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sinistra

L’insegnamento della storia e la periodizzazione del Novecento: omaggio a Samir Amin

di Eros Barone

479Ricordi il sofista che diceva: oh Socrate! io vedo il cavallo ma non la cavallinità? Io penso che lo storico dovrebbe saper vedere insieme, strettamente connessi, cavalli e cavallinità1.
Lettera di Claudio Pavone a Roberto Vivarelli (Torchiara, 24 agosto 1992)

  1. 1. La periodizzazione: nucleo fondante e procedurale del sapere storico

Se il nucleo fondante di una disciplina va individuato in quei concetti che ricorrono nei vari luoghi della stessa e hanno perciò valore strutturante e generativo di conoscenze, è allora evidente che la periodizzazione ha un’importanza decisiva non solo nel campo della ricerca storica, ma anche nel campo dell’insegnamento e dell’apprendimento di tale sapere. In quanto involge necessariamente l’articolazione interna del tempo e dello spazio, ossia le basi stesse della conoscenza del passato, la periodizzazione si trova infatti nel luogo geometrico di intersezione, dove il nucleo fondante della disciplina diviene nucleo procedurale, che può condurre, attraverso lo svolgimento intelligente e consapevole di determinate operazioni mentali e pratiche, all’acquisizione di una competenza (si può rappresentare questa relazione fra nucleo fondante, nucleo procedurale e competenza con l’immagine delle forbici che, usate da mani esperte, tagliano un pezzo di carta o di stoffa e ne ricavano una figura o un capo di abbigliamento). La competenza è definibile a sua volta come ciò che, in un contesto dato (quello di una certa disciplina), si sa fare, sulla base di un sapere, per raggiungere un obiettivo atteso e per produrre conoscenza (visibilità esterna, dunque, di un sapere e di un saper essere, in un saper fare). Orbene, come esiste, nel campo dell’insegnamento e dell’apprendimento, una circolarità (che è ad un tempo didattica e cognitiva) fra nuclei fondanti, nuclei procedurali e competenze, così esiste, nel campo della conoscenza storica, un’analoga circolarità (che è ad un tempo epistemologica e teleologica) tra i fatti, la sintassi, l’ipotesi di ricerca e il contesto.

I fatti, innanzitutto (che corrispondono, secondo l’efficace metafora di Marc Bloch, alla carne umana di cui ha bisogno di nutrirsi quell’orco che è lo storico2 ), anche se essi, avulsi dall’ipotesi di ricerca, dalla sintassi e dal contesto sono muti e ciechi; la sintassi, quindi, che corrisponde all’ordine logico che i fatti rivelano (o secondo cui essi sono organizzabili); l’ipotesi di ricerca, che è fondamentale, perché, essendo la vera fonte da cui nasce l’individuazione delle cause (come spiega Carr nel quarto capitolo delle sue Lezioni di storia), permette di selezionare e gerarchizzare i fatti;3 il contesto, infine, che, in quanto dialettica della contemporaneità (o, per dirla con Sweezy, “il presente come storia”),4 conferisce a questi ultimi un senso.

Il sapere storico può essere pertanto definito come quel sapere che enuncia i propri discorsi in base ad una sintassi i cui connettivi sono costituiti dagli ordinatori del tempo, dello spazio e delle relazioni, laddove il tempo si articola in durata, successione, ciclicità, irripetibilità, permanenza, contemporaneità, mutamento, cesura ecc., lo spazio viene scandito in termini di terreni/territori, omogeneità/disomogeneità, stratificazione, continuità/discontinuità ecc., e le relazioni, che possono essere di tipo funzionale, genetico-descrittivo, strutturale, indiziario ecc., generano i modelli esplicativi della conoscenza storica, caratteristici delle diverse scuole storiografiche.5 Da queste considerazioni introduttive si ricava la conclusione secondo cui, in virtù della sua natura ‘com-plessa’, la periodizzazione è un nodo non solo della ricerca storica, ma anche della formazione di un adeguato senso storico nel processo di insegnamento/apprendimento delle giovani generazioni.

 

  1. Legittimità epistemologica, implicazioni filosofiche e valore metodologico della periodizzazione

Proprio perché la periodizzazione codificata nei manuali scolastici (età antica, medievale ecc.) è per noi ovvia, vale la pena discuterne per esplicitare la filosofia della storia che vi è sottesa.

