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Riletture, la crisi politica: Crouch, Rosanvallon, Urbinati
di Alessandro Visalli
Riprendere in mano qualche vecchio testo può essere utile, a questo fine rileggeremo alcuni libri usciti tra il 2000 ed il 2014 sulla crisi politica che le democrazie occidentali stanno affrontando sotto la spinta di fattori economici, sociali e tecnologici. Sono coinvolti in questa crisi tutti i fattori di stabilità politica che faticosamente erano stati costruiti nel corso dei due secoli che seguono alla fine dell’ancien régime: le relazioni sociali, il discorso pubblico, i valori centrali, i partiti, le forme della politica, le forme dell’azione pubblica, le istituzioni.
Probabilmente alla radice di questa trasformazione non è solo l’economia, con la prevalenza del sogno neoliberale (incubo per la maggioranza delle persone non dotate di robuste dotazioni di capitali), ma anche una profonda disintermediazione nella stessa costruzione del discorso, pubblico e privato, e quindi della capacità e possibilità di accesso alla formazione della verità.
Si tratta di un tema difficile e cruciale, sul quale bisognerà ritornare.
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Xi Jinping e l'ochetta Martina
di Pierluigi Fagan
La Belt and Road Initiative – BRI (che, come acronimo, prende il posto del precedente One Belt One Road – OBOR, detta anche “Vie della Seta”) ha avuto il suo primo summit fondativo. Si tratta di un progetto infrastrutturale (strade, porti, stazioni, ferrovie, reti elettriche – tlc, gasdotti etc.) che vorrebbe innervare l’eurasia, coinvolgendo Medio Oriente ed Africa, per cui sarebbe più giusto dire “afro-eurasia”. Il capofila è la Cina che traina l’economia asiatica (presa senza India e Giappone) che pesa un 21% dell’economia mondo. Assieme all’area russo-centro asiatica, arrivano al 23%. Coinvolgendo Pakistan, Iran e Turchia, si supera il 25%, un quarto dell’economia mondo. Questa rete potenziale di stati-economie ha dalla sua tre carte importanti: 1) la continuità geografica di aree differenti sia in longitudine, che in latitudine; 2) ricca dotazione di energia (Russia, repubbliche centro-asiatiche, Iran); ma soprattutto 3) ampi margini di sviluppo potenziale. Quest’ultimo punto dice che se oggi questa parte di mondo pesa un 25%, fra dieci anni (o forse prima) potrebbe crescere al 30%, è cioè all’inizio o poco dopo l’inizio, di un ciclo di sviluppo potenzialmente lungo.
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Hegel: lo Stato perfetto (e la spina di Marx)
di Fulvio Papi
Cerchiamo di mettere in luce, riassumendoli, alcuni temi centrali della “Filosofia del diritto” di Hegel scritta nel 1820 quando aveva la cattedra di filosofia all’Università di Berlino. Gli studiosi di Hegel hanno spesso considerato i famosi scritti jenensi di Hegel dal 1801 al 1806 come precedenti importanti della “Fenomenologia dello Spirito” del 1808 come della “Filosofia del diritto”, anzi questi scritti giovanili mostrano spesso una ricchezza tematica più ampia delle successive opere a stampa. Inoltrarci in questa ricchissima selva filosofica vorrebbe dire perdere di vista la strada teorica che Hegel ha poi codificato come sua filosofia resa pubblica. Tuttavia su un tema molto generale si può trovare una linea di continuità.
Molti anni fa, siamo agli inizi degli anni Cinquanta, Mario Rossi (un amico di grande valore perduto immaturamente), studiando proprio gli scritti jenensi notava che “la preminenza assoluta di valore della determinazione politica serve a comprendere e a risolvere in sé le determinazioni sociali”. Vale a dire che ogni figura sociale, l’agricoltore, l’artigiano, il medico, il professore vanno compresi nel significato spirituale che essi hanno nella struttura ideale, unitaria e organica dello stato.
Hegel, all’inizio dell’Ottocento, conosceva le opere di Ferguson, sociologo e storico, Say, Smith, Ricardo, e classici della economia politica.
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I miti dell’economia neoliberale
C. J. Polychroniou intervista Ha-Joon Chang
In questa lunga intervista al celebre economista sudcoreano Ha-Joon Chang, professore alla Cambridge University, sono affrontati i miti e le bugie dell’economia neoliberale, un sistema che Chang, citando Gore Vidal, definisce “libera impresa per i poveri e socialismo per i ricchi”. Il neoliberalismo ha diffuso la convinzione che ci sia un campo “oggettivo” dell’economia, nel quale la logica della politica non deve intromettersi, e così facendo ha sottratto le politiche economiche alla dinamica democratica, permettendo alle élite di fare ritirare il perimetro dello Stato e reindirizzarne le scelte a loro favore.
