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L’autunno sarà caldo
di Marco Martini & Simone Lombardini
Sono passati più di due mesi dalla formazione del governo Conte, espressione dell’alleanza Lega-M5S. Troppo poco tempo per una valutazione esaustiva dell’operato governativo, ma, di fronte ad alcuni segnali che arrivano da più parti, è possibile fare alcune considerazioni generali, che riguardano soprattutto il fronte dell’opposizione. Proviamo a procedere per punti, cercando di capire cosa dobbiamo aspettarci per l’autunno.
CONTRADDIZIONI GOVERNATIVE. Il governo Conte è figlio di un compromesso tra due partiti che da una parte hanno la stessa radice – popolare ed anti-establishment – ma dall’altra divergono anche nettamente per storia, inclinazioni e progetti politici. I 5 stelle rappresentano quella fascia sociale ascrivibile a una parte del ceto impiegatizio e borghese stufo dei partiti tradizionali e quell’ampia compagine di persone precarie o disoccupate che sperano nel vitalizio collettivo (alias reddito di cittadinanza) concentrati soprattutto al Sud. La Lega, come mostrato dalle elezioni, rappresenta invece quel tessuto di piccole e medie imprese e partite IVA concentrato soprattutto al Nord, vittima dell’economia della globalizzazione (concorrenza con i prodotti che arrivano dai paesi in via di sviluppo e con le multinazionali) e impoverito dagli ultimi 10 anni di austerità; ma rappresenta anche quelle fasce sociali povere, comprensive anch’esse di disoccupati, precari o lavoratori che vivono le difficoltà dell’immigrazione nelle periferie e avvertono l’Europa più come la causa che la soluzione della loro condizione. Grande assente, va ricordato, è sempre un grande movimento rappresentante il Lavoro, evidentemente distrutto nella propria unità e identità da anni di riforme che lo hanno parcellizzato, precarizzato, ridotto numericamente, impoverito e dissolto culturalmente e materialmente nell’economia fluida dell’e-commerce, della gig economy e della new economy.
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Venezuela, le cavallette dell'imperialismo
di Geraldina Colotti
Nessuna Weltanschauung è innocente, nessuna visione del mondo è neutrale, nessuna informazione è “imparziale”. I media di guerra sono la fanteria leggera del capitalismo. Nel sud globale, dove la lotta di classe è più difficile da occultare, funzionano da cavallette dell'imperialismo
A proposito del Venezuela e del fallito attentato contro Maduro, torna la riflessione di Lukacs nel volume La distruzione della ragione. Il filosofo ungherese accusa Schopenhauer di aver offerto agli ufficiali prussiani il proprio binocolo da teatro per meglio sparare sugli insorti del 1848. Fatte le debite proporzioni storiche, filosofiche e culturali, si potrebbe usare la stessa frase nei confronti di quel giornalismo che, nell'avanzare della “modernità liquida” a scapito di un pensiero forte sul mondo e nell'assenza di un “intellettuale collettivo”, ha assunto sempre più peso nella formazione della “opinione pubblica” e di una determinata egemonia culturale.
La concentrazione monopolistica dei grandi gruppi editoriali ha reso anche l'informazione una merce al servizio del capitale e moltiplicato l'influenza dei grandi media nel sistema-mondo: uno scenario in cui si evidenzia la crescente spinta alla guerra imperialista come unica uscita dalla crisi strutturale in cui si dibatte il capitalismo.
Come abbiamo visto in questi anni, il ruolo dei media è stato quello di preparare, accompagnare e consolidare le aggressioni a paesi ricchi di risorse, fondamentali per ridefinire a favore del capitale lo sfruttamento del lavoro a livello globale. Ci hanno “raccontato” di guerre “umanitarie”, di “democrazia” da esportare con le bombe, sostituendo alla lotta di classe il paradigma della “vittima meritevole”: sia nella forma del carnefice eternamente impune (Israele), sia in quella del “caso umano” che deve mendicare ascolto in diretta anziché lottare con forza per i propri diritti (operai, migranti eccetera). Quella della “fine delle ideologie” risulta così la peggiore delle ideologie, nel senso proprio della falsa coscienza, assunta da una mandria acefala convinta della propria “unicità”.
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Nazionalizzare le autostrade!
di Leonardo Mazzei
Le penali sono una tigre di carta: le convenzioni dei "Signori del casello" una vergogna targata Prodi, ma si possono cancellare nazionalizzando la gestione della rete autostradale
L'aria finalmente è cambiata. Di fronte alla tragedia di Genova, il governo ha annunciato la revoca della concessione ad Autostrade per l'Italia. Questa decisione, non solo va incontro ad un sano desiderio di giustizia, ma pone all'ordine del giorno la questione dello stop alle privatizzazioni ed alle liberalizzazioni dell'ultimo quarto di secolo.
Di questo hanno parlato diversi esponenti del governo, a partire dal vice-premier Di Maio. Bene, anzi benissimo. Se son rose fioriranno, ma intanto prendiamo atto di un tempismo e di una rapidità di decisione senza precedenti.
E' ora di iniziare ad invertire il disastroso percorso che ha portato a privatizzare i settori strategici dell'economia: dall'energia alle telecomunicazioni, dalle banche ai trasporti. Ed è proprio da quest'ultimo comparto che si può partire, cominciando con Alitalia e con la rete autostradale.
Limitiamoci qui a quest'ultima questione di estrema attualità.
Chiunque abbia utilizzato con una certa continuità, negli ultimi anni, le autostrade italiane sa perfettamente due cose: che il livello delle manutenzioni è costantemente peggiorato, che i pedaggi sono cresciuti da un anno all'altro ben al di là del tasso d'inflazione.
Insomma, i "Signori del casello" - con i Benetton in prima fila - han trovato la gallina dalle uova d'oro. Tanti profitti e nessun rischio, il tutto garantito da convenzioni scandalose, frutto del Decreto Legge 3 ottobre 2006 n° 262, primo ministro Romano Prodi, ministro dell'Economia Tommaso Padoa Schioppa (viva l'Europa!), ministro delle Infrastrutture Antonio Di Pietro, ministro dei Trasporti Alessandro Bianchi (indipendente in quota Pdci!). Come dire, il centrosinistra al gran completo!