Per molti secoli l’Occidente divise la storia in base alle quattro età della profezia di Daniele (età delle monarchie assiro-babilonese, persiana, greca e romana) e la intrecciò alle sei età di Agostino (da Adamo a Noè, da questo ad Abramo, da questo a Davide, cattività babilonese, fino a Cristo, dopo Cristo; si tratta di età modellate sui sei giorni della creazione e corrispondenti alle fasi della vita umana: infanzia, puerizia, adolescenza, giovinezza, maturità e vecchiaia-nascita dell’uomo nuovo).

A partire dal XIV secolo emerge una diversa periodizzazione (epoca esemplare, decadenza, rinascita), che sarà utilizzata dai teologi protestanti per inquadrare la storia del cristianesimo (si pensi, prima, ai luterani “Centuriatori di Magdeburgo”, che dividono la storia in unità di 100 anni, e, poi, a Voltaire, che divide abitualmente la storia in secoli contrassegnandoli con gli ordinali). In séguito la storiografia abbandonerà l’idea della coincidenza fra secolo storico e secolo astronomico.

La risposta alla domanda: “Queste età sono puramente convenzionali o rispecchiano fedelmente le effettive discontinuità del processo storico?”, si condensa nel dilemma realismo/strumentalismo. Il realismo afferma che la periodizzazione è un riflesso di rotture reali del processo storico e che, quindi, esiste una sola periodizzazione corretta; lo strumentalismo ritiene che, essendo il processo storico un flusso continuo, la periodizzazione è una deformazione e che, perciò, data la loro natura convenzionale, sono possibili più periodizzazioni. Benedetto Croce, ad esempio, afferma: «pensare la storia è certamente periodizzarla»; per lui la tripartizione ‘età antica-medievale-moderna’ non è arbitraria, ma è strettamente connessa alla coscienza moderna: quando questa cambierà, cambierà anche la prospettiva storica e, quindi, tale periodizzazione si contrarrà in un’unica epoca e le scansioni saranno diverse.6 Da parte nostra aggiungiamo che, se si deve convenire sul fatto che l’abito di Clio è un tessuto senza cuciture, resta pur sempre vero che in esso vanno distinti i diversi disegni della trama.

Un esempio famoso di periodizzazione, che risale a Bacone (Novum Organum, I, par. 129, 1620), è l’individuazione della triade ‘libri-vele-cannoni’ come fattore che segna il passaggio dal medioevo all’età moderna (in questo caso il criterio della periodizzazione è il progresso tecnico-scientifico).7

La conclusione che si può trarre dalla disàmina sin qui svolta è che soltanto con l’abbandono di un tempo lineare e con l’affermazione di una concezione progressiva del tempo si è costituito lo spazio teorico in cui potevano definirsi le nozioni di medioevo e, simmetriche ad esso, di età antica e di età moderna.

Inoltre, secondo la pertinente indicazione della scuola delle ‘Annales’, occorre definire sempre, quando si usa il concetto di periodo storico, il livello al quale ci si colloca e la pluralità dei tempi storici (che involge, fra l’altro, il paradosso storiografico per cui la fine di un periodo non coincide con l’inizio del periodo successivo). Il Cantimori ci fornisce un esempio assai istruttivo di tale complessità discutendo il problema della periodizzazione dell’età del Rinascimento (che egli preferisce chiamare ‘età umanistica’), la quale nella storia letteraria va da Petrarca a Goethe, nella storia della Chiesa va dallo scisma d’Occidente alle secolarizzazioni, nella storia economico-sociale va dai Comuni e dal precapitalismo mercantile alla rivoluzione industriale e nella storia politica da Carlo IV alla rivoluzione francese.8

Un esempio altrettanto istruttivo è l’esperimento mentale proposto da Daniel Milo nel suo libro di “periodologia”, allorché, trattando il problema della genesi e del valore della periodizzazione storiografica per secoli, si domanda quale spostamento di prospettiva sarebbe avvenuto, se si fosse identificata, quale ‘terminus a quo’ della nostra era, anziché l’incarnazione, la passione, ossia l’anno 33 d. C.: una conseguenza interessante sarebbe, relativamente agli ultimi due secoli, che la prima guerra mondiale e la rivoluzione d’ottobre sarebbero risucchiate nel XIX secolo, mentre il XX secolo, in cui, con lieve forzatura, si potrebbe inscrivere il grande crollo di Wall Street, ma anche il nazismo, il fascismo e il comunismo, sarebbe ancora ben lungi dalla sua fine.9

Un altro importante problema filosofico, che va tenuto presente, è quello del rapporto tempo-storia: infatti, le differenti soluzioni di tale problema dànno luogo all’alternativa fra una concezione per cui il tempo è il quadro in cui la storia si muove e che la domina e una concezione per cui la storia è il quadro che contiene e caratterizza il tempo.