Per gli ultimi 40 anni circa, il neoliberalismo (scegliamo volutamente questo termine al posto del più usato “neoliberismo” NdVdE) ha regnato incontrastato su gran parte del mondo capitalista occidentale, producendo livelli di accumulazione di ricchezza senza precedenti per una manciata di individui e di multinazionali, mentre al resto della società si è chiesto di ingoiare austerità, stagnazione dei redditi e la continua riduzione dello stato sociale. Ma proprio quando tutti pensavamo che le contraddizioni del capitalismo neoliberale avessero raggiunto il loro penultimo stadio, culminando nel malcontento di massa e nell’opposizione al neoliberalismo globale, l’esito delle elezioni presidenziali 2016 negli Stati Uniti ha portato al potere un megalomane che aderisce all’economia capitalista neoliberale, pur opponendosi a grande parte della sua dimensione globale.
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Difesa del territorio, difesa della democrazia
di Paolo Ortelli
- Antonio Cederna, I vandali in casa, a cura di Francesco Erbani, Laterza, Roma-Bari 2006 (ed. or. 1956)
- Piero Bevilacqua, Il grande saccheggio. L’età del capitalismo distruttivo, Laterza, Roma-Bari 2010
Le parole dell’iniquo che è forte, penetrano e sfuggono. Può adirarsi che tu mostri sospetto di lui, e, nello stesso tempo, farti sentire che quello che tu sospetti è certo: può insultare e chiamarsi offeso, schernire e chieder ragione, atterrire e lagnarsi, essere sfacciato e irreprensibile.
Alessandro Manzoni, I promessi sposi[1]
La forma di una città cambia più in fretta – ahimè – del cuore degli uomini.
Charles Baudelaire
“I vandali in casa” di Antonio Cederna e “Il grande saccheggio” di Piero Bevilaqua: due testi fondamentali per riscoprire l’attualità del pensiero di Cederna – padre nobile delle moderne leggi di tutela delle bellezze artistiche e paesaggistiche italiane – e comprendere la centralità del territorio come ambito in cui ricreare spazi pubblici sottratti alla distruttività del capitale.A commento del successo internazionale della Grande bellezza, Raffaella Silipo scriveva sulla Stampa: «Gli americani si immaginano l’Italia esattamente così: splendide pietre e abitanti inconcludenti».[2]
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Attacchi informatici e guerra planetaria
di Francesco Galofaro*
Sembra la trama di un film di fantascienza: il 12 marzo il mondo intero, al risveglio, scopre di essere sotto attacco di un virus. I danni sono incalcolabili: fabbriche bloccate, università ferme, i centralini del pronto soccorso non sono più in grado di inviare un'ambulanza. A partire dall'Inghilterra e nel giro di poche ore, seguendo la rotazione terrestre, il virus si diffonde a oriente: duemila sistemi informatici si fermano in Iran, trentamila in Cina. In Italia si teme l'effetto-lunedì, il giorno in cui gli impiegati tornano al lavoro dopo il fine settimana.
“Voglio piangere” (wannacry), è un ransomware: un sistema escogitato per chiedere un riscatto. Entra nel tuo computer attraverso un “buco” delle vecchie versioni del sistema operativo Windows, cripta i dati del tuo disco e non li decodifica finché non paghi una somma in bitcoin, la moneta privata virtuale internazionale più amata dalle organizzazioni criminali.
Fin dal primo giorno il New York Times punta il dito contro la NSA, la National Security Agency statunitense: si sarebbero lasciati rubare Eternal blue, uno degli svariati sistemi che impiegano per infiltrarsi nelle reti dei PC [1].
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Il "piano" di Macron? E' il piano funk, l'unico €uro-futuro praticabile
di Quarantotto
1. Noi abbiamo già visto in vari post, nel corso di questi anni, come Martin Wolf, nell'ambito degli economisti-commentatori dell'establishment, (oscillante nel tempo tra posizioni hayekiane, quando, non a caso, era forte l'influenza del "68"...e neo-keynesiane, all'indomani della crisi del 2008), sia fondamentalmente un fautore della "classe media", come fosse una sorta di specie protetta alla quale, agli occhi dell'establishment, spetta quella funzione di stabilizzatore della conflittualità sociale evidenziata da Basso, con esito inevitabilmente favorevole al dominio delle elites.