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Rivoluzione o decadenza?*
di Samir Amin
Pensieri sulla transizione tra i modi di produzione in occasione del Bicentenario di Marx
Introduzione
Karl Marx è un gigante del pensiero, non solo per il diciannovesimo secolo, ma ancora di più per comprendere il nostro tempo contemporaneo. Nessun altro tentativo di sviluppare una comprensione della società è stato tanto fertile, a condizione che i “marxisti” si muovano oltre la “marxologia” (semplicemente ripetendo ciò che Marx era in grado di scrivere in relazione al proprio tempo) e invece portino avanti il suo metodo in accordo con i nuovi sviluppi della storia. Lo stesso Marx ha continuamente sviluppato e rivisto le sue opinioni nel corso della sua vita.
Marx non ha mai ridotto il capitalismo a un nuovo modo di produzione. Considerò tutte le dimensioni della moderna società capitalista, capendo che la legge del valore non regola solo l’accumulazione capitalista, ma governa tutti gli aspetti della civiltà moderna. Questa visione unica gli ha permesso di offrire il primo approccio scientifico relativo alle relazioni sociali nel più ampio regno dell’antropologia. In questa prospettiva, ha incluso nelle sue analisi ciò che oggi viene chiamato “ecologia”, riscoperta un secolo dopo Marx. John Bellamy Foster, meglio di chiunque altro, ha abilmente sviluppato questa prima intuizione di Marx.
Io ho dato la priorità a un’altra intuizione di Marx, legata al futuro della globalizzazione. Dalla mia tesi di dottorato nel 1957 al mio ultimo libro, ho dedicato i miei sforzi allo sviluppo ineguale derivante da una formulazione globalizzata della legge dell’accumulazione. Ne ho tratto una spiegazione per le rivoluzioni nel nome del socialismo a partire dalle periferie del sistema globale. Il contributo di Paul Baran e Paul Sweezy, introducendo il concetto di surplus, è stato decisivo nel mio tentativo.
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Il lavoro ai tempi dei 5 Stelle
di Domenico De Blasio
Questa settimana il senato ha approvato il testo definitivo del cosiddetto “decreto dignità”, il primo atto del nuovo governo dichiaratamente (forse anche esclusivamente) pentastellato. Per onestà intellettuale bisogna subito riconoscere che si tratta del primo provvedimento dai tempi di tangentopoli in cui pare che si cerchi di imprimere un cambio di direzione alla deregulation selvaggia del mondo del lavoro, aspetto che ha generato un duro e lungo dibattito intorno alle novità introdotte dalla legge. La cosa non dovrebbe essere nuova in una democrazia viva e sana, eppure difficilmente si ricordano altri momenti in cui il discorso politico-mediatico si sia concentrato così tanto sul merito di un progetto legislativo più che sulle posizioni politiche. Era accaduto col referendum costituzionale del 2016 che, non a caso, rischiava di sancire il trionfo del liberalismo targato Renzi e invece registrò una decisa e partecipata rivolta popolare. Finalmente le posizioni in campo circa la visione del lavoro nel sistema italiano sono necessariamente venute allo scoperto, il Partito Democratico si è definitivamente manifestato per quello che è, un partito neoliberale al servizio della grande impresa privata e, diciamocelo, vedere Gennaro Migliore o Deborah Serracchiani che si sbracciano per difendere i poveri imprenditori, non più liberi di fare come meglio credono, è un vero piacere. Gli unici interventi in direzione lavorista, anche se squisitamente pretestuosi, sono arrivati dai banchi di LeU e sono stati votati solo dai suoi esponenti. Anche questo però darà molto di cui parlare a chi dovrà fare del discorso sul lavoro un discorso politico negli anni a venire; se infatti un esame di coscienza è doveroso per quei parlamentari che oggi chiedono la reintroduzione dell’articolo 18 e ieri hanno votato il Job’s Act, siamo sicuri che il fisiologico gioco di accuse reciproche che questo esame comporta (sempre in quella democrazia sana in cui LeU non muore dalla voglia di ricongiungersi col PD) non sarà avaro di sorprese.
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Smarriti nella matematica
di Massimo Sandal*
L'ossessione per la bellezza e l'eleganza matematica sta rovinando la fisica contemporanea?
La fisica è fuori rotta? Rischia di schiantarsi seguendo il canto di sirene dai nomi irresistibili di simmetria, naturalezza ed eleganza matematica? Cassandra di questo possibile naufragio è Sabine Hossenfelder, fisica teorica della gravità quantistica all’Istituto di Studi Avanzati di Francoforte, blogger e ora autrice di Lost in Math: How Beauty Led Physics Astray (letteralmente “Smarriti nella matematica: come la bellezza ha portato la fisica fuori strada”), uscito il 12 giugno e ancora in cerca di un editore italiano. Hossenfelder guida, assieme ai suoi colleghi Peter Woit e Lee Smolin, una minoranza crescente di eretici convinti che la fisica contemporanea sia diventata una mosca che sbatte contro il vetro senza accorgersi della via d’uscita. Hossenfelder non ci gira intorno: “Non riesco a credere cosa sia diventata questa professione un tempo rispettabile. I fisici teorici una volta spiegavano quello che veniva osservato. Ora cercano di spiegare perché non possono spiegare quello che non viene osservato. E non sono neanche molto bravi a farlo”, scrive.
A metà tra testo divulgativo e pamphlet, fitto di dialoghi con i protagonisti della fisica contemporanea, Lost in Math è allo stesso tempo mappa degli incantesimi in cui rischia di essere intrappolata la ricerca, denuncia delle politiche perverse dell’accademia e cronaca della disperata ricerca di un senso.
La grave bellezza
Oggi abbiamo due teorie che non hanno senso e funzionano perfettamente: il Modello Standard della fisica quantistica e la relatività generale di Einstein. Non hanno senso perché descrivono lo stesso universo, eppure a livello fondamentale è impossibile miscelarle, come olio e acqua. Né dicono nulla su materia oscura o energia oscura, che compongono gran parte del cosmo. Funzionano perfettamente perché ogni volta che vengono messe alla prova ne escono con successo totale, precise fino all’inverosimile. Questo significa che non ci sono dati capaci di indicarci la strada per trovare nuove teorie, perché quelle vecchie bastano sempre.