Le altre conclusioni sono: 1) che le periodizzazioni sono indispensabili, perché servono a rendere pensabili i fatti, cioè ad organizzare le nostre conoscenze; 2) che, se la storia è lo studio dei cambiamenti significativi (non di cambiamenti generici), la periodizzazione è lo strumento principale d’intelligibilità di tali cambiamenti; 3) che non bisogna ipostatizzare i vari periodi, trasformandoli in entità autosufficienti; 4) che occorre avere consapevolezza delle categorie teoriche e ideologiche implicite nelle periodizzazioni proposte dagli storici; 5) che occorre riconoscere l’esistenza di una molteplicità di periodizzazioni non del tutto congruenti tra loro.

 

  1. Tre proposte di periodizzazione del Novecento

Per impostare il problema della periodizzazione del Novecento si può partire da due domande: “Se un’epoca è riconoscibile come qualcosa di unitario per una sua specificità, che cosa fa del ’900 un’epoca? Quando ha inizio il ’900?”. Può allora essere utile, per parlare della periodizzazione del Novecento, partire dal suo immediato predecessore, cioè dall’Ottocento, e domandarsi quali specifici caratteri definiscano tale secolo.

Una risposta interessante a quest’ultimo quesito è quella di Karl Polanyi (La grande trasformazione, 1944), che individua quattro istituzioni-base della civiltà del XIX secolo: il sistema dell’equilibrio (1815: congresso di Vienna), il sistema aureo internazionale (1819-’21, date corrispondenti rispettivamente alla elaborazione della legge sul ‘gold standard’ e alla sua entrata in vigore), lo Stato liberale (1832: il ‘Reform Bill’) e il mercato autoregolantesi (1795-1846, date rispettivamente corrispondenti, in Inghilterra, all’introduzione del libero mercato del lavoro e all’abolizione del protezionismo granario). Il XIX secolo di Polanyi risulta così elastico e differenziato sia nel suo inizio sia nel suo svolgimento sia nel suo termine. Il ‘terminus ad quem’, infatti, cade nel 1914, quando finisce il sistema dell’equilibrio (in questo caso la fine di un periodo della storia politica coincide con l’inizio del periodo successivo e la data periodizzante è lo scoppio della 1ª guerra mondiale), mentre le altre istituzioni-base durano fino alla grande crisi del 1929, che segnerà la loro fine.10

Vediamo ora tre periodizzazioni del Novecento elaborate dalla storiografia contemporanea.

Eric Hobsbawm è l’autore di un libro-chiave per la comprensione del Novecento, Il secolo breve.11 ‘Terminus a quo’ e ‘terminus ad quem’ sono, rispettivamente, lo scoppio della 1ª guerra mondiale e il dissolvimento dell’URSS. Il Novecento viene diviso in tre parti: 1ª) l’età della catastrofe (1914-’45); 2ª) l’età dell’oro (1945-’70); 3ª) la frana (1973-’91). Per Hobsbawm dal 1914 al 1991 tre processi hanno inciso profondamente nella storia del mondo: il declino dell’Europa, la mondializzazione e la disintegrazione dei vecchi modelli delle relazioni umane e sociali.

Charles S. Maier12 parla invece di un’epoca lunga (1860-1990), un ‘secolo lungo’ in cui l’organizzazione territoriale dell’umanità ha raggiunto il culmine ed è poi entrata in crisi, laddove tale crisi nasce dalla separazione fra spazio dell’identità e spazio della decisione. In tutto questo periodo la territorialità (= istanza di dominio dello spazio entro confini) si è costituita attraverso la centralizzazione politica e il sistema ferroviario. Il Maier distingue i seguenti sotto periodi: 1°) 1860-’95: formazione degli Stati nazionali; 2°) 1895-1932: rivalità nazionali e fallimento dei tentativi di stabilizzazione economica transnazionale; 3°) 1933-’70: rinegoziazione delle soluzioni territoriali e ripresa di un’economia industriale fondata sulla piena occupazione; 4°) 1970-’90: fine irreversibile delle premesse territoriali dell’organizzazione politica ed economica.

