huawei
Intorno ai casi di Huawei, la grande compagnia di telecomunicazioni cinese, si vanno sviluppando da qualche mese molte questioni e diversi interrogativi, insieme a parecchia confusione. Appare importante soffermarsi sulle vicende di questa impresa, cruciali da molti punti di vista, per valutare tra l’altro in che direzione sta andando l’innovazione tecnologica nel mondo, come si presenta poi il quadro della situazione competitiva tra Cina e Stati Uniti, quali i risultati dei tentativi sempre più marcati di un’applicazione extraterritoriale delle leggi americane, quali infine i possibili sviluppi delle vicende relative nel prossimo futuro.
Il peso della società nei suoi mercati di riferimento
Preliminarmente ad un’analisi del quadro politico della situazione, appare opportuno ricordare il posizionamento della società cinese sui suoi due mercati principali, gli smartphone e gli apparati per telecomunicazioni.
Il mercato dei telefonini
Qualche settimana fa la Apple annunciava che l’azienda stava vendendo meno smartphone che in passato a causa di un rallentamento generale del mercato cinese. Si trattava di un annuncio che in realtà affermava al massimo solo una mezza verità.
E’ certamente vero che il mercato cinese degli smartphone sta rallentando, non si sa se temporaneamente o meno, ma è anche vero che la Apple sta vendendo di meno nel Paese anche, se non soprattutto, perché essa sta perdendo quote di mercato a favore dei produttori cinesi ed in prima fila di Huawei. Quest’ultima invece sta collocando sempre più prodotti non solo sul mercato interno, ma anche all’estero (tranne che negli Stati Uniti, dove il suo sviluppo è sostanzialmente impedito politicamente). E la Apple sta lentamente perdendo quote su tutti i mercati, non soltanto in Cina.
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Manifesto per la Sovranità Costituzionale
Istruzioni per l’Uso
di Ugo Boghetta
La presentazione del Manifesto per la Sovranità Costituzionale ha suscitato attenzione e consensi, ma anche dissensi e critiche. E’ normale. Per questi motivi, in questo scritto, cercherò di dar conto – dal mio punto di vista – del percorso fatto e dell’approccio che ha portato alla stesura del Manifesto in questa forma. Il tutto tenendo conto delle obiezioni avanzate in modo critico ma costruttivo. Di tutti gli altri: “Non ti curar di lor ma guarda e passa“.
Va detto in primo luogo, che il Manifesto è il frutto della convergenza di associazioni che provengono da esperienze diverse. Rinascita! nasce dal rifiuto di aderire all’esperienza di Potere al Popolo in quanto segnata dall’autoreferenzialità e dal sinistrismo. PeC nasce dal fallimento della sinistra di mezzo. Mentre Senso Comune prende il via da una lettura del populismo in senso democratico. Ciò significa che c’è tanta strada da fare. E’ tuttavia di buon auspicio che questa convergenza si sia sviluppata in modo così rapido. Con altri, ad esempio Marx21, il confronto è aperto. Il FSI ha rifiutato la proposta.
Nonostante queste diverse provenienze la discussione tuttavia è stata convergente sui temi principali.
L’obiettivo condiviso è quello di costruire un campo, un’area, un soggetto politico sovranista, costituzionale, socialista. La ricerca è stata quella di capire quale fosse il modo migliore per impostare e comunicare le questioni principali. Solo il tema dell’ immigrazione ha comportato una discussione di merito partendo da posizioni in parte diverse o, come spesso accade rispetto a questo argomento, da malintesi. La posizione assunta è quella della solidarietà internazionalista per il diritto a non essere costretti ad emigrare, e regolazione e controllo dei flussi per poter consentire una vera integrazione ed evitare, non a chiacchiere, la guerra fra poveri ed i rigurgiti razzisti e fascisti.
Il tratto comune è l’uscita dalla sinistra. Per questo motivo dobbiamo continuare a combattere contro il sinistrismo che è ancora in noi: in tutti noi.