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I nuovi “amici del popolo”
di Carla Filosa
Il popolo non ha amici o poteri che lo tutelino, ma ha bisogno innanzitutto di fuoriuscire dall’ignoranza cui è stato da sempre relegato
“Tempi bui” aveva definito i suoi tempi – anni ’30-’40 del secolo scorso – B. Brecht. Questi nostri tempi potrebbero forse chiamarsi nebbiosi o meglio opachi, tempi in cui il potere, sostenuto da protesi tecnologiche di assoluta pervasività nelle coscienze, è riuscito a disorientarle su tutte le tipologie dei fatti sociali lasciando la scientificità solo sotto suo esclusivo uso e controllo. La comunicazione ha sostituito l’informazione e questa può continuamente essere deformata in base a convenienze economiche e politiche. La visione delle cose reali ne risulta incerta, insicura, si procede a tentoni nel più ampio spreco di empiria, deprivati di criteri razionali perché criminalizzati come “ideologia” divisiva, senza più intravedere le conseguenze di premesse determinate. I governi vengono scelti perché ancora non sono stati provati, poi si vedrà.
Il “restiamo umani” è diventato un obiettivo difficile testimoniato dalla necessità del suo appello; non si conosce il percorso per non essere ciò che già si è, intellettualmente colonizzati alla rinuncia, all’impotenza, alla rassegnazione della sconfitta o della pacificazione imposta. Il dogma dell’utile individuale continua a regolare le relazioni tra cose all’insaputa di persone rese ormai pure apparenze, la cui dignità sognata e non posseduta può essere esternalizzata da un decreto fasullo, che approda dopo che ne è stato strappato il senso legato alla lotta per l’esistenza. Quest’ultima però, non più solo naturale ma soprattutto sociale, scorre quasi normalizzata nei rivoli della xenofobia alimentata, del razzismo ritrovato, di un’ipotetica legittima difesa da legalizzare, di un’impunità da carpire, nell’anonimato di una rabbia sadica sfogata contro il diverso, ecc.
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L’umanesimo del lavoro in Marx
di Salvatore Bravo
Il lavoro dell'«uomo macchina» distrugge il lavoro come progetto creativo in cui riconoscersi, perchè il lavoro coatto brucia la creatività e inibisce la possibilità di costruire e produrre secondo le leggi della bellezza
Il lavoro dell’uomo macchina
Il lavoro è divenuto esperienza della costrizione, della coazione a ripetere. La globalizzazione, la competizione senza limiti intensificano a dismisura la dequalificazione del lavoro, il quale è pura attività produttiva finalizzata alla sopravvivenza biologica e del mercato. Il lavoro del capitalismo assoluto è molto di più che un fenomeno di abbrutimento dell’umano, è il tentativo scientemente organizzato di introdurre nella carne viva dell’essere umano il meccanicismo dell’uomo macchina. Si assiste dunque ad una nuova rivoluzione copernicana: questa volta al centro non vi l’uomo, ma il plusvalore che detta le leggi della produzione e delle macchine da riprodurre, e tra queste macchine l’essere umano. Il lavoro come pura meccanica è introdotta nella carne viva attraverso le parole. I linguaggi creano mondi e concetti e con essi disposizioni ad agire ed a essere. Le parole che risuonano come imperativi categorici sono: competizione-flessibilità.
La competizione
La competizione spinge il lavoratore a regredire ad una condizione emotivamente primitiva. Si vive la realtà dell’ambiente del lavoro come fosse stato di natura, per cui si diffida di tutti: per principio l’animale braccato, perennemente in tensione ansiosa, si rappresenta l’altro come nemico potenziale. Si disgrega in tal modo la naturale tendenza umana all’intenzionalità relazionale. La natura umana non la si può cancellare con un tratto di penna. Può sopravvivere, ma in modo perverso: il soggetto giudica la naturale disposizione ad aprirsi all’altro come debolezza, come patologia, e dunque utilizza le proprie energie per deviare l’intenzionalità dal suo obiettivo.
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Filosofo della storia, geografo dell’anticolonialismo
di Marcos Aurélio da Silva*
Domenico Losurdo, l’eminente filosofo italiano che tante volte ha visitato il Brasile e qui è stato ampiamente pubblicato, ci ha lasciato la mattina del 28 giugno scorso. Assieme alle lacrime per la perdita di un intellettuale di tanta levatura, ci possiamo però felicitare per l’enorme eredità che Losurdo ci ha lasciato attraverso le sue molte opere. Da queste possiamo ricavare molti insegnamenti su come leggere la storia e prendere posizione nel dibattito delle idee volte a superare questo mondo “grande, terribile e complicato”, come diveva Gramsci (Lettere dal carcere, 1926-1937. Org.A.A. Santucci, Palermo: Sellerio, 1996, p.421). Quel Gramsci che fu una delle principali fonti di ispirazione di Losurdo e del quale fornì un’interpretazione rigorosa e di grande interesse.
Infatti per Losurdo il grande autore marxista italiano è anzitutto consapevole che “l’assorbimento della parte vitale dell’hegelismo” nel materialismo storico è “un processo storico ancora in movimento” (Q. 10 II, § 10, p. 1248)1 . Un Gramsci, dunque, sempre attento alla categoria di "sviluppo storico", come Alberto Burgio, non per caso il primo alunno di dottorato di Losurdo, ha sottolineato in un'opera dedicata a questo argomento (Gramsci Storico, Roma: Laterza, 2002). Questo è un punto di partenza cruciale se si vuol capire il modo in cui, esercitando sempre una filologia esigente nella citazione dei testi di Gramsci, Losurdo presenta una lettura del comunista italiano molto diversa da quella a cui è stato a lungo associato. Non un Gramsci distaccato dalla rivoluzione bolscevica, ma un autore che identifica il "livello più avanzato raggiunto dal marxismo" proprio nel "processo rivoluzionario russo"(Antonio Gramsci, dal liberalismo al «Comunismo critico». Ed. Gamberetti, 1997).
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Revelli, Syriza e dare a Cesare quel che è di Cesare
di Sergio Cesaratto* e Stavros Mavroudeas**
Mentre UE, FMI e SYRIZA cercano di spacciare la favola di una ripresa in Grecia, i fatti rivelano un’altra storia
In un recente articolo pubblicato in greco e in italiano Marco Revelli – ospite abituale in Grecia di SYRIZA e del suo governo – fa polemica contro quella che lui chiama pseudo-sinistra, cioè quella che considera Tsipras un traditore e la politica economica di SYRIZA un fallimento.
Si tratta di una polemica gratuita (rivolta anche a uno dei firmatari di questa replica, vedi in Brave New Europe) in cui Revelli accusa questa “pseudo sinistra” di essere nazionalista e di aiutare i nazionalisti e populisti della destra di Nuova Democrazia in Grecia. Revelli, senza alcun fondamento, mette alla pari ogni critica di sinistra della politica di SYRIZA a quella neoliberale di Nuova Democrazia.