Leonardo Paggi13 parla, dal canto suo, di un ‘secolo spezzato’ (1870-1945). Il 1914 non è più visto come evento periodizzante e viene individuato al suo posto il 1945, che segna una rottura epocale per le seguenti ragioni: mutamento della natura della guerra in rapporto ai processi di mondializzazione, formazione di un sistema di interdipendenze nel commercio internazionale, mutamento del rapporto fra vita e spazio pubblico-politico, trasformazione dei sistemi delle identità collettive. Il ‘secolo spezzato’ è anche un ‘secolo aperto’: infatti, dopo il 1945 il processo di mondializzazione si svolge passando da una fase distruttiva ad una fase di competizione economica.

Infine, includendo in questa sintetica rassegna dei bilanci del Novecento altri due testi significativi, L’eredità del Novecento di Valerio Castronovo14 e Oltre il Novecento di Marco Revelli,15 è da osservare che l’ottica, prescelta dal primo, di un secolo più “lungo” e più “largo” rispetto alle dimensioni storico-geografiche del secolo breve di Hobsbawm (dimensioni che, avendo come ‘terminus a quo’ la rivoluzione d’ottobre e come ‘terminus ad quem’ il crollo del muro di Berlino, comprendono la “guerra civile europea” e la “guerra fredda”, cioè poco più di un settantennio di storia occidentale) spazia su tutto l’arco del secolo e su tutti gli scacchieri geopolitici e geoeconomici mondiali, ponendo in forte risalto il carattere complesso e tutt’altro che concluso del secolo XX, mentre l’ottica del secondo, se appare per un verso mutuata dalla definizione ossimorica non solo di secolo breve, ma anche di età degli estremi (che è il titolo, incentrato sulle antitesi tra comunismo e fascismo e antifascismo e fascismo, dell’edizione originale del saggio di Hobsbawm), per un altro verso non è riconducibile se non in parte al campo della storiografia, in quanto mescola una visione apocalittica del Novecento come epoca del trionfo della tecnica (e delle sue applicazioni distruttive in campo militare, politico e sociale) con la proposta di un ritorno al punto che precede la metamorfosi della lotta per l’emancipazione in esercizio feroce del potere, là dove le ‘anime belle’ (categoria nella quale a buon diritto può essere inserito l’autore) raccolgono, strappandola dalle mani del ‘militante politico’ (figura prototipica novecentesca) per consegnarla in quelle del ‘volontario’ (figura prototipica post-moderna), la bandiera della lotta per l’emancipazione.

 

  1. Importanza formativa della periodizzazione nella didattica della storia

Se per un verso la periodizzazione abitua gli allievi ad inserire lo studio degli eventi storici in una esatta prospettiva temporale e spaziale, per un altro verso promuove il loro senso critico per via della sua necessità e insieme della sua relatività. Così, come si è visto, la periodizzazione risulta necessaria in quanto è lo strumento di intelligibilità dei cambiamenti significativi e, nel contempo, relativa in quanto ha un valore limitato all’area geografica e alla prospettiva temporale del periodo in cui si vive (= contemporaneità e situazionalità di ogni ricostruzione storica).

In tal senso le discussioni sulle periodizzazioni (da quella del medioevo a quella dell’età contemporanea) sono esempi assai istruttivi della storicità inerente ad ogni atto di comprensione del passato. La periodizzazione, oltre a mettere in luce quello che, per usare un’espressione di Wittgenstein, è il rapporto fra il ‘duro’ e il ‘molle’ nella conoscenza storica, consente di operare il passaggio, nella sfera della comprensione, dal significato degli eventi al loro senso, cogliendo non solo il loro carattere meramente fattuale, ma il contesto in cui si inseriscono e la direzione (o le direzioni) del loro svolgimento, quindi la dialettica del processo storico.

Su questo terreno – di un uso ragionato della cronologia e di un conferimento di senso alle date che definiscono gli eventi storici – risulta proficuo il concetto di ‘annus mirabilis’, che è un anno (si pensi al 1492, al 1776, al 1815, al 1870, al 1914…) caratterizzato dall’addensarsi di una serie di eventi (politici, militari, economici, culturali ecc.) che segnano (se non una rottura) un passaggio epocale. Non meno utile risulta il confronto tra il planisfero di Mercatore e quello di Peters, due modalità di rappresentazione del nostro pianeta che mostrano attraverso il gioco tra le rispettive funzioni e deformazioni, l’uno facendo prevalere, nella rappresentazione dei continenti, un orientamento etnocentrico, l’altro un orientamento egualitaristico, che le forme storiche di rappresentazione dello spazio geografico non sono mai né del tutto scientifiche né del tutto ideologiche.