La tattica più efficace di conservazione dell'assetto capitalistico neo-liberista, è appunto quella di trovare in ogni maniera una (almeno) formale differenziabilità di interessi socio-economici, pur in concomitanza della scomparsa dei partiti di massa (e quindi della democrazia sostanziale), da tradurre in una facciata di pluralismo politico.
Anzitutto, ai suoi occhi, occorre conservare ad oltranza una parvenza di dialettica destra-sinistra, tutta svolta sul piano ideologico-cosmetico, proprio perché meglio capace di dissimulare l'esistenza del conflitto scatenato dal capitalismo per poterlo portare a compimento in modo più discreto ed efficiente.
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Contro il liberoscambismo
Marco Veronese Passarella*
1. Introduzione
Il quesito sollevato dal titolo del seminario, Welfare o barbarie, evoca la drammatica alternativa posta da Rosa Luxemburg, sulla scorta di Friedrich Engels, esattamente un secolo fa: «la società Borghese si trova di fronte ad un dilemma, o transizione al socialismo o regressione nella barbarie» (Luxemburg 1915). Si noti che quell’«o» assumeva, per Luxemburg, un valore di disgiunzione esclusiva. Esprimeva, cioè, un’opposizione netta: socialismo oppure barbarie. Come è noto, di lì a poco una parte del mondo scelse il primo, con «l’assalto al cielo» delle classi lavoratrici russe – e sia pure tra le mille contraddizioni denunciate proprio da Luxemburg nel suo intenso scambio epistolare con Lenin e gli altri dirigenti socialisti dell’epoca. L’altra parte del mondo «civilizzato» piombò, invece, nella barbarie dei conflitti coloniali e dei campi di concentramento, delle deportazioni di massa e, infine, dello sterminio nucleare. Una barbarie che – troppo spesso viene dimenticato – fu preceduta da un periodo di straordinaria apertura dei mercati, ossia di intensificazione negli scambi di merci e nei flussi di capitale transnazionali. Il che stride con la tesi liberal-positivista allora in gran voga, e tuttora dominante, dei commerci quale veicolo di pace internazionale e di prosperità economica1.
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Debolezze e potenzialità negli argomenti anti-hegeliani del giovane Marx
di Carlo Scognamiglio
1. La Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico di Karl Marx (scritta tra il 1842 e il 1843, ma pubblicata postuma nel 1927) si sviluppa intorno a un’argomentazione dominante, mutuata da Ludwig Feuerbach, il quale nel 1839, in uno scritto intitolato Per la critica della filosofia hegeliana, aveva insistito sul difetto della dialettica di Hegel, consistente nel ribaltamento dei rapporti tra soggetto e predicato. In altri termini, secondo Feuerbach, Hegel spiegherebbe l’esistente, cioè la vita concreta degli uomini, attraverso categorie astratte e universali, attribuendo a queste ultime la dimensione della soggettività, e considerando le circostanze materiali come predicati, per giunta accidentali. Tale rapporto, secondo Feuerbach, dev’essere ribaltato, per indicare nell’essere vivente concreto la vera soggettività, della quale è possibile predicare la capacità di pensiero e l’universale qualità astratta.
Marx non recepisce meccanicamente l’intuizione feuerbachiana, ma la assimila in modo critico e articolato. Il libro su Hegel è sostanzialmente frutto di quest’opera di appropriazione concettuale.
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Il negativo in questione. Una lettura di Adorno
di Angelo Cicatello*
1. Logica della disgregazione
Cosa significa ‘dialettica negativa’? Cosa dice di più e di diverso dalla parola ‘dialettica’ un aggettivo che ne specifica la fisionomia negativa?
Non è un segreto che il progetto di una dialettica negativa abbia come sfondo il confronto costante con quelli che Adorno, a torto o a ragione, denuncia polemicamente come gli esiti concilianti della dialettica hegeliana[1]. Il che però, nella prospettiva adorniana, non si riduce al confronto con le tesi specifiche di un autore. Hegel figura, piuttosto, come il momento culminante di una tradizione dal cui peso la dialettica dovrebbe essere liberata. Ed esattamente a questa impresa di liberazione Adorno consegna, già dal titolo, il suo lavoro teoretico più maturo:
L’espressione dialettica negativa viola la tradizione. Già in Platone la dialettica esige che attraverso lo strumento di pensiero della negazione si produca un positivo; più tardi la figura di una negazione della negazione lo ha nominato in modo pregnante. Questo libro vorrebbe liberare la dialettica da una siffatta essenza affermativa, senza perdere neanche un po’ di determinatezza (ohne an Bestimmtheit etwas nachzulassen). (Adorno 1966, 3).