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Sulla cibernetica socialista, i sogni accelerazionisti, e gli incubi di Tiqqun
di Paul Buckermann
Nikita Krusciov era scettico sul fatto che i computer potessero contribuire a promuovere la storia in direzione del comunismo. Nondimeno, era disposto a fare un tentativo in proposito, ed aveva ordinato un super-computer che supportasse il socialismo sovietico. I migliori e più preparati ingegneri sovietici avevano installato il computer, e gli avevano chiesto di testare subito la macchina. Krusciov, che non era ancora convinto, aveva deciso di porgli una domanda incredibilmente difficile e complessa: «Quando si arriverà al comunismo?» La scatola cominciò a tremare e a fare degli scatti, finché con voce metallica disse: «Fra diciassette chilometri.» Krusciov scoppiò a ridere e ripeté di nuovo la sua domanda, pronunciandola in maniera ancora più chiara. Stavolta, la macchina rispose subito «Fra diciassette chilometri». A questo punto, il compagno cominciò ad arrabbiarsi e chiamò i suoi ingegneri per lamentarsi della stupidità del costoso macchinario. I tecnici si mostrarono sorpresi, dal momento che i test precedenti erano andati tutti sufficientemente bene; per cui chiesero gentilmente al computer di spiegare la sua risposta. La macchina, ferma sul tavolo, senza paura rispose: « Il risultato di diciassette chilometri si basa sui dati provenienti dall'ultimo discorso del compagno Krusciov, durante il quale ha detto che ad ogni piano quinquennale ci saremmo avvicinati di un passo al comunismo».
Questa vecchia barzelletta sovietica indica come ci sia un abisso fra il potenziale tecnologico ed il progresso emancipatorio. La storia ha almeno due diversi possibili finali: o l'immaginario computer viene distrutto in quanto dimostra chiaramente quella che è l'attuale insufficienza della politica sovietica, oppure la potenza del computer viene invece assunta come punto di partenza per calcolare e decidere che cosa fare, anziché dipendere dalle deboli macchine umane e dai loro milioni di pezzi di carta.
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Il Capitale e il suo punto cieco: il denaro come tecnica di misura
di Frank Engster*
Abstract: In the 1960s, a logical-categorial reading of Marx’s Capital began, especially with focus on the value-form analysis, from which the so-called «New Marx Reading» in Germany was one of the outcomes. These readings on the one hand found, with the necessity of synthesizing the theory of value with that of money, the key to opening up the further development of the capitalist mode of production. On the other hand, they stayed fixed on money’s second function as a medium of exchange and on money-mediated commodity exchange, remaining trapped in the contradiction between use-value and exchange-value and the need for an abstraction to quantify the commodity relations. In contrast, the thesis of this paper is that it is money’s first function as a measure of value which is decisive for the development of the inner connection of money and value and for the capitalist mode of production as a whole. Only through the first function can the technique of quantification be deduced, the technique to turn the negativity of a pure social relation into the positivity of quanta and to release with this turn the productive power of the capitalist mode of production. Quantification in capitalism is neither an abstraction, nor a reduction or a form of counting. Rather, in capitalism society is subjected to a measurement of its own productive power; a productive power which through its measurement is, in the first instance, released and systematically expanded. Developing the capitalist mode of production from the “standpoint” of money – the standpoint of an ideal unit which becomes by money’s main function the measure of value, the means of the realization of value and the form of its valorization – opens up an adequate understanding of how to make society an object of both science and critique
«Tutte le illusioni del sistema monetario derivano dal fatto che dall’aspetto del denaro non si capisce che esso rappresenta un rapporto di produzione sociale, sia pure nella forma di una cosa naturale di determinate qualità». (Marx 1961, 22)[1]
C’è un compito della critica dell’economia politica che precede l’esposizione vera e propria del modo di produzione capitalistico. La prima sfida – nel senso più autentico del termine – è motivare perché la società capitalistica possa essere in generale per noi oggetto di critica e al contempo di scienza[2].
La pretesa critica della critica marxista in quanto tale e, per così dire, l’assioma materialistico che la fonda, è il tentativo di comprendere le categorie economiche come «modi d’essere, determinazioni dell’esistenza» sociali (Marx 1961, 635; cfr. anche Marx 1976, 40). Ciò significa che le categorie sono tanto forme soggettive del pensiero, della conoscenza, e necessità logiche quanto categorie dell’oggettivo esserci sociale. Esse sono inoltre storicamente connotate, e più precisamente capitalisticamente connotate, dunque non prestabilite sovratemporalmente dalla natura o da Dio, né determinate antropologicamente od ontologicamente.
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