Nell’insegnamento della storia del Novecento occorre tenere conto del modo in cui il rapporto fra i giovani e il Novecento (ma l’osservazione vale anche per il rapporto fra gli insegnanti e il Novecento) è influenzato da quel fenomeno, legato soprattutto al sistema dei ‘mass media’, che è l’uso pubblico (in chiave politico-ideologica e propagandistica) della storia.16 L’insegnante di storia ha un còmpito ancora più impegnativo e difficile quando deve esporre agli allievi il Novecento, poiché la funzione critica che è chiamato ad assolvere in questo àmbito si misura con i miti creati dai ‘media’ e con la necessità di restituire spessore, senso e prospettiva ad eventi già investiti e codificati dagli stereotipi di massa a pronta presa diffusi da quei giganti della storiografia che sono, nel caso peggiore, i Lerner e i Santoro e, nel caso migliore, i Mieli e gli Augias.

Ma il significato autentico, il valore civile e l’importanza formativa della conoscenza della storia contemporanea emergono con forza esemplare quando si presta attenzione a quel rapporto tra passato, presente e futuro in cui la storia – che non è solo una disciplina, ma è la casa in cui tutte le altre discipline abitano – consiste: quel rapporto che il già citato Delio Cantimori, uno dei maggiori storici italiani del Novecento, ha espresso, con l’acume storico e teoretico che gli derivava da una lunga e operosa consuetudine di studi, ricerche e riflessioni, nei seguenti termini: «Far capire che il passato è stato reale come il presente, e incerto come il futuro».17

 

  1. Il contributo di Samir Amin alla periodizzazione della seconda metà del Novecento

La scomparsa di Samir Amin, economista e sociologo franco-egiziano (1931-2018), sollecita un supplemento d’indagine che valga come omaggio a questo studioso per i contributi scientifici offerti all’analisi marxista e, in particolare, al problema della periodizzazione storica. Prenderò quindi in esame un saggio che getta una viva luce sul periodo preso in considerazione: Il sistema mondiale del secondo Novecento.18

Ordunque, Samir Amin incentra marxisticamente la sua disamina sul sistema capitalistico e inquadra il Novecento in processi temporali di lunga durata, individuando a partire dall’epoca moderna quattro grandi cesure:

-1500 ca.: nascita del capitalismo e concomitante polarizzazione moderna prodotta dalla conquista del pianeta da parte degli europei;

-1800 ca.: fine dell’epoca mercantilista, rivoluzione francese, rivoluzione industriale e strutturazione del modo di produzione capitalistico;

-1880 ca.: trasformazione del capitalismo in capitalismo monopolistico;

-1990 ca.: fine dell’epoca di Potsdam; sconfitta del modello sovietico; nuova tappa della mondializzazione.

Gli intervalli tra le date suindicate dànno origine a precise fasi storico-economiche così definite:

  1. transizione mercantilista: 1500-1800;

  1. capitalismo liberoscambista: 1800-1880;

  1. capitalismo monopolistico: 1880-1990;

  1. mondializzazione dell’economia capitalistica: 1990 – contemporaneità.

Quanto al Novecento, più specificamente, lo studioso riassume in un unico arco cronologico il periodo 1920-1945 caratterizzato dal modello fordista e dall’espansione dirompente del capitalismo-imperialismo, le cui violente contraddizione dànno origine alle due guerre mondiali.

Vi è qui un punto di disaccordo con la periodizzazione proposta, in chiave antistalinista, da Samir Amin, poiché egli sostiene, a mio avviso in modo scorretto e infondato, che la rivoluzione sovietica non avrebbe spezzato l’egemonia del ‘paradigma fordista’, in quanto la spinta progressiva del moto rivoluzionario si sarebbe esaurita, a giudizio di Amin, negli anni Trenta con l’accettazione del modello produttivistico occidentale (sic!) e la rinuncia agli originari progetti di liberazione sociale (sic!). Si tratta chiaramente di una tesi che non viene dimostrata e che, dunque, in questa sede può essere tranquillamente ignorata.

Il secondo Novecento viene articolato più analiticamente:

  1. 1945-1955: fase della costruzione del sistema in ciascuna delle sue tre dimensioni, che Amin individua nell’espansione del Fordismo per quanto riguarda l’Occidente capitalistico, nel Sovietismo per quanto concerne i paesi dell’Est19 e nello Sviluppismo in relazione al Terzo mondo;

  1. 1955-1975: era di Bandung;

  1. 1975-1992: crisi dei tre sistemi e sconfitta del Sovietismo.