Revelli usa come titolo del suo pezzo (in greco) il detto evangelico Dai a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio. Vediamo se il dovuto che offre al suo Cesare o Dio (SYRIZA, in questo caso) è giusto o no.
Comincia esaltando l’abilità di SYRIZA nell’avere gestito al meglio il programma di austerità della troika, in modo tale da evitare un maggior danno sociale. La prova che dà è come minimo inconsistente o semplicemente sbagliata. I servizi medici sono privi di fondi e con una carenza di personale grave. Per di più SYRIZA nel 3° Memorandum ha firmato acconsentendo a tagli profondi sia nel campo della garanzie sociali che in quello delle pensioni (notare che il 51 % dei nuclei familiari dalle pensioni dipende) e sta mettendo tutto questo in atto. Questi tagli hanno incrementato il livello di povertà in Grecia anche più di quanto hanno fatto i governi precedenti (il 37 % della popolazione, approssimativamente, è a rischio di povertà o di esclusione sociale).
La protezione dalla messa in vendita all’asta delle case di prima proprietà è stata tolta (in accordo con il Memorandum firmato da SYRIZA). Le aste sulle case della gente procedono a passo più veloce, favorite dal fatto che si fanno per via elettronica, secondo una legislazione che SYRIZA ha prodotto per evitare resistenze pubbliche e proteste.
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L’insegnamento della storia e la periodizzazione del Novecento: omaggio a Samir Amin
di Eros Barone
Ricordi il sofista che diceva: oh Socrate! io vedo il cavallo ma non la cavallinità? Io penso che lo storico dovrebbe saper vedere insieme, strettamente connessi, cavalli e cavallinità1.
Lettera di Claudio Pavone a Roberto Vivarelli (Torchiara, 24 agosto 1992)
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1. La periodizzazione: nucleo fondante e procedurale del sapere storico
Se il nucleo fondante di una disciplina va individuato in quei concetti che ricorrono nei vari luoghi della stessa e hanno perciò valore strutturante e generativo di conoscenze, è allora evidente che la periodizzazione ha un’importanza decisiva non solo nel campo della ricerca storica, ma anche nel campo dell’insegnamento e dell’apprendimento di tale sapere. In quanto involge necessariamente l’articolazione interna del tempo e dello spazio, ossia le basi stesse della conoscenza del passato, la periodizzazione si trova infatti nel luogo geometrico di intersezione, dove il nucleo fondante della disciplina diviene nucleo procedurale, che può condurre, attraverso lo svolgimento intelligente e consapevole di determinate operazioni mentali e pratiche, all’acquisizione di una competenza (si può rappresentare questa relazione fra nucleo fondante, nucleo procedurale e competenza con l’immagine delle forbici che, usate da mani esperte, tagliano un pezzo di carta o di stoffa e ne ricavano una figura o un capo di abbigliamento). La competenza è definibile a sua volta come ciò che, in un contesto dato (quello di una certa disciplina), si sa fare, sulla base di un sapere, per raggiungere un obiettivo atteso e per produrre conoscenza (visibilità esterna, dunque, di un sapere e di un saper essere, in un saper fare). Orbene, come esiste, nel campo dell’insegnamento e dell’apprendimento, una circolarità (che è ad un tempo didattica e cognitiva) fra nuclei fondanti, nuclei procedurali e competenze, così esiste, nel campo della conoscenza storica, un’analoga circolarità (che è ad un tempo epistemologica e teleologica) tra i fatti, la sintassi, l’ipotesi di ricerca e il contesto.
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Guerra alla metafisica
di Leonardo Caffo
Quello che è più importante è che il punto di vista ecologico conduce ad interpretare ogni relazione sociale, psicologica, naturale, in termini non gerarchici. Per l’ecologia non si può comprendere la natura se ci si pone da un punto di vista gerarchico. Inoltre, essa afferma che la diversità e lo sviluppo spontaneo, costituiscono dei fini in sé, che devono essere rispettati per se stessi.
(Murray Bookchin)
La distinzione standard tra metafisica e ontologia, anche quando viene messa in crisi1, caratterizza la prima come lo studio delle qualità dell’essere (che cosa sono le cose che sono) e la seconda come l’analisi delle quantità dell’essere (che cosa esiste). In questi due diversi approcci dovrebbe essere racchiuso tutto ciò che della struttura del reale possiamo sapere (e non sapere)2 attraverso qualche metodo di accesso (epistemologia) e le entità che vengono evidenziate sono classificate generalmente come “oggetti”3 o, più classicamente, come “individui”4. L’approccio generale che ne emerge è basato sull’idea che il mondo sia un presupposto degli individui e che ognuna di queste entità sia analizzabile in modo monadico; basandomi su un’intuizione classica di Lamarck vorrei tuttavia argomentare in favore della tesi che chiamerei “Guerra alla metafisica”, secondo cui il mondo è il prodotto degli “oggetti” più che un suo presupposto. In questa direzione credo sia necessario introdurre la parola “ecologia” alla coppia ontologia e metafisica come strumento essenziale per questa guerra filosofica.
Iniziamo svincolando, con le dovute difficoltà del caso, l’ecologia dalle sue connotazioni morali e rimaniamo sul piano puramente concettuale: l’ecologia risponde, seguendo la falsariga già tracciata, allo studio delle relazioni dell’essere (che cosa esiste “tra” ciò che esiste).
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Marx nostro contemporaneo
di Giorgio Riolo
Quella che segue è la relazione tenuta a Vigevano il 5 maggio 2018 nell’incontro pubblico dedicato a Marx a 200 anni dalla nascita. L’incontro si è tenuto nell’ambito del ciclo di conferenze dal titolo “Scuola di cultura e politica”, a cura del Collettivo Culturale Rosa Luxemburg di Vigevano.
Il pubblico di queste conferenze era formato da attivisti politici e da persone interessate al tema, ma senza preparazione specifica. Pertanto il discorso ha voluto essere intenzionalmente non troppo approfondito, senza però, almeno negli intendimenti, perdere in rigore
Proprio il 5 maggio 1818 nasceva a Treviri Karl Marx. Sono passati 200 anni e tuttavia egli continua a essere una presenza ineludibile, fondamentale nel nostro tempo, in questo XXI secolo.