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A/traverso (a suo modo) una pratica dell’obiettivo
di Gioacchino Toni
Luca Chiurchiù, La rivoluzione è finita abbiamo vinto. Storia della rivista “A/traverso”, Derive Approdi, Roma, 2017, pp. 208, € 18,00
«Le categorie vecchio-socialiste dei gruppi, come le categorie democratico-partecipative del revisionismo e della borghesia, cercano di dare un volto a questo soggetto indefinibile: i giovani, gli operai, gli studenti, le donne, soggetto di trasformazione, inafferrabile ieri per la sua ostilità e lotta aperta, oggi per il suo stare altrove, per l’estraneità, debbono essere catalogati, debbono avere un nome, stare dentro qualche ordine.
Ordine. Perché solo nell’ordine si può costringere la gente a lavorare» (“Piccolo gruppo in moltiplicazione”, “A/traverso”, maggio 1975)
La rivista nacque nel 1975, dall’eredità della controcultura e dell’operaismo degli anni Sessanta, ma al contempo si presentò come il simbolo di uno scarto nel mondo antagonista della sinistra extraparlamentare di allora. Una frattura sghemba, obliqua e anche ambigua, proprio come quella della barra che spaccava il titolo a metà e che si insinuava nel mezzo delle cose. La proposta era quella di mettere in moto la rivoluzione dal linguaggio, di rideterminare l’ordine del reale utilizzando la scrittura […]
“A/traverso” è un oggetto alieno, oltre che per le sue fattezze anticipatrici delle fanzine punk, anche e soprattutto per il modo in cui, nelle sue pagine forma e contenuti si influenzano a vicenda, andando a costituire un messaggio che riesce sempre a travalicare la semplice trasmissione dell’informazione.
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Estremismo di centro e lotte sociali in Francia
Dalla Loi Travail alle elezioni presidenziali
di Davide Gallo Lassere
Contro la Loi Travail e il suo mondo
Per render conto della primavera francese del 2016, si può trarre ispirazione dallo slogan che ha caratterizzato la mobilitazione: “Contre la Loi travail et son monde”[1]. Le lotte francesi del 2016 sono infatti iniziate con la contestazione della Loi Travail per assumere immediatamente una portata e una radicalità molto più ampie e generali, che sono sembrate andare ben aldilà della Loi Travail: la Loi Travail e il suo mondo, giustamente. E ciò non tanto perché la Loi Travail, in fin dei conti, sia una riforma trascurabile o perché la contestazione di questa legge sia rimasta marginale nel movimento, bensì per due altre ragioni.
Innanzitutto, perché questa legge si salda perfettamente con l’insieme dei rapporti sociali esistenti; perché fa sistema con il quadro normativo e istituzionale del presente francese e, più estesamente, del presente europeo (si può sostenere che, un anno fa soltanto, questa legge potesse essere considerata come l’anello mancante dell’attuale “regime europeo del salariato”).
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Giorgio Agamben - “Che cos’è la filosofia?”*
di Enrico Cerasi
Giorgio Agamben, Che cos’è la filosofia?, Quodlibet, Macerata, 2016
Non so se nelle domande che si pone sia possibile scorgere il profilo di un’epoca. Eppure saltano agli occhi alcune insistenze, alcune fissazioni - dal περί Φύσεως che assillava i primi sapienti greci alle indagini concerning human understanding dei filosofi del Seicento. Comunque sia, l’epoca attuale sembra porsi con una certa frequenza la domanda intorno all’essenza, o quanto meno al compito della filosofia. Penso naturalmente a Martin Heidegger, e al suo Was ist das – die Philosophie? del 1956 (preceduto da Was ist Metaphysik? del ’29); a Deleuze e Guattari, che nel 1991 conclusero il loro sodalizio filosofico rispondendo alla domanda: Qu’est-ce que la philosophie?, o a Pierre Hadot che nel 1995 diede alle stampe il suo libro forse più noto: Qu’est-ce que la philosophie antique? (che per lo storico francese equivaleva a chiedersi che cosa sia la filosofia tout-court). Non è l’ultimo dei meriti di Giorgio Agamben, quasi a voler suturare questo secolo col precedente, l’aver riproposto la domanda, alla quale – come del resto gli altri autori citati – ha dato la sua risposta, che ben s’inquadra nel contesto di una produzione filosofica ormai imponente e articolata. Ripercorrerne i tratti essenziali sarebbe impresa poco adatta a una recensione. Basti ricordare che quest’ultimo libro si pone al termine della notevolissima ricerca intorno alla figura dell’Homo sacer, ovvero del rapporto tra potere sovrano e nuda vita, come s’è andato definendo nel corso della storia occidentale.