Gli assunti impliciti che scandiscono queste periodizzazioni sono, evidentemente, di natura economico-politica o, per rimanere in àmbito marxiano, scaturiscono dalla ‘critica dell’economia-politica’, di cui Amin è stato un valente prosecutore.

Questa periodizzazione, se confrontata con quella di Hobsbawm tendenzialmente centrata sull’Occidente,20 rivela inoltre una prospettiva di analisi non eurocentrica ma ‘planetaria’, internazionale: si pensi solo al risalto dato alla conferenza di Bandung.

Va, poi, riconosciuta, malgrado l’effetto di accecamento determinato dal pregiudizio antistalinista, una visione antisistema, caratterizzata da un vivo ‘pathos’ internazionalista. I criteri di giudizio fatti propri da Amin conducono, d’altra parte, a diagnosi e previsioni di carattere sostanzialmente pessimistico: «Io non vedo come, nelle condizioni acute di conflitto centro/periferie e centri contro centri, si potrebbe immaginare un modo qualunque di regolazione nella vasta scala dei problemi posti. Vedo piuttosto il prossimo futuro nei termini di un caos crescente».21

Sennonché, di fronte alla reticente ipocrisia con cui i volgarizzatori e i propagandisti dell’economia di mercato rimuovono gli strumenti concettuali elaborati da Marx, spicca e conforta la franca risolutezza con cui Amin parla di ‘contraddizioni del capitalismo’. E del sistema capitalistico Amin dà correttamente una definizione in base ai seguenti tratti distintivi: «Il modo di produzione capitalistico è il primo sistema sociale fondato sul valore generalizzato: tutta la produzione sociale come il lavoro e l’accesso alle risorse tendono a diventare merci; per questo motivo il valore non governa solo l’economia del capitalismo, ma tutte le forme della vita sociale che in essa si dispiegano; il dominio del valore libera le leggi economiche dalla precedente dipendenza dalla logica del potere; queste leggi assumono un’autonomia tale da imporsi alla società come leggi di natura; la determinazione della base economica implica un rapporto particolare nell’articolazione di questa istanza con le altre istanze della vita sociale (la politica, l’ideologia ecc.). Essa crea le condizioni della democrazia politica moderna.»22

Rispetto agli squilibri innescati da tali leggi Amin elabora, per definire le risposte di volta in volta date dai governi degli Stati occidentali, la nozione di “meccanismi/sistemi di regolazione”. La nozione di contraddizione è, come noto, di origine hegelo-marxiana, e viene qui criticamente utilizzata come indicatrice di polarità irrisolte. Come per Marx, la contraddizione fondamentale del capitalismo (non la sola!) rimane quella tra capitale e lavoro, donde deriva la correlata costante tendenza alla sovrapproduzione. Quindi, Amin mette in gioco una serie di nozioni economiche elaborate da Marx: modello di riproduzione allargata, realizzazione del plusvalore, produttività del lavoro (tutti sanno che la ‘sovrapproduzione’ nasce dalla «inadeguatezza del salario alle esigenze della realizzazione del prodotto sociale in espansione»).23

La nozione di “onde lunghe di Kondrat’ev”24 è ricondotta, in sintonia con le tesi di Baran e Sweezy, alla realizzazione delle maggiori innovazioni tecnologiche e delle iniziative politico-militari tese all’allargamento dei mercati: prima rivoluzione industriale, ferrovia, chimica, elettricità, ricostruzione e guerra fredda, costruzione di mezzi di distruzione di massa, informatica-automazione, riconquista dell’Est europeo.

In questa prospettiva il Welfare State si configura come una modalità concreta di realizzazione di un “sistema di regolazione”. Infatti, rileva Amin, nel periodo che va più o meno dal 1920 al 1970 la nuova organizzazione della produzione e del lavoro, il paradigma fordista e taylorista , portò a quel compromesso tra capitale e lavoro che, nel mondo occidentale, pur con variazioni specifiche legate alle peculiarità nazionali, è durato per tutto il periodo indicato. Il contenuto fondamentale di questo compromesso politico-economico si basava su una connessione tra la progressione dei salari reali e la produttività; lo Stato offriva il quadro per estendere a livello nazionale le scelte negoziate tra le industrie più potenti e i sindacati più rappresentativi. Ora, il ‘compromesso fordista’ entra in crisi nel corso degli anni Settanta e, a giudizio di Amin, non ha alcun futuro.