Dalla sua morte nel 1883, e dalla morte dell’amico e compagno di un’intera vita Friedrich Engels nel 1895, molte trasformazioni, molti grandi e profondi cambiamenti, hanno interessato la storia, la società, la cultura, la politica, in breve il sistema complessivo che denominiamo capitalismo. La sfida per noi che rivendichiamo la sua eredità, la sua lezione, risiede nel fatto di non ridurci a fare i meri ripetitori di formule, di frasi, di citazioni.
Marx è nostro contemporaneo proprio perché cerchiamo di pensare il mondo e il nostro tempo, e di agirvi conformemente, con la nostra testa, pur avendo presenti categorie, concetti, nozioni quali risultati del suo pensiero, della sua attività intellettuale, ma confrontandoci con i fenomeni nuovi, inediti rispetto al suo tempo e al suo mondo.
In una delle tante sue lettere, dopo la morte di Marx, quale suggeritore a chi si proclamava “marxista”, loro seguace, e suggeritore ai partiti socialisti o socialdemocratici che alla fine dell’Ottocento rapidamente si affacciavano nel proscenio della storia, diceva Engels “non raccogliete citazioni, non ripetete pedissequamente, ma pensate e analizzate la realtà vostra contemporanea come avrebbero fatto Marx ed Engels qualora si fossero trovati davanti a questa realtà, nuova, inedita”.
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Il cono Sud e l’economista cileno
F.Nastasi e G.T.Yajima intervistano Ricardo Ffrench-Davis
Il ruolo delle agenzie di rating e delle banche estere ai tempi di Pinochet, il ruolo dello Stato nell’economia allora e oggi, in una intervista all’economista cileno Ricardo Ffrench-Davis di due dottorandi italiani
Ci troviamo a Santiago del Cile, alla Cepal, la commissione delle Nazioni Unite che si occupa di affari economici per l’America Latina e Caraibi, abbiamo l’occasione di intervistare uno dei maggiori economisti del paese, Ricardo Ffrench-Davis. Il direttore della scuola Cepal, Gabriel Porcile, un uruguayo con due occhi luminosi e grande appassionato di Enrico Berlinguer, lo presenta come la prova ontologica dell’esistenza di Dio, dopo quelle fornite da Sant’Anselmo. Il miracolo sta nel fatto che Ffrench-Davis sarebbe dovuto diventare uno dei Chicago Boys, avendo studiato in quella università negli anni ’50-’60. Ha invece mantenuto uno spirito critico rispetto all’idea che “el mercado lo soluciona todo“. Non ha seguito i suoi connazionali allievi di Friedman nella definizione dell’esperimento liberista svoltosi in Cile dopo il golpe del 1973. E oggi pubblica una nuova versione del suo libro, “Reformas Económicas En Chile (1973-2017)”, un’analisi dell’evoluzione economica del paese. Cominciamo la nostra intervista proprio da qui.
* * * *
- Riferendosi agli anni della dittatura militare, si parla dell’economia cilena come di una storia di successo, Milton Friedman lo ha definito un miracolo, un’economia moderna in crescita, con alcuni settori dinamici, soprattutto quelli legati all’export, sebbene con performance negative in termini di povertà e disuguaglianza. Friedman aveva ragione, almeno per i settori più innovativi?
La dittatura fece riforme profonde, basate sull’idea che il mercato, liberato dal ruolo dello Stato, avrebbe guidato bene l’economia. Fu quindi creato uno Stato piccolo, riducendo le tasse sul capitale e non sul lavoro. La struttura sociale cilena però era, ed è ancora, molto eterogenea, con poche persone molto ricche e alti titoli di studio e molte che si trovano nella situazione opposta. Si è fatto abuso della ragione dei pochi.
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Storia, metodo e organizzazione di classe
Il percorso della Rete dei Comunisti in tre pubblicazioni
di Antonio Allegra
Comunisti nell’anno zero
Uno stimato compagno di poco più di vent’anni, qualche tempo fa, in una discussione politica all’interno di Potere al Popolo disse più o meno: “Per noi che non abbiamo la vostra età (si riveriva ai quelli dai quarant’anni in su) e non abbiamo la vostra esperienza politica, noi siamo all’anno zero”. Con questa affermazione cercava di marcare una differenza e rivendicava una novità. Quella affermazione contiene più verità di quante forse lo stesso compagno poteva sospettare. Ma denunciava anche alcuni vuoti di consapevolezza storica che devono essere colmati.
Vorrei idealmente parlare a quel compagno più giovane parlando della Rete dei Comunisti e del suo percorso storico, che con due opuscoletti di agile lettura abbiamo cercato di rendere esplicito a tutti, ossia con l’opuscolo “Approcciando la questione del metodo” (giugno 2018) e “Il lavoro teorico della Rete dei Comunisti” (aprile 2018).
Ripartiamo dall’affermazione. Innanzitutto è vero che tra la generazione dei ventenni e dei quarantenni c’è uno iato, una frattura.
Il giovane compagno non ha conosciuto l’esperienza politica “tradizionale” del partito di massa presente nelle istituzioni, nello specifico non ha conosciuto l’esperienza politica di Rifondazione Comunista. Ossia, non ha conosciuto quell’esperienza politica eclettica su cui si sono formati (o sformati) molti giovani compagni di allora, che cercavano uno spazio politico giovanile idealmente ribelle e “contro sistema”. O, meglio ancora, il giovane compagno non si è trovato a vivere quella “normalità” per cui un giovane di quel tipo trovasse “naturale” in qualche modo finire dentro Rifondazione. Oppure, su un versante completamente opposto, non si è trovato a vivere la “normale” condizione di andare a finire dentro a un centro sociale.
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Opporsi, ma come?
di Franco Romanò
Premessa
Quella che in atto da alcuni mesi in Italia è la riedizione della strategia della tensione in forme nuove, cui il governo giallo verde sta dando qualcosa di più di una copertura. Proprio perché le forme sono nuove, tuttavia, occorre tenersi alla larga da analisi che proliferano anche in rete e su facebook, che se la prendono con gli aspetti più folkloristici, oppure con comportamenti che sono rivelatori della miseria umana di ministri e altri esponenti di questo governo; con il risultato che criticando tali atteggiamenti non si fa altro che amplificarne il messaggio. Giusto denunciare i fatti più gravi e le contraddizioni palesi della compagine governativa, le violenze, le intimidazioni, le mancate promesse fatte durante la campagna elettorale (mancata reintroduzione dell’articolo 18, nuova introduzione dei voucher, No tav No tap ecc.); ma non le sparate, che spesso sono fatte proprio in base a una strategia comunicativa che si serve delle reazioni pavloviane contrarie per essere diffuse. Ci vuole silenzio, a volte, ma specialmente cercare di capire le ragioni profonde e non superficiali di ciò che sta accadendo e che non verrebbero meno neppure se questo governo cadesse a settembre quando si tratterà di varare la legge finanziaria. Se ciò avvenisse, sarebbe niente altro che il ricatto delle elite neoliberiste sconfitte e non per una opposizione politica che non esiste e neppure una protesta sociale organizzata almeno fino a questo momento, anche se qualche segnalo di risveglio in questo campo c’è; dunque non cambierebbe nulla nelle dinamiche di fondo.