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“La schiavitù del capitale” di Luciano Canfora
di Cosimo Francesco Fiori
Recensione a: Luciano Canfora, La schiavitù del capitale, il Mulino, Bologna 2017, pp. 112, 12 euro (scheda libro).
L’esito del Novecento appare come il trionfo finale del capitalismo su ogni esperimento rivoluzionario che abbia provato a modificare il corso della storia. L’impressione di «fine della storia» susseguente alla caduta dell’Unione sovietica è stata esplicitata da Fukuyama fin dal titolo della sua opera più famosa. Al di là del suo impianto filosofico, ampiamente criticato, significativo è il valore ideologico-polemico di un simile concetto. Che dire, inoltre, del processo di apparente assorbimento delle alternative nell’uguale che si ripete, come nel caso delle sinistre che hanno adottato scelte politiche liberiste, quasi fosse impossibile fare altrimenti? Il capitalismo ha trionfato, e siamo in un presente senza storia?
A questa prospettiva si oppone Canfora: La schiavitù del capitale è una riflessione critica, sia pure in un’agile veste editoriale, sull’idea della definitività di tale vittoria. Che il capitalismo abbia vinto la guerra del Novecento è evidente; ma ciò ha potuto farlo modificando se stesso e i suoi avversari, e in definitiva tutto il contesto globale, aprendo la via a nuovi scenari e nuove lotte, ancorché oggi difficilmente delineabili.
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Humboldt: natura, giustizia e libertà
di Telmo Pievani
La biografia del viaggiatore scienziato Alexander von Humboldt svela un personaggio molto influente nell’Ottocento ma poi totalmente dimenticato, dalla vita avventurosa e piena di incontri sorprendenti. Mise insieme Goethe e Simón Bolívar, illuminismo e romanticismo, ambientalismo e anticolonialismo. Darwin lo lesse con ammirazione per tutta la vita, prendendolo a modello
Da una parte, un giovanotto prussiano che preferiva stare nella Parigi di Napoleone piuttosto che nella provinciale e austera Berlino, che di prussiano aveva solo l’educazione rigorosa e il reddito di famiglia, già famoso in tutta Europa per il suo avventuroso viaggio di quattro anni in Sudamerica, tra fiumi, cataratte, foreste pluviali e vulcani. Nel cuore, le idee del 1789. A suo modo figlio della rivoluzione francese, Alexander von Humboldt dopo aver ammirato la scenografia sublime della natura voleva adesso “godersi lo spettacolo di un popolo libero”.
Dall’altra, il terzo presidente degli Stati Uniti d’America, un uomo di 61 anni, vedovo da venti, dimesso e rustico nei modi e nel vestiario, che aveva scritto la Dichiarazione di Indipendenza nel 1776 ed era circondato ora da sette nipotini nella sua tenuta di Monticello in Virginia. Thomas Jefferson aveva molto in comune con Humboldt: la capacità di fare sempre tre cose contemporaneamente, le poche ore bastanti di sonno, un’ansia irrequieta di conoscenza, la smania di misurare tutto, l’amore per la botanica, per il giardinaggio e per le scienze naturali.
L’economia commerciale statunitense girava forte, il Presidente aveva appena comprato dalla Francia la Louisiana e ambiva a espandersi verso occidente, in quel selvaggio west che avrebbe voluto trasformare in una terra di piccole fattorie autosufficienti a gestione familiare.
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Innovazione tecnologica vs progresso sociale
Il dilemma dell’Egemonia digitale nella ricerca di Renato Curcio
di Eros Barone
Dopo L’impero virtuale, pubblicato nel 2015, l’Egemonia digitale a cura di Renato Curcio (Sensibili alle foglie, Roma 2016) è il secondo elemento di un dittico saggistico attraverso il quale l’autore ha descritto ed analizzato le trasformazioni che le TIC (tecnologie dell’informazione e della comunicazione) hanno prodotto all’interno della società e, segnatamente, nel mondo del lavoro. Va subito osservato che il pregio della ricognizione condotta da Curcio non consiste soltanto nel quadro teorico del ‘capitalismo digitale’, che essa contribuisce a delineare, ma anche e soprattutto nell’inchiesta, che sostanzia tale quadro, sulle esperienze vissute dai lavoratori che hanno partecipato agli incontri di ricerca/azione organizzati intorno al tema cruciale che è al centro dell’indagine: l’uso capitalistico delle tecnologie informatiche in funzione dell’egemonia. Ed è, per l’appunto, quest’ultima categoria, di chiara derivazione gramsciana, che permette all’autore di elaborare un modello analitico di quell’intreccio fra dominio e subordinazione che fa della Rete «l’espressione estrema dell’espansione capitalistica, la più pervasiva»1 , laddove l’obiettivo strategico, quindi politico-culturale, cui tende l’egemonia digitale messa in opera dalle classi dirigenti capitalistiche attraverso la Rete e le altre tecnologie che le fanno corona è giustamente individuato nella “colonizzazione dell’immaginario”.