Amin ne spiega le ragioni in questi termini. Riconosce, innanzitutto, la parziale validità della tesi addotta dalla maggior parte degli economisti, secondo la quale le capacità organizzative dell’operaio-massa limitano gli sforzi organizzativi per aumentare la produttività del lavoro. Tuttavia, la sua proposta esplicativa si incentra su tre ordini di ragioni: a) quelle connesse a dinamiche economico-sociali e tecnologiche interne all’Occidente industrializzato; b) quelle correlate ai processi di interpenetrazione tra i sistemi produttivi; c) infine quelle riconducibili ai rapporti centro-periferie: non solo Ovest-Sud, ma anche Ovest-Est.

Quanto alla prima serie di fattori che innescano l’attuale crisi, Amin rileva come i processi di informatizzazione e di automazione della produzione riducano drasticamente il ruolo e la forza contrattuale della classe operaia fordista in termini sia assoluti che relativi. D’altra parte, la riqualificazione professionale richiesta dall’innovazione tecnologica frantuma l’unità della classe operaia in una miriade di figure professionali tra loro irrelate e rafforza in termini qualitativi e quantitativi le classi medie. Questo spiegherebbe l’ ‘irrazionale’ spostamento a destra di molti voti popolari. Inoltre, i limiti interni del sistema capitalistico si riscontrano nelle stesse nuove tecnologie basate più sul risparmio di capitale che sul suo investimento, come invece era avvenuto nelle grandi rivoluzioni precedenti: ferrovia, urbanizzazione, elettrificazione, automobile. La tendenza alla sovrapproduzione, che Amin considera un carattere costante del capitalismo, viene in tal modo rafforzata.

La seconda serie di cause che, a giudizio di Amin, mettono definitivamente in crisi il paradigma fordista deriva dall’interpenetrazione crescente dei sistemi produttivi al centro del sistema e dal passaggio a un’economia definitivamente mondiale. Questa interpenetrazione azzera le politiche economiche nazionali, consegnando il sistema nel suo insieme alle leggi del mercato mondiale, che non può essere ‘regolato’, a causa dell’assenza di istituzioni politiche autenticamente sovrannazionali. Questo non conduce tuttavia l’economista a negare il ruolo attivo degli Stati nazionali, le cui scelte economiche basate su un miope interesse immediato acuirebbero la violenza delle contraddizioni. Si può affermare che l’efficacia del modello di spiegazione elaborato da Amin sia riconducibile all’assunzione di una prospettiva internazionale, che gli fa rivolgere l’attenzione al rapporto centri-periferie e alle implicazioni reciproche che li connettono sul piano economico-sociale: è la terza serie di fattori che stanno alla base dell’attuale crisi.

Se alcuni paesi delle periferie (le cosiddette tigri asiatiche) sono infatti riusciti a competere con i paesi dell’Occidente industrializzato, basandosi su un capitalismo selvaggio, questo fenomeno non ha affatto arginato il processo di polarizzazione tra centri e periferie. D’altra parte, l’ascesa di forme di industrializzazione nuove nella periferie del sistema-mondo riduce i margini di potere e di profitto delle potenze di media grandezza, tra le quali l’Unione Europea, a favore degli USA. A questo si aggiunge la mondializzazione finanziaria che comporta un trasferimento massiccio di capitali dalle periferie ai centri, connesso ad una crescita massiccia della speculazione.

Amin conclude la sua disamina con una diagnosi decisamente severa e con alcuni interrogativi aperti. L’impossibilità di regolare le contraddizioni della fase del capitalismo che stiamo attraversando non può non generare, nel quadro del logoramento degli Stati nazionali e dei sistemi democratici che li caratterizzano, un caos pericoloso. Infine, Amin dubita che la mondializzazione possa ristabilire la comunicazione tra gli “eserciti del proletariato”, offrendo la possibilità, secondo il classico modello marxiano, dell’unità del proletariato mondiale. In effetti, questa interpretazione ‘classica’ ignora o sottovaluta gli effetti della polarizzazione e della dislocazione geopolitico-culturale tra la classe operaia dei centri e il proletariato delle periferie; divaricazione polarizzante che rende ardua la comunicazione reciproca tra gli “eserciti” e impedisce un’efficace azione globale.25