Certi atteggiamenti e provvedimenti del governo e del suo ministro degli interni sono l’accelerazione di un processo in atto da tempo, trasversale agli esecutivi che si sono succeduti.
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Lavoro, sussunzione e progresso tecnico
Sull’attualità del pensiero di Marx
João Vitor Santos intervista Andrea Fumagalli
A 200 anni della nascita, il pensiero di Karl Marx è ancora al centro del dibattito contemporaneo. In questa intervista per la rivista brasiliana Rivista do Istituto Humanitas – Unisinos, Andrea Fumagalli cerca di sottolineare elementi di metodo e aspetti teorici che rendono Marx attuale e imprescindibile per comprendere, pur a 160 anni dall’edizione del I libro de Il Capitale, la natura dell’evoluzione del sistema capitalistico di produzione e la metamorfosi delle forme di sfruttamento del lavoro, oggi ancora più pervasive che in passato
1) Quali sono i limiti e le potenzialità delle idee marxiste per guidare le riflessioni sul mondo del lavoro nel nostro tempo?
La principale potenzialità e la grande attualità di Marx sta nell’approccio metodologico. In particolare riguardo a due aspetti. Il primo deriva dalla constatazione che al centro dell’analisi marxiana sta il “soggetto uomo”. L’analisi di Marx (ma non di tutto il marxismo) è un’analisi “umanista”. L’umanesimo” di Marx deriva dalla sua impostazione filosofica giovanile, che si condensa soprattutto nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, quando Marx inizia a delineare alcuni strumenti concettuali, quali alienazione e feticismo, che solo successivamente verranno declinati in chiave più economica. Anche dopo la “scoperta” dell’economia politica borghese grazie all’inchiesta di Engels sulla condizione sociale della classe operaia inglese e quindi lo sviluppo di una rigorosa analisi sul funzionamento dell’accumulazione capitalistica (i tre volumi de Il Capitale), il riferimento alla soggettività non viene comunque meno e ritorna prepotentemente nei Grundrisse. L’attualità di Marx sta nel fatto che ci ricorda che ogni economista, soprattutto oggi, dovrebbe avere una solida base filosofica e epistemologica. Purtroppo, oggi vige la regola opposta.
Il secondo elemento di potenza dell’analisi marxiana sta nel riconoscere che ogni analisi sociale ed economica è sempre un’analisi in divenire e quindi dinamica, esito di un processo dialettico in costante metamorfosi. L’approccio storicistico ci dice che la comprensione di una dinamica sociale può essere valida solo all’interno di un contesto storico e/o spaziale ben definito e delineato. Ciò che può valere oggi, non né detto che possa valere domani. Non esistono leggi immanenti nell’economia politica. L’attuale metafisica economica (imposta dal neo-liberismo) non ha senso.
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Mark Fisher: per un’economia politica dell’inadeguatezza
di Francesca Coin
Il due marzo abbiamo presentato a Esc Realismo Capitalista, il libro di Mark Fisher di recente tradotto dalla nuova casa editrice NERO (2018). È stata l’occasione per provare a mettere in fila alcuni pensieri circa l’importanza di questo autore, al netto dei molteplici riverberi emotivi derivanti dal significato politico, intimo, intellettuale, del suo pensiero e della sua vita.
Vorrei ragionare non tanto sul pensiero o sulla figura di Mark Fisher, ma proprio sulla “Funzione Fisher”, espressione che Valerio Mattioli, traduttore e curatore del libro, riprende nella sua splendida introduzione da Robin Mackay, per provare a sintetizzare la capacità di Fisher di intrecciare i piani discorsivi più eterogenei sino a toccare i nodi meno manifesti della nostra sensibilità politica.
Ho incontrato il lavoro di Mark Fisher nel 2011, nel momento in cui Capitalist realism era già uscito e Fisher stava lavorando alla pubblicazione di Ghosts of my Life. Il mio incontro con il suo lavoro nasceva dal bisogno di trovare dell’aria oltre la cultura politica italiana. Ero rientrata da pochi anni in Italia, e nella mia testa erano rimaste aperte questioni biografiche, teoriche e politiche che non riuscivo ad articolare. Erano anni di letargo, per me, come avrebbe detto Deleuze, anni in cui provavo a rimettere le parole insieme, con dei piccoli balbettii che seguivano il corso dell’intuizione, degli incontri o del caso.
Il nodo fondamentale era il bisogno di capire che cos’è che aveva così profondamente lacerato la mia capacità di agire nel mondo, cos’era stato così violento da farmi perdere le parole, in una specie di processo di de-alfabetizzazine e ri-alfabetizzazione continua. L’attrazione per gli scritti di Mark Fisher nasceva qui.
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‘Tutto il potere ai soviet’, una storia in sette parti
di Lars T. Lih
Il seguente articolo è il primo di una serie di sette. Un’appendice a questo stesso articolo, “Mandato per le elezioni al soviet”, pubblicata separatamente nel caso dell’originale inglese, viene qui pubblicata in calce
“Tutto il potere ai soviet!”, senza alcun dubbio uno dei più celebri slogan nella storia delle rivoluzioni. A giusto titolo a fianco di “Liberté, égalité, fraternité” quale simbolo di un’intera epoca rivoluzionaria. Nel presente saggio, e in altri che seguiranno, prenderò in esame la genesi di questo slogan nel suo contesto originario, quello della Russia del 1917.
Il nostro slogan consiste di tre parole: вся власть советам, vsya vlast’ sovetam. “Vsya” = “tutto”, “vlast’“ = “potere” e “sovetam” = “ai soviet”. La parola russa sovet significa semplicemente “consiglio” (anche nel senso di suggerimento) e, da questo, “consiglio” (nel senso di assemblea). Oramai siamo ben abituati a questo termine russo, poiché evoca tutta una serie di significati specifici derivanti dall’esperienza rivoluzionaria del 1917.