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Globalisti contro sovranisti
Un conflitto tutto interno alle classi dominanti
Paolo di Lella intervista Stefano G. Azzarà
Ancora sul fenomeno cosiddetto "populista". Dopo le interviste, pubblicate sui numeri di dicembre e gennaio, a Fulvio Scaglione, Carlo Formenti, Marcello Foa e Giulietto Chiesa, questo mese, in esclusiva per i nostri lettori, affrontiamo lo stesso tema con Stefano Azzarà, docente di Filosofia moderna presso l’Università di Urbino e autore del volume "Democrazia cercasi"
Visto che lei è un marxista, inizierei dalla critica. Uno dei paradigmi interpretativi che si sta affermando nettamente, non solo tra i rappresentanti dell'establishment (lo ha dichiarato qualche settimana fa in un'intervista sul Corriere della Sera, il direttore del Wall Street Journal, Gerard Baker) ma anche tra molti compagni, riguardo alla reazione che sta montando in occidente contro chi ha governato la globalizzazione negli ultimi 20 anni, è quello secondo cui lo scontro fondamentale non è più fra destra e sinistra ma tra populisti e globalisti. Ecco, rispetto a questo, qual è la sua analisi?
Ritengo profondamente sbagliata, per non dire foriera di grandi pericoli, questa impostazione, che appare nuova ma che in realtà si è presentata più volte sulla scena politica e culturale non solo nel XX ma già nel XIX secolo. La vera differenza rispetto al passato è semmai che mentre prima queste tesi erano smentite nella pratica, oltre che nella teoria, oggi l'impotenza pressoché totale acquisita dalla sinistra lascia un campo totalmente aperto alle destre per un'operazione egemonica in grande stile. Un’operazione che sta già cambiando il modo di pensare delle generazioni più giovani e ha aperto una breccia anche a sinistra.
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Il nulla e la nascita filosofica dell’Europa
Franca D’Agostini*
Introduzione
Quel che segue è il testo, rivisto e in parte integrato, di una conferenza tenuta a Santander, presso l’Universidad de Cantabria, a un convegno sul tema ‘La filosofìa medieval: exposiciòn de las grandes sìntesis medievales. Entre lo razonable y lo credible’ (3-8 ottobre 2011). Una versione un po’ diversa (senza riferimento all’Europa) è stata pubblicata in «Divus Thomas», con il titolo Il nulla e altri esistenti impensabili: una rilettura del De nihilo et tenebris.
Ciò che in queste pagine è interamente nuovo, rispetto a entrambi i testi, è la breve riflessione finale sulle attuali difficoltà politiche dell’UE (§ 4), lette nella prospettiva dell’insegnamento che possiamo trarre dallo sguardo sugli albori della filosofia in Europa. L’esplorazione dei rapporti tra filosofia e Unione Europea è un tema ricorrente di molti interventi europeisti (anche anteriori alla costituzione stessa dell’Unione). Ma è interessante notare che oggi la percezione di questa connessione diventa sempre più evidente, anche per osservatori che non sono filosofi, dunque non hanno ottiche preordinate in una simile direzione.