Note
1 La lettera è stata pubblicata sulla rivista «L’Indice dei libri del mese», anno XVIII, n. 1, gennaio 2001, p. 14.
2 M. Bloch, Apologia della storia, Einaudi, Torino 1975 (quinta edizione), p. 41.
3 E. Carr, Sei lezioni sulla storia, Einaudi, Torino 1966, pp. 94-116 (ma, riguardo alla connessione tra fatti, sintassi, ipotesi di ricerca e contesto, si vedano anche i capp. I e III).
4 Cfr. P. Sweezy, Il presente come storia. Saggi sul capitalismo e il socialismo, Einaudi, Torino 1970.
5 Nella stesura di questo paragrafo ho tenuto presenti le indicazioni fornite da M. Pinotti, Per un curricolo verticale di storia, in «Dossier degli Annali della Pubblica Istruzione - Verso i nuovi curricoli», n. 2, maggio-agosto 2000, pp. 74-83.
6 B. Croce, Teoria e storia della storiografia, Adelphi, Milano 1985, p. 123 (ed. or. Teoria cit., Laterza, Bari 1917, cap. VII, 1ª parte).
7 F. Bacone, Novum organum, Laterza, Roma-Bari 1992, p. 132.
8 D. Cantimori, Studi di storia, Einaudi, Torino 1976, vol. 2°, pp. 340-365.
9 Cfr. D. Milo, Trahir le temps, Les Belles Lettres, Paris 1991.
10 K. Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino 1989.
11 E. J. Hobsbawm, Il secolo breve. 1914-1991: l’era dei grandi cataclismi, Rizzoli, Milano 1995 (ed. or. Age of Extremes - The Short Twentieth Century 1914-1991, 1994).
12 Charles S. Maier, Secolo corto o epoca lunga?, relazione tenuta al convegno Il secolo ambiguo. Le periodizzazioni del secolo XX: continuità e mutamenti (Pisa, 17-18 maggio 1996) organizzato dalla Società italiana per lo studio della storia contemporanea (Sissco); le relazioni di Maier e di Paggi, cui si fa riferimento nel testo, sono state riprodotte nel volume Novecento - I tempi della storia, a cura di C. Pavone, Donzelli, Roma 1997, rispettivamente alle pp. 29-56 e 79-113.
13 L. Paggi, Un secolo spezzato. La politica e le guerre, in Novecento cit.
14 V. Castronovo, L’eredità del Novecento - Che cosa ci attende in un mondo che cambia, Einaudi, Torino 2000.
15 M. Revelli, Oltre il Novecento - La politica, le ideologie e le insidie del lavoro, Einaudi, Torino 2001.
16 A questo proposito, si veda l’utile volume La didattica della storia contemporanea, a cura di A. Gallia e S. Restelli, IRRSAE Lombardia, Milano 1994.
17 D. Cantimori, Conversando di storia, Laterza, Bari 1967, p. 74., ove si precisa che la definizione è tratta da uno dei saggi del grande studioso inglese G. M. Trevelyan.
18 S. Amin, Il sistema mondiale del secondo Novecento. Un itinerario intellettuale, Punto Rosso, Varese 1997.
19 È palese la contraddizione fra questa sottoperiodizzazione e la periodizzazioine dianzi richiamata.
20 Il riferimento è ovviamente al fondamentale saggio di E. J. Hobsbawm, Il secolo breve, 1914-1991: l’era dei grandi cataclismi, Rizzoli, Milano 1995.
21 S. Amin, Op. cit., p. 231.
22 S. Amin, Op.cit., pp.233-234.
23 Ibidem, p.213.
24 N. D. Kondrat’ev, ecomista sovietico, all’inizio degli anni Venti elaborò un modello di sviluppo economico valido a partire dalla fine del Settecento e caratterizzato da una serie di “onde lunghe” della durata di circa 50/60 anni.
25 Nella stesura di questo quarto paragrafo mi sono avvalso, modificandolo in alcuni punti, di un paragrafo del saggio di Gianfranco Gavianu, La lettura del Novecento (pp. 185-201), pubblicato nella silloge Ripensare la forma-scuola, a cura di Eros Barone, FrancoAngeli, Milano 2006.

Comments

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Federico
Tuesday, 23 July 2019 22:14
Riguardo all’ultimo punto, cioè sugli effetti polarizzanti della mondializzazione e sulla frammentazione della classe lavoratrice: come contrastarla senza cadere nel volontarismo e nel soggettivismo ?
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