In questa serie di articoli, ricorrerò spesso all’originale russo di una delle parole presenti nello slogan in questione, vlast’ (che d’ora in poi verrà traslitterata senza segnalare il cosiddetto jer molle [Ь] con l’apostrofo). “Potere” non ne dà una traduzione del tutto adeguata; difatti, nel tentativo di coglierne le sfumature, vlast viene spesso tradotto con la locuzione “il potere” (ad esempio da John Reed in I dieci giorni che sconvolsero il mondo). Il russo vlast riguarda un ambito più specifico rispetto al termine “potere”, ovvero quello dell’autorità sovrana di un particolare paese. Perché un soggetto sia ritenuto in possesso del vlast, deve avere il diritto di assumere decisioni definitive, essere dunque in grado di prenderle e vederle eseguite. Il vlast, per essere effettivo, richiede un fermo controllo delle forze armate, un forte senso della legittimità e missione assunte, nonché una base sociale. L’espressione di Max Weber sul “monopolio della violenza legittima” va dritto al cuore della questione.
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Perché serve la cultura?
di Stefania Tirini
Questa non è cultura, è pedanteria,
non è intelligenza, ma intelletto,
e contro di essa ben a ragione si reagisce.
La cultura è una cosa ben diversa
Antonio Gramsci
Introduzione
Nel 1935, il filosofo Edmund Husserl denuncia la crisi di senso che caratterizzava la sua epoca: era molto preoccupato per l’avanzare e il progredire dei totalitarismi. L’autore spiega in maniera semplice e chiara la crisi della cultura, una crisi che ha portato progressivamente all’emergere dei totalitarismi e affronta il problema dichiarando che la crisi di senso è la crisi della ragione. Secondo Husserl, si era affermata una difficoltà progressiva e crescente a utilizzare la ragione come facoltà critica e interrogativa (Husserl 1936).
Ispirato in parte dalla filosofia di Descartes, Husserl considera che il punto di partenza per poter fondare un sistema filosofico, ma anche la cultura, è quello di cominciare a dubitare. Con Husserl si parla di dubbio, del dubbio cartesiano che è dubbio metodologico. Si deve poter dubitare di tutto per poi cominciare a fondare criticamente il sapere, la conoscenza. Ora, secondo Husserl questa facoltà, critica, interrogativa, dubitativa, non esiste più.
Le riflessioni di Husserl sono un buon punto di partenza per affrontare la crisi della cultura contemporanea: oggi ci troviamo di fronte a scetticismo e irrazionalismo, e il ruolo della cultura dovrebbe essere quello di combattere sia l’uno che l’altro. Ma cerchiamo di capire in che senso scetticismo e irrazionalismo abitano trionfalmente il presente e come la cultura può sconfiggerli.
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Quando gli esclusi prendono la parola
Letteratura e classe operaia, a partire da Prunetti
di Antonio Montefusco
Ma oggi, a noi. Dove sono i compagni e gli amici che debbono ricevere quello che più abbiamo amato? Al di là degli affetti, che possono solo duplicare noi stessi, abbiamo accettato o subito la perdita di tutta la solidarietà nella superstizione che tutto ci sarebbe stato restituito ad una svolta della storia. La parola «amico» ha mutato regione – Adorno lo ha spiegato da tanti anni – e significa poco più o poco meno che contiguità di corte e di sorte; di ufficio, cattedra, centro studi, insomma affari.
FF, Le ultime parole, in QF, p. 14 (1965)
1. A leggere 108 metri di Prunetti (Laterza, 2018) si salta sulla sedia e si trattiene a stento il respiro. Discutere duramente con il proprio genitore della prosecuzione del percorso di studi come se quella prosecuzione non fosse già automatica e segnata, almeno per quello che riguarda i gradini da raggiungere; interrogare la propria identità mentre si frequentano banchi di scuola dove siedono, in maggioranza, esseri che mostrano una predisposizione naturale a interagire con saperi e discipline che ti sono ignote; affrontare la vita della precarietà dopo aver raggiunto titoli di studio (la laurea) che la generazione precedente della tua famiglia non aveva nemmeno immaginato, ma solo sperato; far riemergere il tuo DNA di classe nella capacità di mescolare ciò che è vietato fare fuori dalla tua classe: arti liberali e arti meccaniche, ciò che l’Occidente ha diviso per deliberata scelta nei secoli dei secoli (o almeno da quando esiste l’Università, più o meno da ottocento anni); sbarcare in terre ignote, masticando lingue mescolate e apprese per strada e nei bar, senza quell’eleganza che ti impongono gli istituti di insegnamento stranieri a lauto pagamento (il British Council, l’Alliance française…), con quell’accento e quella mescidanza che ti rimarranno appiccicati per sempre, e che coloro che sono capaci di scimmiottare con successo l’accento straniero ti rimprovereranno quotidianamente: questo tesoro di esperienze mi appartengono in profondità, e però le ho ricacciate nel non dicibile.
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I lavoratori in affitto e il difficile governo europeo del salario
di ∫connessioni precarie
Lo scorso giugno il Parlamento Europeo ha approvato la nuova direttiva sui posted workers, cioè lavoratori e lavoratrici che, per un periodo limitato di tempo, lavorano in uno Stato membro UE diverso da quello in cui sono abitualmente occupati. Si tratta di circa due milioni di operaie e operai che di mese in mese si spostano sul territorio europeo, una porzione di forza lavoro da sommare agli oltre 17 milioni di migranti interni oggi presenti in Europa. La direttiva sembra magicamente mettere d’accordo tutti: Juncker, Macron, i sindacati, i governi dei principali paesi destinatari del distacco e alla fine, dopo qualche protesta, anche i paesi dell’Est – con l’eccezione di Polonia e Ungheria – sembrano aver accettato l’inevitabilità di cotanta ragionevole commistione di libertà del mercato e diritti del lavoro. La regolamentazione mostra non solo la sorprendente convergenza di governi nazionali, commissione europea, sindacati e imprese, al netto dei contrastanti nazionalismi e dei conflitti politici, ma anche il modo in cui l’integrazione logistica europea funziona attraverso un governo transnazionale del salario il cui scopo è legare la mobilità esclusivamente al lavoro e al profitto.
In primo luogo, la direttiva riduce la durata massima del distacco a 12 mesi, estendibili a 18, oltre i quali ai lavoratori deve essere garantita «una serie aggiuntiva di condizioni applicabili in via obbligatoria ai lavoratori nello Stato membro in cui il lavoro è svolto». Questa misura, giustificata con l’obiettivo di ridurre gli abusi, comporta in realtà solo un cambiamento minimo, considerato che la maggior parte dei distacchi ha in ogni caso durata inferiore a sei mesi.