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La logica securitaria
di Renato Caputo
Le origini storiche, economiche e filosofiche della logica securitaria, ormai imperante anche nel nostro paese
Marx ed Engels sin dalla Sacra famiglia, la prima opera scritta a quattro mani, mettono in evidenza come il fondamento nascosto delle dichiarazioni dei diritti umani, grande portato della Rivoluzione francese, sia proprio la sicurezza, intesa essenzialmente come sicurezza nel libero godimento della proprietà privata. Quindi la triade che domina questo manifesto della borghesia – al culmine della sua fase rivoluzionaria – non è, come solitamente si sente ripetere: libertà, eguaglianza e fraternità, ma, piuttosto: libertà, proprietà ed eguaglianza. Dove la proprietà è il termine medio che illumina gli altri due, facendo sì che la libertà sia intesa come libero usufrutto della propria proprietà al fine di ampliarla, di modo che a essere effettivamente liberi sono solo i proprietari, mentre agli altri non resta altro che la libertà di far sfruttare dai primi l’unica merce di cui sono ancora in possesso, ovvero la forza lavoro. Tanto che la stessa eguaglianza è funzionale essenzialmente a tale libera compra-vendita della forza lavoro, al fine di sfruttarne il valore d’uso per produrre quel plusvalore – rispetto al valore di scambio della forza-lavoro corrisposto al salariato – da cui deriva il profitto dell’imprenditore, vero scopo finale dell’intero processo produttivo nella società capitalistica.
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La battaglia di Caracas: il potere popolare e la guerra non convenzionale
di Militant
Da qualche mese l’esercito degli Stati Uniti sta preparando un’inedita esercitazione militare in Brasile, con il pieno appoggio del presidente Michel Temer, subentrato a Dilma Rousseff dopo un golpe istituzionale lo scorso agosto. Con il significativo slogan di “America Unida”, il prossimo novembre le forze armate statunitensi mostreranno i muscoli, e coordineranno unità speciali dell’esercito peruviano e colombiano in territorio brasiliano. L’esercitazione si svolgerà nella città di Tabatinga, non lontano dal confine con la Bolivia (dove lo scorso 17 agosto Evo Morales ha inaugurato la prima scuola militare antimperialista latinoamericana) e a poca distanza dal Venezuela[1]. Dopo la smilitarizzazione delle Farc-Ep in Colombia (la più grande organizzazione guerrigliera nel paese e un possibile alleato della resistenza popolare venezuelana in caso di conflitto militare), gli Stati Uniti approfittano del momento di crisi del blocco progressista latinoamericano per riprendere il controllo militare dell’area. In quest’ottica, il ritorno di governi neoliberisti in paesi come il Brasile e l’Argentina ha infatti riaperto la strada all’utilizzo delle forze armate ufficiali in territorio latinoamericano, che così potranno supportare il lavoro sporco realizzato da attori “non convenzionali” già attivi nello smembramento della resistenza popolare del “continente rebelde” (come le organizzazioni paramilitari e il narcotraffico).
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Un phastidioso antecedente: la Società Gestione Attivi
di Luca Fantuzzi
L'altro giorno mi sono imbattuto in un post assai phastidioso, il quale - ricapitolando la situazione di Montepaschi - innalza sin dal titolo ("Dicono sia colpa della UE. Ma è colpa della realtà") un peana alla nuova dea dei liberisti de' noartri, cioè la signora TINA (i cui sacerdoti, detto per inciso, sarebbero i frodatori di Uber o i monopolisti di Google o gli sfruttatori di lavoro minorile cinese di Apple, ma lasciamo perdere).
A dire il vero, in mezzo a tante fanfaluche, un pregio l'articolo ce l'ha: spazza via dal campo della discussione il terrorismo mediatico (e, a dire il vero, interessato) sugli esuberi più o meno inventati, i soldi del contribuente più o meno sprecati, e si concentra - ripercorrendo il folle piano messo su dal tandem Renzi-JP Morgan, poi miseramente affondato - sulla questione reale dell'affaire Monte dei Paschi, cioè il deconsolidamento dei crediti problematici.
Per chi vive in una comunità che ha sentito nella propria carne viva questa vicenda, si tratta della sensazionale riscoperta della ruota, o dell'acqua calda...
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«Con dolore e vergogna...». Simone Weil e il problema del colonialismo
di Federica Negri
«La collettività è più potente dell’individuo
in tutti gli àmbiti, salvo uno solo: il pensare»
(Quaderni, I, circa 1933)
1. Premessa
La consapevolezza di Simone Weil rispetto al problema del colonialismo è immediatamente evidente sin dai primi articoli negli anni Trenta, dai quali cogliamo chiaramente i motivi del suo dissenso e, soprattutto, la grande acutezza con la quale affronta una questione spinosa e difficile.
Il tono dominante di questi scritti è amaramente ironico, un riso sardonico che taglia l’argomento con una lucidità che non lascia spazio ad alcun fraintendimento sul piano logico.
Questi testi, nei quali Simone Weil affronta esplicitamente la questione del colonialismo sono importanti, non assolutamente marginali, perché – come tenterò di dimostrare – sono fortemente connessi a tematiche e discussioni fondamentali nella sua filosofia, come quella sulla natura del diritto o a quella sullo sradicamento1. Vedremo che anche la questione della forza e dell’impossibilità di sottrarsi al meccanismo violento, complicano la questione e rendono le sue argomentazioni drammaticamente problematiche e, quindi, ancora più attuali.
