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Perché il governo di Theresa May sta affondando

di Claudio Conti

Viviamo in tempi rivoluzionari. Che non vuol dire – come pensano gli intellettuali da tastiera (200 caratteri al massimo, da leggere e scrivere…) – che “la rivoluzione socialista è dietro l’angolo”. Più concretamente, viviamo in un’epoca in cui gli architravi fondamentali dell’ordine globale stanno andando uno dopo l’altro in crisi.

L’elenco non lo troverete mai nella stampa mainstream. Non è che tengano nascoste le singole notizie, ma si guardano bene dal metterle in fila, restituendo il senso di uno smottamento che – indubbiamente – terrorizza soprattutto chi aveva creduto senza remore nel “pensiero unico” e anche chi lo aveva alla fine interiorizzato, anche se si opponeva alle sue singole manifestazioni.

Però, se sommate l’elezione Trump (che ha stracciato il “bipolarismo politico” statunitense, considerato l’optimum da imitare), la Brexit (primo caso di avvio delle procedure d’uscita dall’Unione Europea in seguito a referendum popolare), la sostanziale chiusura della World Trade Association (Wto, la camera di regolazione del commercio globale), l’affossamento del G7 (gli Usa se ne sono di fatto messi fuori), la messa in discussione dell’utilità della Nato (sempre da parte degli Usa, che l’hanno voluta e fondata), l’ascesa della Cina come soggetto e partner globale credibile (leggetevi cosa ne dice Romano Prodi a proposito dell’Africa), l’avvio della nuova “Via della Seta”, gli accordi tra Russia-Cina-India, ecc…

Ce n’è abbastanza per tirare qualche somma: il vecchio ordine unipolare uscito dal crollo del “socialismo reale” (a far data dal 1989, regolato dalla lunga serie di organismi sovranazionali che stanno chiudendo i battenti), sta cedendo rapidamente il posto a un disordine multipolare fondato sulla competizione.

Il caso della Brexit è quello che si riguarda più da vicino per molte ragioni. Intanto perché, si diceva, è il primo caso di rovesciamento di una tendenza che sembrava inarrestabile: legare tutti i paesi europei in un mercato unito fortemente regolato (un sistema di trattati che assume ormai quasi tutti gli ambiti un tempo prerogativa delle sovranità nazionali).

In secondo luogo perché le trattative sulle modalità di questa uscita sta mettendo in grave crisi il sistema politico britannico, a partire da quel partito conservatore che aveva voluto il referendum pensando di vincerlo (Cameron), ma che si era già spaccato nel condurre la campagna referendaria (Theresa May e Boris Johnson a favore del Leave).

Il governo inglese ha perso ieri altri due pezzi fondamentali: il ministro David Davis, addetto proprio alle trattative con l’Unione Europea, e il ministro degli esteri, Boris Johnson.

La ragione vera – stando ai media mainstream – è abbastanza fumosa, tanto da apparire in alcuni casi come un contrasto tra chi vuole davvero la Brexit e chi invece “ci ha ripensato”.

Bisogna leggere un giornale economico come Milano Finanza per saperne qualcosa di più, e soprattutto di vero. Schematizzando molto, May avrebbe concordato con Bruxelles una formula d’uscita che sostanzialmente cambia poco riguardo al rispetto delle regole europee, mentre i mistri dimissionari erano gli alfieri di una Brexit decisamente più “vera”.

I dettagli tecnici li potete trovare nell’editoriale del solito, e ottimo, Guido Salerno Aletta, che vi riportiamo più sotto. Ma al di là dei dettagli, direbbe Totò, “è la somma che fa il totale”. Se si ragiona di Brexit senza vedere tutto il resto – l’elenco parziale degli eventi globali che hanno segnato gli ultimi due anni – sembra che tutto vada grosso modo come sempre. Se si mette anche questo tassello in relazione con gli altri, allora sì che ci si accorge che “viviamo in tempi rivoluzionari”.

Chi si rifiuta di capirlo è un morto che cammina, qualunque ideologia dica di professare.

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Perché il governo di Theresa May sta affondando

di Guido Salerno Aletta

Sta affondando senza speranze il Theresa May, il governo conservatore britannico che ha cercato fino a venerdì notte di mantenere il Regno Unito all’interno dell’orbita europea. L’unanimità, che era stata raggiunta nella notte di venerdì scorso a Chequers, residenza di campagna della Premier britannica, dopo dodici ore di discussioni, era fondata su un compromesso insostenibile: bastava leggerla con attenzione, la dichiarazione sottoscritta, per capire che il partito conservatore non avrebbe mai potuto accettare una Brexit fatta solo a parole. Si trattava di una “Brino”, secondo l’acronimo appena coniato che sta per “Brexit in name only”.