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Vademecum per il disastro
La crisi della modernità dedotta dai principi della critica del valore
di Riccardo Frola
Questo testo è stato pubblicato per la prima volta come postfazione al libro “Crisi, nella discarica del capitale”, di Ernst Lohoff e Norbert Trenkle, pubblicato dalla casa editrice italiana Mimesis nel 2015. Il testo è integrale e non ha subito modifiche: è stata aggiornata soltanto la piccola bibliografia.
I. Sulle spalle del gigante.
«Non c’è via maestra per la scienza, e solo hanno una possibilità di raggiungerne le vette luminose coloro che non temono di affaticarsi a salirne i ripidi sentieri»*.
Karl Marx, Il Capitale.
La crisi dilaga. Il ceto medio di buona parte dell’Eurozona è sotto un continuo cannoneggiamento di licenziamenti, diminuzione dei salari, demansionamenti, tagli. Persino i figli viziati della medio borghesia degli anni del boom si accontentano ormai di qualche contratto l’anno, vagando fra gli open space dei call center, i capannoni di amianto dei discount, le cucine e le celle frigorifere dei fast-food.
L’evoluzione informatica e dei software gestionali, presentata come fonte di emancipazione sociale ha espulso dalla produzione milioni di lavoratori, degradato le competenze di quelli rimasti, e trasformato il lavoro in una routine più ripetitiva della vecchia catena di montaggio.
Nella creazione della ricchezza sociale, la finanza -lo ricorda fra gli altri Gallino-, ha quasi sostituito la produzione reale.[1]
In Italia la disoccupazione procede ad un ritmo di 200mila posti di lavoro persi per anno. Il 46% dei giovani italiani è ufficialmente senza un’occupazione. Negli ultimi sette anni, Il 16% delle piccole e medie imprese è fallito, gettando sul mercato del lavoro, già saturo, 405mila disoccupati. Un fuoco di artiglieria.
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La fusione tra Amazon e apparati statali
Un segnale della deriva del neoliberismo verso il neofascismo
di Elliott Gabriel
Il neoliberismo è un’ideologia che aspira a rompere qualsiasi regola, a superare qualsiasi limite, nella sua corsa volta a mercificare tutto per trarne un maggior profitto. In questa foga iconoclastica, che strada facendo si infarcisce di un lessico mistico e di dogmi semi-religiosi, tutto ha un suo prezzo, anche la verità, le opinioni, la privacy. Amazon, che da semplice sito di e-commerce ha esteso il suo campo di azione all’hosting di siti web, all’editoria e ai servizi di sorveglianza, sta oggi abbattendo ogni barriera tra pubblico e privato, tra stato e business. Con gli enormi mezzi economici e tecnologici a sua disposizione, le ripercussioni di questa “rottura” sono potenzialmente catastrofiche
Quest’anno potrebbe passare alla storia come un punto di svolta, in cui il mondo ha finalmente preso coscienza del lato oscuro dell’onnipresenza dei colossi della Silicon Valley nella nostra vita quotidiana. O almeno, così si spera.
Da Amazon a Facebook, Apple, Google, Microsoft e PayPal – tra le altre –& sono trapelate rivelazioni& che confermano il continuo abuso dei dati degli utenti da parte di società monopolistiche, nonché il loro crescente ruolo come fornitori di tecnologia di sorveglianza per lo stato di polizia, i militari e le agenzie di detenzione per migranti degli Stati Uniti.
A marzo è scoppiato lo scandalo dei dati degli utenti di Facebook raccolti da Cambridge Analytica, che utilizzava le informazioni personali per creare milioni di “profili psicologici” dettagliati per la campagna presidenziale di Trump. Appena due settimane dopo, lo staff di Google è andato in subbuglio sulla questione del “Progetto Maven”, una piattaforma di intelligenza artificiale che potenzierà enormemente le capacità della flotta mondiale di droni militari degli Stati Uniti di raggiungere i bersagli automaticamente. Di fronte allo sdegno pubblico e al dissenso interno, l’azienda& ha ritirato la sua& candidatura a rinnovare il& contratto col Pentagono, che scade il prossimo anno.
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Introduzione al Manifesto del Partito Comunista*
di Stefano Garroni
Com’è ben noto il Manifesto fu scritto da Marx ed Engels su commissione della Lega dei comunisti, organizzazione londinese, che però raccoglieva anche lavoratori di altri paesi e che aveva una consistente rete di rapporti internazionali.
Lo scopo dell’opuscolo – perché di questo si trattava – era di propagandare un unitario orientamento politico, che fosse, nello stesso tempo, capace di rinserrare le file dei più decisi e combattivi rivoluzionari europei, come anche di fornire a quell’orientamento uno spessore storico e teorico. Insomma, si trattava anche – e forse fondamentalmente – di organizzare un effettivo argine contro il dilagare, nel movimento rivoluzionario, di orientamenti utopistici, spesso costruiti su ispirazioni di tipo francamente religioso e, generalmente, tanto roboanti sul piano verbale, quanto inconcludenti su quello effettivamente pratico e politico.
Ricordiamo che tutta la vicenda si ambienta nel 1848, in un’epoca, dunque, ricca di fermenti rivoluzionari, ma pure caratterizzata ancora dal fatto che il movimento proletario e persino gli ambienti rivoluzionari più solidi, mancano di una propria autonomia teorica, non sanno discriminare adeguatamente tra le critiche alla società presente che esprimono i rimpianti delle classi tramontate; e quelle, invece, che rappresentano un nuovo punto di vista, legato al moderno proletariato di fabbrica.
È' un’epoca, dunque, di incertezze teoriche, che si esprimono sia in oscillazioni politiche, sia nella proclamazioni di tesi francamente utopistiche e spesso “colorate” – lo ripeto – in senso religioso e sentimentale.
La battaglia per dare al movimento rivoluzionario un orientamento teorico diverso, che fosse fondato dal punto di vista critico-scientifico, già aveva visto nettamente impegnati sia Marx che Engels: l’incarico, dunque, ottenuto dalla Lega dei comunisti era anche una loro personale vittoria. Tuttavia, il compito assegnato era sempre – e solo – quello di scrivere un opuscolo agitatorio. Ricordare ciò può sembrare bizzarro, quasi si insistesse su un’ovvietà.
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