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“L’inganno e le bugie”
di Elisabetta Teghil
L’esperienza neoliberista oggi può dirsi compiuta. Sono alcuni decenni almeno che si sta realizzando ed attuando e dal colpo di Stato in Cile in cui è stata sperimentata sono passati più di quarant’anni. Ha rivelato di essere il risultato di un voluto e devastante inganno imperniato su delle bugie grossolane che parlavano di crescita economica della società e di esaltazione delle capacità dell’individuo che si sarebbero realizzate con il riconoscimento del primato del mercato, inganno a cui ha chiesto di sacrificare tutto, da un minimo di giustizia sociale alla tutela dell’ambiente, ai contratti nazionali, ad una equa retribuzione, alla sanità e all’istruzione pubblica e gratuita….
Ma, malgrado tutto ciò, l’ideologia neoliberista sulle virtù del libero scambio continua ad imporsi grazie ad un apparato economico e politico che viene presentato come un dogma.
Il centro della nuova religione sono gli Usa e il Regno Unito che impongono alle istituzioni multilaterali il bello e il cattivo tempo, che manipolano i dati e le informazioni scomode in particolare riguardo all’occupazione e al potere d’acquisto delle popolazioni. E fanno questo non solo e non soltanto nei riguardi dei paesi che una volta si chiamavano in via di sviluppo, ma anche dei paesi occidentali utilizzando il grimaldello dei partiti così detti di sinistra.
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Macchinismo, programma minimo di classe e riduzione dell'orario di lavoro
di Marco Beccari
Per opporsi con efficacia alle conseguenze del macchinismo (riduzione del salario e disoccupazione) i comunisti devono realizzare l'obiettivo della riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario
Il presente articolo trae spunto dal materiale didattico (lucidi) preparato da Domenico Laise, docente dell’Università La Sapienza di Roma, e presentato ad una serie di seminari “Sull’attualità del pensiero economico di Marx”, tenuti presso l’Università Popolare A. Gramsci, nell’anno accademico 2016-2017.
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I capitalisti introducono le macchine nella produzione con lo scopo di ridurre il numero di lavoratori necessari per fabbricare lo stesso numero di merci, oppure per produrre più merci con lo stesso numero di ore di lavoro e di lavoratori [1]. Ciò avviene al fine di diminuire il costo del lavoro e, quindi, aumentare il plusvalore relativo per singolo addetto [2]. La missione storica del capitalismo, che determina lo sviluppo delle forze produttive, è proprio la produzione massima di plusvalore dal lavoro umano. A tal proposito la macchina agisce come alleato del capitale nella lotta di classe che si sviluppa tra capitale e lavoro. La macchina “diventa l'arma più potente per reprimere le insurrezioni...degli operai...contro l'autocrazia del capitale” [3]. I capitalisti, infatti, possono sfruttare meglio i salariati con l’aumento del numero di disoccupati.
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La Francia di Macron
Un primo tentativo di approcciare in modo non ideologico il fenomeno-Macron
di Sebastiano Isaia
Non mi convince affatto la chiave di lettura che ci presenta il nuovo Presidente francese nei panni dell’ennesima creatura tecnocratica creata a tavolino dai soliti “poteri forti mondialisti” generati dal Finanzcapitalismo. Burattino e burattinai, insomma. Per Massimo Franco «Macron è il prodotto di un esperimento tecnocratico della banca d’affari Rotschild, [è] figlio dell’élite tecnocratica [che] incarna una strategia europeista e centrista che ha fatto tabula rasa sia del gollismo, sia della sinistra» (Il Corriere della Sera): troppo semplice per i miei gusti. Questo senza nulla togliere alla forte connotazione tecnocratica e “finanzcapitalistica” del nuovo inquilino dell’Eliseo, matrice che sono ben lungi dal negare. Anche l’interpretazione di Macron (cioè delle politiche “neoliberiste” che egli incarnerebbe alla perfezione) come la vera causa del successo che comunque il Front National ottiene nell’elettorato di estrazione operaia e proletaria (per cui chi ha votato per il candidato della «cupola finanziaria mondialista» di fatto avrebbe portato acqua al mulino della “destra populista”) mi appare troppo riduttiva e semplicistica, e in ogni caso essa non coglie tutta la complessità della crisi sistemica che ormai da anni travaglia in profondità la società francese.
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