Il testo integrale di tre pagine su cui si era stato trovato l’accordo, è stato rintracciabile solo sabato mattina, a cose fatte, e non per un caso: la riconquistata, e tanto sbandierata libertà del Regno Unito di stipulare accordi commerciali con altri Paesi al di fuori della Ue era sottoposta a condizioni praticamente impossibili da rispettare.

Si esplicitava l’impegno del Regno Unito a mantenere fermi gli standard regolatori esistenti, il cosiddetto “common rule book”, ed in particolare l’insieme delle normative europee in materia ambientale, di cambiamento climatico, sociale e di impiego, e di protezione del consumatore, precisando che il Regno Unito non potrà aderire ad accordi che si ponessero “al di sotto degli standard correnti”. Legata mani e piedi a questi vincoli, la libertà di negoziare nuovi accorsi sarebbe stata praticamente inesistente. Era una clausola ben dissimulata, ma dirimente: a quella condizione, uscire dalla Unione per rimanere legata all’Unione suonava davvero beffardo.

La bufera era nell’aria da tempo, ed a nulla sono valse le accortezze con cui è stato costruito un consenso solo mediatico, con il governo schierato unanime a favore della proposta della Premier britannica. Appena sette minuti dopo la mezzanotte di domenica, la Reuters infatti batteva impietosa il comunicato che annunciava le dimissioni di David Davis, il Ministro incaricato delle trattative per l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea, presentate per protesta contro il piano approvato a Chequers.

Nella prime ore del mattino veniva diffuso anche il testo della lettera di dimissioni: nel ruolo da lui ricoperto, ad avviso di Davis, serve una persona fortemente convinta della soluzione prospettata dal piano elaborato da Theresa Mey e non un “riluttante coscritto”. La posizione negoziale definita dal piano della May mette a suo avviso la Gran Bretagna in grandi difficoltà nelle trattative con la Unione europea, se non direttamente con le spalle al muro. Al di là di aver tradito il mandato referendario, con quel testo era stato commesso un errore politico enorme.

Quando un vascello si intraversa e poi disalbera, è davvero difficile riprenderne il controllo. Per Theresa May è stato un lunedì convulso: dopo le dimissioni di Davis sono seguite immediatamente quelle del Sottosegretario alla Brexit, Steve Baker. E non aveva fatto a tempo a rimediare in mattinata, nominando come sostituto di Davis il sottosegretario alla edilizia Dominic Raab, che a metà pomeriggio sono arrivate le dimissioni del ministro degli esteri Boris Johnson. Anche lui accusava la May di avere ceduto troppo, e troppo presto, definendo il piano con un termina irriferibile.

Mentre a Berlino la Cancelliera Angela Merkel rimaneva in attesa dell’arrivo del Premier britannico, per la visita già programmata al fine di illustrarle il piano di “free trade area”, a Londra si scatenava anche Jeremy Corbyn, il leader dell’opposizione laburista, secondo cui il governo è sprofondato nel caos, essendo incapace di raggiungere un accordo con l’Ue: il piano della May non fa chiarezza su nessuno dei punti chiave, non garantisce un confine aperto in Irlanda e lascia il Paese “prigioniero della guerra civile Tory”. E’ necessario che ceda il passo, per un cambio della guardia a favore del Labour. Visto che i sondaggi gli sono favorevoli, spera nella indizione di nuove elezioni anticipate e, chissà, anche di un nuovo referendum.

In serata, sempre a Londra, Theresa May terrà l’incontro già programmato con i deputati del suo partito: a guidare i brexiteers c’è Jacob Rees-Mogg, che potrebbe guidare la raccolta delle 48 firme necessarie a innescare un voto di sfiducia ai Comuni, che renderebbe inevitabili le dimissioni della Premier la cui maggioranza si regge a mala pena, dovendo contare sui dieci voti del Dup, il partito democratico unionista irlandese.

Che a Bruxelles gongolino per quanto sta accadendo a Londra è fin troppo evidente: il Presidente della Commissione Jean-Claude Junker si è limitato a registrare gli eventi, rilevando in modo estremamente compassato che “mentre i governi passano, i problemi rimangono”. L’occasione della Brexit, con le difficoltà oggettive per definire il nuovo quadro delle relazioni commerciali, è davvero ghiotta: dimostra che non solo la adesione all’euro, ma anche la partecipazione all’Unione è una decisione storicamente irreversibile. La volontà popolare è stata richiesta su un argomento troppo complesso, ed ora chi lo ha fatto ne subisce le conseguenze.

I sostenitori della Brexit non mollano; quelli che tifano per il Remain non sono da meno. Viviamo in tempi rivoluzionari.

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